La Fossa dei Leoni [nuova fazione di resistenza palestinese, ndt.] non è un fenomeno passeggero: l’incombente rivolta armata della Palestina

Ramzy Baroud

19 dicembre 2022, JordanTimes

Proprio mentre Israele, e anche alcuni palestinesi, cominciavano a parlare al passato del fenomeno della Fossa dei Leoni, molti combattenti appartenenti al neonato gruppo palestinese sono riapparsi nella città di Nablus.

A differenza della prima apparizione del gruppo il 2 settembre, il numero dei combattenti che hanno preso parte al raduno nella Città Vecchia di Nablus il 9 dicembre è stato significativamente più grande, meglio equipaggiato, con divise militari unificate e maggiori precauzioni di sicurezza.

La Fossa appartiene a tutta la Palestina e crede nell’unità del sangue, della lotta e dei fucili” – riferimento ad una Resistenza collettiva che superi gli interessi di fazione.

Inutile dire che l’evento è stato notevole. Solo due mesi fa, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva sminuito il gruppo in termini di numeri e influenza, stimandone la consistenza in “circa 30 membri”, e impegnandosi a “mettergli le mani addosso […] ed eliminarli”.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è attivamente coinvolta nella soppressione del gruppo, anche se ha tentato un approccio diverso. I media palestinesi e arabi hanno parlato di generose offerte dell’ANP in termini di lavoro e denaro ai combattenti della Fossa dei Leoni che accettino di abbandonare le armi.

Sia la leadership israeliana che quella palestinese hanno interpretato male la situazione. Hanno erroneamente presunto che il movimento nato a Nablus sia un fenomeno regionale e provvisorio che, come altri in passato, possa essere facilmente schiacciato o comprato.

La Fossa dei Leoni sembra invece cresciuta e si è già insediata a Jenin, Al Khalil (Hebron), Balata e altrove.

Per Israele, ma anche per alcuni palestinesi, la Fossa dei Leoni è un problema inedito le cui conseguenze minacciano di cambiare completamente le dinamiche politiche nella Cisgiordania occupata.

L’emblema della Fossa dei Leoni sta ora comparendo in ogni quartiere palestinese nei Territori Occupati; il gruppo è riuscito a espandersi da un singolo quartiere della città vecchia di Nablus – Al Qasaba – sino a diventare un’esperienza palestinese collettiva.

Un recente sondaggio condotto dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca Demoscopica (PCPSR) ha dimostrato in modo inequivocabile l’affermazione precedente.

Il sondaggio pubblico del PCPSR ha mostrato che il 72% dei palestinesi auspica la creazione di molti altri gruppi armati simili in Cisgiordania. Quasi il 60% teme che una ribellione armata rischi lo scontro diretto con l’ANP. Alte percentuali – 79% e 87% – rifiutano rispettivamente la resa dei combattenti alle forze dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’idea stessa che l’ANP abbia persino il diritto di eseguire tali arresti.

Questi numeri attestano la realtà nelle strade palestinesi, segnalano la quasi totale mancanza di fiducia nell’ANP e la convinzione che solo una Resistenza armata, simile a quella di Gaza, sia in grado di contrastare l’occupazione israeliana.

Queste opinioni sono sostenute da prove empiriche, la principale delle quali è il fallimento dell’ANP, finanziariamente e politicamente corrotta, nel promuovere in qualsiasi modo le aspirazioni palestinesi; il completo disinteresse di Israele per qualsiasi forma di negoziato di pace; la crescente tendenza fascista di estrema destra della società israeliana, direttamente collegata alla violenza quotidiana esercitata sui palestinesi nella Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania.

Tor Wennesland, inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha recentemente riferito che il 2022 “sta per diventare l’anno più letale per i palestinesi in Cisgiordania dal […] 2005”. Il ministero della Sanità palestinese ha riferito che in Cisgiordania solo quest’anno sono stati uccisi 167 palestinesi.

È probabile che questi numeri aumenteranno sotto il nuovo mandato del futuro primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu. Il nuovo governo può rimanere al potere solo con il sostegno di Bezalel Smotrich del partito Sionismo Religioso e di Itamar Ben-Gvir dell’Otzma Yehudit Party [partito politico di estrema destra kahanista e anti-arabo, ndt.]. Ben-Gvir, noto politico estremista, è ironicamente ma non imprevedibilmente destinato a diventare il nuovo ministro della Sicurezza di Israele.

Ma c’è altro nel fermento della ribellione armata in Cisgiordania che la sola violenza israeliana.

A quasi trent’anni dalla firma degli accordi di Oslo, i palestinesi non hanno ottenuto nessuno dei diritti politici o legali fondamentali. Al contrario, arroganti politici di destra in Israele parlano ora di “annessione morbida” unilaterale di vaste parti della Cisgiordania. Nessuna delle questioni ritenute importanti nel 1993 – lo status di Gerusalemme occupata, i rifugiati, i confini, l’acqua, ecc. – è oggi all’ordine del giorno.

Da allora, Israele ha investito piuttosto in leggi razziali e in politiche di apartheid diventando un perfetto regime di apartheid. Le principali associazioni internazionali per i diritti umani hanno affermato e denunciato la nuova identità pienamente razzista di Israele.

Con il totale sostegno degli Stati Uniti e nessuna pressione internazionale su Israele che sia degna di menzione, la società palestinese si sta mobilitando al di là dei canali tradizionali degli ultimi tre decenni. Nonostante l’ammirevole lavoro di alcune ONG palestinesi, la “ONG-izzazione” della società palestinese, che opera con fondi in gran parte versati da sostenitori molto occidentali di Israele, ha ulteriormente accentuato la divisione in classi dei palestinesi. Con Ramallah e pochi altri centri urbani che fungono da quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese e di un lungo elenco di ONG, Jenin, Nablus e i loro annessi campi profughi tirano avanti nell’emarginazione economica, sotto la violenza israeliana e nell’abbandono politico.

Disillusi dal fallito modello politico dell’ANP e sempre più impressionati dalla Resistenza armata a Gaza, la ribellione armata in Cisgiordania è semplicemente questione di tempo.

Ciò che differenzia i primi segni di un’Intifada armata di massa in Cisgiordania dall'”Intifada di Gerusalemme”, detta anche “Intifada dei coltelli” del 2015, è che quest’ultima era stata una serie di atti individuali disorganizzati compiuti da giovani vessati della Cisgiordania, mentre la prima è un fenomeno di base ben organizzato con un discorso politico unico che piace alla maggioranza della società palestinese.

E, a differenza della Seconda Intifada palestinese armata (2000-2005), la nascente ribellione armata è radicata in una base popolare, non nelle forze di sicurezza dell’ANP.

Il riferimento storico più vicino a questo fenomeno è la rivolta palestinese del 1936-39, guidata da migliaia di palestinesi fellahin – contadini – nelle campagne palestinesi. L’ultimo anno di quella ribellione aveva visto crearsi una grande spaccatura tra la leadership dei fellahin e i partiti politici urbani.

La storia si sta ripetendo. E, come la rivolta del 1936, sono in gioco il futuro della Palestina e della resistenza palestinese – di fatto, lo stesso tessuto sociale della società palestinese.

Dr. Ramzy Baroud è giornalista, autore ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. L’ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è Our Vision for Liberation: Engaged Palestines Leaders and Intellectuals Speak out [La nostra visione della liberazione: parlano i leader e gli intellettuali impegnati della Palestina]. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’ “israelizzazione” di Gerusalemme non ha funzionato

L’ “israelizzazione” di Gerusalemme è un progetto che non ha funzionato. L’ultimo attacco lo testimonia.

Meron Rapoport

Middle East Eye – martedì 11 ottobre.

 

Israele sostiene di aver convinto i palestinesi di Gerusalemme a preferire il suo dominio. L’attacco di domenica, ampiamente appoggiato dalla maggior parte dei palestinesi, dimostra il contrario.

Via Haim Bar Lev, la strada a più corsie meglio nota come “Strada n. 1”, collega la città vecchia di Gerusalemme ai suoi quartieri settentrionali. Corre per lo più parallela al confine precedente al 1967, prima che Israele occupasse ed annettesse le zone palestinesi della città, allora sotto controllo giordano.

Costruita 20 anni fa, è stata parte dei tentativi di integrare il centro di Gerusalemme con i nuovi quartieri ebraici costruiti sulla “Linea Verde” [il confine tra Israele e Giordania precedente al 1967. Ndtr.], con lo scopo di circondare i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord e consolidare l’idea di una Grande Gerusalemme sotto il perenne dominio ebraico-israeliano.

La metropolitana leggera, costruita un decennio fa, era stata pensata come un altro tentativo di “unificare” Gerusalemme, mettendo in collegamento gli estesi quartieri annessi, in cui vivono circa 100.000 israeliani, al cuore della città, passando attraverso i quartieri densamente abitati dai palestinesi. Il percorso della metropolitana leggera corre lungo la “Strada n.1”, associando i vecchi tentativi di “unificazione” con quelli nuovi.

Progetto fallito

Cosa abbastanza interessante, Misbah Abu Sbeih, un attivista islamista del quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, ha iniziato il suo attacco a mano armata di domenica in una stazione della metropolitana leggera situato sulla “Strada n.1”, uccidendo un’ebrea sessantenne e, in seguito, un ufficiale di polizia israeliano.

Non era la prima volta che sia la metropolitana leggera che la “Strada n.1” sono state il bersaglio di attacchi palestinesi. Dopo il brutale assassinio del giovane Muhammed Abu Khdeir [bruciato vivo dai suoi rapitori. Ndtr.] da parte di estremisti ebrei due anni fa, i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord sono esplosi con rabbia.

Molte delle azioni violente dell’attuale haba (“sfogo” in arabo) o “Intifada dei coltelli” palestinese, iniziata esattamente un anno fa a Gerusalemme, hanno avuto luogo in vari punti lungo la “Strada n.1”. I veri e propri simboli dei tentativi di unificare e “israelizzare” Gerusalemme sono diventati i luoghi caldi della violenza e della morte.

Nonostante la sua pretesa di rappresentare Gerusalemme, con le zone annesse, come una città unificata, per molti anni Israele ha ignorato Gerusalemme est, forse nella speranza che i suoi abitanti avrebbero preferito emigrare, rafforzando così il controllo di Israele su quelle aree. Ciò è stato molto evidente nelle restrizioni sulle costruzioni palestinesi in città. Almeno un terzo delle unità immobiliari di Gerusalemme est sono state costruite senza permessi.

Pur rappresentando circa il 40% degli 830.000 abitanti della città, i quartieri palestinesi ricevono solo il 10% del bilancio municipale, a volte anche meno, determinando il più alto livello di povertà in Israele, un impressionante 75.3% di popolazione sotto il livello di povertà a Gerusalemme est.

L’attuale sindaco, Nir Barkat, eletto otto anni fa, ha apparentemente tentato di cambiare questa situazione. Barkat, strenuo oppositore di ogni concessione politica ai palestinesi di Gerusalemme, ha sostenuto che solo migliorando le condizioni di vita nei quartieri palestinesi Israele avrebbe potuto affermare la propria sovranità indiscutibile sulla città.

Durante il mandato di Barkat gli investimenti a Gerusalemme est sono aumentati e la stampa israeliana si è riempita di articoli sul processo di “israelizzazione” attraverso il quale molti palestinesi gerosolimitani sono stati formati e poi assunti.

Una ricerca condotta dal “Washington Institute” [centro studi statunitense sulla politica in Medio Oriente. Ndtr.] nel 2011 – che ha rilevato che il 40% dei palestinesi di Gerusalemme avrebbe preferito la cittadinanza israeliana piuttosto che quella palestinese – è stata vista come una prova che questo processo di “israelizzazione” era in corso. Un recente sondaggio ha dato persino un dato più alto, il 52%, che sceglierebbe di essere israeliano se Gerusalemme fosse divisa tra Israele e un futuro Stato palestinese.

Gerusalemme instabile

Che i sondaggi siano giusti o sbagliati, è assolutamente evidente che questo presunto processo di “israelizzazione” è stato molto limitato. Come ha dimostrato Aviv Tartasky, un ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani “Ir Amim” a Gerusalemme, le autorità israeliane non sono realmente pronte a “pagare il prezzo” di un vero e significativo coinvolgimento dei palestinesi nella vita cittadina di Gerusalemme.

Ogni tentativo dei palestinesi di chiedere pari diritti, persino legittimando implicitamente la sovranità israeliana in questa città contesa, è stato liquidato o persino umiliato.

Nonostante questo presunto processo di “israelizzazione”, o forse a causa di ciò, Gerusalemme è il luogo più instabile di tutte le zone palestinesi. Nel luglio 2014 Shu’afat e altri quartieri di Gerusalemme nord hanno iniziato la loro mini-intifada dopo l’uccisione del giovane Abu Khdeir.

Nell’ottobre 2015 un accoltellamento nella Città Vecchia è stato il segnale d’inizio dell'”Intifada dei coltelli”, che continua tuttora a fasi alterne. Proprio il luogo che Israele voleva “israelizzare” è diventato la culla dell’attuale ondata di violenza.

Questa è stata di nuovo una sorpresa per le autorità israeliane. Solo un mese fa, Barkat si è vantato con attivisti del Likud [il suo partito, di destra e al governo nazionale. Ndtr.] che Israele era riuscito a ripristinare la tranquillità a Gerusalemme est grazie alla sua politica ” del bastone e della carota”, riferendosi alla chiusura e ad altre punizioni collettive inflitte ai quartieri palestinesi dopo la prima ondata di accoltellamenti.

“Gli abitanti cattivi ora capiscono..che non conviene stare dalla parte del male,” ha detto, secondo quanto citato da Haaretz.

Il suo vice, Meir Turgeman, che è anche a capo della commissione edilizia locale, è stato ancora più esplicito: “Abbiamo sempre vissuto con la falsa speranza che se avessimo aiutato questo popolo (i palestinesi), esso avrebbe cambiato il suo comportamento animalesco,” ha detto Turgeman dopo gli omicidi di domenica, “ora risulta che non è servito.”

Come risposta all’aggressione, Turgeman ha anche annunciato che bloccherà ogni permesso di costruzione per i palestinesi.

Sogni rinviati

Ohad Hemo, corrispondente di “Canale 2″ [televisione privata. Ndtr.] israeliano, ha sostenuto che l’ascesa di Hamas e di altri gruppi islamisti a Gerusalemme è, in buona misura, prodotta da Israele. Secondo Hemo, il fatto che Israele abbia espulso l’Autorità Nazionale Palestinese da Gerusalemme est, un processo che è iniziato con la chiusura dell'”Orient House” [sede dell’OLP a Gerusalemme. Ndtr.] nel 2001, ha determinato un vuoto in cui Hamas si è infiltrato.

Abu Sbieh, l’aggressore di domenica, era attivo in varie organizzazioni islamiste. Era noto in tutta Gerusalemme est come il “leone di Al-Aqsa”, per la sua partecipazione in vari incidenti con poliziotti israeliani e attivisti di destra ebrei all’interno ed attorno a quello che i musulmani chiamano ” Haram a-Sharif” [la Spianata delle Moschee. Ndtr.] e che gli ebrei chiamano “Il Monte del Tempio”.

L’identificazione come difensore di Al-Aqsa contro i tentativi israeliani di modificare lo status del luogo sacro ad entrambi – sicuramente la questione più delicata per i palestinesi a Gerusalemme ed altrove – spiega l’ampio appoggio che l’azione di Abu Sbieh ha ricevuto a Gerusalemme est. Se c’è stato sconcerto tra l’opinione pubblica palestinese riguardo al coinvolgimento di palestinesi molto giovani, a volte persino bambini di 12 anni, in episodi di accoltellamento, questo non è il caso di Abu Sbieh.

Abu Sbieh. 39 anni, è lontano dal profilo medio dei palestinesi che hanno partecipato agli attacchi, reali o presunti, contro forze di sicurezza o civili israeliani. Il fatto che abbia usato un fucile automatico F16 può indicare che non si sia trattato solo di un altro attacco improvvisato e spontaneo. E’ più simile a quelli della Seconda Intifada che a quello cui abbiamo assistito lo scorso anno.

E’ troppo presto per dire se l’incidente di domenica segnerà davvero un punto di svolta verso uno scontro più violento tra israeliani e palestinesi. Persistono illazioni sui suoi reali motivi.

Ma ancora una volta Gerusalemme ha dimostrato che, soggetta all’attuale politica israeliana, ci sono molte più probabilità che possa diventare teatro di violenze, minacciando si espandersi in altri territori palestinesi, piuttosto che un laboratorio di “israelizzazione” forzata.

Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)