Dopo 12 anni in cui mi è stato insegnato a odiare, oggi andrò in prigione per dire “No”

Naveh Shabtai Levine 

6 settembre 2022, Haaretz

Lo Stato di Israele gestisce un sistema di apartheid. Gli studi di organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International pubblicati negli ultimi anni che l’hanno accertato sono solo la conferma finale di una situazione che è chiara già da anni. Dall’occupazione dei territori nel 1967, sotto il dominio israeliano si è consolidato un intrinseco regime di discriminazione che antepone un gruppo etnico rispetto a un altro.

Nella società israeliana ebraica, quella dalla parte giusta dell’apartheid, c’è un alto livello di libertà di espressione e libertà di stampa. E nonostante ciò, l’opposizione all’apartheid all’interno della società è un fenomeno marginale, quasi impercettibile. Nell’attuale campagna elettorale, ad esempio, nessuno dei partiti della “sinistra sionista” sta ponendo al centro della sua campagna la scottante questione del controllo israeliano sui palestinesi. Al contrario, tutti cercano di sfuggire alla questione dell’apartheid come dal fuoco.

Perché l’opposizione pubblica è così scarsa? Perché in Israele non c’è un grande e influente numero di ebrei che dice “basta”. Com’è possibile che una società tecnologicamente avanzata, ben istruita e ricca non abbia espresso quasi alcuna opposizione a quello che è chiaramente un crimine orribile? Uno dei motivi principali è l’indottrinamento di cui ci nutrono da bambini e adolescenti. Avendo appena concluso 12 anni di studio posso dire che mattina, mezzogiorno e sera il sistema scolastico ci alimenta di ultranazionalismo, militarismo e violenza.

Nelle lezioni di storia ci insegnano che il popolo ebraico emigrò in Terra d’Israele e iniziò a costruire uno Stato in una “terra vuota”, grazie ai pionieri che prosciugarono le paludi e costruirono i kibbutz. In mezzo a questa terra vuota si presentarono all’improvviso degli arabi, ai quali per ragioni incomprensibili non piaceva la nostra presenza qui. Diventano violenti e intraprendono gli “eventi” (gli scontri tra ebrei e arabi nel periodo pre-statale).

Un’opportunità mancata

La storia del terrorismo palestinese inizia così. Non ci parlano dell’aggressività dei coloni ebrei, non ci insegnano l’equilibrio di potere tra gli immigrati europei che ricevevano un enorme sostegno economico dal resto del mondo e il popolo palestinese composto per la maggior parte da contadini poveri e tenaci in una remota parte dell’Impero Ottomano. Non ci dicono che l’idea del “lavoro ebraico” è un mezzo per opprimere i lavoratori arabi. E poi, quando ci insegnano che i palestinesi erano contrari al Piano di Partizione, l’unica conclusione logica è che i palestinesi siano cattivi.

Già allora – lo Stato di Israele non era ancora stato fondato e gli arabi non hanno perso l’occasione di perdere un’occasione.

Alle cerimonie del Memorial Day [dal 1963 giorno ufficiale della memoria dedicato ai soldati caduti e alle vittime del terrorismo, ndt.] ci insegnano che ogni soldato morto a causa del sanguinoso ciclo dell’occupazione israeliana è un eroe che “con la sua morte ci ha chiesto di vivere”. Ci insegnano che tutti coloro che sono caduti in battaglia lo hanno fatto per il bene del Paese, piuttosto che a causa sua e della sua politica. Nelle lezioni di educazione civica ci insegnano che lo Stato di Israele è un Paese ebraico e democratico – proprio così, semplice ed evidente, come un assioma chiaro ed eterno.

La militarizzazione raggiunge l’apice al liceo: i soldati visitano le scuole, abbiamo ore di discussioni preparatorie sull’esercito, la scuola ci prepara a essere buoni soldati. Non si accontentano solo della teoria, ci forniscono anche un’esperienza pratica con il Gadna, un programma che prepara gli studenti delle scuole superiori al servizio militare. Ci mandano in Polonia per conoscere l’Olocausto, ma lì dobbiamo alzare la bandiera israeliana “per rafforzare il senso del dovere per la continuazione della vita ebraica e l’esistenza sovrana dello Stato di Israele”. Ci insegnano nelle scuole una situazione fittizia e unilaterale secondo cui il popolo palestinese è una nazione di terroristi che ci odia senza motivo, mentre noi stiamo solo cercando di difendere la nostra casa.

C’è qualcuno che, con grande difficoltà, riesce a superare tutto questo, a volte con l’aiuto dei genitori, a volte in maniera autonoma. Sono riuscito a vedere la realtà dietro la propaganda con l’aiuto di mia madre, che mi ha portato a Sheikh Jarrah a Gerusalemme per manifestare contro le ingiustizie dello Stato ebraico. I miei amici ed io oggi rifiuteremo di arruolarci, e probabilmente passeremo del tempo in prigione perché vogliamo dire ai nostri compagni di scuola, ai giovani israeliani, che c’è una verità completamente diversa dietro la dieta di ultranazionalismo di cui siamo stati nutriti. E per chiunque stia iniziando l’anno scolastico, ho solo un suggerimento: tapparsi bene le orecchie.

L’autore è un obbiettore renitente alla leva per motivi politici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Paradossalmente è la destra israeliana a riconoscere la Nakba palestinese

Yehouda Shenhav-Shahrabani

13 dicembre 2021 – Haaretz

Alla fine qui sta succedendo che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. È tempo di ricordargliela”

Un interessante voltafaccia nel riconoscere la Nakba (“catastrofe”) è arrivato questa settimana da un giornalista di nome Itamar Fleischman, ex portavoce del primo ministro Naftali Bennett. Durante un programma televisivo su Canale 14 Fleischman ha detto quanto segue: “Alla fine quello che sta succedendo adesso è che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. Ed è giunto il momento di iniziare a ricordargliela, la Nakba”.

Anche se i termini sono invertiti (“Gli arabi hanno dimenticato… e bisognerebbe ricordarglielo”), non capita tutti i giorni che un ebreo sionista salti su e riconosca con tanta franchezza la tragedia palestinese.

Anche se la Nakba è il buco nero nella costituzione dello Stato di Israele, e sebbene il riconoscimento della Nakba sia una condizione per la convivenza, lo Stato sovrano di Israele la nega ancora risolutamente. Con la macchina della memoria nazionale e con i suoi rappresentanti culturali, la discussione sulla Nakba resta sotto chiave: ogni tentativo di tornarci è bloccato da una barriera di tabù, e le “strategie di accesso” a una discussione critica sulla Nakba sono interdette.

I libri di testo del sistema scolastico non comprendono il riconoscimento della Nakba e offrono una prospettiva storica superficiale, che ha istruito generazioni di studenti israeliani ad una sistematica ignoranza. La storia della Nakba è anche confusa dalla percezione del governo e del pensiero politico rappresentato dal modello di “Stato ebraico e democratico” che comporta spiegazioni tortuose (“Hanno iniziato gli arabi”, “Non accettarono il Piano di Partizione [della Palestina, elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947; assegnava il 56% della Palestina ad Israele, ndtr.]”, “Non hanno perso occasione”, “I loro capi gli ordinarono di fuggire”).

Il motivo di questa radicale negazione è che rappresenta lo scheletro nell’armadio di Israele, scheletro che minaccia di diventare pubblico e di sconvolgerne l’immagine virtuosa e corretta. La negazione della Nakba è il pilastro del governo israeliano, e gli scheletri che tiene nell’armadio sono la pulizia etnica del 1948, i massacri, la distruzione di villaggi e città e il furto di terre e proprietà palestinesi.

La stessa parola, Nakba, come descrizione della tragedia palestinese era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011 quando, grazie a una legge insensata soprannominata Legge sulla Nakba, in quasi tutte le case israeliane è comparsa a descrivere la tragedia palestinese. Sino ad allora l’uso specifico della parola “Nakba” alimentava la negazione e assumeva un senso diverso, ad esempio in maniera volgare nell’orrendo (e antisemita) opuscolo titolato Nakba Harta (Cazzate Nakba) distribuito da Im Tirtzu [“Se lo vuoi”, organizzazione sionista non governativa con lo scopo di delegittimare le associazioni israeliane di sinistra e per i diritti umani, ndtr.].

Bisogna ammettere che negli ultimi due decenni il muro della negazione è stato scalfito, grazie soprattutto alle correnti di revisione della storiografia del 1948, a nuove scoperte d’archivio (anche in arabo) che descrivono la pulizia etnica della Palestina e al lavoro di organizzazioni commemorative, la più importante delle quali è Zochrot [organizzazione non profit israeliana fondata nel 2002 a Tel Aviv, con lo scopo di promuovere la conoscenza della Nakba palestinese, ndtr.]

Da queste rivelazioni abbiamo appreso che, anche se accettiamo la dubbia affermazione che in ogni guerra è probabile che ci siano delle espulsioni, in questo caso si tratta di qualcosa di più di un semplice sottoprodotto della guerra perché, anche alla conclusione della guerra, lo Stato sovrano di Israele ha impedito il ritorno dei profughi alle loro case, confiscato le loro terre e saccheggiato le loro proprietà. Ecco perché il concetto di “pulizia etnica” non si riferisce solo alla guerra del 1948, ma anche al divieto di ritorno dei profughi dopo l’instaurazione della sovranità ebraica e alla cancellazione della storia palestinese. Questa è anche una delle ragioni dell’affermazione che la Nakba non è mai finita, e nel discorso palestinese è definita “una Nakba continua”.

Le parole di Fleischman ci portano un passo avanti nel riconoscimento della Nakba, e non sorprende che la dichiarazione provenga dai ranghi dell’estrema destra. Una delle fantastiche anomalie nel discorso pubblico israeliano è che la destra ha sempre preceduto la sinistra sul problema del riconoscimento della Nakba, anche se a scopo di sfida e provocazione.

Circa 10 anni fa, quando Itamar Ben-Gvir [avvocato e leader del partito di estrema destra antiarabo Otzma Yehudit, Potere Israeliano, ndtr.] venne a manifestare davanti all’Università di Tel Aviv sostenendo che sorge sulle rovine del villaggio palestinese Sheikh Munis, studenti e docenti di sinistra uscirono per allontanare i manifestanti. Rimettere in discussione la questione del 1948 mina l’idea di due Stati per due popoli, che si basa su una soluzione del conflitto che non riconosce la Nakba, come se il conflitto fosse iniziato nel 1967.

Ma torniamo a Fleischman. Proseguendo nel discorso, non si è preoccupato di raccontarci la memoria della Nakba o la sua storia. Invece, ci ha presentato il suo progetto per il futuro.

“Se non tornano presto in sé e se continuano a cercare di uccidere i nostri bambini, la loro prossima tappa è trasferirsi in Giordania o nel campo di Al Yarmouk in Siria. Questo accadrà se le cose continueranno in questo modo. La grande tragedia degli arabi è… che semplicemente li caricheremo sui camion, li scaricheremo oltre il confine, ed è così che andrà a finire”.

Fleischman traccia una linea diretta tra passato e futuro con la minaccia di espulsione, legittimando la prossima espulsione. La minaccia di una seconda Nakba è il prezzo da pagare per il riconoscimento della prima Nakba. Questa minaccia di Nakba non ha data di scadenza. Continuerà ad accompagnare i palestinesi come una Spada di Damocle finché vivranno e respireranno. L’unica data di scadenza collegata alla minaccia è la catastrofe. Il riconoscimento della Nakba da parte di Israele è la sola opportunità di dare vita a una discussione che impedisca una seconda Nakba.

L’autore è professore di sociologia all’Università di Tel Aviv e caporedattore di Maktoob, collana di libri di prosa e poesia in arabo ed ebraico presso il Van Leer Institute di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)