Nel ’48 soldati e civili ebrei saccheggiarono in massa le proprietà dei loro vicini arabi. Le autorità fecero finta di niente

Ofer Aderet

3 ottobre 2020 – Haaretz

Frigoriferi e caviale, champagne e tappeti, il primo studio complessivo in assoluto dello storico Adam Raz rivela in quale misura gli ebrei saccheggiarono le proprietà arabe durante la Guerra d’Indipendenza e spiega perché Ben Gurion affermò: “La maggior parte degli ebrei è composta da ladri”

Trasformammo un armadio di mogano in un pollaio e portammo via la spazzatura con un vassoio d’argento. C’era una porcellana con decorazioni dorate e noi decidemmo di stendere un telo sul tavolo, disponemmo sopra la ceramica e l’oro e, quando il cibo fu terminato, tutto venne portato nello scantinato. In un altro luogo trovammo una dispensa con 10.000 scatole di caviale, questo risulta dal loro conteggio. Dopo di che i ragazzi non poterono più mangiare di nuovo caviale per il resto della vita. Da un lato c’era una sensazione di vergogna per questo comportamento, e dall’altro di sregolatezza. Passammo lì 12 giorni, quando Gerusalemme pativa di una terribile scarsità di mezzi, e noi stavamo ingrassando. Mangiavamo pollo e prelibatezze incredibili. Nel (quartier generale di) Notre Dame [ospizio francese per i pellegrini cattolici, ndtr.], qualcuno si faceva la barba con lo champagne.”

– Dov Doron, testimonianza sui saccheggi a Gerusalemme.

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Il 24 luglio 1948, due mesi dopo la Fondazione dello Stato di Israele, David Ben-Gurion, capo del governo provvisorio, espresse una pesantissima critica riguardo al suo popolo: “Risulta che la maggior parte degli ebrei è composta da ladri…Lo dico in modo deliberato e chiaro, perché purtroppo è la verità.” I suoi commenti compaiono nero su bianco negli appunti di un incontro del Comitato Centrale del Mapai [principale partito sionista, ndtr.], il predecessore del partito Laburista, conservati nell’archivio del partito Laburista.

Gente della valle di Jezreel ruba! I pionieri dei pionieri, genitori dei figli del Palmach (forse speciali pre-statali)! E tutti quanti vi hanno partecipato, baruch Hashem [Sia benedetto il nome di dio], la gente del (moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.]) Nahalal!… Questo è un brutto colpo. È terrificante, perché dimostra una carenza di base. Furto e rapina, e da dove ci viene questo? Perché la gente di questa terra, costruttori, creatori, pionieri, arriva a gesti di questo tipo? Cos’è successo?”

Il documento è stato riportato alla luce dallo storico Adam Raz nel corso della sua ricerca per il suo nuovo libro che, come suggerisce il titolo, affronta una questione molto pesante, delicata e pericolosa: “Saccheggio di proprietà arabe durante la Guerra d’Indipendenza” (Carmel Publishing House, in collaborazione con l’Akevot Institute for Israeli-Palestinian Conflict Research [Centro Israeliano per la Ricerca Archivistica, ndtr.], in ebraico). Il compito che ha intrapreso è arduo: raccogliere per la prima volta in un unico testo ogni informazione disponibile sui saccheggi di proprietà arabe da parte degli ebrei durante la guerra di indipendenza israeliana del 1947-48, da Tiberiade nel nord a Be’er Sheva nel sud; da Giaffa a Gerusalemme attraversando i villaggi, le moschee e le chiese sparse tra di esse. Raz ha analizzato attentamente oltre trenta archivi in tutto il Paese, ha sfogliato i giornali dell’epoca ed ha esaminato tutta la letteratura esistente sull’argomento. Il risultato è sconvolgente.

Molti israeliani, sia civili che militari, vennero coinvolti nel saccheggio delle proprietà della popolazione araba,” dice Raz ad Haaretz. “La spoliazione si diffuse come un incendio tra l’opinione pubblica.” Ciò comprese quanto contenevano migliaia di case, negozi e fabbriche, equipaggiamento meccanico, prodotti agricoli, bestiame e molto altro, continua. Vennero inclusi anche pianoforti, libri, vestiti, gioielli, mobili, elettrodomestici, macchinari e auto. Raz ha lasciato ad altri le ricerche sul destino di terre ed edifici abbandonati dai 700.000 mila arabi che scapparono o vennero espulsi durante la guerra. Si concentra solo su beni mobili, cose che potevano essere infilate in borse o caricate su veicoli.

Ben-Gurion non fu l’unico personaggio importante che Raz cita. Anche Yitzhak Ben-Zvi, decenni prima compagno di studi giuridici di Ben-Gurion e in seguito secondo presidente di Israele, citò il fenomeno. Secondo il suo resoconto, quelli che si impegnarono nei saccheggi erano “ebrei per bene che vedono il furto come naturale e consentito.” In una lettera datata 2 giugno 1948 a Ben-Gurion citata da Raz, Ben-Zvi scrisse che quello che stava avvenendo a Gerusalemme danneggiava “mortalmente” l’onore del popolo ebraico e delle forze combattenti.

Non posso restare in silenzio riguardo ai furti, sia organizzati da gruppi non organizzati, che da parte di singoli individui,” scrisse. “Il furto è diventato un fenomeno generalizzato… Chiunque sarà d’accordo sul fatto che i nostri ladri si sono lanciati sui quartieri abbandonati come cavallette su un campo o un orto.”

L’accurato lavoro d’archivio di Raz ha scoperto un numero infinito di citazioni, che rendono penosa la lettura, di personaggi più o meno importanti tra la popolazione e le istituzioni israeliane, dai leader fino ai soldati semplici.

In un documento d’archivio del Custode delle Proprietà degli Assenti (cioè di proprietà di palestinesi che lasciarono le loro case o il Paese dopo l’approvazione della risoluzione ONU del 29 novembre 1947 per la partizione e che vennero espropriati dal governo israeliano), Raz ha individuato un rapporto del 1949 di Dov Shafrir, il custode ufficiale, che afferma: “La fuga di massa nel panico degli abitanti arabi, che hanno lasciato dietro di sé immense proprietà in centinaia e migliaia (di) appartamenti, negozi, magazzini e laboratori, l’abbandono di raccolti nei campi e di frutti in giardini, orti e vigne, tutto ciò nel tumulto della guerra…ha messo di fronte l’Yishuv (la comunità ebraica in Palestina prima del 1948) a una grave tentazione materiale… in moltissimi sono scattati desiderio di vendetta, giustificazioni morali e lusinghe materiali …Gli avvenimenti sul terreno si sono scatenati senza controllo.”

La testimonianza di Haim Kremer, che fu arruolato nella Brigata Negev del Palmach e venne mandato a Tiberiade per impedire i saccheggi, è stata trovata nell’archivio Yad Tabenkin [del movimento dei kibbutz, ndtr.] , a Ramat Gan. “Come cavallette, gli abitanti di Tiberiade sono entrati nelle case… Abbiamo dovuto ricorrere a pugni e randelli per respingerli e obbligarli a lasciare le cose sul posto,” affermò Kremer.

Il diario di Yosef Nachmani, un abitante di Tiberiade che era stato un fondatore dell’organizzazione di difesa ebraica Hashomer, venne depositato nel suo archivio e contiene la seguente introduzione sugli avvenimenti nella sua città nel 1948: “La folla di ebrei si è scatenata ed ha iniziato a saccheggiare i negozi…A decine, in gruppi, gli ebrei hanno proceduto a rubare nelle case e nei negozi degli arabi.”

Anche molti soldati “non si sono trattenuti e si sono uniti ai festeggiamenti,” scrisse nelle sue memorie Nahum Av, il comandante dell’Haganah [principale milizia sionista, ndtr.] nella città vecchia di Tiberiade. Soldati ebrei, che avevano appena combattuto contro gli arabi vennero posti all’ingresso della città vecchia, scrisse, per impedire che gli abitanti ebrei facessero irruzione nelle case degli arabi. Erano armati “per affrontare gli ebrei che cercavano di entrare a forza nella città con l’intento di rubare e saccheggiare.” Durante tutto il giorno “la folla si è affollata attorno alle barriere e cercava di entrare. I soldati sono stati obbligati a resistere con la forza.”

A questo proposito Kremer notò che “c’era concorrenza tra diverse unità dell’Haganah… che sono arrivate in auto e in barca ed hanno preso ogni sorta di oggetti… frigoriferi, letti e via di seguito.” Egli aggiunse: “Naturalmente a Tiberiade la folla di ebrei è entrata per fare altrettanto. Ha lasciato su di me un’impressione molto sgradevole, l’abbruttimento di tutto ciò. Insudicia la nostra bandiera… La nostra lotta è minata a livello etico… è ignobile… che declino morale.”

Si vide gente “vagare tra i negozi saccheggiati e prendere qualunque cosa fosse rimasta dopo il vergognoso furto,” aggiunse Nahum Av nel suo resoconto. “Ho pattugliato le strade ed ho visto una città che fino a non molto tempo fa era stata più o meno normale. Invece ora è una città fantasma, depredata, i suoi negozi svaligiati e le case svuotate dei loro abitanti… Lo spettacolo più vergognoso è stato quello della gente che rovistava tra i mucchi rimasti dopo il grande saccheggio. Si vedono le stesse scene umilianti ovunque. Ho pensato: come può essere? Non si sarebbe mai dovuto permettere che ciò accadesse.”

Netiva Ben-Yehuda, leggendaria combattente del Palmach che partecipò alla battaglia di Tiberiade, fu inflessibile nella sua descrizione degli avvenimenti. “Queste immagini ci erano già note. È il modo in cui le cose sono sempre state fatte a noi, durante l’Olocausto, durante la guerra mondiale e in tutti i pogrom. Oh, come conosciamo bene queste immagini. E qui, qui, abbiamo fatto queste cose orribili ad altri,” scrisse. “Abbiamo caricato ogni cosa sul camioncino, con un terribile tremore delle mani. E non a causa del peso. Le mie mani stanno ancora tremando, solo perché ne sto scrivendo.”

Tiberiade, conquistata dalle forze ebraiche nell’aprile 1948, fu la prima città mista arabo-ebraica ad essere presa nel corso della Guerra d’Indipendenza. Fu “un archetipo in miniatura di quanto sarebbe avvenuto nei mesi seguenti nelle città arabe e miste del Paese,” afferma Raz. Nel corso della sua ricerca ha scoperto che non esiste nessun dato ufficiale sui saccheggi, sulle loro dimensioni quantitative ed economiche. Ma chiaramente queste azioni avvennero in modo esteso in ognuna di queste città.

In effetti Raz ha trovato resoconti simili a quelli riguardanti Tiberiade nella documentazione della battaglia di Haifa, che ebbe luogo qualche giorno dopo, il 21 e il 22 aprile. “Mentre con una mano lottavano e conquistavano, con l’altra i combattenti trovavano il tempo di saccheggiare, tra le altre cose, macchine da cucire, giradischi e vestiti,” secondo Zeev Yitzhaki, che combatté nel quartiere di Halisa, in città.

La gente ha arraffato tutto quello che ha potuto… Quelli più intraprendenti hanno aperto i negozi abbandonati ed hanno caricato le mercanzie in ogni veicolo. Regnava l’anarchia,” aggiunse Zadok Eshel, della brigata Carmeli. “Insieme alla gioia per la liberazione della città e il sollievo dopo mesi di incidenti sanguinosi, è stato scioccante vedere la smania dei civili nell’approfittare del vuoto di potere e fare irruzione nelle case delle persone che un fato crudele ha trasformato in rifugiati.”

Yosef Nachmani, che visitò Haifa dopo che era stata conquistata dalle forze ebraiche, scrisse: “Anziani e donne, indipendentemente dall’età e dallo status religioso, sono tutti impegnati a saccheggiare. E nessuno li ferma. Ciò si ritorcerà su di noi e sull’educazione dei giovani e dei bambini. La gente ha perso ogni vergogna, azioni come queste minano le fondamenta morali della società.”

Saccheggi e furti furono così diffusi che il procuratore generale che accompagnò le forze combattenti ad Haifa, Moshe Ben-Peretz, nel giugno del 1948 affermò: “Non è stato lasciato niente da prendere agli arabi. Semplicemente un pogrom… E tutti i comandanti hanno una scusa: ‘Sono arrivato qui solo due settimane fa’, ecc. Non c’è nessuno da arrestare.”

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C’erano tante case in rovina e mobili sfasciati abbandonati tra i mucchi di macerie. Le porte delle case da entrambi i lati della strada erano scassinate. Molti oggetti presi dalle case erano sparpagliati sui marciapiedi… Nell’ingresso della casa c’era una culla rovesciata e vicino una bambola nuda, un po’ rotta, con la faccia a terra. Dov’è il bambino? In quale esilio è finito? Quale esilio?”

Moshe Carmel, comandante della brigata Carmeli, sul saccheggio di Haifa.

Membri della Camera di Commercio e dell’Industria dell’Yishuv avevano messo in guardia sulla possibilità di saccheggi: “In futuro dovremo rispondere alla storia, che si occuperà dell’argomento,” scrissero all’Emergency Committee, l’istituzione [sionista] di governo pre-statale. In un documento intitolato “Epidemia di saccheggi e furti”, il personale dei servizi giudiziari dell’esercito, parte del sistema della giustizia militare, notò: “Questa piaga si è diffusa in tutte le unità e in tutti i ranghi degli ufficiali… I furti e i saccheggi hanno assunto dimensioni impressionanti e i nostri soldati sono impegnati in questa attività, con dimensioni che danneggiano la loro preparazione alla battaglia e il loro senso del dovere.”

Anche membri del partito Comunista si espressero sull’argomento. In un memorandum all’Amministrazione del Popolo (il governo provvisorio) e al quartier generale dell’Haganah, il partito riferì di “una campagna di saccheggi, rapine e furti di proprietà degli arabi di dimensioni impressionanti.” In effetti “la grande maggioranza delle case degli abitanti arabi è stata svuotata di ogni cosa di valore, le merci e i beni sono stati rubati dai negozi e le macchine portate via da laboratori e fabbriche.”

Dopo la conquista di Haifa Ben-Gurion scrisse nel suo diario riguardo a “ruberie totali e complete” nel quartiere di Wadi Nisnas perpetrate dall’Irgun, la milizia pre-statale guidata da Menachem Begin e da forze dell’Haganah: “Ci sono stati casi in cui gente dell’Haganah, compresi i comandanti, sono stati trovati con oggetti rubati,” scrisse. Pochi giorni dopo, in un incontro dell’esecutivo dell’Agenzia Ebraica, Golda Meir notò che “nel primo giorno o due (dopo la conquista della città) la situazione nella zona conquistata è stata cupa. In particolare nel settore occupato dall’Irgun nelle case non è rimasto neppure un ago.”

Informazioni sui saccheggi comparvero anche sulla stampa. Alla fine del 1948 Aryeh Nesher, il corrispondente di Haaretz da Haifa, scrisse: “Risulta che il popolo ebraico ha imparato anche questa professione (il furto), e molto approfonditamente, come è abitudine degli ebrei. ‘Il lavoro ebraico’ ora esiste anche in questo mestiere. In effetti il flagello dei furti ha colpito Haifa. Ogni settore dell’Yishuv vi ha preso parte, indipendentemente dalla comunità etnica e dal Paese d’origine. Nuovi immigrati ed ex-ospiti della prigione di San Giovanni d’Acri, abitanti da lungo tempo originari dell’Est e dell’Ovest, indistintamente… E dov’è la polizia?” Un inviato di Maariv, che nel luglio 1948 partecipò a una visita a Gerusalemme scrisse: “Portate giudici e polizia nella Gerusalemme ebraica, perché siamo diventati come tutte le altre Nazioni.”

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Lungo la strada non c’è una casa, un negozio, un’officina da cui non sia stato portato via tutto… Cose di valore o che non valgono niente, letteralmente tutto! Rimani con un’impressione scioccante di questa immagine di rovine e mucchi di detriti, tra cui si aggirano uomini che frugano tra gli stracci per prendersi qualcosa in cambio di nulla. Perché non prendere? Perché avere pietà?”

Ruth Lubitz, testimone del saccheggio di Giaffa

Raz, 37 anni, fa parte dell’Akevot Institute (che si dedica a questioni sui diritti umani relative al conflitto) e cura il giornale Telem per la Fondazione Berl Katznelson [legata al partito laburista, ndtr.]. (Egli collabora anche spesso ad Haaretz con articoli di storia). Benché non abbia conseguito un dottorato, il suo curriculum include un certo numero di studi che potrebbero benissimo essere serviti come base per una tesi di dottorato – sul massacro di Kafr Qasem [nel 1956 le truppe israeliane uccisero 48 palestinesi con cittadinanza israeliana, tra cui 6 donne e 23 minorenni dagli 8 ai 17 anni, ndtr.], sul progetto nucleare israeliano e su Theodor Herzl. Sul saccheggio di proprietà di arabi da parte degli ebrei si è già scritto, ma pare che Raz sia il primo ad aver dedicato un’intera monografia all’argomento.

A differenza di altri ricercatori che hanno scritto della guerra, vedo il saccheggio come un avvenimento di un’importanza molto maggiore di quanto è stato detto in precedenza in merito,” nota lo storico. “Nel libro mostro quanto fosse sconvolta la maggioranza dei decisori politici riguardo al saccheggio ed al pericolo che ciò poneva alla società ebraica, e il livello in cui ciò era una questione controversa tra loro.”

Egli sostiene anche che ci sia stata una “congiura del silenzio” sul fenomeno. Dice che in seguito a ciò persino ora, nel 2020, i colleghi che hanno letto il libro prima della sua pubblicazione sono rimasti “sorpresi dalle sue dimensioni”.

Egli descrive la spoliazione delle proprietà arabe da parte degli ebrei come un fenomeno “particolare”, perché i saccheggiatori erano civili (ebrei) che rubavano ai loro vicini civili (arabi). “Non erano ‘nemici’ astratti che arrivavano dal mare, ma i vicini di ieri,” afferma.

Su quale base affermi che questo fu un avvenimento particolare? La storia mostra che nella Seconda Guerra Mondiale anche la popolazione polacca saccheggiò le proprietà dei vicini ebrei, che avevano vissuto vicino a loro pacificamente per secoli. Che sia questa una reazione non limitata al nostro caso? Non è forse la natura umana?

Raz: “Il saccheggio in tempi di guerra è un antico fenomeno storico che è documentato in testi di migliaia di anni fa. Il mio libro non affronta il fenomeno in generale, ma nel caso israeliano-arabo-palestinese. È stato importante per me sottolineare che il saccheggio di proprietà arabe fu diverso dal ‘normale’ saccheggio di guerra. Non erano, per esempio soldati americani che depredavano i vietnamiti o tedeschi a migliaia di chilometri da casa. Furono civili che saccheggiarono i loro vicini della casa di fronte alla loro. Non intendo che conoscessero necessariamente Ahmed o Noor, le cui proprietà stavano rubando, ma che i vicini erano parte di un tessuto sociale civile condiviso.

Gli ebrei di Haifa e dei dintorni che saccheggiarono le proprietà di circa 70.000 arabi ad Haifa, per esempio, conoscevano gli arabi le cui case stavano depredando. Questo era sicuramente anche il caso delle città miste e dei villaggi che si trovavano nei pressi di kibbutz [comunità sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] e moshav. Il libro è pieno di esempi che attestano il fatto che i saccheggiatori sapevano che quello che stavano facendo era immorale. Oltretutto la gente sapeva che la maggioranza della comunità palestinese non aveva partecipato attivamente agli scontri. Nella maggioranza dei casi, di fatto, il saccheggio avvenne dopo la battaglia, nei giorni e nelle settimane seguenti la fuga e l’espulsione dei palestinesi.”

Comunque non è l’unico caso di questo genere.

Come storico non sono un sostenitore della storia comparata e non ritengo che dai saccheggi avvenuti nella storia si possa ricavare molto riguardo al caso israeliano.”

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Da Haifa il libro di Raz si sposta a Gerusalemme, dove i saccheggi andarono avanti per mesi, dice. Cita il diario di Moshe Salomon, un comandante di compagnia che combatté in città: “Fummo tutti travolti da questo, soldati semplici ed ufficiali. Ognuno venne preso da una brama di possesso. Frugarono in ogni casa e qualcuno trovò cibo, altri oggetti di lusso. La mania prese anche me e riuscii a fatica a trattenermi. A questo proposito non ci sono limiti a quello che la gente può fare…È lì che iniziano la morale e l’inclinazione dell’uomo, quindi si può capire il senso della teoria secondo cui in guerra i valori morali e l’umanità sfumano.”

Yair Goren, un abitante di Gerusalemme, raccontò che “la caccia al bottino fu intensa…Uomini, donne e bambini correvano di qua e di là come topi drogati. Molti litigavano su una cosa o l’altra in uno dei mucchi, o sul numero di oggetti, e ciò arrivò al punto di scontri sanguinosi.”

L’ufficiale operativo della brigata Harel, Eliahu Sela, descrisse come “un pianoforte e poltrone dorate e cremisi vennero caricati sui nostri camion. Fu orribile. Orribile. Dei combattenti videro una radio e dissero: ‘Ehi, ho bisogno di una radio.’ Poi videro un servizio di piatti. Buttarono via la radio e presero quelli… Soldati si avventarono su delle lenzuola. Continuarono ad ammucchiare (cose) nei loro cappotti.”

David Werner Senator, uno dei dirigenti di Brit Shalom, che invocava la coesistenza di arabi ed ebrei in un unico Stato e importante funzionario dell’Università Ebraica di Gerusalemme, descrisse quello che vide: “In questi giorni, quando passi per le vie di Rehavia (un quartiere elegante di Gerusalemme), vedi ovunque anziani, giovani e bambini che tornano da Katamon o da altri quartieri con borse piene di oggetti rubati. Il bottino è vario: frigoriferi e letti, orologi e libri, biancheria intima e vestiti… Che disgrazia e che rovina morale hanno portato su di noi i ladri ebrei! È ovvio, una terribile dissolutezza si diffonde tra giovani e anziani.”

Un ufficiale operativo della brigata Etzioni, Eliahu Arbel, descrisse soldati “avvolti in tappeti persiani” che avevano rubato. Una notte si imbatté in un veicolo blindato sospetto. “Scoprimmo che era pieno di frigoriferi, giradischi, tappeti e qualunque altra cosa.” L’autista gli disse: “Dammi il suo indirizzo, ti porterò tutto quello che vuoi a casa.” Arbel continua: “Non sapevo cosa fare. Arrestarlo? Ucciderlo? Gli ho detto: ‘Vattene al diavolo, via di qui!’ E se n’è andato.” Ricorda che in seguito “un abitante del quartiere disse a mia moglie che in un certo negozio un frigorifero elettrico costava poco. Sono andato al negozio e là ho incontrato l’uomo del veicolo blindato. Ha detto: ‘Per lei, 100 lire!’ ‘Non ti vergogni?!’ gli ho detto. Ha risposto: ‘Se tu sei un idiota, io dovrei vergognarmi?”

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Ho portato qualche bella cosa da Safed. Per Sara e per me ho trovato vestiti arabi finemente ricamati e qui possono essere adattati a noi. Coltelli e fazzoletti, braccialetti e collane, un tavolo placcato in oro e argento e un sevizio di splendide tazzine da caffè d’argento, e soprattutto ieri Sara ha portato un grande tappeto persiano nuovissimo e stupendo, di una bellezza mai vista. Una sala come questa può competere con quelle di tutti i ricchi di Tel Aviv.”

Un combattente del Palmach sul saccheggio di Safed

Nel libro di Raz ci sono riferimenti solo marginali al fenomeno opposto: casi in cui gli arabi saccheggiarono proprietà ebraiche.

In una nota a piè di pagina hai scritto che “anche gli arabi saccheggiarono e razziarono durante la guerra.” Ci si potrebbe anche chiedere perché non descrivi il saccheggio di proprietà ebraiche in Paesi arabi dopo che gli ebrei fuggirono o vennero espulsi da lì. Non sarebbe stato corretto parlare di questo?

Il libro è un documento storico, non un atto d’accusa. Lascia che ti racconti una storia. In seguito alla pubblicazione del mio libro sul massacro di Kafr Qassem sono stato invitato a tenere una lezione all’università di Ariel ([una colonia] in Cisgiordania). Alla fine tra il pubblico qualcuno, che evidentemente era infastidito da quello che ho detto, mi ha chiesto: “Perché non scrivi sul massacro perpetrato dagli arabi contro gli ebrei di Hebron nel 1929?” Bene, il titolo di questo libro è ‘Saccheggi di proprietà arabe da parte di ebrei nella Guerra d’Indipendenza.’ Non è ‘Saccheggi e furti nella storia del conflitto arabo-israeliano dalla prima Aliyah al piano Trump.’

Penso che i saccheggi di proprietà arabe durante la guerra siano un caso particolare e distintivo, almeno abbastanza particolare da scriverci un libro. Penso che questa spoliazione di proprietà abbia esercitato, e continui ad esercitare, una considerevole influenza sui rapporti tra i due popoli che condividono questa terra. Sulla base di un’ampia documentazione il libro mostra che una parte integrante della popolazione ebraica partecipò al saccheggio e al furto delle proprietà di più di 600.000 persone. Non assomiglia ai pogrom e ai furti commessi dagli arabi durante le rivolte palestinesi. Il saccheggio di proprietà ebraiche negli Stati arabi, di per sé un argomento affascinante, non è neppure collegato al mio libro, il cui primo capitolo intende descrivere il saccheggio come un fenomeno generalizzato nell’arco di molti mesi e il cui secondo capitolo spiega come queste azioni fossero intrecciate a un approccio politico.”

Scrivi che “non c’è paragone tra le dimensioni del saccheggio” da parte di arabi e quello degli ebrei e che in ogni caso la maggior parte dei saccheggiatori arabi “proveniva da Paesi vicini e non erano abitanti del posto.” Qual è la base di questa affermazione?

La questione è semplice. Gli abitanti arabi fuggirono o furono espulsi rapidamente. Non ebbero il tempo o la possibilità di occuparsi di armadi, frigoriferi, pianoforti e delle proprietà nelle migliaia di case e negozi che erano stati abbandonati. Fuggirono di corsa e la grande maggioranza di loro pensava che sarebbe tornata in breve tempo. Il Paese venne svuotato della sua popolazione araba in pochissimi giorni, e civili e soldati si affrettarono a saccheggiare i loro beni.

Anche le forze combattenti arabe, la grande maggioranza delle quali non era del posto, si dedicarono al saccheggio. Ma l’ordine di grandezza è completamente diverso. E, ovviamente, le conquiste dei combattenti arabi furono, fortunatamente, molto poche. Il kibbutz Nitzanim, preso dalle forze egiziane, venne saccheggiato e subì una massiccia distruzione. Faccio presente che in certi luoghi (cioè nei casi di Giaffa o del Blocco di Etzion) le forze arabe furono impegnate a saccheggiare. Nella confusione della precipitosa evacuazione, perfino i britannici compirono alcuni saccheggi. Ma non allo stesso livello. Bisogna capire che le forze ebraiche presero Tiberiade, Haifa, Gerusalemme ovest, Giaffa, San Giovanni d’Acri, Safed, Ramle, Lod e altre località. D’altra parte i combattenti arabi presero, per esempio, il kibbutz Yad Modechai, Nitzanim e il Blocco di Etzion.

Haifa, per esempio, prima della guerra aveva una popolazione di 70.000 ebrei ed altrettanti arabi. Dopo la conquista dell’Haifa araba vennero lasciati in città 3.500 arabi. Le proprietà di 66.500 arabi che fuggirono dalla città vennero saccheggiate dagli ebrei, non dalla minoranza araba sconfitta e terrorizzata.”

Cosa accadde ai saccheggiatori? I documenti d’archivio mostrano che da decine a centinaia di procedimenti giudiziari vennero aperti contro sospetti depredatori, sia civili che militari. Tuttavia, evidenzia Raz, “in genere le condanne furono comunque lievi, se non ridicole,” spaziando da multe a sei mesi di carcere. A quanto pare l’opinione di Raz venne condivisa da alcuni ministri del governo, come attestato da carteggi del 1948.

Il ministro della Giustizia Pinhas Rosen scrisse: “Tutto quello che è stato fatto in questa zona è una disgrazia per lo Stato di Israele e non c’è una risposta adeguata da parte del governo.” Il suo collega, il ministro dell’Agricoltura Aharon Zisling, lamentò che “nei pochi casi di processi le maggiori ruberie … ricevettero una punizione molto mite.” Il ministro delle Finanze Eliezer Kaplan chiese “se questo è il modo di combattere contro ruberie e furti.”

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La gente che è arrivata con camion è andata di casa in casa ed ha portato via le cose di valore: letti, materassi, armadi, utensili da cucina, bicchieri, sofà, tende e altri oggetti. Quando sono tornato a casa volevo proprio chiedere a mia madre perché lo avessero fatto, dopotutto quelle proprietà erano di qualcuno… Ma non ho osato farlo. La vista della città vuota e il fatto che siano stati presi i beni dei suoi abitanti, e le domande che tutto questo aveva suscitato in me, mi hanno tormentato per anni.”

Fawzi al-Asmar a proposito del saccheggio di Lod

Seguendo la discussione complessiva sul saccheggio che ci fu nel Paese, Raz si occupa delle sue implicazioni politiche. “Questo non è solo un resoconto dei saccheggi, è una vicenda politica,” scrive. Le razzie, sostiene, “erano tollerate” dai dirigenti politici e militari, e soprattutto da Ben-Gurion, nonostante le sue condanne in contesti ufficiali. Oltretutto, secondo Raz, il saccheggio “giocò un ruolo politico nel definire il carattere della società israeliana. Le venne consentito di procedere rapidamente senza interferenze. Questo fatto richiede una spiegazione politica.”

E secondo te qual è questa spiegazione?

Il saccheggio fu un mezzo per realizzare la politica di svuotare il Paese dei suoi abitanti arabi. Primo, il saccheggio trasformò, in senso letterale, i predatori in criminali. Secondo, trasformò, volenti o nolenti, quelli che perpetrarono azioni individuali in complici della situazione politica, partner passivi nell’approccio politico e di politiche che cercavano di svuotare la terra dai suoi abitanti arabi, con un interesse acquisito nel non consentire loro di tornare.”

Ciò può essere stato così in alcuni casi, ma pensi davvero che per strada le persone qualunque che vedevano un bellissimo tavolo e lo rubavano considerassero la faccenda con attenzione e si dicessero: “Sto rubando questo tavolo in modo che i suoi proprietari non possano tornare, per ragioni politiche” ?

La persona che derubava la proprietà del suo vicino non era consapevole del processo per cui lui era complice di una linea politica che intendeva impedire il ritorno degli arabi. Ma nel momento in cui entri nell’edificio del tuo vicino e porti via i beni di una famiglia araba che è vissuta lì fino al giorno prima, sei meno motivato a che essa ritorni entro un mese o un anno. La collaborazione passiva tra uno specifico approccio politico e il singolo saccheggiatore ebbe anche un’influenza a lungo termine. Rafforzò l’idea politica che fece propria la segregazione tra i popoli negli anni dopo la guerra.”

Senza giustificare i ladri, cosa pensi si sarebbe dovuto fare con queste proprietà? Trasferirle alla Croce Rossa? Distribuirle agli ebrei in modo “ordinato”?

La questione non è cosa io, lo storico, avrei voluto che succedesse ai beni degli arabi. È inutile fare raccomandazioni 70 anni dopo gli eventi. Il libro mostra che ci furono dirigenti che criticarono quello che stava avvenendo in quel momento, sia a livello degli eventi sul terreno che politico. Pensavano che il fatto che Ben-Gurion avesse consentito i saccheggi intendesse creare una particolare situazione politica e sociale, e fosse uno strumento nelle mani di Ben-Gurion per raggiungere questi obiettivi. La ragione (di un simile approccio) risiede nel fatto che c’è una sostanziale differenza tra il saccheggio da parte di masse di cittadini ebrei delle proprietà dei palestinesi che lasciarono le loro case, negozi e fattorie e l’acquisizione delle proprietà da parte di un’istituzione legittima. Socialmente e politicamente c’è una notevole differenza.

E questo fu esattamente il fulcro delle critiche a Ben-Gurion: che il saccheggio stava creando una società corrotta ed era funzionale alla linea di segregazione tracciata tra arabi ed ebrei. Ministri e decisori politici, come Bechor Shalom-Sheetrit, ministro degli Affari delle Minoranze, Zisling e Kaplan, criticavano la depredazione da parte di singoli individui. Secondo loro avrebbe dovuto essere creata un’autorità operativa e con un potere concreto per mettere insieme tutti i beni e sovrintendere alla loro distribuzione e utilizzo. Ben-Gurion si oppose a questa idea e la sabotò.”

Cosa ti rimane a livello personale della ricerca complessiva che hai condotto, al di là della documentazione storica? Come persona, come ebreo, come sionista?

Fino ad oggi il saccheggio delle proprietà degli arabi e la congiura del silenzio a questo riguardo costituiscono azioni con cui l’opinione pubblica ebraica e quella sionista, di cui faccio parte, devono fare i conti. In questo contesto Martin Buber [filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano, sostenitore del sionismo “spirituale”, ndtr.] affermò (in una lettera scritta all’epoca): ‘La redenzione interiore non può essere raggiunta se non quando guardiamo in faccia il carattere letale della verità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il difficile rapporto del sionismo con l’antisemitismo

Alice Rothchild

19 novembre 2019 – Mondoweiss

Sono cresciuta con un profondo amore per Israele, il piccolo grintoso Paese della redenzione, risorto dalle ceneri, che ama i kibbutz, che non avrebbe potuto fare cose sbagliate, che lotta per la sopravvivenza in un mare di arabi che lo odiano e di odiatori di ebrei. Ho imparato che gli ebrei sono un popolo dedito alla preghiera e allo studio della Torah e che questa identità ci ha permesso di sopravvivere durante secoli di antisemitismo in Europa. Se non ero in grado di dedicarmi alla religiosità del mio nonno pio, con i filatteri [lacci di cuoio che vengono arrotolati alle braccia durante la preghiera, ndtr.] e tutto il resto, capivo che come popolo noi eravamo profondamente impegnati a risanare il mondo e a lavorare per la giustizia sociale, un impegno altrettanto virtuoso e intrinsecamente ebraico. Dopotutto noi eravamo buoni per natura, o, come spiegava mia madre, gli ebrei hanno la responsabilità di essere stati scelti per svolgere un ruolo inequivocabilmente positivo in questo mondo.

Con il passare degli anni, questa mitologia si è schiantata contro la dura realtà. Una delle contraddizioni più difficili che ora mi trovo ad affrontare è comprendere il perverso rapporto tra sionismo e antisemitismo. Mi era stata venduta la storiella che il sionismo politico si era sviluppato come risposta all’antisemitismo e come un moderno movimento di liberazione nell’arretrato Medio Oriente. Ma nel 1897, quando è nato il sionismo moderno, esso adottò il cliché dell’ebreo della diaspora come un pallido, flaccido, giovane studente di una scuola religiosa, un parassita, un eterno straniero, uno sfigato. Che il sionismo abbia accolto l’idea che questo rammollito individuo malaticcio (colpevolizzato lui stesso per l’antisemitismo) dovesse essere arianizzato nell’ebreo contadino/guerriero abbronzato e muscoloso che coltiva il terreno in Galilea, è un risultato agghiacciante. L’evoluzione degli ebrei da popolo che viveva secondo la Torah e i suoi precetti in una razza biologica con caratteristiche distintive (l’ebreo del denaro, del ghetto, l’ebreo di carnagione scura e con il naso adunco) riflette le peggiori menzogne di antisemiti, fascisti europei e suprematisti bianchi.

Questa storia è complicata dal fatto che gli ebrei europei erano relegati a svolgere un numero limitato e disprezzato di professioni e dal risentimento sociale nei confronti di una classe di usurai e venditori ambulanti/commercianti “parassitari”e “improduttivi”. Mentre il capitalismo moderno si sviluppava, persino i sionisti socialisti temevano che ci fosse una sorta di anomalia economica nel popolo ebraico che portava all’antisemitismo e che avrebbe potuto essere curata solo dal lavoro della terra in Palestina.

Non dovrebbe quindi sorprendere che il fondatore del sionismo moderno, Theodore Herzl, abbia visto gli antisemiti come “amici e alleati” del suo movimento”. Sionisti e antisemiti condividevano lo stesso obiettivo: gli uni volevano che tutti gli ebrei emigrassero in Palestina per fondarvi uno Stato-Nazione ebraico etnicamente puro, gli altri volevano liberarsi di tutti i loro connazionali ebrei. L’emigrazione era in effetti una magnifica soluzione all’eterna questione ebraica. Come ha scritto il professor Joseph Massad [docente palestinese alla Columbia University, ndtr.]:

Nel suo pamphlet fondativo (Herzl) avrebbe dichiarato che ‘i governi di tutti i Paesi colpiti dall’antisemitismo saranno profondamente interessati nell’aiutarci ad ottenere (la) sovranità che vogliamo’, e quindi che ‘non solo i poveri ebrei’ avrebbero contribuito a un fondo per l’emigrazione degli ebrei europei, ‘ma anche i cristiani che vogliono liberarsi di loro’.”

Questa solidarietà politica relativa alla classe, al fatto di essere bianchi, era una forma di odio per se stessi, facendo proprio il razzismo istituzionalizzato dell’epoca? Si trattava di un matrimonio di convenienza, ripugnante ma necessario, o di una strategia a lungo termine?

Scavando più a fondo, non fui così sorpresa nell’apprendere che Herzl, assimilato e laico, scelse di non far circoncidere suo figlio, che inizialmente prese in considerazione l’idea che una conversione di massa al cattolicesimo sarebbe stata una buona soluzione per la questione ebraica e che festeggiava il Natale con niente di meno che un albero di Natale. Si dice che abbia affermato: “Nella mia mente si è fatta strada un’eccellente idea: attirare antisemiti radicali e farli diventare distruttori della ricchezza ebraica.” L’attivista israeliano per la pace Uri Avnery ha descritto gli scritti di Herzl come caratterizzati “a tratti da un forte odore di antisemitismo.”

Leon Rosselson, un cantautore inglese e autore di libri per l’infanzia, ha scritto in un saggio su Medium [sito web di sinistra che pubblica articoli di politica e cultura, ndtr.]:

Nel suo libro ‘Lo Stato ebraico’, pubblicato nel 1896, egli (Herzl) spiega perché: ‘La questione ebraica esiste ovunque viva un numero significativo di ebrei. Dove (l’antisemitismo) non esisteva, vi è stato portato dagli ebrei nel corso delle loro migrazioni. Ovviamente noi ci spostiamo nei posti in cui non siamo perseguitati e lì la nostra presenza provoca persecuzioni… Gli sfortunati ebrei stanno portando ora i semi dell’antisemitismo in Inghilterra, li hanno già portati in America.’

In un capitolo successivo sostiene che la causa immediata dell’antisemitismo è ‘la nostra eccessiva produzione di intelletti mediocri, che non possono trovare uno sbocco verso il basso o verso l’alto – cioè, nessuno sbocco sano in nessuna direzione. Quando scendiamo, diventiamo un proletariato rivoluzionario, gli impiegati subalterni di ogni partito rivoluzionario; al contempo, quando andiamo in alto si eleva pure il nostro terribile potere economico.’”

Quando Herzl prese in considerazione la lingua del nuovo Stato, scrisse dello yiddish [un misto di tedesco, lingue slave ed ebraico, con molte varianti locali, parlato dagli ebrei dell’Europa centro-orientale, ndtr.]: “Dobbiamo smettere si utilizzare quei miserabili dialetti stentati, quei linguaggi del ghetto che ancora utilizziamo, perché quelle erano le lingue clandestine dei prigionieri.” Aveva lo stesso disprezzo nei confronti della religione ebraica: “Dovremmo tenere i nostri rabbini all’interno dei loro templi …Non devono interferire nell’amministrazione dello Stato…”, e immaginò uno Stato senza feste ebraiche o simboli ebraici. C’è sicuramente un forte sentimento di odio per se stessi in queste affermazioni.

Un’altra schiacciante prova è la considerazione del 1912 di Chaim Weizman, in seguito presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e primo presidente di Israele: “Ogni Paese può assorbire solo un numero ridotto di ebrei se non vuole avere problemi di stomaco. La Germania ha già troppi ebrei.”

O la dichiarazione nel 1922 di Ben-Gurion, il padre fondatore e primo premier di Israele: “Non siamo studenti di una scuola religiosa che discutono le delicate questioni su come migliorare se stessi. Siamo conquistatori della terra di fronte a un muro di ferro e noi dobbiamo sfondarlo.” Egli notò che gli ebrei della diaspora “non hanno radici. Sono cosmopoliti senza radici – non ci può essere niente di peggio.” Ben-Gurion era un noto elitista e razzista. Descrisse gli ebrei della diaspora come “polvere umana, le cui particelle cercano di aggrapparsi le une alle altre,” e chiamò i mizrahim (ebrei dei Paesi arabi e/o musulmani), arretrati e primitivi, con caratteristiche orientaliste che avrebbero minacciato il nascente Stato di Israele. Descrivendo gli immigrati yemeniti scrisse:

(La cultura yemenita) è arretrata di duemila anni, forse persino di più, rispetto a noi. Manca dei più fondamentali e principali concetti della civilizzazione (distinta dalla cultura). Il loro atteggiamento verso le donne e i bambini è primitivo. La loro condizione fisica è misera. Per migliaia di anni hanno vissuto in una delle terre più arretrate e impoverite, sotto il dominio ancora più arretrato di un qualunque regime feudale e teocratico. Il passaggio da là a Israele è stato una profonda rivoluzione umana, non superficiale, una rivoluzione politica. Tutti i loro valori umani devono essere cambiati da cima a fondo.”

Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista, precursore dell’odierno partito Likud, fu persino più sincero riguardo alla propria appartenenza reazionaria. Appoggiò il nocciolo del colonialismo di insediamento e militaristico del sionismo, parlò apertamente della necessità di combattere contro la popolazione indigena palestinese e chiese agli ebrei di mobilitarsi per “guerra, rivolta e sacrificio.”

Nel 1923 scrisse la Bibbia del revisionismo, un articolo, “Il muro di ferro (noi e gli arabi)”:

Ogni popolazione nativa al mondo resiste contro il colonialismo finché ha anche la minima speranza di riuscire a liberarsi del pericolo di essere colonizzata. Questo è ciò che gli arabi in Palestina stanno facendo, e quello che continueranno a fare finché rimarrà una sola scintilla di speranza di riuscire ad impedire la trasformazione della ‘Palestina’ in ‘Terra di Israele’… La colonizzazione sionista deve terminare oppure andare avanti senza riguardi nei confronti della popolazione nativa. Ciò significa che può proseguire e svilupparsi solo sotto la protezione di un potere che sia indipendente dalla popolazione nativa –dietro un muro di ferro, che la popolazione nativa non possa oltrepassare.”

Allo stesso tempo il suo antisemitismo era profondo:

Il nostro punto di partenza è prendere il tipico yid [ebreo in senso spregiativo, ndtr.] di oggi e immaginare il suo esatto opposto… Poiché lo yid è brutto, sporco, manca di dignità, noi dobbiamo dotare l’immagine idealizzata dell’ebreo di una beltà virile. Lo yid è calpestato e si spaventa facilmente, e di conseguenza l’ebreo deve essere orgoglioso e indipendente. Lo yid è disprezzato da tutti e quindi l’ebreo deve affascinare tutti. Lo yid ha accettato di essere sottomesso e quindi l’ebreo deve imparare a comandare. Lo yid vuole celare la propria identità agli estranei e quindi l’ebreo deve guardare il mondo diritto negli occhi e dichiarare: ‘Sono ebreo!’”.

Jabotinsky si innamorò dell’ideologia di Benito Mussolini che lo lodò come un “fascista ebreo” e fu contento non solo di lavorare con i nazisti, ma anche di sposarne l’ideologia totalitaria. Fondò la Nuova Organizzazione Sionista e il suo rappresentante in Palestina pubblicò il suo Yomen shel Fascisti (Diario di un fascista) sul suo giornale. Von Weisl, direttore finanziario dell’OSM, disse a un giornale che “egli (Jabotinsky) era personalmente un sostenitore del fascismo e si rallegrò per la vittoria dell’Italia fascista in Abissinia come un trionfo delle razze bianche contro i neri.” Mussolini consentì al movimento giovanile del sionismo revisionista di destra, il Betar, di avere uno squadrone nella sua accademia navale.

Quando Mussolini decise di unire le proprie forze con Hitler, espulse gli ebrei dal partito [fascista, ndtr.]. I revisionisti risposero:

Per anni abbiamo messo in guardia gli ebrei dall’insultare il regime fascista in Italia. Siamo franchi prima di accusare altri delle recenti leggi antiebraiche in Italia: perché non accusiamo prima i nostri stessi gruppi radicali di essere responsabili di quello che sta accadendo?”

Secondo Lenni Brenner, autore di “Il sionismo nell’epoca dei dittatori”, nel marzo 1933 Jabotinsky invocò un boicottaggio contro i nazisti e di conseguenza i revisionisti assassinarono il sionista laburista che aveva negoziato l’accordo “Ha’Avara” [vedi più sotto, ndtr.]. Ma i rapporti tra i revisionisti e i nazisti rimasero intricati.

Nel 1939, una settimana prima che Hitler invadesse la Polonia, Jabotinsky insistette che “non c’è la benché minima possibilità di una guerra.” Progettò di invadere la Palestina, facendo approdare una nave piena di militanti del “Betar” su una spiaggia di Tel Aviv mentre l’Irgun occupava la sede del governo a Gerusalemme e all’estero veniva proclamato un governo ebreo provvisorio. Dopo la sua cattura o morte, avrebbe operato come un governo in esilio.

L’Irgun, l’organizzazione paramilitare sionista attiva nella Palestina mandataria, venne ispirata e guidata da Jabotinsky fino alla sua morte nel 1940. Dopo la guerra, venne trovato il seguente documento nell’ambasciata tedesca in Turchia: “Proposta dell’Organizzazione Militare Nazionale (Irgun Zvai Leumi) riguardante la soluzione della questione ebraica in Europa e la partecipazione dell’OMN nella guerra dalla parte della Germania”. Vi si legge:

La Fondazione dello storico Stato ebraico su basi nazionaliste e totalitarie e vincolato da un trattato con il Reich tedesco sarebbe nell’interesse di una consolidata e rafforzata futura posizione di potere tedesca in Medio Oriente.

A partire da queste considerazioni, l’OMN in Palestina, in base alla condizione summenzionata che le aspirazioni nazionali del movimento per la libertà israelita vengano riconosciute da parte del Reich tedesco, offre di partecipare attivamente alla guerra dalla parte della Germania.”

Mentre gli ebrei, sia all’interno che fuori dalla Germania, comprendevano i gravissimi pericoli posti dall’ascesa dei nazisti al potere, alcuni sionisti videro ciò come un’opportunità di promuovere il proprio obiettivo di colonizzare la Palestina. Nonostante un boicottaggio internazionale contro la Germania nazista, nel 1933 i sionisti laburisti firmarono l’accordo di trasferimento “Ha’avara”, che in ultima analisi diede come risultato il salvataggio di 20.000 ebrei. La Germania nazista accettò di compensare questi ebrei tedeschi che se ne andarono in Palestina dopo aver liquidato le loro proprietà esportando nel Paese prodotti tedeschi dello stesso valore. Gli emigranti poi ricevettero parte dei proventi della vendita di questi prodotti. Ciò portò alla fine del boicottaggio della Germania e a un notevole aiuto finanziario per la sua economia che era ancora impantanata nelle riparazioni in seguito alla Prima Guerra Mondiale ed alla Grande Depressione. Come ha scritto Leon Rosselson:

Tra il 1933 e il 1939 il 60% di tutto il capitale investito nella Palestina ebraica proveniva dal denaro degli ebrei tedeschi attraverso l’accordo di trasferimento. Quindi durante gli anni ’30 il nazismo fu una manna per il sionismo.

Nel 1935 la Federazione Sionista Tedesca fu l’unica forza politica che appoggiò le leggi naziste di Norimberga nel Paese e fu l’unico partito a cui venne ancora concesso di pubblicare il proprio quotidiano, il “Rundschau” [La Rassegna], fin dopo la “Notte dei Cristalli” [in cui vennero aggrediti negozi, sedi di associazioni, sinagoghe e molti ebrei vennero feriti o uccisi, ndtr.] nel 1938.”

Le leggi di Norimberga tolsero la cittadinanza agli ebrei tedeschi e proibirono loro di sposarsi o avere rapporti sessuali con chiunque avesse sangue “tedesco o connesso”. La legge emarginò gli ebrei e li privò di buona parte dei loro diritti politici. Un ebreo venne definito come chiunque avesse tre o quattro nonni ebrei, indipendentemente dall’autoidentificazione di quella persona.

Nel 1933 la Federazione Sionista Tedesca, la “Zionistische Vereinigung fur Deutschland”, scrisse un appello ai nazisti:

Ci sia consentito di presentare la nostra opinione, che, secondo noi, rende possibile una soluzione in linea con i principi del nuovo Stato Tedesco di Risveglio Nazionale… perché anche noi siamo contrari ai matrimoni misti e siamo per il mantenimento della purezza del gruppo ebraico…Per questi scopi concreti il sionismo spera di essere in grado di conquistarsi la collaborazione persino di un governo fondamentalmente ostile agli ebrei… La propaganda per il boicottaggio, come viene attualmente portata avanti contro la Germania in molti modi, è essenzialmente non sionista, perché il sionismo non vuole combattere, ma convincere e costruire.”

Un’altra prova relativa ai rapporti dei nazisti con gli ebrei e ai loro piani di deportazione (prima della loro decisione del 1942 di procedere con lo sterminio totale) venne scritta dal capo delle SS, Reinhard Heydrich. Nel 1935 egli pubblicò una dichiarazione su una rivista delle SS. Francis Nicosia lo ha citato nel suo libro “The Third Reich and the Palestine Question” [Il Terzo Reich e la questione palestinese]:

Il nazional-socialismo non ha intenzione di attaccare il popolo ebraico in nessun modo. Al contrario, il riconoscimento dell’ebraismo come comunità razziale fondata sul sangue e non sulla religione, porta il governo tedesco a garantire la separazione razziale di questa comunità senza alcuna limitazione. Il governo si trova totalmente d’accordo con il grande movimento spirituale all’interno dello stesso ebraismo, il cosiddetto sionismo, con il suo riconoscimento della solidarietà dell’ebraismo in tutto il mondo e con il rifiuto di qualunque idea di assimilazione. Su queste basi la Germania intraprende misure che in futuro giocheranno sicuramente un ruolo significativo per la gestione del problema ebraico in tutto il mondo.” 

Cosa interessante, nel 1937 Adolf Eichmann, insieme al suo supervisore del servizio di intelligence del partito nazista, viaggiò nella Palestina mandataria travestito da giornalista tedesco per studiare la fattibilità della deportazione degli ebrei tedeschi nella regione e le funzioni delle organizzazioni sioniste all’interno della Palestina. Eichmann si incontrò segretamente anche con Feivel Polkes, un rappresentante dell’Haganah [principale gruppo paramilitare sionista affiliato alla fazione socialista, ndtr.] (che divenne l’esercito israeliano) per discutere il suo progetto. È importante ricordare che ad Eichmann interessava deportare gli ebrei nel modo più efficiente possibile, non appoggiare lo sviluppo di un forte Stato ebraico che potesse minacciare la fortuna economica della Germania nazista.

Nella sua recensione sul New York Times di “In Memory’s Kitchen: A Legacy From the Women of Terezin” [Nella cucina della memoria: un lascito delle donne di Terezin] Lore Dickstein cita il ricordo di una sopravvissuta a Terezin che incontrò Eichmann: “Anny Stern fu una delle fortunate. Nel 1939, dopo mesi di problemi con la burocrazia nazista, con l’esercito occupante tedesco alle calcagna, scappò dalla Cecoslovacchia con il figlioletto ed emigrò in Palestina. Al tempo della partenza di Anny, la politica nazista incoraggiava l’emigrazione. ‘Sei una sionista?’ le chiese Adolph Eichmann, lo specialista hitleriano di questioni ebraiche. ‘Jawohl [Sì in tedesco, ndtr.],’ rispose lei. ‘Bene’ egli disse, ‘anch’io sono un sionista. Voglio che ogni ebreo se ne vada in Palestina.’”

Informando sul processo Eichmann nel 1963 da Gerusalemme, Hannah Arendt scrisse che Eichmann si vantò del suo apprezzamento per il sionismo:

I primi contatti personali di Eichmann con funzionari ebrei, tutti ben noti sionisti di lunga data, sono stati totalmente soddisfacenti. La ragione per cui venne così affascinato dalla ‘questione ebraica’, ha spiegato, era il suo stesso ‘idealismo’: questi ebrei, a differenza degli assimilazionisti, che aveva sempre disprezzato, e degli ebrei ortodossi, che lo annoiavano, erano ‘idealisti’, come lui.”

Dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, Albert Einstein scrisse una lettera al New York Times riguardo alla visita negli USA di Menachem Begin, leader dell’“Irgun”, capo del partito della destra nazionalista “Herut” (che si trasformò nel Likud) e in seguito sesto premier israeliano:

Tra i più inquietanti fenomeni del nostro tempo c’è l’emergere nello Stato di Israele creato recentemente del “partito della Libertà” (Tnuat HaHerut), un partito politico affine ai partiti nazisti e fascisti nella sua organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nel richiamo sociale … Ha predicato un insieme di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale… è imperativo che la verità sul signor Begin e sul suo movimento sia resa nota in questo Paese.”

Amy Kaplan, nel suo importante libro del 2018 “Il nostro Israele americano”, ha notato che dopo la fine della guerra persino i non ebrei pensavano che i bambini di razza ebraica dell’Europa orientale fossero stati magicamente trasformati, anglicizzati, dall’esperienza di essere nati in Palestina. Bartley Crum era un cattolico progressista, avvocato per i diritti civili nato a San Francisco che faceva parte della Commissione Anglo-Americana incaricata di decidere il futuro di persone sfollate che languivano nei campi di raccolta dopo la guerra. Kaplan ha notato:

Crum scoprì una prova di questa trasformazione degli ebrei dell’Europa orientale in uno ‘strano fenomeno’ che rendeva i loro figli cresciuti in Palestina non solo più forti per il fatto di aver lavorato la terra, ma anche più bianchi e più occidentali dei loro genitori: ‘Molti dei bambini ebrei che ho visto erano biondi e con gli occhi azzurri, una mutazione di massa che, mi è stato detto, dev’essere ancora adeguatamente spiegata. È ancora più significativa perché la maggioranza degli ebrei di Palestina è originaria dell’Europa orientale, tradizionalmente con capelli e occhi scuri. Si potrebbe quasi affermare che in Palestina sia stato creato un nuovo popolo ebraico: in stragrande maggioranza una spanna più alto dei padri, persone robuste, più un ritorno ai contadini e pescatori dei giorni di Cristo che prodotto dei figli e delle figlie delle città dell’Europa centro-orientale.” [p. 31].

Un altro membro della Commissione Anglo-Americana, James McDonald, visitò una sinagoga a Gerusalemme e:

“…egli venne “ancora una volta colpito dalla varietà di volti dei ragazzi. ‘Se non avessi saputo dove mi trovavo, o non avessi sentito parole in ebraico, avrei giurato che la maggior parte di loro fosse irlandese, scandinava o scozzese, o comunque della normale mescolanza del Middle West americano. Solo qui e là c’era un volto anche lontanamente somigliante al ‘tipo ebreo’.’ Concluse che i giovani ebrei di Israele non avevano un ‘tipo razziale’ particolare.’” [p.32].

Nel 1951 Kenneth Bilby, giornalista, notò, osservando i bambini di un kibbutz:

Erano persino ben fatti, robusti, i capelli schiariti dal sole. Avrei sfidato un qualunque antropologo a mescolare questi bambini con una folla di giovani britannici, americani, tedeschi e scandinavi e poi separare gli ebrei.’ Li vedeva come diventati diversi ‘dai loro cugini semiti del mondo arabo’. Agli occhi di questi visitatori, mentre gli ebrei europei diventavano più bianchi e più civilizzati, gli arabi tra i quali si erano insediati apparivano più scuri e più primitivi.” [32].

In Israele c’è sempre stata una gerarchia razziale fondata sulla supremazia bianca ed etnocentrica. Gli ashkenaziti [lett. tedeschi, ebrei di origine europea, ndtr.] hanno discriminato i mizrahi [orientali, originari dei Paesi arabi o musulmani, ndtr.] e gli ebrei di colore, e i palestinesi hanno affrontato l’intolleranza più estrema, seguiti solo di recente dai richiedenti asilo africani.

Anche dei leader religiosi reazionari hanno sposato atteggiamenti razzisti. Un primo esempio di ciò è il rabbino Ovadia Yosef, il leader spirituale del partito Shas [partito religioso degli ebrei ultraortodossi mizrahi, ndtr.], che ha equiparato gli arabi a “serpenti” ed ha chiesto il loro “annientamento”. Questo tipo di atteggiamenti è stato prevalente nei movimenti di colonizzazione più di destra come “Gush Emunim”, Tehiya, Unione Nazionale e Mafdal, che rappresentano un messianismo ebraico mischiato a odio e disprezzo per i nativi palestinesi.

Quindi, perché è importante esplorare questa storia complicata e scomoda? Sosterrei che, in primo luogo, in questa epoca in cui l’epiteto di antisemita è scagliato abbastanza a casaccio contro chiunque abbia atteggiamenti critici verso Israele, dobbiamo essere onesti sulle basi fondative del sionismo e sui suoi rapporti con il vero antisemitismo. Risulta che i primi sionisti, sia della sinistra socialista che della destra fascista, avevano atteggiamenti che erano chiaramente antisemiti. Questo può essere stato cinico e amorale, ma penso che vada ben oltre un matrimonio di convenienza.

Se capiamo le radici della dirigenza israeliana possiamo comprendere meglio gli atteggiamenti e le politiche dei successivi governi israeliani che ci hanno portato fino all’attuale regime. Mentre l’Irgun rimase minoritario e non prese il controllo fino al 1977 con Menachem Begin, seguito da Yitzhak Shamir, esso era una forza potente nella Palestina prima del 1948 [anno della nascita di Israele, ndtr.], assassinando dirigenti inglesi e negoziatori internazionali come il conte Bernadotte [inviato svedese dell’ONU per mediare il conflitto tra sionisti ed arabi, ndtr.] e infliggendo attacchi terroristici ai nativi palestinesi, come nel caso del massacro di Deir Yassin.

Anche l’Haganah e il Palmach [le due principali milizie sioniste, della fazione socialista, ndtr.] (che in seguito diventarono il fulcro dell’esercito israeliano) erano gruppi paramilitari attivi nella Palestina prima del 1948. Penso alla famosa citazione di Moshe Dayan che si unì all’Haganah all’età di 14 anni e divenne un celebre leader militare e politico:

Siamo una generazione di coloni e senza l’elmetto di ferro e la canna del fucile non saremmo stati in grado né di piantare un albero né di costruire una casa… Non si abbia paura di vedere l’odio che ha accompagnato e consumato le vite di centinaia di migliaia di arabi che ci circondano, aspettando il momento in cui le loro mani riusciranno a raggiungere il nostro sangue.” (dal libro di Ronen Bergman “Rise and Kill First” [Alzati e uccidi per primo], pp. 128-129).

Questa è la voce combattiva dell’ebreo nuovo, l’ebreo rinato nella lotta per colonizzare e creare Israele dalla Palestina. Non è una voce interessata al negoziato, alla tolleranza, alla democrazia o al rispetto della narrazione o origine altrui. La storia politica ha creato le norme sociali e culturali che vediamo oggi. Gli Usa stanno affrontando una discussione nazionale sulle contraddizioni tra la nostra mitologia, il sogno americano di giustizia, uguaglianza e libertà per tutti, e il fatto che i nostri eroi nazionali erano proprietari di schiavi e in realtà avevano progetti solo per i proprietari terrieri bianchi. Le loro esperienze di vita e i loro atteggiamenti furono alla base delle norme culturali che hanno caratterizzato gli aspetti più vergognosi della storia degli USA: distruggere i popoli nativi, schiavizzare africani, essere proprietari dei loro figli, Jim Crow [leggi non scritte del Sud segregazionista, ndtr.], emarginare, fare discriminazioni nelle opportunità per trovare lavoro con la legge sui veterani di guerra, leggi contro i matrimoni misti, nazionalismo bianco, il costante fanatismo e il razzismo istituzionali che sono ancora un grave ostacolo nel XXI secolo. Questo tipo di discorso onesto e penoso è fondamentale se vogliamo far prendere una direzione più positiva alla nostra cosiddetta democrazia. Suggerirei che gli israeliani dovrebbero discutere dell’origine della loro Nazione, e per lo più non lo fanno. Ciò non lascia ben sperare.

Il ceppo della politica di Jabotinsky, repressivo, antidemocratico e in certo modo profondamente odiatore di se stesso ed escludente, è una forma di maschilismo nazionalista tossico. È anche un’ideologia fondante del moderno sionismo, un misto di mentalità da bunker, islamofobia e darwinismo sociale. Questo tipo di politica fornisce un contesto storico al razzismo degli ebrei ashkenaziti nei confronti degli ebrei di colore, dei mizrahi, dei palestinesi e dei richiedenti asilo africani. Questo tipo di politica rende possibili un’occupazione aggressiva e de-umanizzante e un movimento di colonizzazione, in cui la volontà di uccidere, ferire e incarcerare palestinesi e i loro figli è vista come indispensabile, senza rimorsi, per la sopravvivenza, in cui aggredire “l’altro” come se fosse uno scarafaggio e subumano è tollerato e applaudito dai dirigenti politici, in cui bombardare periodicamente e strangolare due milioni di gazawi, creare una impossibile catastrofe umanitaria è solo parte di “falciare il prato” . 

Quest’ultima espressione si riferisce alla cinica strategia militare israeliana vista nelle ultime tre guerre contro Gaza e nella Seconda Guerra del Libano, che comporta ripetute operazioni su larga scala, ma limitate, così come attacchi più ridotti intesi a schiacciare l’avversario, demolendo la dirigenza e le infrastrutture e costruendo deterrenza. Questa guerra di logoramento non ha un chiaro punto finale, è in sé una politica estera caratterizzata dall’uso di una forza estrema per indebolire Hamas ed Hezbollah, con un rischio minimo per i soldati israeliani, ma senza l’eliminazione totale del nemico, necessaria per controllare attori ancora più estremisti nella regione.

Proprio come ora so che l’espulsione e l’occupazione che iniziarono nel 1967 e continuano fino ai giorni nostri sono la continuazione di un processo che iniziò molto prima del 1948 – la Nakba, o catastrofe, è in corso -, le politiche fascistoidi del governo israeliano sono radicate nella storia della creazione dello Stato. Allo stesso modo l’abbraccio tra gli israeliani e i cristiano-sionisti (i cui progetti per gli ebrei sono la conversione o una morte atroce) dopo il 1967 rispecchia i rapporti amichevoli che i sionisti hanno avuto con i dirigenti antisemiti in Germania e in Italia. E in modo simile lo stretto legame di Israele con i cristiano-sionisti e con regimi oppressivi, dal Sudafrica bianco all’Arabia Saudita, così come la passione di Israele per il nostro presidente-padrone e antisemita, è parte dello stesso vecchio modello di unire le forze con governi razzisti e autoritari.

Come si è detto spesso, se non conosciamo la nostra storia siamo destinati e condannati a ripeterla.

Alice Rothchild è dottoressa, scrittrice e regista che dal 1997 ha concentrato il proprio interesse sui diritti umani e sulla giustizia sociale nel conflitto israelo/palestinese. Ha fatto la ginecologa per circa 40 anni. Fino alla pensione ha lavorato come assistente universitaria in ostetricia e ginecologia nella facoltà di medicina di Harvard. Scrive e tiene conferenze ad ampio raggio ed è l’autrice di “Broken Promises, Broken Dreams: Stories of Jewish and Palestinian Trauma and Resilience” [Promesse non mantenute, sogni infranti: storie di traumi e restitenza di ebrei e palestinesi], “On the Brink: Israel and Palestine on the Eve of the 2014 Gaza Invasion” [Sull’orlo: Israele e Palestina al tempo dell’invasione di Gaza nel 2014], e di “Condition Critical: Life and Death in Israel/Palestine” [Una condizione critica: vita e morte in Israele/Palestina]. Ha diretto un documentario, “Voices Across the Divide” [Voci al di là delle divisioni] ed è attiva in “Jewish Voice for Peace” [Voce ebraica per la pace, gruppo USA di ebrei antisionisti, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi hanno il diritto legale alla lotta armata *

Stanley L. Cohen

20 luglio 2017 – Al Jazeera

È tempo che Israele accetti che, come popolo sotto occupazione, i palestinesi hanno il diritto di resistere – in ogni modo possibile.

*Nota redazionale: riteniamo significativo proporre ai lettori questo articolo che risale al luglio 2017 in quanto ogniqualvolta avvengono attacchi armati da parte dei palestinesi, in particolare recentemente da Gaza, i media vengono inondati da commenti aspramente critici nei confronti dei gruppi della resistenza palestinese. Indipendentemente dalla condivisione riguardo all’utilità politica di queste azioni, riteniamo sia importante ricordare, come fa l’autore di questo articolo con abbondanza di riferimenti storici, che esse sono legittimate dalle leggi internazionali che riconoscono il diritto di un popolo oppresso ad utilizzare tutti i mezzi necessari, compresa la violenza, per resistere ai propri oppressori. Ed anche che i primi ad utilizzare il terrorismo sistematico in Palestina contro inglesi e palestinesi furono i gruppi armati sionisti.

È stato da tempo stabilito che la resistenza e persino la lotta armata contro una forza di occupazione coloniale non siano solo riconosciute come legittime in base alle leggi internazionali, ma specificamente approvate.

Sulla base del diritto internazionale umanitario, le guerre di liberazione nazionale sono state espressamente riconosciute ovunque, attraverso l’adozione del primo protocollo aggiuntivo [relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, n.d.tr.] alle Convenzioni di Ginevra del 1949 come un diritto protetto e imprescindibile dei popoli sotto occupazione.

  Individuando la vitalità in sviluppo del diritto umanitario, per decenni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (AG dell’ONU) – una volta descritta come la coscienza collettiva del mondo – ha evidenziato il diritto dei popoli all’autodeterminazione, all’indipendenza e ai diritti umani.

In effetti già nel 1974 la risoluzione 3314 dell’AG dell’ONU proibiva agli Stati “qualsiasi occupazione militare, per quanto temporanea”.

Nella sua parte relativa a questo diritto, la risoluzione non solo continuava ad affermare il diritto “all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza […] dei popoli privati con la forza di quel diritto, […] in particolare dei popoli sotto regime coloniale e razzista o altre forme di dominio straniero”, ma evidenziava anche il diritto di chi si trovi sotto occupazione, di ” lottare … e di chiedere e ricevere appoggio” per quel tentativo [di liberarsi].

Il termine “lotta armata” era implicito [pur] senza una citazione precisa in quella e in molte altre risoluzioni precedenti che sostenevano il diritto dei [popoli] autoctoni di cacciare gli occupanti.

Questa imprecisione sarebbe stata corretta il 3 dicembre 1982. A quel tempo la risoluzione 37/43 dell’AG dell’ONU rimosse qualsiasi dubbio o dibattito sul legittimo diritto dei popoli sotto occupazione a resistere alle forze di occupazione con qualsiasi mezzo legittimo. La risoluzione ribadiva “la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio coloniale e straniero e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Un evidente inganno

Sebbene Israele abbia tentato, periodicamente, di reinterpretare l’intento inequivocabile di questa precisa risoluzione – e quindi di considerare l’occupazione, durata ormai mezzo secolo, di Cisgiordania e Gaza esclusa dalla sua applicazione – si tratta di uno sforzo profondamente logorato fino allo stato di evidente inganno dalle parole esatte della stessa dichiarazione. Nella parte pertinente, la sezione 21 della risoluzione condanna fermamente “le attività espansionistiche di Israele in Medio Oriente e i continui bombardamenti di civili palestinesi, che rappresentano un grave ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese”.

I sionisti europei, coloro che non hanno mai avuto esitazioni nel riscrivere la storia, molto prima dell’istituzione delle Nazioni Unite, si considerarono un popolo sotto occupazione quando emigrarono in Palestina – una terra nei confronti della quale erano cessati, in seguito a migrazioni in gran parte volontarie, tutti i legami storici che avevano avuto molto tempo prima.

In effetti, ben 50 anni prima che le Nazioni Unite parlassero del diritto alla lotta armata come strumento di liberazione autoctona, i sionisti europei hanno fatto proprio il concetto in modo illegale, dal momento in cui l’Irgun [abbreviazione di Irgun Tzvai Leumi, “Organizzazione Militare Nazionale”, è stato un gruppo paramilitare sionista, giudicato terrorista dal Regno Unito, che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina dal 1931 al 1948, n.d.tr.], il Lehi [Combattenti per la Libertà d’Israele, meglio nota come Banda Stern, fu un’altra organizzazione paramilitare sionista, n.d.tr.] e altri gruppi terroristici intrapresero un lungo periodo di dieci anni di caos mortale.

Durante questo periodo, massacrarono non solo migliaia di palestinesi autoctoni, ma presero anche di mira la polizia britannica e il personale militare che da tempo vi aveva mantenuto una presenza colonizzatrice.

Una storia di attacchi sionisti

Mentre gli israeliani si siedono a piangere la perdita di due dei loro soldati che sono stati uccisi a Gerusalemme la scorsa settimana a colpi di arma da fuoco [il 14/07/2017 due poliziotti appartenenti alla minoranza drusa israeliana vennero uccisi nel corso di un attentato sulla spianata delle moschee, n.d.tr.]- in quello che molti considerano un legittimo atto di resistenza – un viaggio nel percorso della memoria potrebbe forse ricollocare gli eventi nel loro giusto contesto storico.

Molto tempo fa, descrivendo gli inglesi come una forza di occupazione nella “loro patria”, i sionisti presero di mira la polizia e le unità militari britanniche con foga spietata in tutta la Palestina e altrove.

Il 12 aprile 1938, l’Irgun uccise due poliziotti britannici ad Haifa in un attentato dinamitardo contro un treno. Il 26 agosto 1939, due ufficiali britannici furono uccisi da una mina antiuomo dell’Irgun a Gerusalemme. Il 14 febbraio 1944, due poliziotti britannici furono uccisi a colpi di arma da fuoco mentre tentavano di arrestare delle persone per aver affisso dei manifesti ad Haifa. Il 27 settembre 1944, più di 100 membri dell’Irgun attaccarono quattro stazioni della polizia britannica, ferendo centinaia di ufficiali. Due giorni dopo un alto ufficiale di polizia britannico del dipartimento di intelligence criminale fu assassinato a Gerusalemme.

Il 1 ° novembre 1945 un altro ufficiale di polizia fu ucciso mentre cinque treni venivano attaccati con bombe. Il 27 dicembre 1945, sette ufficiali britannici persero la vita in un attentato dinamitardo al quartier generale della polizia a Gerusalemme. Tra il 9 e il 13 novembre 1946 ebrei facenti parte di un movimento clandestino lanciarono una serie di attacchi con mine e bombe nascoste all’interno di valigie in stazioni ferroviarie, treni e tram, uccidendo 11 soldati e poliziotti britannici e otto poliziotti arabi.

Altri quattro ufficiali furono uccisi in un altro attacco contro un quartier generale della polizia il 12 gennaio 1947. Nove mesi dopo, quattro poliziotti britannici furono assassinati durante una rapina in banca da parte dell’Irgun e tre giorni dopo, il 26 settembre 1947, altri 13 agenti vennero uccisi in un altro attacco terroristico contro una stazione di polizia britannica.

Questi sono solo alcuni dei molti attacchi diretti dai terroristi sionisti contro la polizia britannica che furono visti da molti ebrei in Europa come obiettivi legittimi di ciò che descrivevano come una lotta di liberazione contro una forza di occupazione.

Durante tutto questo periodo, i terroristi ebrei si impegnarono anche in innumerevoli attacchi che non risparmiarono nessuna delle infrastrutture britanniche e palestinesi. Assalirono installazioni militari e di polizia britanniche, uffici governativi e navi, spesso con bombe. Sabotarono ferrovie, ponti e installazioni petrolifere. Vennero attaccate decine di obiettivi economici, tra cui 20 treni danneggiati o deragliati e cinque stazioni ferroviarie. Vennero effettuati numerosi attacchi contro l’industria petrolifera, tra cui uno, nel marzo 1947, contro una raffineria di petrolio Shell ad Haifa che distrusse circa 16.000 tonnellate di petrolio.

I terroristi sionisti uccisero soldati britannici in tutta la Palestina, usando trappole esplosive, agguati, cecchini e esplosioni di veicoli.

Un attacco in particolare riassume il terrorismo di coloro che, all’epoca senza alcun supporto da parte del diritto internazionale, non vedevano alcun limite ai loro tentativi di “liberare” una terra in cui erano, in gran parte, immigrati solo di recente.

Nel 1947, l’Irgun rapì due sottufficiali delle truppe dell’intelligence britannica e minacciò di impiccarli se fossero state eseguite le condanne a morte nei confronti di tre dei loro membri. Quando questi tre membri dell’Irgun furono giustiziati per impiccagione, i due sergenti britannici furono impiccati per rappresaglia e i loro corpi furono lasciati in un boschetto di eucalipti con delle trappole esplosive.

Nell’annunciare la loro esecuzione, l’Irgun affermò che i due soldati britannici erano stati impiccati in seguito alla loro condanna per “attività criminali anti-ebraiche” che consistevano in: ingresso illegale nella patria ebraica e appartenenza a un’organizzazione criminale britannica – noto come esercito d’occupazione – “responsabile di tortura, omicidio, deportazione e negazione del diritto alla vita nei confronti del popolo ebraico”. I soldati furono anche accusati di possesso illegale di armi, spionaggio antiebraico in abiti civili e premeditazione di progetti ostili contro l’organizzazione clandestina.

Ben oltre i confini territoriali della Palestina, tra la fine del 1946 e il 1947 fu lanciata una prolungata campagna di terrorismo contro gli inglesi. Atti di sabotaggio furono compiuti contro vie di comunicazione militare britanniche in Germania. Il Lehi tentò anche, senza successo, di sganciare una bomba sulla Camera dei Comuni con un aereo decollato dalla Francia e, nell’ottobre del 1946, mise una bomba all’ambasciata britannica a Roma. Numerosi altri ordigni furono fatti esplodere dentro e intorno a obiettivi strategici a Londra. Circa 21 lettere esplosive furono inviate, in varie occasioni, a personaggi politici britannici di alto livello. Molte furono intercettate, mentre altre raggiunsero i loro obiettivi, ma furono scoperte prima che potessero esplodere.

Il prezzo salato dell’autodeterminazione

L’autodeterminazione è un percorso difficile e costoso per chi si trova sotto occupazione. In Palestina, indipendentemente dall’arma che scegli – la voce, la penna o una pistola – esiste un prezzo elevato da pagare per il suo utilizzo.

Oggi, “dire la verità al potere” è diventato un mantra molto popolare della resistenza nei circoli e nelle associazioni neo-progressisti. In Palestina, tuttavia, per chi è sotto occupazione e sotto l’oppressione, ciò rappresenta un percorso quasi scontato verso la prigione o la morte. Tuttavia, per generazioni di palestinesi derubati persino dell’anelito alla libertà, la storia insegna che semplicemente non c’è altra scelta.

Il silenzio è la resa. Tacere significa tradire tutti coloro che sono venuti prima e tutti quelli che ancora devono seguire.

Per coloro che non hanno mai provato il giogo assillante dell’oppressione o non l’hanno visto da vicino, è un’ immagine [che va] oltre la comprensione. L’occupazione è pesante per chi la subisce, ogni giorno in ogni modo, creando limiti alla propria esistenza e alla propria possibilità di crescita.

Le ferite continue [provocate] dai blocchi, dalle armi, dagli ordini, dalla prigione e dalla morte sono compagne di viaggio per chi si trova sotto occupazione, che si tratti di bambini, ragazzi nella primavera della vita, anziani o di chi si trovi intrappolato dai confini artificiali di barriere sulle quali non si possiede alcun controllo.

Alle famiglie dei due poliziotti drusi israeliani che hanno perso la vita mentre cercavano di controllare un luogo che non spettava a loro presidiare, porgo le mie condoglianze. Questi giovani uomini, tuttavia, non hanno perso la vita nella lotta della resistenza, ma sono stati sacrificati intenzionalmente da un’occupazione malvagia che non possiede nessuna legittimità.

Alla fine, se c’è da addolorarsi, deve essere per gli 11 milioni di persone sotto occupazione, sia in Palestina che fuori, come tanti rifugiati apolidi, privati di una voce e di opportunità significative, mentre il mondo porge delle scuse soprattutto sotto forma di una confezione regalo finanziaria contrassegnata dalla stella di David.

Non passa giorno senza i gemiti agghiaccianti di una Nazione che veglia su un bambino palestinese avvolto in un sudario, privato della vita perché l’elettricità o il transito sono diventati un privilegio perverso che tiene milioni [di persone] ostaggio dei capricci politici di pochi. Che si tratti di israeliani, di egiziani o di coloro che si ammantano della leadership politica sui palestinesi, la responsabilità dell’infanticidio a Gaza è esclusivamente loro.

“Senza lotta, non esiste progresso”

I tre giovani cugini che hanno sacrificato volontariamente la propria vita nell’attacco ai due ufficiali israeliani a Gerusalemme non lo hanno fatto come un gesto vuoto nato dalla disperazione, ma piuttosto come una propria dichiarazione di orgoglio nazionale che fa seguito ad una lunga serie di altri che hanno ben compreso che il prezzo della libertà può, a volte, significare tutto.

Per 70 anni, non è passato un giorno senza la perdita di giovani donne e uomini palestinesi che, tragicamente, hanno trovato maggiore dignità e libertà nel martirio piuttosto che in una vita passiva, obbediente, sotto il controllo di coloro che hanno osato dettare i parametri della loro vita.

Milioni di noi in tutto il mondo sognano un momento e un posto migliori per i palestinesi … liberi di spalancare le ali, di librarsi, di scoprire chi sono e cosa desiderano diventare. Fino ad allora, non piango per la perdita di coloro che interrompono il loro volo. Invece applaudo coloro che hanno il coraggio di lottare, il coraggio di vincere – con ogni mezzo necessario.

Non c’è niente di straordinario nella resistenza e nella lotta. Esse trascendono il tempo e il luogo e derivano il loro più grande significato e il loro ardore dall’inclinazione naturale, anzi, spingono tutti noi a essere liberi – a essere liberi di scegliere il ruolo della nostra vita.

In Palestina non esiste tale libertà. In Palestina, il diritto internazionale riconosce i diritti fondamentali all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza di chi si trova sotto occupazione. Ciò, in Palestina, comprende il diritto alla lotta armata, se necessario.

Molto tempo fa, il famoso abolizionista Frederick Douglass [politico, scrittore, sostenitore del diritto al voto per le donne negli Stati Uniti, nel 1882 fu il primo afro-americano ad essere candidato alla vicepresidenza negli USA, n.d.tr.], egli stesso ex schiavo, scrisse a proposito della lotta. Queste parole riecheggiano oggi non meno di allora, in Palestina, rispetto a 150 anni fa, nel cuore del sud ante-guerra degli Stati Uniti:

“Se non c’è lotta, non c’è progresso. Coloro che professano di favorire la libertà, eppure deprecano la mobilitazione, sono uomini che vogliono coltivare senza arare il terreno. Vogliono la pioggia senza tuoni e fulmini. Vogliono l’oceano senza il terribile ruggito delle sue possenti acque. Questa lotta può essere morale; o può essere fisica; o può essere sia morale che fisica; ma deve essere una lotta. Il potere non concede nulla senza che gli venga chiesto. Non lo ha mai fatto e mai lo farà.”

Stanley L Cohen è un avvocato e un attivista per i diritti umani che ha svolto un ampio lavoro in Medio Oriente e Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il giurista dell’occupazione

Etan Nechin

5 novembre 2019 – The Jacobin

Razionalizzare l’occupazione israeliana

Meir Shamgar, ex presidente della Corte Suprema israeliana, è morto lo scorso mese. Uno dei padri fondatori del sistema giudiziario di Israele, ha utilizzato sotterfugi giuridici per dare una copertura legale all’illegale occupazione della terra palestinese

In Israele la destra ha sempre inveito contro la Corte Suprema del Paese, accusandola di porre limiti all’esercito e di favorire i diritti dei palestinesi sulle pretese dei coloni. Per i più infervorati sostenitori dell’occupazione della Palestina, la Corte Suprema israeliana è colpevole di “attivismo giudiziario”. Quando il politico di “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] Moti Yogev insistette perché la Corte Suprema venisse rasa al suolo dal un trattore D9, riassunse la posizione di molti nella destra israeliana. Allo stesso tempo la Corte Suprema spesso è celebrata come un bastione del liberalismo israeliano, un fulgido esempio della democrazia del Paese in una regione non democratica. Meir Shamgar, presidente della Corte tra il 1983 e il 1995, è particolarmente rispettato per il suo ruolo chiave in tutto ciò.

Lo scorso mese, in seguito alla sua morte, il presidente Ruvi Rivlin ha descritto Shamgar come uno dei “padri fondatori del sistema giudiziario israeliano” – e in effetti lo era. Prima di prestare servizio alla Corte Suprema di Israele per 20 anni, Shamgar aveva ricoperto posizioni molto importanti come avvocato generale militare per le IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.]) e poi come procuratore generale. La sua carriera è importante anche perché condusse l’inchiesta per l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.

 

Costruire il sistema giudiziario

Shamgar, nato Meir Sternberg, proveniva da una famiglia sionista revisionista [cioè di destra, ndtr.] della libera città di Danzica [in Polonia, ndtr.] nel 1925. La città-Stato semiautonoma, creata dal trattato di Versailles [dopo la Prima Guerra Mondiale, ndtr.] e in cui operava un potere legislativo misto polacco e tedesco, precipitò nel 1939 sotto l’autorità della Germania nazista – provocando l’immigrazione dell’adolescente Shamgar nella Palestina mandataria.

Lì si unì all’Irgun, il gruppo paramilitare ebraico guidato da Menachem Begin, che condusse attacchi sia contro i funzionari britannici che contro civili palestinesi. Nel 1946 venne arrestato per attività antibritanniche e passò due anni internato in Eritrea, ma tornò in tempo per partecipare alla guerra arabo-israeliana del 1948. Studi a Gerusalemme furono seguiti da una laurea in giurisprudenza a Londra, che gli consentì di diventare avvocato generale militare nel 1961. Su insistenza di Ben Gurion, ebraicizzò il suo cognome in Shamgar.

Come avvocato generale militare Shamgar definì rapidamente un quadro giuridico per ogni futuro scenario in cui Israele si sarebbe trovato ad occupare terra straniera. L’ipotesi di lavoro era sempre stata che, benché l’occupazione non potesse essere moralmente giustificabile, potesse essere razionalizzata dal punto di vista legale. A questo fine, invece di andare contro le convenzioni giuridiche, Shamgar le accolse – e le utilizzò per i suoi obiettivi. Molto prima dell’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, i consiglieri giuridici israeliani estrassero da documenti delle leggi internazionali – dalla [convenzione dell’] Aia, dalla Convezione di Ginevra e dal diritto consuetudinario britannico –possibili precedenti legali che potessero diventare utili. Voleva che tutti gli  ambiti giuridici venissero coperti – e la possibilità di ridefinirli quando la situazione fosse mutata.

 

Un quadro complessivo eterogeneo

I lavori preparatori di Shamgar non furono inutili: nel 1967 un milione di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania finì sotto il governo militare israeliano. Da un giorno all’altro le IDF presero il controllo della regione e divennero l’arbitro di tutte le questioni giudiziarie. I palestinesi si ritrovarono a vivere sotto l’autorità di un comandante regionale israeliano e, se arrestati, le loro cause legali vennero trattate da un tribunale militare. Le IDF distribuirono volantini per spiegare i nuovi ordini appena arrivavano dallo stato maggiore.

Fu un’idea di Shamgar definire i territori palestinesi come “tenuti” invece che “occupati”, suggerendo una provvisorietà che desse a Israele i margini giuridici per operare appositamente nei territori sostenendo nel contempo che non ci sarebbero rimasti.

Dopo il 1967 Israele affrontò una serie di ostacoli giuridici riguardo ai territori. In primo luogo dovette imparare come affrontare la resistenza palestinese all’occupazione. Se i palestinesi avessero avuto il diritto di resistere, con la violenza o meno, sarebbero stati considerati nemici combattenti, e i loro prigionieri sarebbero stati prigionieri di guerra – un risultato che Shamgar voleva evitare. La soluzione venne di nuovo trovata nei precedenti delle leggi internazionali. I pubblici ministeri avrebbero sostenuto che i combattenti palestinesi non stessero resistendo, ma attaccando “in modo indiscriminato”: quindi avrebbero potuto essere definiti terroristi. Anche la resistenza disarmata avrebbe potuto essere considerata ostile. Ciò portò all’attuale modus operandi nei territori occupati: ogni azione, persino andare a lavorare, è considerata potenzialmente ostile – perché la popolazione è vista come essenzialmente ostile. Oltretutto, dopo la guerra del 1967, Shamgar, in quanto procuratore generale, prese la decisione radicale di consentire ai palestinesi di presentare appello alla Corte Suprema israeliana. Il risultato fu intrecciare il sistema della giustizia e il potere giudiziario civile israeliani con gli ingranaggi del governo militare.

Per i palestinesi un giusto processo può essere interminabile, labirintico e limitato nella sua applicazione. Se si accetta l’ipotesi di lavoro che l’obiettivo dell’intera popolazione palestinese sia di rovesciare il potere dominante, allora si può anche accettare che l’esercito necessiti della libertà d’azione per agire in un territorio ostile. Questo punto di vista avvalorava la pratica della detenzione amministrativa, che fa in modo che palestinesi possano essere detenuti con accuse inconsistenti senza processo. Inizialmente questa pratica venne applicata con qualche limitazione, ma come la Prima Intifada si inasprì e i tribunali militari vennero impegnati da migliaia di giovani detenuti palestinesi, Israele adattò la legge per togliere ogni limitazione, vale a dire che i palestinesi potevano essere trattenuti indefinitamente senza vedere un giudice. Cambiare la legge fu piuttosto semplice: a differenza della legge israeliana, che deve essere ratificata tre volte dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] e applicata dai tribunali, le corti militari devono solo inviare agli alti comandi una nota perché sia firmata dal ministero della Difesa.

La destra può accusare la Corte Suprema israeliana di aver capitolato a favore dei palestinesi. Ma per lo più essa è stata esclusivamente dalla parte dell’esercito e dello Stato. Questa è la tautologia giuridica: quando una popolazione è definita ostile dallo Stato, esso può prendere misure per sopprimere ogni forma di ostilità – ma è lo Stato che decide cosa sia da considerare ostile. In questo modo la Corte Suprema smette di essere terzo ramo del potere e viene utilizzata invece come avallo giudiziario per annullare qualunque controllo del pubblico o internazionale. Ovviamente tutto ciò è legale. O, come afferma il detto israeliano, “è kosher [consentito dalla religione, soprattutto riguardo all’alimentazione, ndtr.], ma fa schifo.”

 

Legalizzare le colonie

Oltre ai palestinesi soggetti all’occupazione, i tribunali israeliani dovevano anche prendere in considerazione come trattare la popolazione ebraica che aveva iniziato ad insediarsi nei territori dopo il 1967. Secondo la convenzione di Ginevra, il “trasferimento di popolazione” è illegale. Ma, dato che i coloni israeliani non erano obbligati a spostarsi ma lo facevano volontariamente, la Corte Suprema definì ciò come legale.

Poi c’era il problema della terra in sé. Secondo le leggi internazionali, la terra poteva essere espropriata solo per ragioni di sicurezza – per cui la Corte Suprema stabilì che le colonie ebraiche dovevano essere demolite. Ma ciò non impedì alla destra israeliana di trovare una scappatoia giuridica. Come mostra il documentario del 2011 The Law in These Parts [La legge da queste parti, documentario israeliano sul sistema giudiziario, ndtr.], gli avvocati militari andarono a scavare nel diritto ottomano per cercare una soluzione e scoprirono che un “impero” aveva il diritto di confiscare “terra non coltivata”. Ovviamente le terre palestinesi erano tutt’altro che incolte. Ma, sotto gli auspici di Shamgar e della Corte Suprema, questa classificazione venne applicata nel 1975 e le colonie vennero autorizzate.

Pertanto i coloni ricadono sotto la giurisdizione del sistema giuridico israeliano, mentre i palestinesi no. È compito dei militari proteggere i coloni, e se un palestinese attacca un colono o un soldato, lui o lei saranno trattati come terroristi: violentemente e rapidamente. Ma se un colono attacca un palestinese, il caso viene trattato in un tribunale civile israeliano. Nell’eventualità di coloni che aggrediscano soldati, se il caso arriva a processo i coloni sono trattati come delinquenti, non come terroristi.

Nonostante i loro privilegi, molti coloni vedono l’apparato legale e securitario israeliano come ostile a loro. Percepiscono la struttura formale democratico-giudiziaria israeliana come estranea e interventista. Il ministro dei Trasporti e politico di “Casa Ebraica” Bezalel Smotrich ha fatto eco a questa opinione quando ha detto che Israele dovrebbe seguire la legge della Torah [insieme di prescrizioni religiose, ndtr.].

L’avvocatura generale militare, insieme alla Corte Suprema israeliana, ha fornito una copertura all’esercito per la prassi delle uccisioni mirate e ha fatto finta di niente quando si è trattato della tortura di palestinesi sospetti.

 

La nuova normalità

Shamgar si congedò dalla Corte Suprema nel 1995. Quell’anno presiedette l’inchiesta ufficiale sull’assassinio di Yitzhak Rabin. È ironico che Yigal Amir, lo studente di diritto di destra che uccise Rabin, lo fece perché anche lui era preoccupato dello status dei territori occupati; si prese l’incarico di applicare la legge ebraica, diventando giudice ed esecutore. La commissione Shamgar affermò che l’uccisione era stata possibile per una mancanza di cooperazione tra i vari organi della sicurezza responsabili delle misure complessive di sicurezza durante gli eventi pubblici. Ma non prese in considerazione lo spostamento ideologico strutturale che era avvenuto dal 1967: i territori “tenuti” erano legati alla terra da forze politiche che approvavano la costruzione di nuove colonie, politici messianici ed esercito che, invece di difendere una popolazione, ne controllava un’altra e da un sistema giuridico che in realtà era triplice: uno per gli israeliani, uno per i palestinesi e uno per i coloni.

Quello che il sistema legale non ha affrontato è il fatto che il provvisorio era diventato permanente. Nel 2012 il rapporto Levy, stilato da una commissione speciale nominata dal governo sugli avamposti dei coloni, concluse che le colonie erano legittime e che ogni avamposto non autorizzato lo dovesse essere. Ciò ha consolidato un enorme paradosso: la commissione non riconobbe la Cisgiordania come territorio occupato né chiese allo Stato di annetterlo. Né un territorio dello Stato né un territorio occupato, non è chiaro quale base giuridica esista per regolare le attività di Israele nei territori occupati. Questa ambiguità è molto proficua per Israele, in quanto consente alle IDF di esercitare potere nei territori palestinesi mantenendo i suoi abitanti palestinesi in una zona grigia giuridica.

I funzionari giudiziari e pubblici israeliani hanno sempre inventato nuovi sistemi per giustificare l’occupazione, per adeguare i fatti all’ideologia e non viceversa. Il sistema giuridico in Israele e l’ordine militare in Palestina sono certo militanti, ma non nel senso inteso dalla destra. La Corte Suprema usa le sue apparenti credenziali progressiste sulle libertà civili israeliane e la sua conservazione dell’integrità elettorale come un modo per giustificare l’apparato oscuro che opera nel cortile di casa orientale di Israele.

Con Shamgar al comando, il sistema giudiziario israeliano è stato fondamentale nella trasformazione delle leggi israeliane per adeguarle al progetto politico e territoriale dell’occupazione. Questa è l’eredità di Meir Shamgar.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un dipartimento del ministero della Difesa israeliano è incaricato di nascondere le prove della Nakba – da “Haaretz”

Jonathan Ofir

5 luglio 2019 MondoWeiss

Israele ha un dipartimento segreto del ministero della Difesa incaricato di far sparire documenti relativi alla Nakba. Oggi il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un‘estesa inchiesta di Hagar Shezaf intitolata “Seppellire la Nakba: come Israele ha sistematicamente nascosto le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948”.

Il dipartimento è chiamato “Direzione della sicurezza dell’Istituzione della Difesa”, con l’acronimo in ebraico MALMAB. In ebraico risulta persino più ossessivo, perché le parole “Difesa” e “Sicurezza” sono le stesse (‘Bitahon’), quindi sarebbe “Direzione della Sicurezza per l’Istituzione della Sicurezza”. Quindi, da cosa l’istituzione della sicurezza si sta proteggendo?

Apparentemente si tratta della ricerca di documenti relativi a informazioni sensibili che riguardano il programma nucleare segreto di Israele. Ma è chiaro che il dipartimento si è occupato di informazioni sulla pulizia etnica della Palestina nel 1948 (e anche di espulsioni successive) in quanto minaccia strategica. Quindi documenti che sono già stati approvati dal censore per essere declassificati, già pubblici e citati, sono stati di nuovo messi in cassaforte per ordine di questi funzionari.

Per parecchi decenni il dipartimento segreto ha fatto sparire documenti. Alla fine degli anni ’80 le prove documentali relative ad avvenimenti della Nakba da parte di storici quali Benny Morris, Ilan Pappe e Avi Shlaim, noti anche come “Nuovi Storici”, sono diventate un problema per lo Stato, in quanto mettevano in dubbio la versione della propaganda israeliana e confermavano in larga misura quella che era stata derisoriamente definita la “narrazione palestinese”. Yehiel Horev, l’ufficiale che ha fondato e guidato il dipartimento per due decenni, fino al 2007, non è stato per niente reticente riguardo alla sua subdola motivazione. Alla domanda riguardo a un documento problematico che Morris aveva già citato nel 1986, Horev ha detto:

Non ricordo il documento a cui lei si riferisce, ma se l’ha citato e quello stesso documento non è là (cioè dove Morris dice che sia), allora i fatti di cui parla non sono affidabili. Se dice: ‘Sì, ho il documento,’ non lo posso discutere. Ma se dice che è scritto là, potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già stato reso pubblico e fosse rinchiuso in archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno l’ha citato, c’è una differenza tra il giorno e la notte riguardo alla validità della prova che ha citato.

In altre parole, l’obiettivo del lavoro è minare la credibilità di quanti hanno già citato quei documenti.

Il documento specifico a cui ci si riferisce nella domanda non è un documento qualunque. È un documento del 30 giugno 1948 chiamato “L’emigrazione degli arabi della Palestina”, redatto dal servizio di intelligence militare israeliana, che elenca le ragioni della fuga dei palestinesi. Vengono elencati undici motivi in ordine di importanza, di cui i primi tre sono:

1. Operazioni ostili ebraiche (Haganah/IDF [principale milizia sionista/esercito israeliano, ndtr.] dirette contro insediamenti arabi;

2. Gli effetti delle nostre (Haganah/IDF) operazioni ostili contro insediamenti (arabi) vicini…(…soprattutto la caduta di grandi centri nei dintorni);

3. Operazioni di dissidenti (ebrei: Irgun Tzvai Leumi e Lohamei Herut Yisrael [altre due milizie sioniste ultranazionaliste e dedite al terrorismo fin dagli anni ‘30, ndtr.]).

In seguito il documento riepiloga i fattori e conclude:

Per riassumere le sezioni precedenti, si potrebbe pertanto dire che l’impatto delle “azioni militari ebraiche (Haganah e dissidenti) sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni.

A conferma che queste sono state le principali e fondamentali ragioni della fuga dei palestinesi, il documento attesta che i palestinesi per lo più se ne andarono per il timore immediato e a causa delle ostilità dirette, e non, come sosteneva la versione della propaganda israeliana, perché “i leader arabi glielo avevano detto.” Tale documento si riferisce alla responsabilità in termini di espulsione attiva dei palestinesi, indicando la nozione di pulizia etnica – che Ilan Pappe ha esplicitato nel suo libro fondamentale del 2006 “La pulizia etnica della Palestina.”

Dopo aver scritto l’articolo nel 1986, Morris ha citato questo documento anche in libri successivi. Ho fatto riferimento a questo in precedenti articoli, citando queste parti cruciali.

Quel documento è molto esteso. Nel bel mezzo della Nakba descrive già nei minimi dettagli lo spopolamento di 219 villaggi e 4 città, di 239.000 palestinesi. La campagna di pulizia etnica era in pieno svolgimento, e in sei mesi avrebbe riguardato lo spopolamento di 500 villaggi e città e circa 750.000 palestinesi. Il documento contiene 29 pagine ed è meticoloso in modo agghiacciante. Elenca il numero di abitanti in ogni località “durante un periodo normale”, in modo molto preciso (per esempio: Salihiyya – 1.520”; “Mansura – 360”) e poi elenca la ragione dello spopolamento (ad esempio: “Ein Zaytoun – distruzione del villaggio da parte nostra”; Qabba’a – nostro attacco contro di loro”). In genere viene elencata la direzione della fuga (per esempio: Qabba’a – “Libano”).

Quindi, che ne è di questo documento? C’è stato un incidente, una crepa nel muro del negazionismo. Benché sia diventato riservato dopo essere già stato citato, e nonostante il gruppo di lavoro del Malmab avesse ordinato che rimanesse segreto, pochi anni dopo ricercatori di Akevot, un istituto di ricerca che si dedica a documentare questioni relative ai diritti umani nel conflitto israelo-palestinese, trovarono una copia del testo e lo mostrarono alla censura militare – che ne autorizzò senza condizioni la pubblicazione. A quanto pare i dipartimenti deputati a nascondere le prove non hanno comunicato in modo corretto tra di loro. Questo documento fondamentale ora si può trovare integralmente grazie ad Akevot.

Ma il sistema di occultamento retroattivo continua a funzionare. Haaretz racconta la recente vicenda della storica israeliana Tamar Novick, che ha scoperto un documento del 1948 presso l’archivio Yad Yaari [centro di documentazione e studio su alcuni movimenti sionisti, ndtr.] di Givat Haviva [centro di documentazione del movimento dei kibbutz, ndtr.]. Il documento afferma:

Safsaf (in origine un villaggio palestinese nei pressi di Safed) – 52 uomini sono stati presi, legati uno all’altro, hanno scavato una fossa e sono stati colpiti a morte. Dieci si stavano ancora contorcendo. Sono arrivate le donne, chiedendo pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazzina di 14 anni, e quattro uomini colpiti e uccisi. A uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello.

Continua descrivendo altri massacri, saccheggi e violenze. Il documento in sé non era firmato (benché fosse nella documentazione del funzionario del dipartimento arabo del partito di sinistra MAPAM Yosef Vashitz) ed era tagliato a metà, per cui Novick ha deciso di consultarsi con Morris – che aveva citato avvenimenti simili nei suoi scritti. Le descrizioni di Morris sono prese da un altro documento (un rapporto del membro del Comitato Centrale del MAPAM Aharon Cohen), che proveniva anch’esso dallo stesso archivio. Quindi Novick è tornata a Givat Haviva per confermare i due documenti, ed ha scoperto che quello citato da Morris non c’era più.

In un primo tempo ho pensato che forse Morris non era stato preciso nelle sue note, che forse aveva fatto un errore,” ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo prima di prendere in considerazione la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso.” Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era stato messo sottochiave allo Yad Yaari per ordine del ministero della Difesa.

La Malmab ha fatto sparire anche documenti successivi. Per esempio una testimonianza del geologo Avraham Parnes relativa a un’espulsione di beduini nel 1956:

Un mese fa abbiamo visitato Ramon (cratere). Nella zona di Mohila alcuni beduini sono venuti da noi con le loro greggi e le loro famiglie e ci hanno chiesto di mangiare con loro. Ho risposto che avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Nella nostra visita di questa settimana abbiamo di nuovo visitato Mohila. Invece dei beduini e delle loro greggi c’era un silenzio di morte. Una serie di carcasse di cammelli era sparsa nella zona. Abbiamo saputo che tre giorni prima l’IDF aveva ‘tolto di mezzo’ i beduini e le loro greggi erano state sterminate – i cammelli a fucilate, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a protestare, era stato ucciso, gli altri erano scappati…Due settimane prima era stato loro ordinato per il momento di rimanere dov’erano, poi era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose più di 500 capi erano stati massacrati…L’espulsione era stata realizzata ‘in modo efficace’.

La lettera continua citando quello che aveva detto uno dei soldati a Parnes, secondo la sua testimonianza:

Non se ne sarebbero andati se non avessimo fatto fuori le loro greggi. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti d’ottone. Le abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso un pezzetto come souvenir.

Recenti interviste, come quelle rilasciate all’inizio degli anni 2000 dal centro Yitzhak Rabin, sono state quasi tutte fatte sparire dalla Malmab, come questa sezione con il generale (della riserva) Elad Peled, intervistato dallo storico Boaz Lev Tov:

Peled: “Guarda, lascia che ti racconti qualcosa ancora meno piacevole e più crudele riguardo alla grande incursione a Sasa (villaggio palestinese nell’Alta Galilea). L’obiettivo era in effetti di scoraggiarli, di dire loro: ‘Cari amici, il Palmach (le truppe d’assalto dell’Haganah) può raggiungere ogni posto, voi non siete al sicuro.’ Quello era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare 20 case con tutto quello che c’era dentro.”

Lev Tov: “Mentre la gente vi stava dormendo?”

Peled: “Penso di sì. Quello che avvenne là: arrivammo, entrammo nel villaggio, piazzammo una bomba nei pressi di ogni casa e poi Homesh suonò una tromba, perché non avevamo radio, e quello era il segnale perché (le nostre forze) se ne andassero. Corremmo all’indietro, gli artificieri rimasero, schiacciarono i pulsanti, era tutto rudimentale. Accesero la miccia o premetterono sul detonatore e tutte quelle case sparirono.”

Fortunatamente Haaretz ha avuto le trascrizioni integrali.

Questa ‘task force’ chiamata Malmab ha anche lanciato minacce contro archivisti. Menahem Blondheim, direttore dell’archivio presso l’Istituto di Ricerca Harry S. Truman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ricorda i suoi scontri con funzionari della Malmab nel 2014:

Ho detto loro che i documenti erano vecchi di decenni e che non potevo immaginare che ci potesse essere alcun problema di sicurezza che potesse giustificare una restrizione al loro accesso per i ricercatori. Mi hanno risposto: ‘Mettiamo che ci sia una testimonianza secondo cui durante la guerra d’indipendenza [la guerra tra milizie israeliane, Paesi arabi e palestinesi nel 1947-48, ndtr.] i pozzi vennero avvelenati?” Ho risposto: “Bene, quella gente dovrebbe essere processata.”

Haaretz nota come “il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un funzionario più importante del ministero, solo che questa volta l’atteggiamento che riscontrò fu diverso e vennero fatte minacce esplicite. Alla fine le due parti raggiunsero un compromesso.”

A quanto pare questo intervento di un ente segreto del ministero della Difesa sta provocando un considerevole dissenso negli archivi di Stato. Circa un anno fa, il consigliere giudiziario degli archivi di Stato, l’avvocatessa Naomi Aldouby, ha scritto un parere intitolato “Documenti negli archivi pubblici secretati senza autorizzazione.” Secondo lei la politica di accessibilità agli archivi pubblici è di esclusiva competenza del direttore di ogni istituzione. Gli storici sospettavano che questo ente segreto esistesse, perché ne avevano trovato tracce. Benny Morris:

Ne ero a conoscenza. Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma ci ho avuto a che fare quando ho scoperto che documenti che avevo visto nel passato ora sono secretati. C’erano documenti dell’archivio dell’esercito che avevo usato per un articolo su Deir Yassin [villaggio palestinese in cui nel 1948 avvenne la strage più nota, ndtr.) e che ora sono secretati. Quando sono andato nell’archivio non mi è più stato possibile vedere l’originale, per cui ho sottolineato in una nota (nell’articolo) che l’archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo reso pubblici 15 anni prima.

Questa scomparsa di documentazione in precedenza disponibile è parte di un più generale modello di segretezza. Secondo il direttore di Akevot , Lior Yavne, l’archivio dell’IDF, che è il più grande di Israele, è quasi del tutto inaccessibile. L’archivio dello Shin Bet (servizio di sicurezza [interna]) è “totalmente chiuso salvo una manciata di documenti.” Nel 1998 la riservatezza dei documenti più antichi dello Shin Bet e del Mossad [servizio di sicurezza esterno, ndtr.] doveva scadere (dopo 50 anni). Nel 2010 esso è stato retroattivamente esteso a 70 anni, e lo scorso febbraio a 90 anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi.

Lo storico Tuvia Friling, che fu capo archivista tra il 2001 e il 2004, dice che una delle ragioni principali per cui diede le dimissioni fu questo intervento da parte della Malmab. Afferma che in un primo tempo accettò il suo intervento con il pretesto che i documenti sarebbero stati messi su internet e che essa operava con il mandato di impedire che segreti nucleari divenissero accessibili a tutti, ma poi censurarono altre cose:

La secretazione posta su documenti riguardanti l’emigrazione araba nel 1948 è esattamente un esempio di quello che temevo. Il sistema di conservazione e archiviazione non è un’arma delle relazioni pubbliche dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace – bene, così è la vita. Una società sana impara anche dai propri errori…Lo Stato può imporre riservatezza su alcuni dei suoi documenti – la domanda è se la questione della sicurezza non agisca come una sorta di copertura. In molti casi è già diventata una beffa.

Il fondatore della Malmab Yehiel Horev ha detto a Hagar Shezaf:

Quando lo Stato impone riservatezza, il lavoro pubblicato viene danneggiato perché lui (Morris) non ha il documento.

Shefaz gli chiede:

Ma nascondere documenti presenti nelle note di libri non è un tentativo di chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono già scappati?

Horev:

Se qualcuno scrive che il bue è nero, se il bue non è fuori dalla stalla, non puoi dimostrare che lo sia davvero.

Ma il bue è davvero nero. Un’altra intervista che la Malmab ha tentato di nascondere è quella con il generale Avraham Tamir (sempre tratta dalle interviste del Centro Yitzhak Rabin). Tamir dice:

Ben Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire (i villaggi) in modo che non abbiano dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi.

Proprio come la sistematica distruzione dei villaggi durante la Nakba, l’agenzia segreta israeliana Malmab “per la sparizione di documenti” sta cercando di far sparire le tracce della Nakba, in modo che gli storici non possano avere “nessun posto in cui tornare” in termini di ricerche, persino quando si tratta di verificare una documentazione storica critica già citata. La Malmab cerca di riportare i “buoi” della Nakba nella stalla – in modo che per dimostrare che “il bue è nero”, per dimostrare che c’è stata una Nakba, l’onere della prova spetti agli storici. E allora tutto diventa una discussione tra “narrazioni”.

Come dice Horev:

C’è ogni sorta di narrazione. Alcuni dicono che non ci fu nessuna fuga, solo espulsioni. Altri che ci fu una fuga. Non è bianco o nero. C’è una differenza tra la fuga e quelli che dicono che furono espulsi con la forza. È un’immagine diversa.

Hover e Israele sanno, precisamente, che nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una questione di espulsione forzata e del terrore di tale espulsione che si sparse tra le comunità palestinesi. Cercano di nascondere proprio i documenti che confermano ciò in termini chiari. La logica di questa negazione è evidente: intende scongiurare il problema della colpa per l’espulsione, per la pulizia etnica, in modo da negare la responsabilità per il ritorno dei rifugiati. Perché l’espulsione dei palestinesi è stata una necessità assolutamente fondamentale per il sionismo e Israele nei termini dell’”equilibrio demografico” in uno Stato “ebreo e democratico”. Conservare questo “equilibrio”, e negare il ritorno ai rifugiati è un obiettivo centrale del sionismo, e lo è stato dalla creazione di Israele.

La doppia presenza del termine “sicurezza” nell’acronimo Malmab è indicativo del suo opposto, l’insicurezza. Questa è l’intrinseca insicurezza morale israelo-sionista, che deriva dalla consapevolezza che il progetto sionista è basato per la sua stessa esistenza sullo sradicamento di altri. C’è una profonda consapevolezza in ogni sionista: non si potrà mai ottenere la sicurezza se non verrà posto rimedio al torto della (continua) pulizia etnica. Invece di affrontarlo, Israele pratica la negazione, nella speranza che se esso ne andrà via. Ma non lo farà. Questo bue è decisamente nero.

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas e l’Irgun? Come oso metterli a confronto…

Per tutti coloro che soffrono di amnesia volontaria ecco solo alcuni degli episodi salienti di violenza dell’Irgun  degna di Hamas.

di B. Michael – 2 maggio 2016 Haaretz

Così ha parlato Benjamin Netanyahu poche ore dopo l’esplosione il 18 aprile di una bomba su un autobus a Gerusalemme, rivendicata in seguito da Hamas: “Troveremo chiunque abbia preparato questo ordigno esplosivo, prenderemo chiunque ci sia dietro e faremo i conti con questi terroristi.” – affermazioni nette e determinate. E dove ha proferito queste ferme parole? Durante una commemorazione degli 85anni dalla fissazione dell’anno della fondazione dell’Irgun, o Etzel, la milizia clandestina pre-statale diretta da Menachem Begin.

Purtroppo Netanyahu ha dimenticato di specificare a quali “terroristi” si riferisse: quelli di cui stava celebrando l’85mo compleanno, o quelli che hanno fatto saltare in aria un autobus quel giorno al mattino presto?

Ma come potrei osare metterli a confronto.

Pochi giorni più tardi, Moshe Arens si è unito a Netanyahu. In un editoriale (Haaretz, 26 aprile) anche lui ha mostrato la sua quota di memoria selettiva e di concreta ipocrisia. Nel suo tentativo di compiacere il deputato Zouheir Bahloul (dell’Unione Sionista), Arens ha spiegato la fondamentale differenza tra “i gruppi clandestini ebrei” e “le organizzazioni terroristiche palestinesi”. I combattenti per la libertà ebrei, si è vantato l’ex membro dell’Irgun, attaccavano i soldati del mandato britannico [sulla Palestina. Ndtr.], non i civili, mentre i terroristi palestinesi prendono di mira principalmente i civili. “Questa è l’essenza del terrorismo – uccidere civili,” ha scritto Arens.

Per risvegliare la memoria di Arens e di chiunque altro soffra di amnesia volontaria, qui di seguito c’è un piccolo campione, una goccia nell’enorme bacino di lodevoli imprese realizzate dagli eroi dell’Irgun e del Lehi (la milizia guidata da Yitzhak Shamir e nota come la Banda Stern). Tutte provengono da fonti ufficiali revisioniste [cioè della destra sionista. Ndtr.]:

14 novembre 1937 – Uomini armati dell’Irgun a Gerusalemme mettono in atto un “attacco a colpi di arma da fuoco” uccidendo due passanti arabi a Rehavia. Più tardi, cecchini sparano a un autobus arabo, uccidendo tre passeggeri e ferendone otto. Bravo, Irgun!

17 aprile 1938 – Per la prima volta (ma non per l’ultima) l’Irgun lancia una bomba in un caffè arabo, con risultati modesti: una persona uccisa, sei ferite.

5 aprile 1938 – Una serie di attacchi terroristici contro passanti a Jaffa, Tel Aviv e Gerusalemme. Bombe e spari contro gli autobus. I risultati migliorano: muoiono 11 arabi, 22 rimangono feriti.

6 luglio 1938 – L’Irgun colloca un ordigno esplosivo in un mercato all’aperto di Haifa, al di fuori di “motivazioni politiche”. L’ordigno è composto da alcuni bidoni del latte di metallo, riempiti di esplosivi e di chiodi: 18 arabi uccisi, 38 feriti.

16 luglio 1938 – Un ordigno dello stesso tipo nel suk arabo di Gerusalemme: 10 morti, 31 feriti.

26 luglio 1938 – Di nuovo ad Haifa e un altro ordigno esplosivo dell’Irgun: 27 arabi rimangono uccisi, 46 feriti.

26 agosto 1938 – Questa volta il suk di Jaffa: “Un potente ordigno” come hanno detto. L’Irgun rivendica: muoiono 24 arabi, 35 sono feriti.

29 maggio 1939 – L’Irgun fa saltare in aria un cinema di Gerusalemme: 5 spettatori uccisi, 18 feriti.

20 giugno 1939 – Un’operazione contro un suk particolarmente riuscita: 78 arabi (e un asino) sono uccisi da un’esplosione in un mercato all’aperto di Haifa. L’asino era carico di esplosivo.

Tra il giugno e il luglio del 1939 l’Irgun ha ucciso dozzine di persone in tutto il Paese. L’unica colpa delle vittime era il fatto di essere arabi. Neppure l’Irgun sostiene il contrario.

Seguono alcuni anni relativamente tranquilli, ma verso la fine del Mandato Britannico queste gloriose operazioni di combattimento riprendono la loro frenesia.

4 dicembre 1947 – Bombe nei caffè, un barile di esplosivo in una stazione degli autobus, lancio di granate, sparatorie: dozzine di arabi sono uccisi.

29 dicembre 1947 – Una bomba dell’Irgun alla Porta di Damasco della Città Vecchia di Gerusalemme: 17 vittime.

30 dicembre 1947 – Membri dell’Irgun attaccano un gruppo di manovali arabi nella baia di Haifa, uccidendone 6 e ferendone 40.

4 gennaio 1948 – Un’auto-bomba del Lehi a Jaffa uccide 70 arabi.

7 gennaio 1948 – L’Irgun tenta di emulare il suo “piccolo fratello” con una bomba alla Porta di Jaffa nella Città Vecchia di Gerusalemme. Solo 24 arabi uccisi.

18 febbraio 1948 – Una bomba nel mercato di Ramle uccide 37 arabi.

E per concludere – 9 aprile 1948: l’Irgun entra a Deir Yassin, nei dintorni di Gerusalemme, e massacra 245 abitanti del villaggio. Sei giorni dopo, una folla di arabi attacca un convoglio medico diretto al Monte Scopus di Gerusalemme, massacrando 36 persone. ( Chiunque tiri frettolose conclusioni in merito alla relazione tra questi due eventi non è altro che un maledetto post-sionista).

I successivi massacri ed atrocità sono messi a segno dall’esercito del nascente Stato, piuttosto che dai gruppi clandestini che hanno aderito alla purezza-delle-armi [autorappresentazione dell’esercito israeliano, che si definisce “il più morale al mondo.” Ndtr.].

(Ho il piacevole dovere di elogiare ancora una volta Menachem Begin, di santa memoria, che dopo aver preso il comando dell’Irgun, fece il possibile per limitare questo terrorismo sfrenato. Dal 1944 fino alla fine del 1947 l’Irgun lottò puntualmente solo contro l’occupante britannico).

Questa è solamente una manciata di rimembranze. Ci sono molti più esempi di simili atti umani, con centinaia di civili innocenti che sono stati uccisi.

Se qualcuno, Dio non voglia, tenta ancora di paragonare le atrocità degli assassini arabi con le glorie dei combattenti ebrei (solo per il fatto che entrambi hanno commesso azioni assolutamente identiche), spiegheremo ancora una volta che la differenza tra il terrorismo ismaelita e i combattenti per la libertà ebrei è la stessa che passa tra i riccioli ebrei e il codino dei cinesi. Anche un bambino sa che un boccolo dell’ uomo ebreo è il culmine di bellezza e di purezza mentre un codino cinese è semplicemente disgustoso.

Non c’è davvero confronto.

(Traduzione di Amedeo Rossi)