Israele guarda con nervosismo come Trump abbandoni i suoi alleati siriani

Lily Galili – Tel Aviv, Israele

 10 ottobre 2019 – Middle East Eye

Negli ultimi giorni la leadership israeliana ha imparato due cose: a non credere di sapere cosa farà il presidente USA e a non fidarsi di lui come alleato.

Durante il Capodanno ebraico è successa una cosa incredibile: per la prima volta il presidente Trump è stato paragonato, nei media israeliani, al suo predecessore, Barack Obama.

Non è cosa di poco conto. Per la maggioranza degli israeliani, che si colloca fra il centro e l’estrema destra, Trump è un idolo americano, il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.

Barack Hussein Obama era, per quegli stessi israeliani, l’epitome di tutti i mali.

Secondo il Pew, un centro di ricerca con sede a Washington, uno studio recente ha rilevato che solo 2 Paesi su 37 preferiscono Trump a Obama: Russia e Israele.

E probabilmente è ancora così. Ma il senso di preoccupazione e di tradimento incombente, innescato dal ritiro improvviso delle truppe americane dal nord della Siria e dall’abbandono senza scrupoli dei curdi, alleati sia dell’America che di Israele, ora cancella l’iniziale adorazione.

Né i militari né i politici israeliani considerano la riduzione delle truppe Usa e l’offensiva militare turca che ne è seguita come un pericolo imminente per Israele.

Finora ‘i disordini’, come le fonti ufficiali tendono a descrivere la situazione, sono confinati a una regione lontana dal confine tra Israele e la Siria.

Ci sono comunque due elementi che preoccupano notevolmente Israele.

Uno è il fatto che questa mossa drammatica ha sorpreso persino i più alti livelli decisionali in Israele. Un altro è che Trump si è rivelato una delusione, in pratica un alleato inaffidabile.

Il giorno prima del drammatico annuncio di Trump, il governo israeliano aveva tenuto un lungo incontro di emergenza per discutere dell’Iran.

Fonti del governo ammettono che la decisione di Trump non era neanche stata menzionata, probabilmente perché neppure gli ufficiali più alti in grado ne erano a conoscenza.

È stata una totale sorpresa, cosa che l’ex direttore del dipartimento della sicurezza e diplomazia presso il Ministero della Difesa, il generale maggiore Amos Gilad, ha definito come “un errore nella valutazione e nella politica ai più alti livelli fra Israele e gli USA”.

Secondo Gilad, la politica estera di Trump ha impattato Israele in senso negativo più che positivo.

La sua politica di non reagire, quando l’Iran ha attaccato le installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita o quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, ha rivelato la sua debolezza. Questo è un male per Israele dato che il deterrente americano è anche un deterrente israeliano” ha detto il militare.

D’altro lato Trump è ancora un punto di forza quando abbiamo bisogno di lui nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Così la lezione per Israele ora è l’autosufficienza.”

Paura e tradimento

Sebbene “tradimento” non sia la parola ufficialmente pronunciata nel gergo politico, il sentimento è profondamente diffuso, insieme alla paura di quello che succederà.

Non c’è spazio per le sorprese”, ha detto a MEE il generale maggiore Amiram Levin, ex comandante militare del comando nord.

Per due anni ho denunciato che la politica di Israele è basata sulla falsa convinzione che Trump sia un grande amico. È ora che Israele capisca che, fino a quando Trump è al potere, Israele non ha nessuno su cui contare.”

Levin dice che gli israeliani devono abbandonare l’idea che Israele e gli USA siano un’unica cosa. Aggiunge inoltre che è stato “un grande errore” credere che Israele avrebbe diretto la lotta comune contro l’Iran.

È ora di limitarsi a obiettivi più realistici e limitati, e di focalizzarsi su situazioni che pongono un vero pericolo per Israele. L’Iran, così com’è ora, non lo è” ha detto Levin.

In sostanza il nocciolo della questione è non andare oltre il necessario solo perché possiamo, e certamente non vantarsene e non darsi delle arie.”

La reazione a livello popolare è non meno significativa di quella ufficiale e i commenti sui social hanno insinuato che, per Israele, Trump sia persino peggio di Obama.

Nel frattempo un articolo su “Mida”, un sito di destra molto vicino a Netanyahu ha insinuato che, dopo tutto, non c’è molta differenza fra i due presidenti USA.

Trump, come Obama, vuole far uscire l’America dal Medio Oriente, una regione che ha perso la sua importanza strategica. La differenza è che Trump lo fa con la sua inimitabile retorica” ha scritto Alex Greenberg sul sito.

Siamo ben lontani dai giorni, solo pochi mesi fa, quando Trump ha fatto un regalo a Netanyahu riconoscendo formalmente la sovranità israeliana sulle alture di Golan occupate.

L’atto fu suggellato da un bacio, un bacio vero, gesto non molto comune nella diplomazia occidentale.

Netanyahu ha ricambiato non solo con un bacio. Ha annunciato la fondazione di un nuovo insediamento nel Golan che prenderà il nome di Trump.

Questa potrebbe essere la parte divertente di una storia d’amore politica. Più seriamente, Netanyahu è stato il primo premier israeliano a giocare esclusivamente la carta repubblicana, a differenza dei decenni di politiche bipartisan adottate dal suo Paese in precedenza.

Si presumeva che quella love story sarebbe durata per sempre, sopravvivendo agli avvertimenti dell’opposizione israeliana e degli esperti, che ricordavano a Netanyahu che la sua relazione con Trump era basata su interessi che tendevano a cambiare.

Ma i loro consigli si sono rivelati preveggenti a settembre, quando Netanyahu non è riuscito a vincere nelle seconde elezioni parlamentari dell’anno.

Trump, l’uomo di “grande e incomparabile saggezza”, come lui stesso si è descritto in un tweet di pochi giorni fa, ama i vincitori. E Netanyahu improvvisamente non era più uno di loro.

A poche ore dagli exit poll, il presidente USA è diventato gelido con Netanyahu, nonostante il suo alleato fosse afflitto dalla crisi politica e dalle incombenti accuse di corruzione.

E tutto ciò proprio prima che Trump rendesse noto il suo piano di pace a lungo atteso fra Israele e la Palestina e siglasse un trattato di difesa che sarebbe stato una manna per Netanyahu.

Ora arriva il ritiro, l’abbandono dei curdi e la licenza di uccidere data ai turchi.

Confusi? È solo l’inizio, prima che le politiche internazionali siano tradotte in politiche interne da un primo ministro che sta ancora faticando a formare un governo.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Israele attacca forze filo-iraniane

Attacchi contro forze sostenute dall’Iran: quello che c’è da sapere

Una serie di attacchi aerei contro milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano hanno accentuato le tensioni in Medio Oriente

 

26 agosto 2019 – Al Jazeera

 

 

Da sabato scorso una serie di attacchi ha preso di mira milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano, alimentando timori di un’escalation regionale.

Le milizie, che fungono da alleati dell’Iran, hanno accusato degli attacchi Israele, che ha intensificato i tentativi di contenere l’espansione dell’influenza iraniana in Medio Oriente.

Lunedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’Iran sta pianificando attacchi contro Israele ed ha sollecitato la comunità internazionale ad “agire immediatamente in modo che l’Iran interrompa la propria aggressione.”

Ecco quello che si deve sapere:

 

Siria

Quando: sabato notte

L’esercito israeliano afferma di aver attaccato obiettivi nella zona di Aqrabah, nei pressi della capitale Damasco, in quello che ha affermato essere stato un tentativo riuscito di sventare un imminente attacco iraniano con droni contro Israele.

L’esercito israeliano ha detto che la propria aviazione ha colpito “forze operative della milizia iraniana Quds e sciite”, che stavano preparando piani di attacco in fase avanzata per prendere di mira luoghi in Israele dalla Siria.

La forza d’elite Quds, guidata dal maggiore generale Qassem Soleimani, è il ramo dei Corpi delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran (IRGC) all’estero.

Un importante comandante delle guardie rivoluzionarie ha negato che siano stati colpiti obiettivi iraniani e ha detto che i “centri dei suoi consiglieri militari non sono stati danneggiati.”

 

Libano

Quando: domenica, lunedì

A Beirut sono stati avvistati due droni che volavano sul quartiere periferico di Dahyeh, dominato da Hezbollah [gruppo armato libanese sciita, ndtr.].

Domenica Hezbollah, appoggiato dall’Iran, ha affermato che il primo drone israeliano si è schiantato su un edificio che ospita l’ufficio stampa di Hezbollah, mentre un secondo drone è esploso in aria, spingendo il leader del movimento Hassan Nasrallah a descrivere l’incidente come una “missione suicida”.

Nasrallah ha anche detto che il suo movimento abbatterà qualunque drone israeliano sui cieli libanesi, e che “il tempo in cui l’aviazione israeliana arrivava e bombardava il Libano è finito.”

Il primo ministro libanese Saad Hariri ha detto che i due droni rappresentano un palese attacco contro la sovranità del Paese.

“La nuova aggressione…costituisce una minaccia alla stabilità regionale e un tentativo di spingere la situazione verso un’ulteriore tensione,” ha affermato domenica.

In riferimento all’attacco israeliano contro la Siria, Nasrallah ha detto, con una rara ammissione, che l’obiettivo non era una postazione della forza Quds, ma una casa in cui si trovavano combattenti di Hezbollah – due dei quali sono rimasti uccisi in conseguenza dell’attacco. Ha promesso una ritorsione contro l’attacco israeliano in Siria e ha detto che ci sarà un’imminente risposta da parte di Hezbollah contro l’esercito israeliano.

Il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric ha affermato in un comunicato che “è imperativo per tutti evitare un’escalation e rispettare importanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.

Le Nazioni Unite chiedono alle parti di esercitare la massima moderazione sia nelle azioni che nelle parole.” Lunedì le autorità libanesi hanno detto che Israele ha attaccato una base palestinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (PFLP-CG) [gruppo armato palestinese filo-siriano, ndtr.] al confine orientale del Libano con la Siria.

I tre attacchi, avvenuti a pochi minuti di distanza nei pressi del villaggio di Qusaya, nella Valle della Bekaa, hanno colpito la base del PFLP-CG, che è un alleato di Hezbollah.

Il presidente libanese Michel Aoun ha affermato: “Siamo un popolo pacifico e non vogliamo la guerra. Non accetteremo che chiunque ci minacci in alcun modo.”

Negli ultimi anni raid aerei di Israele contro le fazioni palestinesi in Libano sono stati rari.

Non ci sono state reazioni immediate da parte di Israele.

 

Iraq

Quando: domenica

Le Forze Popolari di Mobilitazione (PMF) appoggiate ed addestrate dall’Iran accusano per la prima volta Israele di un attacco contro un loro deposito di armi nella città irachena di Al-Qaim, nei pressi dei confini occidentali del Paese con la Siria.

“Nel contesto della serie di attacchi sionisti contro l’Iraq, i malvagi corvi israeliani sono tornati a colpire le Hash al-Shaabi, questa volta con due droni all’interno del territorio dell’Iraq,” sostiene un comunicato delle PMF. L’attacco, continua la dichiarazione, rappresenta una dichiarazione di guerra.

Le PMF, o Hash al-Shaabi, sono il braccio ufficiale delle forze di sicurezza irachene, che includono brigate che operano in modo semi-autonomo.

Il gruppo ha detto che nell’attacco di domenica un combattente delle PMF è stato ucciso e un altro gravemente ferito, aggiungendo che anche gli Stati Uniti sono complici.

Lunedì in un comunicato la presidenza irachena ha detto che gli attacchi sono stati una “flagrante azione ostile che ha preso di mira l’Iraq,” aggiungendo che “la sovranità irachena e il benessere del suo popolo sono una linea che non si può superare.”

Israele non ha commentato.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Trump e annessione israeliana del Golan

Il via libera di Trump sul Golan prepara l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele

Mondoweiss

Jonathan Cook – 26 marzo 2019

 

Quando lo scorso anno il presidente Donald Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme occupata, sabotando di fatto ogni speranza di costituzione di uno Stato palestinese sostenibile, ha stracciato le regole internazionali.

La scorsa settimana ne ha calpestato le pagine spiegazzate che rimanevano. Naturalmente lo ha fatto su Twitter.

In riferimento a una grande parte del territorio che Israele ha tolto alla Siria nel 1967, Trump ha scritto: “Dopo 52 anni è ora che gli Stati Uniti riconoscano in pieno la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, che sono di fondamentale importanza strategica e riguardo alla sicurezza per lo Stato di Israele e per la stabilità regionale.”

Israele espulse 130.000 siriani dalla Alture del Golan nel 1967, con il pretesto della Guerra dei Sei Giorni, e poi 14 anni dopo annesse il territorio in violazione delle leggi internazionali. Una piccola popolazione di drusi siriani è l’unica sopravvissuta da quell’operazione di pulizia etnica.

Replicando le sue azioni illegali nei territori palestinesi occupati, subito Israele spostò coloni e attività economiche ebraici nel Golan.

Finora nessun Paese aveva riconosciuto l’appropriazione del bottino da parte di Israele. Nel 1981 gli Stati membri dell’ONU, compresi gli USA, dichiararono i tentativi di Israele di cambiare lo status del Golan “nulli e privi di valore”.

Ma negli ultimi mesi il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha iniziato a intensificare i tentativi di rompere questo consenso di lunga data ed è riuscito ad avere dalla sua parte l’unica superpotenza mondiale.

Si è dato da fare quando Bashar Al Assad – aiutato dalla Russia – ha iniziato a recuperare in modo decisivo le perdite territoriali che il governo siriano aveva patito durante gli otto anni di guerra del Paese.

La lotta ha coinvolto una serie di altri Paesi. Lo stesso Israele ha utilizzato il Golan come base da cui lanciare operazioni sotto copertura per aiutare gli oppositori di Assad, compresi i combattenti dello Stato Islamico, nella Siria meridionale. L’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, nel contempo, hanno cercato di limitare lo spazio di manovra di Israele a favore del leader siriano.

Netanyahu ha giustificato pubblicamente con la presenza dell’Iran nelle vicinanze la necessità per Israele di prendere possesso permanente del Golan, definendolo una zona cuscinetto vitale contro i tentativi iraniani di “utilizzare la Siria come base per distruggere Israele.”

Prima di questo, quando Assad stava perdendo terreno a favore dei suoi nemici, il leader israeliano ne aveva fatto una questione diversa. Allora aveva sostenuto che la Siria stava andando in pezzi e che il suo presidente non sarebbe mai stato in grado di reclamare il Golan.

L’attuale ragione [addotta da] Netanyahu non è più convincente della precedente. La Russia e le Nazioni Unite sono già molto avanti nel ridefinire una zona smilitarizzata sul lato siriano della linea di separazione dei contendenti. Ciò garantirebbe che l’Iran non possa schierarsi vicino alle Alture del Golan.

Lunedì notte, durante un incontro tra Netanyahu e Trump a Washington, il presidente ha convertito il suo tweet in un decreto esecutivo.

Il tempismo è significativo. È un altro goffo tentativo da parte di Trump di immischiarsi nelle elezioni israeliane, previste per il 9 aprile. Fornirà a Netanyahu una notevole spinta nel momento in cui lotta contro incriminazioni per corruzione e una effettiva minaccia da parte del partito rivale, “Blu e Bianco” [coalizione di centro, ndt.], guidata da ex-generali dell’esercito.

Netanyahu ha controllato a stento la sua esultanza dopo il tweet di Trump, e lo avrebbe chiamato per dirgli: “Tu hai fatto la storia!”

Ma, in verità, non si è trattato di un capriccio. Israele e Washington sono andati in questa direzione da parecchio.

In Israele, c’è un appoggio condiviso tra tutti i partiti al fatto che Israele si impossessi del Golan.

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli USA e consigliere di Netanyahu, lo scorso anno ha formalmente lanciato un piano per quadruplicare in un decennio le dimensioni della popolazione di coloni nel Golan, portandola a 100.000 persone.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato USA ha offerto il proprio palese visto di approvazione quando ha incluso per la prima volta le Alture del Golan nella sezione “Israele” del suo rapporto annuale sui diritti umani.

Questo mese il senatore repubblicano Lindsey Graham ha fatto una vera e propria visita pubblica nel Golan su un elicottero militare israeliano, insieme a Netanyahu e a David Friedman, l’ambasciatore di Trump in Israele. Graham ha detto che lui e il suo amico senatore Ted Cruz avrebbero fatto pressione perché il presidente USA cambiasse lo status del territorio.

Nel contempo Trump non ha fatto segreto del suo disprezzo nei confronti delle leggi internazionali. Questo mese i suoi funzionari hanno vietato l’ingresso negli USA a personale della Corte Penale Internazionale, con sede all’Aia, che sta facendo un’inchiesta su crimini di guerra USA in Afghanistan.

La CPI si è inimicato sia Washington che Israele nei suoi iniziali, e scarsi, tentativi di obbligare entrambi a rispondere delle loro azioni.

Qualunque siano le piroette di Netanyahu riguardo alla necessità di scongiurare una minaccia iraniana, Israele ha altre, e più concrete, ragioni per tenersi stretto il Golan.

Il territorio è ricco di sorgenti d’acqua e fornisce ad Israele il controllo decisivo sul Mare di Galilea, un grande lago di acqua dolce che è di fondamentale importanza in una regione che deve affrontare una sempre maggiore carenza d’acqua.

I 1.200 km2 di terra rubata sono stati sfruttati in modo aggressivo, dai fiorenti vigneti e meleti all’industria turistica che, in inverno, include le pendici coperte di neve del monte Hermon.

Come ha notato “Who Profits”, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, in un rapporto dello scorso mese, imprese israeliane e statunitensi stanno anche installando impianti di energia eolica per vendere elettricità.

E Israele ha collaborato in silenzio con il gigante USA dell’energia “Genie” per sfruttare le potenzialmente grandi riserve di petrolio sotto il Golan. Il consigliere e genero di Trump Jared Kushner ha investimenti di famiglia in “Genie”. Ma estrarre il petrolio sarà difficile finché Israele non potrà sostenere in modo plausibile di avere sovranità sul territorio.

Per decenni gli USA hanno regolarmente cercato di obbligare Israele a iniziare colloqui di pace pubblici e riservati con la Siria.   Solo tre anni fa Barack Obama ha appoggiato una condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a Netanyahu per aver affermato che Israele non avrebbe mai restituito il Golan.

Ora Trump ha dato il via libera a Israele perché se ne impossessi per sempre.

Ma, qualunque cosa egli dica, la decisione non porterà sicurezza ad Israele, o stabilità regionale. Di fatto rende insensato l’“accordo del secolo” di Trump, un piano di pace regionale a lungo rimandato per porre fine al conflitto israelo-palestinese che, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere svelato poco dopo le elezioni israeliane.

Al contrario, il riconoscimento da parte degli USA si dimostrerà una manna per la destra israeliana, che chiede a gran voce l’annessione di vaste zone della Cisgiordania e piantare di conseguenza l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati.

La destra israeliana può ora plausibilmente sostenere: “Se Trump ha accettato il fatto che ci siamo impossessati illegalmente del Golan, perché non [accetterebbe] anche il nostro furto della Cisgiordania?”

Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta su “The National”, Abu Dhabi.

 

Su Jonathan Cook

 

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)




La Russia cerca la riconciliazione tra Hamas e Fatah per salvare Assad e indebolire l’Iran

Zvi Bar’el– 13 settembre 2017, Haaretz

Unico attore in grado di lavorare per un miracolo diplomatico, il coinvolgimento regionale di Mosca è degno di nota e prova che la riconciliazione palestinese è in cima ai suoi programmi.

 Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha avuto un fine settimana impegnativo. Durante una visita di tre giorni in Medio Oriente ha incontrato re Salman dell’Arabia Saudita e re Abdullah di Giordania, ha parlato per telefono con il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi e ha cercato di sanare la frattura tra gli Stati del Golfo e il Qatar, di raggiungere una posizione unitaria sulla crisi siriana e di porre fine alle divisioni tra Fatah e Hamas.

Durante una conferenza stampa con il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir, Lavrov ha rivelato che la Russia sta avendo colloqui con i Paesi arabi che hanno rapporti con Hamas per riuscire a tornare all’accordo di riconciliazione che hanno firmato Hamas e Fatah, compresa la formazione di un governo palestinese di unità. Due giorni dopo Hamas ha detto di essere disposto a smantellare il consiglio amministrativo [il governo di fatto di Gaza da quando Hamas ha espulso i dirigenti di Fatah e preso il potere, ndt.], che ha creato nella Striscia di Gaza come governo alternativo, e a raggiungere un accordo per formare un governo palestinese unitario.
Sarebbe prematuro aspettare con il fiato sospeso che questa dichiarazione venga messa in pratica. Ma il nuovo coinvolgimento della Russia è degno di nota. Contrariamente agli accordi che Hamas ha raggiunto il mese scorso con l’Egitto, in base ai quali il consiglio amministrativo di Gaza sarebbe stato guidato da Mohammed Dahlan – un membro di Fatah e rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas –  e che comprenderebbe  sia membri di Hamas che di Fatah, Hamas sta di nuovo parlando di un governo di unità.
Questo annuncio significa che sta annullando i suoi accordi con l’Egitto? Secondo fonti di Hamas, ci sono due processi paralleli.
Per il momento il consiglio amministrativo continuerà a negoziare con l’Egitto, con Dahlan come mediatore, nel tentativo di ottenere la riapertura permanente del valico tra Egitto e Gaza, forse tra un mese. Le spese giornaliere del consiglio saranno finanziate dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno già destinato 15 milioni di dollari a questo scopo e hanno promesso la stessa somma nei prossimi mesi.
Allo stesso tempo Hamas riprenderà i colloqui con l’Autorità Nazionale Palestinese su come spartirsi i posti di governo e prepararsi a nuove elezioni presidenziali e legislative palestinesi.
Il coinvolgimento della Russia sia nel conflitto interno palestinese che in quello tra palestinesi ed israeliani non è slegato dalla sua strategia regionale, soprattutto dalla gestione della crisi siriana, che ora si trova esclusivamente nelle mani della Russia. Giordania, Arabia saudita, Egitto, Turchia e Israele, tutti comprendono che l’unica grande potenza in grado di lavorare ad un miracolo in Siria è la Russia. Quindi ognuno di loro ora sta cercando di garantirsi da Mosca che i propri interessi vengano salvaguardati.
Aiutare Assad
La Giordania, come Israele, non è d’accordo con la Russia sullo status dell’Iran in Siria. Attualmente l’esercito siriano non è presente nel sud del Paese, ma la Giordania teme che questa situazione cambi. Quindi ha sollecitato, ed apparentemente si è garantita, una promessa da parte di Lavrov che se l’esercito siriano ritornerà nelle zone vicine al confine giordano, non consentirà alle forze filo-iraniane, comprese le milizie straniere sciite ed Hezbollah, di schierarsi lungo queste zone sul confine.
In cambio la Siria ha chiesto alla Giordania di mantenere stretti rapporti con il regime di Assad, di aprire i passaggi di frontiera tra i due Paesi e, in seguito, di riprendere relazioni diplomatiche con il regime.
La Russia, che ha realizzato un’inversione di marcia nella situazione militare del regime e nell’estensione del territorio che esso controlla, sta ora investendo la maggior parte dei propri sforzi in mosse diplomatiche che intendono attribuire una legittimazione araba ed internazionale al presidente siriano Bashar Assad. Da qui l’importanza della visita di Lavrov in Medio Oriente.
La verifica di questi tentativi ci sarà questo fine settimana ad Astana, la capitale kazaka, quando funzionari del governo siriano e rappresentanti dell’opposizione hanno in programma di tenere il loro sesto incontro. Se questa tornata di colloqui dovesse avere successo, sarà possibile stabilire una data per una conferenza a Ginevra per discutere un trattato di pace.
Ma nel suo tentativo di costruire un sostegno arabo alle sue iniziative in Siria, la Russia deve superare due seri ostacoli. Il primo è la divisione tra gli Stati del Golfo e l’Egitto da una parte e il Qatar dall’altra, il secondo è lo stallo diplomatico tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
Dato che i tentativi americani di riconciliare l’Arabia saudita e il Qatar, in cui il presidente USA Donald Trump ha giocato un ruolo attivo, sono falliti e l’amministrazione USA sembra essere in ibernazione riguardo al conflitto israelo-palestinese, la Russia ha colto questi due conflitti come leva per portare avanti i propri interessi. Ed è per questo che Hamas è diventato importante, benché non sia considerato un attore strategico che possa influenzare la politica regionale. Poiché Hamas è una pedina nella partita a scacchi tra Riyad e Teheran, è diventato essenziale coinvolgerlo per gli scopi di un gioco più grande.
Hamas, Iran ed Egitto
Lo scorso anno Hamas ha intensificato le sue aperture nei confronti dell’Iran, che in cambio ha promesso aiuto all’organizzazione. Secondo informazioni dei media arabi, l’Iran ha fornito al ramo libanese di Hamas circa 20 milioni di dollari ed ha anche ripreso l’addestramento militare dei miliziani di Hamas da parte di Hezbollah.
Funzionari di Hamas sia a Gaza che all’estero ogni tanto hanno emesso comunicati in cui hanno sostenuto che i rapporti con l’Iran dovrebbero essere presto ripresi o che l’Iran ha offerto ulteriore aiuto. Ma queste affermazioni contraddicono gli sforzi diplomatici di Hamas, che intendono ristabilire le relazioni con l’Egitto. Questa discrepanza attesta dell’accesa disputa tra l’ala militare di Hamas, che sta spingendo per riprendere i legami con l’Iran, e la sua ala politica, guidata da  Ismail Haniyeh e da Yahya Sinwar, che sta promuovendo i rapporti con l’Egitto e con il mondo arabo.
Anche l’Iran sta soffrendo una disputa interna sull’aiuto ad Hamas, tra i conservatori radicali e le Guardie della Rivoluzione. Mentre queste ultime stanno spingendo per riprendere questo aiuto, i radicali sono contrari sulla base del fatto che, dato che Hamas ha tradito la Siria, non merita aiuto.
Ecco perché la Russia attribuisce una tale importanza alla riconciliazione palestinese, che bloccherebbe un rinnovato avvicinamento tra Hamas e l’Iran e in tal modo soddisferebbe i desideri di Arabia saudita, EAU ed Egitto. Se la Russia potrà realizzare una simile riconciliazione, raggiungerà una doppia vittoria.
In primo luogo sarà vista come l’unico Paese in grado di risolvere conflitti nella regione, dato soprattutto il suo recente “successo” in Siria. In secondo luogo, avrà portato un importante contributo esplicito per bloccare l’influenza iraniana – e benché la Russia e l’Iran abbiano un interesse comune nel preservare il regime di Assad, la Russia non è entusiasta dell’influenza iraniana nella regione.
La successiva domanda è come Israele dovrebbe rispondere ai tentativi della Russia. Israele si è tradizionalmente opposto alla riconciliazione tra Hamas e Fatah, principalmente perché la divisione gli permette di sostenere che Abbas non rappresenta tutti i palestinesi, e quindi non può essere un partner per la pace (oltre alle sue altre solite scuse, come accusarlo di incitare ed appoggiare il terrorismo). La separazione tra Gaza e la Cisgiordania consente inoltre ad Israele di condurre una politica di oppressione in entrambi i territori.
Ma se la Russia decide che una riconciliazione palestinese è fondamentale per i suoi interessi regionali, Israele avrà dei problemi nel mantenere questa opposizione, soprattutto dal momento che ha bisogno delle garanzie russe contro il consolidamento dell’Iran in Siria. E’ per questo che Israele ha mantenuto il silenzio stampa sulle iniziative della Russia – un silenzio accompagnato dagli auspici che ancora una volta i palestinesi guastino tutto da soli ed evitino ad Israele la necessità di prendere una decisione.
(traduzione di Amedeo Rossi)



Il blocco del Qatar potrebbe avere a che fare con la Palestina più di quanto pensiamo

Nasim Ahmed 16 giugno 2017 Middle East Monitor

I funzionari israeliani devono essersi pestati i piedi a vicenda nella loro corsa per appoggiare il blocco contro il Qatar guidata dai sauditi. “I Paesi arabi sunniti, tranne il Qatar, si trovano sulla nostra stessa barca, in quanto tutti vediamo un Iran con potenza nucleare come la principale minaccia contro tutti noi,” ha detto l’ex-ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon.

Il blocco ha rappresentato una “nuova linea tracciata nella sabbia mediorientale,” ha twittato l’ex-ambasciatore israeliano nato negli USA Michael Oren, godendosi lo scompiglio regionale. “Non (è) più Israele contro gli arabi, ma Israele e gli arabi contro il terrorismo finanziato dal Qatar,” ha aggiunto.

Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha descritto la crisi come un opportunità per Israele e “alcuni” Stati del Golfo. “E’ chiaro a chiunque, persino ai Paesi arabi, che il vero pericolo per l’intera regione è il terrorismo,” ha insistito. L’estremista di destra ha aggiunto che il blocco guidato dai sauditi ha tagliato i rapporti con il Qatar “non a causa di Israele, non a causa degli ebrei, non a causa del sionismo,” ma “piuttosto per paura del terrorismo.”

La gioia per la punizione di un Paese che i funzionari israeliani descrivono come una “spina nel fianco” solleva ogni sorta di domande, non ultima il rapporto tra l’assedio imposto al Qatar e la legge presentata dal parlamentare repubblicano Brian Mast per imporre sanzioni riguardo all’appoggio straniero al “terrorismo palestinese”, ed altre proposte.

Presentando la legge bipartisan (H.R. 2712 Palestinian International Terrorism Support Prevention Act of 2017 [Legge per la Prevenzione dell’Appoggio al Terrorismo Internazionale Palestinese]) il deputato Joshua Gottheimer ha affermato: “Sono orgoglioso di guidare questo tentativo di indebolire Hamas, una rete terroristica efferata responsabile della morte di troppi civili innocenti, sia israeliani che americani.” Secondo lui “la nostra legge bipartisan garantisce che chiunque fornisca assistenza a questo nemico degli Stati Uniti e a Israele, il nostro alleato vitale, dovrà fare i conti con la forza e determinazione del nostro Paese.”

Nelle loro conclusioni i sostenitori [della legge] hanno sostenuto che Hamas ha ricevuto un appoggio significativo sia finanziario che militare dal Qatar. Essi hanno citato la conferenza stampa allo Sheraton di Doha in Qatar, in cui Hamas ha presentato il proprio nuovo “Documento dei Principi Generali e delle Politiche”, definito la nuova carta del movimento. “Mentre questo documento intendeva trasmettere al mondo un’immagine più moderata riferendosi ai confini del 1967,” la legge sostiene che il “documento di Hamas, (che) non abroga né sostituisce la carta fondamentale…invoca ancora una prosecuzione del terrorismo per distruggere Israele.”

La legge, che propone di autorizzare sanzioni contro qualunque entità o governo stranieri che forniscano appoggio ad Hamas, continua affermando che “dovrebbe essere la politica degli Stati Uniti impedire ad Hamas, alla Jihad Islamica Palestinese (JIP) o a qualunque loro affiliato o successore di avere accesso alle sue reti di appoggio internazionale.”

Prendendo nota delle implicazioni della legge, vale la pena ricordare che la maggior parte dei propositi di questa nuova norma è in realtà superflua, tranne la parte sul Qatar. Come ha evidenziato il “Centro Arabo” di Washington – un’organizzazione di ricerca per la promozione della comprensione politica, economica e sociale tra gli arabi e gli USA -, la legge proposta introduce sanzioni già previste dall’attuale legislazione. Hamas e la JIP sono entrambe definite come “Organizzazioni Terroristiche Straniere” (FTOs in inglese) ed “Entità Terroristiche Globali Conclamate” (SDGTs in inglese) rispettivamente dallo Stato USA e dal Dipartimento del Tesoro. In questo contesto è già illegale per enti o istituzioni degli USA appoggiare questi gruppi. Perciò le sanzioni proposte in questa legge che riguardano la giurisdizione USA sono superflue.

Inoltre, sottolinea il “Centro Arabo”, anche prendere di mira in modo formale l’Iran è inutile perché Teheran è già stato dichiarato dal Dipartimento di Stato uno Stato che sostiene il terrorismo e c’è già il divieto di esportare armi, servizi finanziari e tecnologici ed aiuti in Iran. Resta solo il Qatar, che in base a questa legge dovrebbe essere l’unico nuovo bersaglio. Il modo furtivo dell’attacco al Qatar non nasconde le vere intenzioni dei sostenitori della legge. “Sono orgoglioso” ha detto Gottheimer, “di appoggiare la “Legge per prevenire l’appoggio al terrorismo internazionale palestinese che farà pagare un prezzo a Paesi come il Qatar per il loro appoggio al terrorismo. Nella lotta contro il terrorismo non ci sono vie di mezzo. Se tu appoggi il terrorismo, prima o poi giustizia verrà fatta.”

Quindi, cosa c’entra questo con Israele? Mentre Israele non è stato in grado di unirsi direttamente alla mossa guidata dai sauditi per imporre il blocco al Qatar, ciò non gli ha impedito di partecipare a un notevole lavoro di pressione dietro le quinte con gli UAE [Emirati Arabi Uniti, ndt.] per ottenere quello che in realtà è una parte della legislazione presentata contro il Qatar e portare avanti il lavoro preparatorio necessario per un blocco di queste dimensioni.

Si afferma che i sostenitori della legge alla Camera includono un certo numero di legislatori che hanno ricevuto sostanziose donazioni dai lobbysti filo-israeliani così come da quelli che sostengono l’Arabia Saudita. In effetti si riferisce che dieci parlamentari USA che appoggiano la legge contro il Qatar hanno ricevuto più di 1 milione di dollari negli ultimi 18 mesi da lobbysti e gruppi di pressione legati ad Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Lo scrittore e commentatore Trita Parsi ritiene che le similitudini tra la “lista dei terroristi” delle Nazioni arabe alleate degli USA e la legge H.R. 2712 dimostra una crescente collaborazione tra gli Stati arabi del Golfo e Israele. “La cooperazione tra gruppi filo-israeliani che sostengono la linea dura, gli EAU e l’Arabia Saudita sta andando avanti da un po’ di tempo,” ha detto Parsi ad Al-Jazeera. La novità, ha proseguito, è vedere i gruppi filo-israeliani come la “Fondazione per la Difesa delle Democrazie” “uscirsene con (articoli) filo-sauditi e fare pressione per loro (i sauditi) al Congresso.”

All’inizio di questo mese è stata riferita anche da “The Intercept” [sito web statunitense di controinformazione legato a Wikileaks, ndt.] la promozione di una narrazione politica per appoggiare l’assedio. Si afferma che mail inviate da un gruppo chiamato “Global Leaks” hanno evidenziato che l’ambasciatore degli EAU negli USA, Yousef Al-Otaiba, e la fondazione – un gruppo di esperti filo-israeliani e neoconservatori – hanno lavorato insieme per demonizzare il Qatar. Le mail ottenute da “The Intercept” mostrano la collaborazione tra la FDD e gli EAU con giornalisti che hanno pubblicato articoli che accusavano il Qatar e il Kuwait di appoggiare il “terrorismo”.

Non è quindi sorprendente che la principale ragione di questo blocco abbia poco senso. Per l’Arabia Saudita e per gli EAU accusare il Qatar di appoggiare il terrorismo è come il bue che dà del cornuto all’asino. Se ci fosse una qualche sostanza alle accuse, allora gli USA non avrebbero appoggiato un recente accordo per gli armamenti con il Qatar e Washington non avrebbe mantenuto lì un’importante base militare. Le ragioni addotte per il blocco non hanno alcun valore. Oltretutto il blocco del Qatar non può essere preso in considerazione separatamente dai tentativi in corso negli USA per eliminare la resistenza palestinese in nome della lotta contro il terrorismo. Né il Qatar né alcun Paese del Golfo trae alcun beneficio da questa situazione di stallo; per il maggior beneficiario bisogna guardare ad Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quello che Israele teme di Hamas e della crisi con il Qatar

Yuval Abraham

Middle East Eye – giovedì 15 giugno 2017

Israele non ha mai approvato l’appoggio del Qatar ad Hamas.

Ma ora le Nazioni del Golfo stanno chiedendo che Doha smetta di appoggiare il gruppo palestinese – e Israele teme quello che potrebbe succedere.

Hamas, che controlla Gaza dal 2007, è visto come una filiazione della Fratellanza Musulmana, da molto tempo un alleato del Qatar.

L’emirato ha trasferito centinaia di milioni di dollari a Gaza, assistendo al contempo Hamas dal punto di vista diplomatico e offrendo ospitalità ai suoi dirigenti e militanti in esilio. In maggio il gruppo ha presentato la revisione della sua carta fondamentale a Doha.

Dopo l’ultima guerra a Gaza, nel 2014, il Qatar ha destinato un miliardo di dollari a favore della ricostruzione, di progetti umanitari, per i costi dell’elettricità e per i salari dei dipendenti pubblici.

Alcuni analisti politici affermano che Israele ha consentito il trasferimento di fondi a Gaza – sotto assedio israeliano dal 2007 – per i suoi effetti stabilizzanti, che impediscono o forse rimandano un collasso totale nella Striscia devastata dalla guerra.

Una risposta israeliana contrastante

Le sanzioni contro il Qatar del 4 giugno sono state salutate come una vittoria da gran parte dell’opinione pubblica e dai media israeliani. Ma la risposta del governo è stata stranamente in sordina.

Eli Avidar, ex-capo della delegazione israeliana in Qatar, ha detto a MEE che Israele dovrebbe sostenere decisamente l’Arabia Saudita ed altri contro il Qatar: “E’ un’opportunità per farla finita con questa storia. Israele dovrebbe esercitare pressioni su Washington, spingere il Qatar a smettere di finanziare il terrorismo, ma non lo sta facendo.”

Continuo a chiedermi: ‘Perché Israele non è più attivo ed esplicito nell’attivarsi contro il Qatar?’”

Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, è stato l’unico uomo di governo ad aver commentato la crisi. Il 5 giugno, un giorno dopo che il Qatar è stato isolato, ha affermato che l’iniziativa “apre molte possibilità di collaborazione nella lotta contro il terrorismo.”

Un portavoce del ministero degli Esteri ha detto a MEE che ha avuto indicazioni ufficiali di non commentare la situazione e le sue ripercussioni per Israele e la Palestina.

Cosa c’è dietro questa risposta passiva? Molti studiosi, analisti e fonti dell’intelligence indicano che Israele potrebbe avere più da perdere che da guadagnare dalla crisi.

Yoel Guzansky e Kobi Michael, dell’Istituto Israeliano per le Ricerche sulla Sicurezza all’università di Tel Aviv, hanno affermato che la crisi è “la più grave dalla fondazione, nel 1981, del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo.”

Sostengono che Israele ha un duplice approccio nei confronti del Qatar: “Da una parte, c’è ostilità per il suo appoggio ad Hamas e per l’ospitalità che offre ai suoi dirigenti…Dall’altra, Israele attribuisce grande importanza al sostegno qatariota alla ricostruzione della Striscia e al denaro che fornisce per gli stipendi ed i servizi pubblici al suo interno.

L’interesse israeliano è di appoggiare una mediazione americana che ponga fine alla questione indebolendo il ruolo dell’Iran e di Hamas, ma senza danneggiarne seriamente le azioni positive verso la Striscia di Gaza e di mediazione con Hamas.”

Il loro documento identifica tre possibili esiti che Israele vuole evitare: un rapporto più forte tra l’Iran e Hamas, una crisi umanitaria a Gaza e la presa del potere dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza.

  1. Timore dell’Iran

Molti osservatori temono che il vuoto creato dall’assenza del Qatar possa obbligare Hamas a cercare un fonte alternativa di sostegno finanziario e si rivolga all’Iran.

Il rapporto di Yoel Guzansky e Kobi Michael sostiene che “Israele comprende che ci sono più vantaggi che svantaggi nella cooperazione con il Qatar, in quanto il Qatar indebolisce l’influenza dell’Iran su Hamas e sulla Striscia di Gaza.”

Shaul Yanai, un ricercatore israeliano sulle questioni mediorientali all’università di Haifa, ha detto a MEE: “Non c’è un segnale di pericolo più grave per l’Egitto, i sauditi, il Kuwait, l’America di Trump e Israele che un’organizzazione palestinese alleata dell’Iran.”

All’inizio di quest’anno Khaled al-Qaddumi, rappresentante di Hamas in Iran, ha detto ad Al-Monitor che l’Iran sta fornendo un continuo aiuto finanziario al movimento, nonostante la polarizzazione su scala regionale tra sciiti e sunniti, e che ci sono incontri regolari.

L’inizio del 2017 ha inaugurato una nuova era nelle relazioni tra Hamas e l’Iran, che può essere descritta come positiva e rivolta al futuro,” ha affermato.

Nel contempo Ahmed Yousef, ex importante consigliere del leader di Hamas Ismail Haniyah, ha detto a Ma’an che la crisi qatariota – così come l’alleanza tra Israele, l’America e gli Stati sunniti – “incoraggerà i movimenti islamici, come la Fratellanza Musulmana, a fare nuove alleanze con Paesi potenti della regione, come l’Iran, per proteggersi.”

Oltre a ciò, Guzansky e Michael affermano che il desiderio del campo sunnita di vedere l’Autorità Nazionale Palestinese sostituire Hamas nella Striscia non è condiviso da Israele, che, secondo chi lo critica, ha lavorato per mantenere la separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

  1. Timori di un’altra Guerra

Nel 2014 Israele ha scatenato l’operazione “Margine protettivo” contro Gaza, un attacco di 50 giorni che intendeva indebolire Hamas. Ha causato la morte di più di 2.139 palestinesi, circa un quarto dei quali bambini, di 64 soldati e di 6 civili israeliani.

Un ufficiale israeliano di alto grado, che ha lavorato con il Mossad [il servizio segreto israeliano che opera all’estero, ndtr.] per molti anni e che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto a MEE che, mentre il governo israeliano vuole che il Qatar smetta di finanziare Hamas, “non vuole una crisi umanitaria a Gaza, anche se vi ci stiamo avvicinando.”

Questa situazione potrebbe portarci allo stesso punto del 2014, quando Hamas è stato spinto in un angolo e l’unico posto a cui potessero sparare era Israele. Suppongo che Israele tema questo scenario, non vuole la destabilizzazione a Gaza.”

Yanai avverte anche che un Hamas disperato che perde il sostegno finanziario, insieme a discorsi su elezioni all’interno della tesa coalizione di governo israeliano, provocherebbe una miscela esplosiva. “Potrebbe rappresentare il terreno fertile per una guerra. Politici disperati tendono a fare la guerra.”

Una seconda fonte dell’intelligence israeliana – la cui ruolo è riservato – ha detto a MEE che Israele, come fa ogni estate, si sta preparando per una guerra a Gaza– ma che non si aspetta che ci sia quest’anno.

Da parte sua Hamas è ancora indebolito dall’ultimo scontro nel 2014. E Israele?

E’ contro i nostri interessi,” afferma la fonte dell’intelligence. “Israele desidera mantenere lo status quo nella Striscia:”

Dal 2004 Israele ha condotto sette offensive contro Gaza in risposta a razzi lanciati dalla Striscia. I critici affermano che questo status quo di guerra è alimentato da una mancanza di soluzioni diplomatiche del problema dei rifugiati palestinesi e dall’occupazione militare israeliana.

  1. Timore dell’Autorità Nazionale Palestinese

Domenica il governo israeliano ha accettato di ridurre la fornitura di elettricità a Gaza su richiesta del presidente dell’ANP Abbas.

L’iniziativa è vista come un tentativo da parte dell’ANP, che controlla la più vasta Cisgiordania, di indebolire il suo rivale politico. Secondo la Reuters, Tareq Rashmawi, il portavoce dell’ANP, ha chiesto che Hamas trasferisca all’ANP ogni responsabilità delle istituzioni di governo a Gaza.”

Ma lunedì Israel Katz, ministro israeliano e membro del governo per il Likud, all’annuale Convenzione Israeliana per la Pace ha criticato questa riduzione [di energia elettrica, ndt.], affermando che “Israele non ha una politica nei confronti di Gaza.”

E il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele “non vuole assistere a un’escalation” a Gaza, descrivendola come “una disputa interna palestinese.”

L’ufficiale che ha lavorato con il Mossad ha ribadito questa opinione: “Mi risulta difficile spiegare la politica israeliana verso Gaza,“ ha detto, “non ha una logica.”

La riduzione della fornitura di elettricità potrebbe essere una sorta di pressione tattica su Hamas, in modo che accetti di restituire i corpi dei soldati israeliani e i tre israeliani che tengono prigionieri.”

Ma Hamas ha raggiunto il punto critico.

Lunedì ha detto su Twitter che la decisione “accelererebbe l’aggravamento e l’esplosione della situazione nella Striscia.”

Una fonte dell’intelligence israeliana ha detto a MEE che un altro scontro a Gaza è solo questione di tempo. “Se non quest’anno, sarà il prossimo, e sennò, quello dopo ancora di sicuro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)