Dall’ispirazione alla disperazione: un anno della Grande Marcia del Ritorno

Yara Hawari

30 marzo 2019 Middle East Eye

Come il sogno dei palestinesi di tornare a casa, Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza

Lo scorso mese un quattordicenne palestinese di Gaza, Hasan Shalabi, è stato mortalmente colpito al petto da un cecchino israeliano. Stava cercando lavoro e cibo per la sua famiglia quando è diventato uno delle decine di ragazzini uccisi dall’esercito israeliano durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Le manifestazioni presso la barriera israeliana che rinchiude il territorio sono iniziate il 30 marzo 2018 per commemorare il Giorno della Terra, che ricorda un episodio del 1976, quando la polizia israeliana sparò e uccise sei cittadini palestinesi di Israele che stavano protestando contro l’esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese.

Da allora la data è stata celebrata per sottolineare il rapporto tra la resistenza palestinese e la sua terra. Lo scorso anno a Gaza la data è stata anche utilizzata per evidenziare il diritto palestinese al ritorno.

Occupazione e assedio

La maggior parte dei due milioni di palestinesi di Gaza è composta da discendenti dei rifugiati espulsi dalle loro case nel 1948. Molti vivono a pochi chilometri dai loro villaggi d’origine. La Grande Marcia del Ritorno è iniziata dopo un appello della società civile di partecipare a una marcia di massa verso la barriera israeliana. Decine di migliaia di persone hanno risposto all’appello, marciando in nome del ritorno, ma anche in risposta a decenni di occupazione e di continuo assedio di Gaza.

Le immagini e i video di quel primo giorno sono state entusiasmanti, ricordavano altre marce del ritorno, quando i palestinesi hanno cercato di sfidare i confini coloniali. Una delle più importanti è stata nel maggio 2011, quando centinaia di palestinesi rifugiati in Siria marciarono verso la barriera che divide la Siria dalla città di Majdal Shams, sulle Alture del Golan, occupata da Israele.

Molti manifestanti oltrepassarono la barriera, ignorando gli avvertimenti sulla presenza di mine e riuscirono a rompere temporaneamente la loro forzata separazione. Un uomo, Hassan Hijazi di Giaffa, fece centinaia di chilometri fino alla città costiera prima di consegnarsi alle autorità israeliane. “Era il mio sogno arrivare a Giaffa perché è la mia città,” disse in seguito. “Ma pensavo che se fossi riuscito a farlo sarebbe stato con una marcia di un milione di persone.”

Un sogno collettivo

Questo sogno di rompere i confini coloniali di Israele ha dominato l’immaginazione di molti palestinesi. È un sogno di ritorno collettivo. Come ha chiesto l’organizzatore della Grande Marcia del Ritorno Ahmed Abu Artema: “E se 200.000 manifestanti marciassero pacificamente e attraversassero la barriera a est di Gaza ed entrassero per qualche chilometro nelle terre che sono nostre, portando le bandiere della Palestina e le chiavi del ritorno, accompagnati dai media internazionali, e poi vi piazzassero delle tende e costruissero una città lì?”

Sfortunatamente nel corso dell’anno passato alla domanda è stata data una risposta brutale, mentre le proteste nei pressi della barriera di Gaza sono continuate in modo costante. Più di 200 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia feriti dalle forze israeliane.

Un rapporto dell’ONU presentato a Ginevra questo mese ha accertato che “i soldati israeliani hanno commesso violazioni delle leggi per i diritti umani e umanitarie internazionali. Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o crimini contro l’umanità.” Il rapporto dettaglia specifiche morti, ma anche esempi di ferite che hanno cambiato la vita [delle vittime], comprese molte amputazioni.

L’entità di quello che è stato inflitto a Gaza nello scorso anno è grande, soprattutto nel contesto del durissimo assedio israeliano – eppure il rapporto dell’ONU non ha fatto scalpore a livello internazionale. Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza; la precarietà della vita lì è diventata un fatto accettato in tutto il mondo.

Inquadrare la violenza

In “Contesti di guerra” l’autrice, Judith Butler, lo spiega esaminando la “vita che può essere afflitta”, e sostiene che in certi contesti alcune vite non sono considerate perdute se fin dall’inizio non sono intese come vite. Le continue distruzioni e violenze inflitte a Gaza dal regime israeliano l’hanno a tal punto collocata in una simile cornice che la perdita della vita è stata normalizzata.

A un anno di distanza le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono diventate una manifestazione di estrema disperazione. Gli effetti dell’assedio e dell’occupazione hanno ridotto più di metà dei palestinesi di Gaza a vivere in povertà estrema, molti in gravi condizioni di salute mentale e fisica. Com’è noto, un rapporto ONU ha stabilito che Gaza sarà invivibile entro il 2020, citando la distruzione di infrastrutture e la catastrofe ambientale in corso. Eppure, in base alla maggior parte dei parametri, Gaza è invivibile da molto tempo – una cosa che motiva molti dei manifestanti, nonostante le alte percentuali di ferite o di morte. Questa vita invivibile è ciò che ha portato Hasan Shalabi a protestare lo scorso mese.

Finché continuerà la disperazione a Gaza, lo farà anche il sogno di tornare a casa. Tuttavia l’anno che è passato ha dimostrato che i costi saranno alti – soprattutto se Israele continuerà a violare senza conseguenze i diritti dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)