Il piano per mettere dietro le sbarre un israeliano antisionista

Oren Ziv

9 febbraio 2023 – +972 Magazine

La collusione tra la polizia e le organizzazioni di destra per incriminare lo storico attivista Jonathan Pollak è un allarmante inasprimento che minaccia tutti gli ebrei dissidenti.

Venerdì scorso i palestinesi della città cisgiordana di Beita, vicino Nablus, hanno fatto la loro manifestazione settimanale contro un avamposto di coloni israeliani costruito sulla loro terra circa due anni fa. In un clima tempestoso, mentre alcuni manifestanti bruciavano copertoni, altri esibivano le foto di un prigioniero politico, una scena consueta nelle proteste palestinesi. Ma questa volta l’immagine sui poster non era quella di un palestinese, ma di Jonathan Pollak, un attivista ebreo israeliano antisionista che è stato arrestato dai soldati israeliani durante la protesta della settimana precedente.

Pollak è stato attivo nella lotta palestinese per gran parte della sua vita ed è uno dei pochi israeliani che si unisce regolarmente alle manifestazioni popolari settimanali guidate dai palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e in Israele. Il quarantenne è stato arrestato una decina di volte nel passato e per quattro volte condannato; di norma si rifiuta di collaborare con i procedimenti giudiziari relativi alle denunce penali e alle accuse contro di lui, considerandole illegittime.

Ora Pollak si trova in un carcere israeliano da quasi due settimane. Il 27 gennaio, quattro giorni dopo il suo arresto, è stato incriminato con l’accusa di aver lanciato pietre contro una jeep della polizia di frontiera. A parte un piccolo numero di attivisti che appoggiano Pollak, e le organizzazioni di destra che hanno colto l’occasione per rafforzare la loro campagna contro gli attivisti israeliani anti-apartheid, il suo arresto non ha provocato molta sensazione – nonostante il fatto che la polizia abbia chiesto la sua detenzione fino al termine del processo, cosa molto rara quando si tratta di attivisti israeliani.

Ma il recente arresto di Pollak dovrebbe interessare ad ogni attivista, compresi quelli che sono scesi in piazza ogni sabato sera nell’ultimo mese per protestare contro il governo di estrema destra. La possibilità che quei manifestanti siano continuamente arrestati e subiscano false accuse può essere minima, ma c’è comunque molto da imparare da questa vicenda.

Persecuzione politica’

I palestinesi manifestano regolarmente nella cittadina di Beita dal maggio 2021, quando i coloni hanno insediato l’avamposto di Eviatar sul Monte Sabih con l’appoggio dello Stato che ha preso possesso delle terre appartenenti a palestinesi a Beita, Qabalan e Yatma. Beita è diventata il fulcro della resistenza all’ avamposto, con gli abitanti e gli attivisti accampati sul Monte Sabih per oltre 100 giorni consecutivi, prima che le manifestazioni divenissero settimanali. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi dall’esercito israeliano 10 palestinesi, e più di mille sono stati feriti da proiettili di metallo ricoperti di gomma, in spugna, di piccolo calibro e proiettili veri. Migliaia hanno anche inalato gas lacrimogeni.

Il 27 gennaio, il giorno in cui Pollak è stato arrestato, la protesta a Beita si è svolta non solo di fronte a Eviatar, ma anche all’ingresso della città vicino all’autostrada 60. A mezzogiorno una jeep della polizia di frontiera ha caricato i manifestanti e i poliziotti hanno arrestato Pollak. In tribunale la sua avvocata, Riham Nasra, ha detto che Pollak aveva sentito due poliziotti che concordavano la loro versione della vicenda del suo arresto.

Pollak è stato anche interrogato in merito ad una denuncia sporta contro di lui dall’organizzazione di destra Ad Kan, che ha precedentemente avviato un’azione legale contro Pollak; la denuncia lo accusava di aver intralciato un poliziotto durante il suo servizio e di uso pericoloso del fuoco (copertoni in fiamme) durante una manifestazione nel villaggio di Burqa, sempre vicino a Nablus, nel 2019. Il 30 gennaio Ad Kan si è vantata su Twitter del fatto che la polizia l’aveva contattata dopo l’arresto di Pollak, a quanto pare per richiedere prove incriminanti.

La polizia non lo ha negato e ha detto a +972: “La polizia di Israele ha condotto un’indagine nei confronti di parecchi sospettati in seguito a disturbo dell’ordine pubblico pubblico avvenuto nell’area della Samaria (Cisgiordania settentrionale). Al termine dell’indagine è stato deciso dall’ufficio del procuratore di inoltrare un esposto del procuratore contro uno dei sospettati.” Questo strumento legale consente alla polizia di tenere un indiziato in custodia per parecchi giorni dopo la conclusione di un’indagine e prima che venga formulata un’incriminazione. Solo Pollak è stato arrestato in quell’occasione.

In seguito Liran Baruch del ‘Disabled Forum for Israel’s Security’ dell’esercito (collegato con l’organizzazione di destra Im Tirtzu) ha inoltrato alla polizia un’altra denuncia contro Pollak per un discorso da lui tenuto quando ha ricevuto il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021 – un premio assegnato ogni anno dal movimento di obiettori di coscienza Yesh Gvul ad un attivista israeliano per il suo impegno contro l’occupazione. Nel suo discorso di accettazione Pollak ha ripetuto le parole che aveva scritto in un articolo su Haaretz dopo il suo arresto nel 2020, che invitavano gli israeliani a “marciare accanto ai ragazzi delle pietre e delle bottiglie molotov.” Pollak è già stato interrogato a questo proposito quando è stato arrestato nel 2021 e non è ancora chiaro se verrà incriminato per questo fatto.

Giovedì scorso, circa 24 ore dopo la denuncia di Baruch, Pollak è stato portato in una cella ed interrogato dalla polizia distrettuale di Tel Aviv. “La polizia mi ha assicurato che rimarrà sotto custodia fino alla fine del procedimento”, ha poi affermato Baruch su Twitter, aggiungendo: “Le accuse consistevano nell’attacco e lancio di pietre contro le forze di sicurezza, anche venerdì scorso, e nell’incitamento all’uccisione di ebrei nel suo famoso discorso ‘Unitevi ai ragazzi della generazione delle pietre e delle bottiglie molotov.’ Facciamo in modo che ogni anarchico che alzi la mano contro le forze di sicurezza e lo Stato di Israele sappia che prima o poi faremo i conti con lui.” La polizia non ha negato quanto riferito da Baruch.

Questa è persecuzione politica”, ha affermato Nasra, avvocata di Pollak. “In passato sono state sporte denunce contro Pollak, ma chiedere la detenzione fino al termine del processo è una nuova escalation. Non vediamo molte richieste come questa in casi riguardanti attivisti di sinistra ebrei”.

Le autorità sanno (che manifesta là ogni settimana) e non ha condanne per incidenti violenti”, continua Nasra. “Quando hanno arrestato Pollak uno dei poliziotti gli ha detto: ‘Ti conosco, sei qui per provocare’. La denuncia è debole e basata su tre testimonianze di poliziotti che, secondo Pollak, fin dall’inizio dell’indagine erano concordate.” A parte questo, Pollak ha rivendicato il suo diritto a non rispondere.

Un vero sostenitore della lotta palestinese’

Storico attivista antisionista, Pollak all’inizio degli anni 2000 fu co-fondatore di ‘Una sola lotta’, un gruppo anarchico che sottolineava i legami tra i diritti degli animali e altre forme di oppressione, compresa l’occupazione. E’ anche membro fondatore di ‘Anarchici contro il muro’, i cui attivisti si unirono alla lotta popolare nei villaggi palestinesi, tra cui Mas’ha, Budrus, Bil’in, Nil’in e decine di altri in Cisgiordania, contro la costruzione della barriera di separazione di Israele sulle loro terre da quasi dieci anni. Nel 2005 fu ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato da un soldato israeliano durante una protesta a Bil’in.

Dopo il completamento da parte di Israele del muro nelle aree rurali palestinesi della Cisgiordania, Pollak fu tra i pochi attivisti israeliani che si unirono alle proteste nel villaggio di Nabi Saleh, dove i palestinesi facevano manifestazioni fin dal 2009 contro l’appropriazione di una sorgente del villaggio da parte di coloni israeliani. Partecipa anche regolarmente alle dimostrazioni contro le appropriazioni dei coloni nel quartiere di Gerusalemme di Sheikh Jarrah e contro la gentrificazione che spinge gli abitanti palestinesi fuori dalle loro case a Giaffa. Nell’ultimo anno e mezzo si è recato quasi ogni settimana a Beita.

Pollak, che non si copre il volto durante le manifestazioni a cui partecipa, da parecchi anni è diventato un bersaglio delle organizzazioni israeliane di destra. Esse hanno pubblicato un filmato in cui partecipa alle manifestazioni, aiuta a bloccare le strade per impedire le incursioni dell’esercito, porta ai palestinesi copertoni da bruciare – ma non hanno mai prodotto prove che sia ricorso ad alcun tipo di violenza. Nel 2019 fu aggredito da due israeliani mentre lasciava gli uffici del quotidiano Haaretz, dove lavora. Uno di loro cercò di accoltellarlo e lo ferì al viso; un altro gridò anche che lui era un “pazzo sinistrorso”.

Nel 2018 Ad Kan sporse una denuncia penale contro Pollak e altri due attivisti israeliani, Kobi Snitz e Ilan Shalif, per la loro partecipazione ad una manifestazione contro il muro in Cisgiordania. Nel processo, il primo del genere contro attivisti anti-occupazione, Ad Kan sostenne che “insieme ad altri rivoltosi essi hanno attaccato illegalmente soldati dell’esercito israeliano e agenti della polizia di frontiera.” Le diverse autorità non ritennero opportuno incriminare i tre attivisti.

Pollak rifiutò di assistere al procedimento giudiziario e in seguito fu raggiunto da un mandato di arresto. Dopo essere riuscito ad evitare numerosi tentativi di detenzione, fu arrestato nel gennaio 2020 e incarcerato per un mese e mezzo, fino a quando il pubblico ministero comunicò che stava rinviando le procedure nel processo di denuncia penale. Così facendo la causa contro Pollak e i due altri attivisti fu di fatto chiusa.

L’ultima condanna per Pollak è stata nel 2021: è stato accusato di intralcio ad un agente di polizia in servizio durante una manifestazione vicino al muro a Betlemme nel 2017. È stato condannato a 30 giorni di prigione e altri due mesi di libertà condizionale nei due anni seguenti. Come nel procedimento per la denuncia fatta da Ad Kan, Pollak ha scelto ancora una volta di non collaborare. Il giudice, Eitan Cohen, ha scritto nella sentenza che il rifiuto di Pollak di collaborare ha contribuito alla decisione di condannarlo. Il giudice ha deliberato che la risposta di Pollak nelle udienze relative all’accusa di aver intralciato un agente di polizia – “Non li ho intralciati abbastanza” – si configurava come “ammissione di colpevolezza”.

Khaled Abu-Qare, un attivista che ha partecipato all’ultima protesta di venerdì a Beita, ha detto a +972: “I palestinesi a Beita la scorsa settimana hanno esibito orgogliosamente la foto di Jonathan Pollak per esprimere il loro sostegno alla sua causa, che è direttamente legata alla causa palestinese. Il suo caso è stato citato dall’imam durante le preghiere del venerdì di fronte a centinaia di persone, perché lui è un vero sostenitore della lotta palestinese per la decolonizzazione dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). La presenza di Jonathan sul campo è ciò che lo pone nel cuore dei palestinesi. Lui chiama le cose con il loro nome: apartheid. È stato leale con la lotta palestinese, perciò i suoi compagni sono leali verso di lui e noi chiediamo il suo immediato rilascio.”

Pagare il prezzo

Dal momento in cui la polizia ha arrestato Pollak, molte istituzioni israeliane – compresa la polizia, l’ufficio del procuratore e le organizzazioni di destra – si sono mobilitate per fargli pagare un alto prezzo per le sue attività politiche. Perché per loro sia facile farlo non è un mistero: alla luce delle sue esplicite opinioni politiche e della documentazione delle sue proteste (che l’esercito e la destra amano definire “terrorismo popolare”), il suo arresto non provocherà proteste nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] come nel caso degli arresti di coloni del movimento “hilltop youth” [I giovani della cima della collina] che aggrediscono i palestinesi.

La velocità e l’efficienza con cui le incriminazioni, che comprendono gravi accuse, sono state disposte contro di lui meno di una settimana dopo il suo arresto e la collaborazione tra la polizia e i gruppi di destra dovrebbero mettere in allarme chiunque scenda in strada per protestare – anche se ha opinioni opposte a quelle di Pollak. Fatta eccezione per le testimonianze dei tre agenti e un rapporto segreto, la polizia non ha presentato finora alcuna prova reale. Ma in tribunale è la loro parola contro quella di Pollak. E su loro richiesta, salvo una nuova decisione, non verrà rilasciato fino alla prossima udienza il 13 febbraio.

Gli arresti arbitrari durante le proteste e la rapida formulazione di incriminazioni basate su scarse prove, mentre sono un’anomalia per gli israeliani, sono la realtà per migliaia di palestinesi ogni anno, oltre alle centinaia di prigionieri in detenzione amministrativa senza accuse. I pochi attivisti israeliani che si sono uniti alle proteste in Cisgiordania negli ultimi anni sono stati normalmente protetti rispetto a queste prassi perché erano ebrei; anche quando sono stati arrestati sono stati rilasciati entro un giorno e di norma non vi è stata alcuna incriminazione nei loro confronti. Ma con il nuovo governo di estrema destra e l’attuale clima politico anche questo potrebbe cambiare – e non solo per i pochi che vanno a manifestare a Masafer Yatta, Sheikh Jarrah o nella Valle del Giordano, che da anni subiscono violenze e aggressioni da parte dei soldati e dei coloni.

Durante le manifestazioni “Balfour” [dal nome della via in cui risiede il premier, ndt.] contro il precedente governo di Benjamin Netanyahu, che si sono svolte per gran parte del 2020 fino all’inizio del 2021, la polizia israeliana ha arrestato centinaia di manifestanti e in seguito ha elevato denunce contro parecchi di loro. Ed è stato là che, per la prima volta, ha usato misure che fino ad allora erano state largamente riservate ai palestinesi, agli haredim [ultraortodossi, ndt.] e agli ebrei etiopi che protestavano. Se le manifestazioni di massa contro l’attuale governo e la sua proposta di riforma giudiziaria diventerà la “disobbedienza civile” che i leader della protesta invocano, i manifestanti di centro sinistra potrebbero trovarsi anch’essi a subire arresti arbitrari e incriminazioni come Pollak.

Nel suo discorso di accettazione nel ricevere il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021, Pollak ha detto: “Tra il fiume e il mare c’è un solo regime colonialista che è del tutto illegittimo. E quando il regime è illegittimo qual è il ruolo dei membri della società coloniale che lo rifiutano? Qual è il nostro ruolo?”

La lotta per la liberazione deve essere condotta da coloro che cercano di liberarsi, non da noi”, ha continuato. “Quando i sudafricani bianchi si opposero all’apartheid…si unirono come minoranza all’ANC [African National Congress, il partito di Mandela, ndt.] – alcuni di loro hanno anche imbracciato le armi – nella lotta per cacciare il regime di apartheid e il colonialismo. È lo stesso qui in Palestina: per unirsi davvero alla lotta per eliminare l’apartheid i pochi coloni ebrei che sono interessati a questo devono levarsi contro l’essenza del regime coloniale, non contro questa o quella manifestazione di esso.”

Ed ha concluso: “Dobbiamo cercare e trovare la nostra strada all’interno del movimento di liberazione palestinese, tenendo conto che gli ebrei devono essere una minoranza (in esso) e che solo in questo modo…attraverso un ribaltamento consistente degli equilibri di potere, possiamo lavorare per la vera uguaglianza e la liberazione.”

Oren Ziv è un fotoreporter, corrispondente di Local Call [versione in ebraico di +972], e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nove mesi di proteste contro un nuovo avamposto coloniale: sette morti e decine di feriti nella cittadina di Beita

28 febbraio 2022 – B’TSELEM

Nel maggio 2021 Israele ha realizzato una nuova colonia, conosciuta come avamposto di Evyatar, su terreni appartenenti alle città di Beita e Qabalan e al villaggio di Yatma in cima al monte (Jabal) Sabih. L’operazione è stata realizzata dal movimento di coloni Nachala [organizzazione internazionale che finanzia l’espansione coloniale nella Cisgiordania, ndtr.], con l’assistenza del Consiglio regionale della Samaria e il consenso dei militari. In precedenza, nel 2013, 2016 e 2018, dei coloni avevano tentato di impossessarsi della terra con la realizzazione di un avamposto ma ogni volta l’Amministrazione Civile aveva prontamente demolito le strutture. Questa volta Israele ha lasciato l’avamposto coloniale intatto.

Secondo un calcolo commissionato da B’Tselem [ONLUS israeliana che promuove i diritti umani nei territori occupati, ndtr.] a Kerem Navot [organizzazione che monitora e documenta la politica di espansione coloniale di Israele nella Cisgiordania, ndtr.] l’avamposto coloniale controlla un’area di 36 dunam [1 dunam = 1.000 metri quadrati]. Copre in parte dei terreni privati palestinesi e in parte un territorio che Israele considera “terreno sotto indagine”. La colonia comprende circa 50 strutture permanenti, un parco giochi, una sinagoga, un’aula per gli studi religiosi, un negozio di alimentari, una rete elettrica e strade completamente asfaltate. Secondo la sua pagina Facebook l’avamposto coloniale è stato istituito per creare un cuneo tra la città di Qabalan e il villaggio di Yatma, a sud della strada 505, e la città di Beita a nord.

All’inizio di luglio 2021 l’avamposto coloniale è stato evacuato dopo un accordo firmato fra i coloni e il governo. In base all’accordo tutte le strutture dell’insediamento sarebbero rimaste al loro posto e i coloni che vi abitavano se ne sarebbero andati, mentre il governo avrebbe esaminato lo stato del terreno. Se fosse emerso che l’avamposto avrebbe potuto essere “legalizzato” alcuni dei coloni sarebbero stati in grado di tornare e lì sarebbe stato istituito un programma di yeshiva militare (hesder) [yeshiva è un’istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, hesder è un programma di yeshiva che combina studi talmudici avanzati con il servizio militare, ndtr.] Come parte dell’accordo, i militari avrebbero mantenuto una presenza permanente nell’avamposto.

Anche prima di una decisione relativa all’approvazione “legale” dell’avamposto coloniale, e da quando è stato installato, i militari hanno impedito agli agricoltori palestinesi di accedere a centinaia di dunam della loro terra adiacente. Questa restrizione riguarda circa 80 famiglie di agricoltori di Beita e Yatma.

Nell’agosto 2021 l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dai proprietari terrieri palestinesi contro l’istituzione dell’avamposto, sulla base del fatto che la proprietà terriera nell’area era ancora sotto esame. L’indagine è stata completata, secondo i media, nell’ottobre 2021. Nelle ultime settimane gli organi di informazione hanno riferito che lo Stato sta valutando un “compromesso” secondo il quale la yeshiva smantellata nell’avamposto di Homesh [una delle colonie nella striscia di Gaza distrutte e abbandonate dopo il disimpegno di Israele da Gaza nel 2005, ndtr.] verrebbe ricostruita a Evyatar. Poco prima della fine del suo mandato il procuratore generale uscente ha approvato i risultati della “ricerca fondiaria” e ha accelerato le procedure di pianificazione del sito. Il governo ora può, secondo la sua logica, andare avanti con la legalizzazionedell’avamposto e fondare lì la yeshiva.

La città di Beita, sulla cui terra è stato edificato l’avamposto coloniale, si trova a sud della città di Nablus e ospita circa 9.000 palestinesi. Da quando è stato realizzato l’avamposto gli abitanti della città hanno protestato contro la sottrazione della loro terra. Tengono manifestazioni notturne alla periferia della città, nonché proteste di massa il venerdì, che includono una marcia verso l’avamposto coloniale con centinaia, e talvolta migliaia, di partecipanti. All’inizio di ogni protesta si tengono delle preghiere, di solito seguite da scontri nel corso dei quali giovani palestinesi incendiano pneumatici e lanciano pietre contro le forze di sicurezza israeliane. Queste ultime reprimono violentemente le proteste con massicce quantità di lacrimogeni scagliati intorno anche da droni e lanciabombe montati su jeep e sparano proiettili di metallo ricoperti di gomma, granate a spugna [armi antisommossa non letali, ndtr.], proiettili veri, inclusi proiettili calibro 22 sparati da cecchini.

Ad oggi, sette abitanti di Beita sono stati uccisi nel corso delle manifestazioni o nelle loro immediate vicinanze. Inoltre, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 180 persone sono state ferite da proiettili veri, altre 1.000 circa da proiettili di “gomma” e granate a spugna, e più di 4.200 hanno avuto problemi a causa dell’inalazione di gas lacrimogeni. Un altro abitante di Beita è stato ucciso vicino alla condotta idrica della città. Un abitante di Yatma è stato ucciso durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale nel suo villaggio.

Dall’inizio delle proteste, oltre ad attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato decine di abitanti della città. Per fiaccare i manifestanti i militari hanno chiuso per un mese e mezzo l’ingresso principale della città e le ruspe militari hanno bloccato e scavato le strade agricole che portavano ai punti chiave della manifestazione, danneggiando circa un chilometro di terrazzamenti agricoli e circa 2.000 alberi a un chilometro dall’avamposto coloniale. Il vice capo del consiglio comunale di Beita ha detto a B’Tselem che Israele ha revocato i permessi di lavoro a circa 150 residenti. I soldati hanno anche esercitato gravi violenze contro i manifestanti israeliani che sono accorsi alle manifestazioni per mostrare solidarietà ai manifestanti palestinesi e li hanno arrestati con falsi pretesti.

Evyatar è stata fondata in terra palestinese non su iniziativa privata di diversi coloni, ma come parte della politica di insediamento coloniale di Israele in Cisgiordania, con la piena collaborazione di tutte le autorità israeliane competenti. Tuttavia, lo Stato non si accontenta di appropriarsi della terra e di costruirvi una colonia. Insiste anche nel proibire agli abitanti palestinesi di protestare contro questi atti e impedisce con la forza, anche letale, qualsiasi tentativo di resistenza. Ribadiamo: la creazione di insediamenti coloniali è illegale ai sensi del diritto internazionale e la Corte Penale Internazionale dell’Aia sta attualmente indagando sulla politica di Israele in materia. La scelta di Israele di impedire agli abitanti dell’area di protestare contro la realizzazione di Evyatar, di attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco in circostanze che non mettano in pericolo la vita dei soldati e di sostenere questa politica anche dopo che i suoi esiti fatali sono evidenti aggiunge la beffa al danno.

* Database sulla protezione dei civili dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA).

La ricercatrice sul campo Salma a-Deb’i di B’Tselem ha raccolto le seguenti testimonianze di persone che hanno assistito all’uccisione o al ferimento di abitanti della città durante le proteste:

10 dicembre 2021: L’uccisione di Jamil Abu ‘Ayash, 32 anni

Venerdì 10 dicembre 2021, verso mezzogiorno, Jamil Abu ‘Ayash (32 anni), abitante a Beita, è arrivato nell’area in cui si stava svolgendo la manifestazione quella settimana. Il sito è noto come al-Hutah e si trova a circa 700 metri dall’avamposto coloniale di Evyatar. Intorno alle 14:30 Abu ‘Ayash è stato colpito da un colpo di pistola da una distanza di 200 metri, mentre teneva in mano una fionda.

Con una testimonianza resa il 12 dicembre 2021 A.S. (33 anni), un abitante di Beita presente sul posto, ha raccontato:

Verso le 14:20 ero in piedi a parlare con alcuni ragazzi. C’erano molti soldati e agenti di polizia di frontiera sulla collina di fronte a noi, che sparavano lacrimogeni e proiettili “di gomma”. A circa 200 metri da noi c’erano una decina di soldati. I ragazzi che tiravano dei sassi erano molto lontani da loro, e i sassi non li raggiungevano nemmeno.

Ho visto che due soldati si sono uniti a loro. Sono avanzati e uno di loro si è sdraiato a terra in posizione di cecchino. Poi si è alzato, sono tornati indietro e si è ripetuta la stessa cosa. Dopo 10 minuti ho visto Jamil Abu ‘Ayash passarci accanto e fermarsi circa 50 metri oltre. Aveva in mano una fionda. Sono trascorsi solo pochi minuti, poi uno dei due soldati, che era davanti e sdraiato a terra, ha aperto il fuoco. Ho sentito diversi spari, uno dopo l’altro. Ci siamo tutti chinati o sdraiati a terra. Non appena ho alzato la testa, ho visto Jamil sdraiato a terra e ho sentito i ragazzi urlare. Alcuni di loro lo hanno prelevato e, allo stesso tempo, i soldati hanno sparato nell’area molti lacrimogeni. La testa e il viso di Jamil erano coperti di sangue.

È stato portato in ambulanza e poi in ospedale a Nablus. Sono andato in ospedale e i dottori mi hanno detto che aveva perso parte del cervello. In quel tipo di situazione, quando un ragazzo viene gravemente ferito, l’80% dei manifestanti lascia la manifestazione e va in ospedale, ed è così che i soldati riescono a fermare la manifestazione.

SH. (29 anni), abitante a Beita, è arrivato verso mezzogiorno alla preghiera, da cui è partita mezz’ora dopo la manifestazione settimanale.

In una testimonianza resa il 15 dicembre 2021 descrive quanto accaduto:

Quando siamo arrivati ​​nella zona chiamata al-Hutah, abbiamo visto molti soldati sparsi sulla collina. Di fronte a noi, a circa 150 metri di distanza, c’erano sette o otto soldati. Stavano sparando molti lacrimogeni e alcuni proiettili “di gomma”. Accanto a loro c’erano due jeep militari da cui dei soldati stavano sparando lacrimogeni con i lanciatori. I giovani hanno iniziato a scagliare pietre contro i soldati.

Verso le 14:30 ho visto due soldati a circa 200 o 250 metri da noi. Uno di loro era sdraiato a terra e l’altro gli stava mostrando dove mirare. Ci siamo nascosti dietro un muro di pietra. Dopo pochi minuti il soldato ha ripreso la posizione di cecchino. Ci siamo seduti per terra. Ho visto arrivare Jamil Abu ‘Ayash. Non l’avevo visto fino a quel momento alla manifestazione. Gli ho detto di sedersi e stare attento, poi ho sentito uno sparo ed è caduto. Era a un metro da me.

Quando mi sono avvicinato a lui, il soldato ha sparato di nuovo e ha colpito le pietre sul terrazzamento. Ho continuato ad andare verso Jamil. Aveva una ferita d’ingresso sulla fronte e una ferita d’uscita nella parte posteriore della testa.

Lo abbiamo preso e lo abbiamo portato a circa 500 metri a un’ambulanza lì in attesa. Gli agenti della polizia di frontiera ci sono corsi dietro e hanno sparato decine di lacrimogeni nella nostra direzione. Poiché i militari hanno riempito di buche le strade che portano alla collina, il punto più vicino in cui l’ambulanza poteva raggiungerci era a 500 metri. In seguito ho scoperto che era stato ucciso. Fu sepolto quel giorno nel cimitero del villaggio.

24 settembre 2021: L’uccisione di Muhammad Khabisah, 28 anni

Venerdì 24 settembre 2021, verso mezzogiorno, diverse centinaia di abitanti di Beita e dei villaggi vicini sono partiti per la preghiera e la manifestazione settimanali. Dopo le preghiere, alcuni abitanti sono avanzati per circa 800 metri verso l’avamposto, dove hanno incendiato pneumatici e lanciato pietre contro membri delle forze di sicurezza, che hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”. Muhammad Khabisah (28 anni), un abitante di Beita, si è unito ai lanciatori di pietre.

Intorno alle 15:00 Khabisah e diversi giovani erano seduti sotto un ulivo vicino al luogo della manifestazione. A diverse decine di metri di distanza un gruppo di giovani stava lanciando pietre contro le forze di sicurezza, che si stavano riparando dietro un muro di pietra e di tanto in tanto si alzavano per sparare lacrimogeni e proiettili “di gomma” contro i giovani. Circa mezz’ora dopo un membro delle forze di sicurezza si è sdraiato davanti al muro e ha sparato diversi colpi con proiettili veri, colpendo Khabisah alla testa. È stato portato in ospedale, dove i medici non sono riusciti a rianimarlo.

In una testimonianza data al telefono a B’Tselem l’11 ottobre 2021 l’amico di Khabisah ‘A. (21 anni) riferisce ciò che è capitato quel giorno:

Venerdì 24 settembre 2021 siamo andati alla preghiera che precede la manifestazione. Dopodiché ci siamo incamminati verso l’avamposto, che dista circa 800 metri. I soldati erano sparsi in gruppi da tre a cinque. Ci siamo avvicinati a loro. Ero con Muhammad Khabisah e altri ragazzi che stavano lanciando pietre contro i soldati. I soldati hanno sparato dei lacrimogeni e si sono mossi verso di noi, allora ci siamo tirati indietro, poi di nuovo avanti, e così via. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma” e alcuni giovani che non conoscevo sono stati colpiti.

Più tardi, verso le 15:30, Muhammad ed io stavamo riposando con altri sei giovani sotto un ulivo. Circa 20 o 30 giovani stavano lanciando pietre contro tre o quattro soldati che si trovavano dietro un muretto agricolo. I soldati hanno sparato proiettili veri ma non hanno colpito nessuno di noi. Eravamo tranquilli, perché i ragazzi che tiravano sassi si trovavano a diverse decine di metri da noi e i soldati erano a circa 150 metri da noi, oltre i giovani.

Poi uno dei soldati si è sdraiato a terra davanti al muretto. Uno dei giovani ci ha avvertito di stare attenti al soldato dicendo che poteva stare per uccidere qualcuno. Pochi minuti dopo ho sentito quattro o cinque spari. Mi sono abbassato e dopo che gli spari sono cessati, ho tirato su la testa. Ho visto Muhammad Khabisah sdraiato su un fianco. Gli ho sollevato la testa e ho sentito qualcosa muoversi nel suo cranio e il suo sangue coprirmi la mano. Ho gridato: “Muhammad!” Io e i ragazzi lo abbiamo preso, ma dopo pochi metri non potevo andare avanti. Non potevo credere a quello che era successo.

YH (22 anni), un abitante di Beita, è arrivato alla manifestazione verso mezzogiorno. In una testimonianza resa l’11 ottobre 2021 racconta:

Verso le 15:00 mi sono seduto con alcuni ragazzi sotto un ulivo, a circa 50 metri dai ragazzi che stavano lanciando pietre, e a circa 150 metri da tre soldati che si nascondevano dietro un muro di pietra. Quando uno dei soldati decideva di sparare lacrimogeni o proiettili “di gomma” contro i lanciatori di pietre si sporgeva dal muretto, sparava e si abbassava di nuovo. Uno dei ragazzi ha detto che aveva sete e che non c’era acqua. Muhammad Khabisah, che era appoggiato al tronco dell’albero, ha chiamato suo cugino chiedendogli di portare dell’acqua, ma alla fine non è arrivato.

Dopo circa mezz’ora, ho visto un soldato sdraiato a terra. Ho detto ai ragazzi che stava per uccidere qualcuno. Muhammad ha detto che eravamo lontani da lui. Sono passati solo pochi minuti quando ho sentito quattro o cinque spari di proiettili veri. Mi sono abbassato perché sembravano vicini. Quando ho alzato la testa, ho visto Muhammad sdraiato a terra sul fianco sinistro. Ho gridato: “Qualcuno è stato colpito, qualcuno è stato colpito”. Siamo andati da lui e abbiamo cercato di tirarlo su, e alcuni ragazzi sono venuti di corsa e ci hanno aiutato. Lo hanno portato via. Sanguinava molto dalla nuca e non si muoveva. Lo hanno portato su un’ambulanza che si trovava, che lo ha trasportato in ospedale.

6 agosto 2021: L’uccisione di ‘Imad Dweikat, 38 anni

Venerdì 6 agosto 2021, verso mezzogiorno, circa 700 abitanti di Beita e dei villaggi vicini si sono mobilitati per la manifestazione settimanale contro l’avamposto. Intorno alle 15:00 le forze di sicurezza hanno sparato contro i manifestanti da circa 300 metri di distanza, colpendo al petto ‘Imad Dweikat (38 anni) residente a Beita mentre stava bevendo una tazza d’acqua. Dweikat è stato portato in ospedale, dove poco dopo è stato dichiarato morto.

J.D. (45 anni), abitante di Beita, si è recato alla preghiera e alla successiva dimostrazione con suo fratello (49 anni). In una testimonianza resa il 12 agosto 2021, ricorda:

Quando siamo arrivati c’erano già sul posto da 600 a 700 abitanti. Alcuni di loro avevano con sè dei documenti riguardanti i terreni di cui i coloni si sono appropriati. Alcuni abitanti si sono spinti fino a 700 metri dall’avamposto coloniale. I soldati erano sparsi in gruppi di cinque o sei ai piedi della collina e stavano effettuando dei lanci massicci di lacrimogeni e granate assordanti. Successivamente hanno anche sparato proiettili “di gomma”. Diversi residenti sono rimasti feriti, incluso mio fratello, che è stato colpito alla gamba da un proiettile “di gomma” mentre cercava di prestare i primi soccorsi a un altro abitante che era stato colpito da un proiettile “di gomma” al ginocchio. Per quanto ferito, mio ​​fratello non è andato via per farsi curare. Ho visto più abitanti colpiti da proiettili “di gomma” e soffocati dal gas.

Intorno alle 15:15 le cose si sono calmate un po’. Mio fratello ed io ci siamo spostati a diverse decine di metri dagli scontri insieme ad altri ragazzi. Ci siamo seduti sotto un ulivo e abbiamo preparato il caffè. Due ambulanze erano parcheggiate a 20 metri e i soldati a circa 300 metri da noi. La situazione era tranquilla.

Improvvisamente ho sentito uno sparo. Ho guardato i ragazzi che stavano lanciando pietre e ho visto uno degli abitanti che diceva: “Non può essere” e correva nella direzione opposta rispetto agli scontri. Ho visto qualcuno sdraiato a terra e sanguinante dal naso e dalla bocca. Alcuni ragazzi lo hanno preso tra le braccia mentre gridavano il suo nome, ‘Imad Dweikat. Ho capito che era un mio parente.

Poco dopo ho saputo che era morto. La notizia mi ha devastato. Era molto lontano dagli scontri. Era padre di quattro ragazze. La più grande ha 10 anni e la più giovane un mese e mezzo. Ha lavorato duramente per mantenere le sue bambine piccole e ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia. Sono rimasto molto addolorato per la sua morte.

KB (31 anni), un abitante di Beita, verso mezzogiorno si è recato anche lui alla preghiera e alla manifestazione. In una testimonianza resa il 22 agosto 2021 riferisce:

Verso le 15:15 ero lontano dai ragazzi che lanciavano pietre. Due ambulanze erano ferme a pochi metri da me, in attesa di evacuare i feriti. Ho parlato con ‘Imad, e poi un ragazzo è passato portando piccole tazze d’acqua con un coperchio. ‘Imad ha preso una tazza, l’ha aperta e ha iniziato a bere, e poi è caduto a terra a faccia in giù. Era a due metri da me. Pensavo fosse svenuto per un colpo di sole. L’ho girato sulla schiena e ho visto che sanguinava dal naso e dalla bocca e aveva sangue sulla maglietta. Ho urlato più forte che potevo: “C’è un uomo ferito qui, ragazzi!” e poi diversi ragazzi sono corsi verso di me e mi hanno aiutato a portare ‘Imad su una delle ambulanze.

Sono rimasto scioccato da quello che è successo. Non ho sentito nessuno sparo. «Imad non ha fatto niente. Stava solo bevendo dell’acqua ed era molto lontano dai ragazzi in testa alla manifestazione, alcuni dei quali stavano lanciando pietre. I soldati erano a una distanza di circa 200-300 metri da noi, e noi eravamo a 70-80 metri di distanza dai ragazzi che lanciavano pietre. Pensavo di essere un ragazzo forte, che non si innervosisce facilmente, ma quello che è successo mi ha scioccato. Un uomo in piedi accanto a me, che mi parlava, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre non faceva altro che bere dell’acqua.

16 giugno 2021: L’uccisione di Ahmad Bani Shamsah, 15 anni

Mercoledì 16 giugno 2021, intorno alle 17:30, diversi giovani, tra cui Ahmad Bani Shamsah (15 anni), si sono recati nella zona di Jabal Sabih per preparare i pneumatici da incendiare durante la manifestazione notturna che si doveva tenere sul posto. I giovani si sono portati a varie centinaia di metri dall’avamposto e a circa 150 metri da diversi coloni e un soldato che si trovavano nella zona. Bani Shamsah ha appeso una bandiera palestinese a uno degli ulivi e ha iniziato a scappare. A quel punto un soldato gli ha sparato colpendolo alla nuca. Bani Shamsah è morto il giorno successivo per le ferite riportate.

Un suo amico, M.H. (16 anni), racconta in una testimonianza da lui resa:

Io e gli altri ragazzi abbiamo deciso di andare un po’ più in là per vedere dove fossero i soldati. Volevamo sventolare la bandiera palestinese il più vicino possibile a loro, per provocarli. Abbiamo camminato fino a circa 500 metri dall’avamposto. Abbiamo visto circa 10 coloni e un soldato a circa 150 metri da noi.

Il mio amico, Ahmad Bani Shamsah, ha appeso una bandiera palestinese a un ulivo e abbiamo iniziato a gridare “Allahu Akbar”. È quello che facciamo sempre quando i soldati ci vedono, anche per far sapere a tutti che ci sono soldati in zona. Il soldato ha sparato diversi colpi nella nostra direzione e siamo scappati tutti. Ho sentito Ahmad dire che era stato colpito. Mi sono fermato e mi sono guardato intorno, e l’ho visto sdraiato a terra a 10 metri di distanza. Sono andato ad aiutarlo, ma poi il soldato mi ha sparato. Mi sono allontanato e mi sono nascosto dietro un masso.

Nel frattempo è arrivato un altro ragazzo e abbiamo deciso di andare insieme a prendere Ahmad. Quando lo abbiamo raggiunto sanguinava abbondantemente dalla testa. Altri ragazzi sono venuti e ci hanno aiutato a portarlo su un’auto vicina, e da lì un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale. Sono salito su una macchina per andare in ospedale, ma sono rimasto così scioccato che ho chiesto all’autista di portarmi a casa. A casa ho aspettato notizie di Ahmad, anche se sapevo che era morto.

Ci sono voluti alcuni giorni perché recuperassi l’appetito. Ho perso due amici in meno di una settimana: Ahmad e Muhammad Hamayel. È difficile e incredibilmente crudele.

14 maggio 2021: L’uccisione di ‘Issa Barham, 40 anni

La prima manifestazione degli abitanti di Beita contro la costruzione dell’avamposto di Evyatar si è tenuta venerdì 14 maggio 2021. I soldati disposti sulla collina hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”, e successivamente proiettili veri, contro i manifestanti, alcuni dei quali lanciavano pietre contro i soldati da centinaia di metri di distanza. Diversi residenti sono stati feriti da proiettili veri. ‘Issa Barham (40), un abitante di Beita, è arrivato per aiutare a evacuare i feriti. È stato colpito al petto da una distanza di circa 70 metri mentre era in piedi vicino alla sua auto.

Nella sua testimonianza un parente di ‘Issa A.B. (41 anni) descrive gli avvenimenti:

Venerdì 14 maggio 2021, verso le 13:30, sono andato alla manifestazione a Jabal Sabih, a sud del villaggio, contro l’istituzione dell’avamposto di Evyatar. Ho visto circa 10 soldati e sette o otto coloni in piedi lontano da loro. I soldati stavano osservando da lontano, sparando lacrimogeni e lanciando granate assordanti anche prima che ci avvicinassimo a loro. Eravamo a circa 300 metri dai soldati e le pietre che stavano lanciando i ragazzi nemmeno li raggiungevano.

I soldati hanno sparato verso di noi proiettili veri ferendo diversi abitanti, tutti nella parte superiore del corpo. Le ambulanze hanno prelevato due dei feriti, ma quando altre persone sono rimaste ferite, abbiamo chiesto agli abitanti di portarle via con auto private. Ho visto un mio parente, ‘Issa Barham, arrivare con la sua macchina dalla direzione del villaggio. Gli ho chiesto: “Perché sei qui?” e lui mi ha risposto: “Dove sono i feriti?”. Ha subito voltato la macchina in modo da poter partire velocemente. Gli ho detto: “I feriti sono stati portati sul Mashtubah (veicolo senza patente) di uno dei residenti, perché è ciò che avevamo a disposizione qui”.

«Issa ha parcheggiato l’auto, è sceso e si è fermato accanto. Poi ho visto uno dei soldati accovacciarsi in posizione di cecchino e spararci addosso. A quel punto, le cose si erano già calmate ed erano tranquille. Tutti erano impegnati con i feriti o in attesa di notizie su un abitante gravemente ferito. Non mi è assolutamente venuto in mente che il soldato avrebbe sparato. Improvvisamente, ho sentito uno sparo e ho visto ‘Issa cadere all’indietro. Gli sono corso incontro e quando gli ho tolto i vestiti ho visto del sangue al centro dell’addome. Io e i ragazzi abbiamo chiamato un’ambulanza, l’abbiamo preso, lo abbiamo trasportato per un breve tratto e lo abbiamo messo su un’auto senza targa che era lì in modo che potesse essere trasportato in ospedale. Poco dopo l’auto è partita andando incontro ad un’ambulanza che ha portato via ‘Issa. Sono salito subito in macchina e sono andato alla clinica del villaggio, perché pensavo che l’ambulanza avesse portato ‘Issa lì, ma non l’ho trovato. Mi è stato detto che era stato trasferito in ospedale a Nablus.

Quando sono arrivato in ospedale, mi è stato detto che ‘Issa era stato ucciso. È stato uno shock terribile. Un uomo che è venuto ad aiutare i feriti è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Era un pubblico ministero presso l’ufficio del procuratore distrettuale e padre di quattro figli di età compresa tra 1,5 e otto anni. Era un uomo meraviglioso. L’intera città lo amava. Aiutava tutti ed era una persona gentile.

R. (36 anni) è andato alla preghiera e alla successiva dimostrazione. In una testimonianza resa telefonicamente il 9 giugno 2021, riferisce:

Diversi abitanti sono stati gravemente feriti dagli spari dei soldati, uno dopo l’altro, tutti nella parte superiore del corpo. Abbiamo avuto difficoltà a evacuare i numerosi feriti e alcuni sono stati portati via con auto private. Le persone sono state chiamate dagli altoparlanti della moschea e attraverso i social media per venire ad aiutare a portare i feriti in ospedale con auto private.

Ho visto ‘Issa Barham in piedi con le mani in tasca. I suoi vestiti puliti e ordinati dimostravano chiaramente che non era un uomo che stava prendendo parte agli scontri. Era in piedi e osservava i giovani da lontano. Ero a circa 15 metri di distanza da lui e i soldati erano a 70-80 metri di distanza. Improvvisamente l’ho visto cadere.

I giovani gli sono corsi incontro, lo hanno preso e portato su una delle auto. Sono salito in macchina con lui, insieme ad altri ragazzi. L’ho schiaffeggiato per svegliarlo, ma non si è svegliato. Gli ho sfilato i vestiti da sopra la pancia e ho visto che sanguinava. Abbiamo incontrato un’ambulanza dopo circa 50 metri e lui vi è stato trasferito all’interno. Poco dopo, è stato dato l’annuncio che era stato ucciso e la maggior parte degli abitanti è tornata al villaggio per partecipare al funerale e sostenere la sua famiglia.

25 giugno 2021: Il ferimento di Samer Khabisah, 18 anni

Venerdì 25 giugno 2021, verso mezzogiorno, Samer Khabisah (18 anni) di Beita si è recato alla preghiera prima della manifestazione settimanale.

In una testimonianza rilasciata il 25 ottobre 2021 Khabisah riferisce che durante le preghiere i soldati stavano già sparando lacrimogeni contro i residenti con un drone. Continua con la descrizione di ciò che è successo durante la dimostrazione:

I soldati si sono divisi in gruppi di otto o giù di lì e hanno continuato a lanciare granate assordanti e lacrimogeni contro di noi. I giovani gli hanno rilanciato contro le granate stordenti scagliando anche delle pietre. Diversi residenti sono rimasti feriti a causa delle inalazioni del gas. Ad un certo punto mi sono unito ai ragazzi e mi sono coperto il viso con una maglietta a causa di tutto quel gas. Ho visto una jeep militare arrivare dalla direzione dell’avamposto coloniale e fermarsi e i giovani hanno iniziato a tirare pietre. Ho anche visto quattro soldati a 30-40 metri di distanza dalla jeep, che sparavano contro i giovani proiettili veri. Poi sono svenuto.

Mi sono svegliato all’ospedale al-Istishari di Ramallah, dopo 12 giorni in terapia intensiva. Non potevo muovermi o parlare. Non capivo cosa stesse succedendo o perché fossi lì. In seguito ho scoperto di essere stato colpito in faccia da un proiettili veri e che avevo molte schegge conficcate in testa. Neanche dopo cinque operazioni i medici non sono riusciti a tirar fuori tutto. Sono stato in ospedale per 35 giorni, 22 dei quali in terapia intensiva. Per tutto il tempo non riuscivo a respirare e mi hanno fatto un foro nel collo. Non potevo nemmeno mangiare o parlare. Mi hanno messo un dispositivo nella mascella per fissarla e parte della mia lingua è stata amputata.

Dopo essere stato dimesso ho mangiato solo cibo frullato attraverso una cannuccia. Mi sono rimasti solo otto denti e anche questi devono essere fissati. Ho avuto tre operazioni e dovrò subirne altre. Il mio medico dice che ci vorranno almeno due anni per completare il trattamento. Ho bisogno di un innesto osseo nella mascella inferiore e superiore e di un impianto dentale. Faccio logopedia da tre mesi, perché dopo essere stato ferito non riuscivo a pronunciare parole e nemmeno sillabe. Le persone non capivano ciò che dicevo e dovevo ripetere le cose più volte per farmi comprendere.

Il mio progetto era di andare in America e lavorare per mio zio. Volevo conoscere altri posti. Non ho mai viaggiato o lasciato la Cisgiordania. Ora, non sono più sicuro di poter viaggiare. Tutta la mia vita è stata sconvolta.

5 novembre 2021: F.M. (19 anni), ferito a un occhio da un proiettile “di gomma”.

Venerdì 5 novembre 2021, intorno alle 13:30, F.M. (19 anni) di Beita è giunto ​​alla manifestazione settimanale, alla quale partecipavano diverse centinaia di persone.

In una testimonianza rilasciata il 25 novembre 2021 ha descritto la perdita di un occhio a causa di un proiettile “di gomma”:

Quando i manifestanti si sono trovati a una distanza compresa tra 150 e 200 metri i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni. Hanno sparato 15 o 20 candelotti e la maggior parte delle persone si è dispersa. Alcuni di loro hanno afferrato i lacrimogeni e li hanno scagliati contro i soldati. E’ andata avanti così per circa mezz’ora. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma”, ma nessuno è rimasto ferito.

Gli altri ragazzi ed io siamo andati verso i soldati, arrivando fino a circa 100 metri da loro. Uno dei soldati continuava a dirigersi verso di noi e poi indietreggiava. Temevo che ci sparasse, così mi sono nascosto con alcuni altri ragazzi dietro un cumulo di terra che i soldati avevano sistemato lì per impedire ai manifestanti di avanzare verso la collina e l’avamposto. Ogni volta tiravo pietre e poi tornavo a nascondermi dietro il cumulo. Stavo osservando i soldati mentre sparavano candelotti lacrimogeni che atterravano lontano da me quando all’improvviso sono stato colpito all’occhio sinistro e ho iniziato a sanguinare. Ero sicuro di aver perso l’occhio.

I ragazzi sono venuti a prendermi e hanno camminato molto fino a un’area che le ambulanze potevano raggiungere, perché i militari avevano scavato il terreno con una ruspa e i veicoli non potevano arrivarci.

Sono stato trasportato in ambulanza all’ospedale a-Najah di Nablus, dove sono stato curato e sottoposto a raggi X. Il dottore ha detto che il proiettile “di gomma” mi era penetrato nell’occhio. Dopo tre ore, mi hanno operato e hanno estratto il proiettile insieme all’occhio. Sono stato dimesso il pomeriggio successivo. Ora ho bisogno di un intervento chirurgico in un ospedale di Gerusalemme per farmi inserire una protesi oculare.

Mia madre sta ancora piangendo. Non riesce a credere che ho perso l’occhio. In questo momento sono a casa e amici e parenti vengono a trovarmi. Non so ancora come sarà la mia vita dopo l’infortunio, senza un occhio.

* * *

Da quando nei territori di Beita, Qabalan e Yatma è stato edificato l’avamposto coloniale di Evyatar le forze israeliane hanno ucciso nove palestinesi:

Issa Suliman Barham Barham

Un abitante di Beita di 40 anni. Ucciso il 14 maggio 2021. I soldati lo ferito all’addome con un colpo di arma da fuoco mentre era in piedi vicino alla sua auto, durante una manifestazione contro la costruzione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

Tareq Omar Ahmad Snobar

Tareq ‘Omar Ahmad Snobar, un abitante di Yatma di 27 anni. Ferito il 14 maggio 2021 e morto il 16 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace mentre i palestinesi stavano lanciando pietre contro di loro all’ingresso del villaggio di Yatma, per protestare contro la costruzione dell’avamposto coloniale e l’operazione di Israele nella Striscia di Gaza.

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah, un abitante di Beita di 25 anni. Ucciso il 28 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel. Un abitante di Beita di 16 anni. Ucciso l’11 giugno 2021. Ucciso dai soldati durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah. Un abitante di Beita di 15 anni. Ferito il 16 giugno 2021 e morto il 17 giugno 2021. I soldati gli hanno sparato alla nuca dopo che aveva appeso una bandiera palestinese a un albero, in un’area in cui i palestinesi manifestano contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Shadi ‘Omar Lutfi Salim

Shadi ‘Omar Lutfi Salim. Un abitante di Beita di 41 anni. Ucciso il 27 luglio 2021. I soldati gli hanno sparato vicino alla condotta idrica della città. Il giorno successivo, sul posto sono stati trovati strumenti idraulici di metallo. Salim, che faceva l’idraulico, vi era già andato diverse volte per aggiustare la rete. E’ morto poco dopo per le ferite riportate. Israele ha trattenuto il suo corpo fino al 10 agosto 2021.

Imad Ali Muhammad Dweikat

Imad Ali Muhammad Dweikat. Un abitante di Beita di 38 anni. Ucciso il 6 agosto 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato al torace da diverse centinaia di metri di distanza, durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah. Un abitante di Beita di 28 anni. Ucciso il 24 settembre 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato alla testa durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash. Un abitante di Beita di 32 anni. Ucciso il 10 dicembre 2021. I soldati gli hanno sparato alla testa da 200 metri di distanza durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Vogliono una guerra’: l’approvazione dell’avamposto da parte del procuratore generale in Cisgiordania scatena le proteste palestinesi

Agar Shezaf

6 febbraio 2022 – Haaretz

Dalla fondazione di Evyatar l’anno scorso i palestinesi di Beita hanno manifestato ogni settimana e otto persone sono morte. Con il suo ultimo intervento ufficiale Mendelblit ha rinvigorito le proteste

La decisione del procuratore generale uscente Avichai Mendelblit di stabilire un insediamento coloniale sul sito dell’avamposto di Evyatar non ha raffreddato l’ardore degli abitanti di Beita, il villaggio palestinese sulle cui terre è situato l’avamposto. Anzi. “Rafforza solo la nostra volontà di resistere e combattere”, ha detto ad Haaretz un diciassettenne che partecipa alla manifestazione contro l’avamposto, la più grande protesta settimanale in Cisgiordania.

L’adolescente, uno studente delle superiori, è arrivato alla manifestazione con le stampelle. Le usa da quando è stato colpito alla gamba dai soldati israeliani due settimane fa. Dice che non è la prima volta che viene ferito. Nella prima settimana in cui si sono svolte le proteste contro l’avamposto un proiettile Ruger (un proiettile calibro 22 usato per la dispersione della folla) gli è sfrecciato sulla testa, ferendolo e rendendo necessario il trasporto in un vicino ospedale.

Eppure continua a protestare ogni giorno contro l’avamposto. “Cosa farei a casa?” si chiede, stupito da una tale domanda. “Questa è la missione del nostro villaggio: rimuovere l’avamposto. Non si tratta solo di dimostrazioni. Sin svolgono anche ‘operazioni notturne di disturbo’ e a volte veniamo qui”.

Operazioni notturne di disturbo è l’appellativo degli incendi notturni di pneumatici e dell’uso occasionale di laser tag [gioco di simulazione militare con l’impiego di strumenti a raggi infrarossi, totalmente innocui, ndtr.] da parte dei giovani di Beita ai piedi dell’avamposto. Sono iniziate ancor prima che i coloni venissero sfrattati dall’avamposto, quando nell’area si potevano scorgere incessanti volute di fumo nero, e continuano ora che l’avamposto è presidiato dai militari.

Le notizie sulla concessione da parte di Mendelblit del permesso di costruzione di una colonia nella località di Evyatar sono state tradotte e distribuite sui gruppi Whatsapp di protesta. “Vogliono una guerra”, afferma Khaled, un abitante di Beita sulla quarantina, che protesta contro Evyatar sin dalla sua fondazione a maggio.

Come ogni venerdì, lo scorso fine settimana centinaia di residenti di Beita sono andati a protestare contro l’avamposto. Sebbene i coloni abbiano lasciato Evyatar circa sei mesi fa, le strutture che vi hanno eretto sono rimaste, così come una grande stella di David in legno, chiaramente visibile dal luogo della manifestazione. Alla manifestazione settimanale partecipano bambini piccoli, ragazzi e anche adulti sulla sessantina. Alcuni hanno con sè delle fionde e prendono di mira i soldati con le pietre.

Altri offrono ai manifestanti bottiglie d’acqua, altri ancora osservano quanto succede e di tanto in tanto urlano contro i soldati. L’esercito usa gas lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi otto palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa questo venerdì tre palestinesi sono stati feriti alle gambe da proiettili veri, nove sono stati feriti da proiettili di gomma e 26 sono stati curati per inalazione di gas.

L’esercito pattuglia continuamente l’avamposto e non permette a nessuno di avvicinarsi, quindi le proteste non si svolgono ai piedi dell’avamposto ma nel letto del torrente tra l’avamposto e il villaggio, e talvolta tra il villaggio e la Statale 60 [la strada che percorre da nord a sud Israele e Cisgiordania unendo Beersheba a Nazareth, ndtr.]. La protesta inizia dopo che la gente del luogo ha pregato sul posto. Oggi i manifestanti hanno affermato che l’esercito si è avvicinato più che mai alle case del villaggio.

Pensano che ciò abbia a che fare con l’annuncio di Mendelblit e che Israele stia cercando di fare pressione su di loro affinché smettano di protestare. “Oggi hanno iniziato subito in modo pesante. Ci sono state molte sparatorie e molto gas”, dice uno dei manifestanti mentre un candelotto lacrimogeno gli cade vicino. “Anche i bambini di Beita sanno in che direzione il gas si diffonde e la differenza tra il suono dello sparo di un proiettile vero e di un Ruger [proiettile considerato dall’esercito israeliano “meno letale” in quanto di calibro ridotto, ndtr.]”.

Più tardi la gente del posto ha respinto l’esercito nel letto del torrente. Alcune decine di giovani, nascosti tra gli ulivi, hanno lanciato pietre contro i soldati; altri osservavano dall’alto. “Questo ha cambiato molto la vita a Beita”, aggiunge Khaled, “ma non sono andato io contro ai coloni, sono loro che sono venuti da me e hanno preso la terra del mio bisnonno. Vogliamo solo che gli edifici vengano rimossi”.

La peculiarità del villaggio, attestano i suoi abitanti, è che tutti sono impegnati in funzione delle proteste: le donne del villaggio producono cibo per i manifestanti, le attività di protesta si svolgono durante la settimana e non sono attribuite ad alcun gruppo politico.

Ogni settimana l’esercito pattuglia la strada che proviene dal villaggio cercando di impedire l’ingresso delle auto. In pratica, questo non impedisce l’arrivo dei manifestanti, ma rende più difficile il lavoro dell’equipe medica. “L’ambulanza continua a rimanere bloccata nel fango”, dice il dottor Abd al-Jaleel, direttore dell’ospedale da campo di Beita, mentre le due ambulanze in servizio dietro la manifestazione sono impantanate nel terreno nel tentativo di partire. L’ospedale è gestito solo da volontari, alcuni di Beita e altri di Nablus e delle aree circostanti.

All’inizio – dice Al-Jaleel – nel villaggio non c’era una clinica adatta per i trattamenti di emergenza. Sin dal primo giorno abbiamo prestato le cure alle persone ferite durante le manifestazioni contro l’avamposto, ma presto ci siamo resi conto che qui il numero di ferite gravissime da arma da fuoco è molto elevato. Dato che l’ospedale di Nablus è a 17 chilometri di distanza e i soldati spesso bloccano la strada, è difficile evacuare le persone abbastanza velocemente”, spiega.

L’ospedale da campo è stato creato all’interno della scuola del villaggio e all’inizio le persone sono state curate su materassi per terra. Al Jaleel stima che ogni venerdì vengano trattati circa cento feriti e nell’ultimo anno sono state prese in cura sette persone con ferite da arma da fuoco che hanno richiesto un trattamento di rianimazione.

E’ riuscito a salvarne uno. Mostra delle foto di ambulanze con i finestrini rotti perché l’esercito gli ha sparato contro proiettili di gomma. “Da quando tutto questo ha avuto inizio non abbiamo alcuna vita sociale né [pausa del, ndtr.] venerdì. Siamo sempre qui”, dice. Il prezzo delle proteste può essere visto dappertutto nel villaggio, dice, e osserva: “Passeggiando per Beita ogni pochi metri si incontra qualcuno con le stampelle”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)