La realtà e la sua maschera

Giorgio M., Cruciati C., Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma, 2018, 15 €.

Amedeo Rossi

Il libro di Michele Giorgio e Chiara Cruciati, giornalisti de “Il Manifesto”, rappresenta un utile strumento per fare un bilancio di 70 anni della nascita di Israele, ma soprattutto per misurare quanto la realtà storica e l’attualità siano lontane dall’opinione corrente su questa vicenda.

Il libro è strutturato in due parti e tre appendici: una cronologia fondamentale, un glossario e alcune immagini relative a questioni affrontate nei precedenti capitoli. Nella prima parte gli autori ripercorrono la storia del sionismo dalle sue origini nel XIX° secolo alla fondazione dello Stato di Israele. Nonostante le differenze tattiche tra le sue varie correnti, dal capitolo emerge una sostanziale condivisione dell’obiettivo da raggiungere, e ciò implicasse la negazione del diritto dei palestinesi alla terra su cui avevano vissuto per secoli. Anzi, nel negare la loro stessa esistenza, in quanto intralcio per la realizzazione del progetto sionista. Questa è stata una delle ragioni delle aspre critiche nei confronti del movimento da parte di intellettuali ebrei, tra cui Martin Buber, Hannah Arendt, Marek Edelman, Noam Chomsky. Oltre all’estrema coerenza e determinazione con cui i dirigenti sionisti, contro ogni ragionevolezza, hanno perseguito, realizzato ed ampliato il sogno di Herzl, emerge la spietatezza nei confronti della popolazione autoctona che ha guidato l’azione politica sionista fin dai primi tempi. Gli autori citano ad esempio Israel Zangwill, scrittore ebreo britannico: “Non esiste alcuna ragione particolare perché gli arabi debbano restare aggrappati a questi pochi chilometri di terra. Ripiegare le tende e andarsene di soppiatto è la loro proverbiale abitudine. Che lo facciano anche ora […] Dobbiamo garbatamente convincerli a mettersi in marcia.” Il brano mette in luce gli stereotipi orientalisti del suo autore e la convinzione che i palestinesi avrebbero facilmente lasciato posto ai nuovi venuti. I sionisti si resero presto conto che invece erano tenacemente legati alla propria terra, e passarono a metodi tutt’altro che “garbati”.

La seconda parte costruisce, per lo più attraverso una serie di interviste ad intellettuali sia israeliani che palestinesi, una sorta di mosaico a partire da alcune questioni cruciali che costituiscono la narrazione prevalente sul conflitto israelo-palestinese. E’ su questi punti che si è costruito il mito citato nel titolo del volume: il rapporto tra ebrei, Olocausto e Israele; la Palestina, i palestinesi e gli ebrei prima e dopo la nascita di Israele, tra ritorno negato agli uni e “ritorno” promesso agli altri; il sionismo e i Israele come esperienze socialiste; la questione di stretta attualità dei diritti di cittadinanza e nazionalità tra ebrei e palestinesi in Israele; il rapporto tra antisemitismo e filo-sionismo; infine, l’idea di Israele come parte dell’Occidente e quindi dei palestinesi come intrusi.

I capitoli-interviste sono sintetici ma ricchi di notazioni e spunti interessanti. Per ragioni di spazio mi limiterò a citarne solo alcuni.

Lo storico palestinese Salim Tamari smentisce una delle asserzioni della narrazione sionista: il fatto che il nazionalismo palestinese sia stato una reazione tardiva al sionismo. Secondo Tamari in realtà tra la fine dell’XIX° secolo e i primi del XX° si era risvegliato tra i palestinesi un sentimento nazionale anti-turco prima e antisionista poi. In particolare divenne centrale la questione delle terre: “I sionisti compravano terreni per dare vita a colonie per ebrei e cacciavano via i contadini palestinesi che in molti casi le avevano coltivate per generazioni, sebbene per conto dei proprietari. E questo problema rappresentò un punto centrale per la mobilitazione nazionalista palestinese.” La citazione per un verso individua nel problema della terra e non nell’odio razziale o religioso la causa dei primi conflitti tra palestinesi e sionisti. Dall’altro evidenzia una delle caratteristiche costanti del progetto sionista: separare la popolazione autoctona dalla terra. Ciò ebbe in Palestina, come in altre realtà coloniali pre-capitaliste, effetti dirompenti sulla popolazione e sull’economia locali.

Il risultato di questo processo viene analizzato in un capitolo successivo, costruito con inserti di un’intervista a Wasim Dahmash, docente di lingua e letteratura araba all’università di Cagliari, che riguarda il “ritorno” degli ebrei e la contemporanea espulsione dei palestinesi. Si tratta di una situazione caratterizzata da una serie di palesi contraddizioni. Agli ebrei di qualunque Paese al mondo viene concessa l’aliyah (letteralmente la “salita”, dalla diaspora alla biblica terra degli antenati), ai palestinesi è negato questo diritto e vengono considerati “infiltrati”, ed alcuni di quelli rimasti nello Stato d’Israele sono considerati “presenti assenti”. La recentissima legge, approvata a luglio relativa allo “Stato-Nazione ebraico” attribuisce valore costituzionale alle discriminazioni cui è già soggetto il 20% della popolazione non ebraica di Israele e di cui parla un capitolo del libro.

Due capitoli si occupano invece del mito relativo ad Israele come Paese “socialista”, che in Occidente ha affascinato parte della sinistra. Il primo riguarda l’Histadrut, il sindacato sionista. Esso si adeguò a quanto affermato da Ben Gurion già nel 1934: “Se non facciamo ogni genere di lavoro, facile e difficile, specializzato e non, se resteremo dei meri proprietari, questa patria non sarà mai nostra.” Il corollario di questa affermazione è stata naturalmente l’espulsione della maggioranza dei palestinesi. Tuttavia Israele ha utilizzato prigionieri arabi della guerra del ’48 come lavoratori forzati internati in veri e propri lager, e l’Histadrut è stato un sindacato di regime. È dal sindacato che nacque la principale milizia armata sionista, l’Haganah. Dopo la fondazione di Israele, fino al 1959 ai palestinesi con cittadinanza israeliana venne negata l’iscrizione al sindacato e imposte discriminazioni salariali. Un sindacalista britannico ha affermato: “Il principale ruolo di Histadrut non era la difesa dei salari e le condizioni di lavoro dei suoi membri ma la colonizzazione della Palestina […] Histadrut fu un sindacato capitalista.” Dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, ai lavoratori palestinesi nelle colonie o in territorio israeliano è stato imposto il pagamento delle quote sindacali senza però il godimento dei relativi diritti assistenziali e previdenziali.

Il secondo riguarda il modello del kibbutz, a lungo considerato come una sorta di comune. In realtà anch’esso è strettamente legato all’ideologia sionista, che esclude i palestinesi, ed anzi è stato storicamente uno degli strumenti per la loro espulsione dalle terre. È significativa a questo proposito la citazione presente nel libro dell’episodio narrato in un’intervista da Moshe Dayan, protagonista della vittoria militare del ’67: una delegazione di membri di kibbutz del nord di Israele si recò dall’allora primo ministro Levy Eshkol per intimargli di aprire le ostilità contro la Siria per occupare le fertili terre del Golan. Nel capitolo Sergio Yahni, giornalista e analista di origini argentine che ha vissuto a lungo in un kibbutz, racconta il ruolo attivo dei kibbutzim nel Palmach, reparto d’élite dell’Haganah, responsabile di massacri ed espulsioni di palestinesi. Inoltre per molti anni nei kibbutz non vennero accolti gli ebrei provenienti dai Paesi arabi. A partire dagli anni ‘80, con l’avanzare delle politiche neoliberiste, anche queste esperienze comunitarie sono diventate sempre più marginali o si sono trasformate a tutti gli effetti in aziende di tipo capitalistico.

In estrema sintesi, questo libro ricostruisce un’immagine di Israele ben lontana da quella più diffusa e mette in luce quello che hanno rappresentato e continuano a rappresentare il sionismo e il suo Stato, non solo negli anni di Netanyahu e dell’estrema destra al potere, ma fin dalle loro origini: nazionalismo, colonialismo e, con la nascita dello Stato di Israele, regime di apartheid, per certi versi peggiore di quello sudafricano. Lo denunciano, inascoltati, anche intellettuali e giornalisti israeliani, lo tacciono invece i nostri mezzi di comunicazione ed i nostri politici.

C’è da sperare che il lavoro di Giorgio e Cruciati non venga letto solo nella ridotta cerchia di chi già è impegnato nella lotta a favore dei diritti del popolo palestinese, ma soprattutto da chi continua a credere al mito dell’”unica democrazia del Medio Oriente”.




Israele colpisce a morte un giovane palestinese a Gaza durante le proteste di venerdì

Redazione di MEE

venerdì 27 luglio 2018Middle East Eye

Il ministero della Salute di Gaza afferma che durante le proteste di venerdì ci sono state due vittime, tra cui un ragazzino di 14 anni

Due palestinesi, tra cui un ragazzino di 14 anni, sono stati uccisi durante una protesta per commemorare i minorenni uccisi durante mesi di manifestazioni nella Striscia di Gaza.

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato le due vittime e ha detto che il quarantatreenne Ghazi Abu Mustafa è stato colpito direttamente alla testa da cecchini israeliani a est di Khan Younis.

Ha aggiunto che 85 persone sono rimaste ferrite durante le proteste di venerdì, cinque delle quali in modo grave.

Venerdì sono stati feriti anche tre paramedici e quattro donne.

Queste ennesime vittime si sono avute mentre i palestinesi della Striscia di Gaza continuavano le proteste contro l’occupazione israeliana come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

I palestinesi a Gaza hanno approfittato della protesta del venerdì di questa settimana per ricordare i minori uccisi da Israele dall’inizio delle proteste. Piccole bare sono state portate da ragazzini per ricordare i palestinesi uccisi e sono state intonate preghiere funebri in ricordo.

Durante le proteste sono state anche portate immagini del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente USA Donald Trump con la scritta “assassino”.

Abdullah al-Qaoud, 15 anni, si è rivolto ai manifestanti di oggi a Gaza prima che Israele iniziasse a sparare sui manifestanti.

Oggi porto la piccola bara di Iman Hijo, il martire dell’Intifada. Forse il mio feretro sarà portato durante future marce del ritorno, ma la nostra lotta continuerà e le nostre richieste non cambieranno,” ha detto Qaoud.

Ognuno di loro ha una storia che l’Occidente e il mondo arabo conoscono attraverso le informazioni dei loro mezzi di comunicazione.”

Portiamo queste bare oggi come messaggio al mondo. La politica di uccisione deliberata di minori e la violazione dei loro diritti devono finire.”

La Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata dai palestinesi di Gaza per chiedere il diritto al ritorno e la fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione israeliana.

(traduzione di Amedeo Rossi)





L’ANP, la CPI e Israele

Richard Silverstein

Lunedì 23 luglio 2018 Middle East Eye

La Corte Penale Internazionale sta finalmente avviando le procedure preliminari nella causa dei crimini di guerra israeliani.

La settimana scorsa la Corte Penale Internazionale (CPI) ha comunicato che avrebbe avviato la fase preliminare di una causa per crimini di guerra presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) contro Israele.

Un rapporto informativo israeliano ha definito l’iniziativa “quasi senza precedenti”. E’ stata nominata una giuria di tre giudici per l’istruzione della causa: Peter Kovacs (presidente), Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou.

La causa ne richiama alla memoria un’altra: nell’originaria sentenza della CPI che ha ordinato alla procuratrice capo Fatou Bensouda di riaprire il caso della nave Mavi Marmara, Kovacs è stato l’unico giudice a votare contro la riapertura. La procuratrice ha archiviato il caso definitivamente, reputando che la gravità dell’incidente non fosse sufficiente per portarlo di fronte alla corte.

Il 31 maggio 2010 dieci attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara, una nave componente di una flottiglia che cercava di rompere l’assedio di Gaza, sono stati uccisi da commandos della marina israeliana. Questo numero non è stato ritenuto sufficientemente alto per una corte che si occupa di “uccisioni di massa.”

Già respinta?

La sensazione è che per quest’ultima causa, la soluzione ci sia già. Con la nomina di Kovacs, un giudice che ha già stabilito che l’uccisione di 10 cittadini turchi da parte delle forze armate israeliane non debba essere indagata, la corte potrebbe aver già rigettato la causa dell’ANP.

Benché l’attuale causa sia stata presentata inizialmente nel 2015, molti osservatori ritengono che il massacro degli ultimi due mesi da parte delle forze israeliane a Gaza abbia spinto la CPI verso un atteggiamento più attivo. La tempistica della CPI nell’annunciare il processo preliminare rivela che l’ANP ha depositato una denuncia alla fine di maggio, chiedendo alla Corte di esaminare le attuali violazioni israeliane del diritto internazionale.

Sembra evidente che la ‘Grande Marcia del Ritorno’ e la risposta vendicativa di Israele – con l’uccisione di 130 palestinesi a Gaza, quasi tutti civili disarmati – sia ciò che ha spinto la Corte Internazionale ad agire.

Nei giorni scorsi i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino che cercava di scavalcare la barriera installata da Israele. Israele sostiene di dover difendere la sua sovranità territoriale, ma non è chiaro come un ragazzino disarmato metta qualcuno in pericolo, tanto meno la sovranità israeliana. Non riconosce Hamas ed ha rifiutato di definire il proprio confine con la Palestina, inclusa Gaza.

Perché venga riconosciuta e rispettata la sovranità di una Nazione, essa deve negoziare i confini con i suoi vicini. Israele ha ripetutamente rifiutato di farlo, non solo con la Palestina, ma anche con il Libano e la Siria. Nessuno Stato riconosce l’occupazione di Israele della Cisgiordania, di Gaza o delle Alture del Golan. Quindi, non può essere negoziato nessun confine internazionale e la sovranità di Israele non può essere garantita.

Attacco brutale

Dopo la morte del ragazzino Hamas ha lanciato decine di razzi su Israele, ferendo parecchi israeliani, e Israele ha inviato gli F16 di costruzione americana a bombardare Gaza. Israele lo ha descritto come il più brutale attacco sull’enclave dall’ultima vasta invasione, nel 2014.

Due ragazzi che giocavano in un parco pubblico sono stati uccisi dopo che un aereo da guerra ha sganciato una bomba su un vicino grattacielo. L’esercito israeliano ha sostenuto di avere avvertito i civili dell’attacco, come per assolversi da ogni responsabilità, ma non ha fornito prove di questo, anche dopo una richiesta in merito.

E’ strano che pochi mezzi di informazione – come questo israeliano – abbiano riferito dell’importante sviluppo legale che coinvolge la CPI. Il rapporto israeliano ha affermato che se venisse aperta un’inchiesta formale, si tratterebbe di “un passo drammatico che avrebbe conseguenze sullo status di Israele nella comunità internazionale.”

Il comunicato della Corte, di 11 pagine, invita ad informare la popolazione palestinese circa la CPI ed il ruolo che è destinata a giocare nel giudicare il caso, indirizzando il proprio staff a impostare “un sistema di informazione pubblica e attività di sensibilizzazione a beneficio delle vittime e delle comunità palestinesi colpite nella situazione della Palestina e riferire all’Aula, conformemente ai principi stabiliti nella presente decisione.”

Secondo il rapporto informativo israeliano, esso inoltre invita le vittime palestinesi a presentarsi e fornire testimonianza sulle loro sofferenze.

Ostacolo iniziale

Questo è un giorno che Israele ha paventato per anni. Questo è un giorno che ha cercato di evitare come la peste. Ha fatto di tutto per cooptare la CPI.

Il predecessore di Bensouda nel ruolo di procuratore capo, Luis Ocampo, si è venduto al miglior offerente. Ha anche detto che la Corte Suprema israeliana potrebbe legalizzare le colonie ed ha pubblicamente respinto la causa palestinese. La stessa Bensouda ha rifiutato di portare avanti questa causa, ma è stata costretta a farlo dalla giuria sopra menzionata.

Questa notizia non significa che la CPI stia realmente avviando una causa formale contro Israele. Si tratta di una fase processuale preliminare; il caso ha incontrato un iniziale ostacolo sulla strada dell’azione penale formale.

Ma se Israele continua a perseguire i propri interessi con metodi di massacro di massa, come ha fatto per anni, allora il caso potrà superare con successo ogni ostacolo che si troverà di fronte.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, che si occupa di rivelare gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi lavori sono stati pubblicati su Haaretz, the Forward, the Seattle Times e the Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, ‘E’ tempo di parlare’ (Verso), e ha scritto un altro saggio nella raccolta ‘Israele e Palestina: prospettive alternative sullo Stato’ (Rowman &Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele si è finalmente rivelato come Stato etno-religioso

Haidar Eid

22 luglio 2018, Al-Jazeera

L’unica cosa che rimane da fare ai palestinesi è lottare per uno Stato democratico e laico.

In Palestina stiamo affrontando una situazione complicata: abbiamo un progetto di colonialismo di insediamento che nega di esserlo, sostiene di essere una democrazia ed abbiamo le sue vittime, la cui persecuzione è stata ignorata per decenni e la cui lotta di liberazione nazionale è stata diffamata.

I colonizzatori sono riusciti a manipolare la narrazione su quello che sta avvenendo, riscrivendo la storia e occultando i propri crimini. Molti Paesi al mondo hanno creduto alle loro menzogne e adottato un atteggiamento “neutrale”, sostenendo di avere una posizione “equilibrata”.

Cosa c’è di equilibrato, quando una parte possiede uno degli eserciti più avanzati al mondo, finanziato e rifornito da una superpotenza alleata, e l’altra è stata abbandonata sia da alleati che da sostenitori e si può basare solo sulla determinazione e sulla forza del proprio popolo?

Ma queste professioni di “neutralità” ed “equidistanza” non sono più sostenibili. Israele ha smesso di giocare al gioco della finta democrazia e si è dimostrato per quello che è veramente: uno Stato di apartheid. Il 19 luglio la Knesset [parlamento] israeliana ha approvato la cosiddetta “legge per lo Stato-Nazione”, che dichiara Israele “la patria del popolo ebraico”. Ora è ufficialmente uno Stato esclusivamente etno-religioso.

Smascherare lo Stato etno-religioso di Israele

Per noi palestinesi questa legge ribadisce quello che è scontato, ossia che l’ideologia sionista è intrinsecamente razzista e antidemocratica.

L’obiettivo politico del sionismo era determinare artificialmente un cambiamento demografico in Palestina, rendendo maggioranza la minoritaria popolazione ebraica (che nel 1914 costituiva solo il 7,6% della popolazione) per mezzo di una massiccia immigrazione ebraica, la costruzione di insediamenti e l’espulsione dei palestinesi.

Inevitabilmente l’espropriazione di terre venne accompagnata dalla violazione dei diritti della maggioranza palestinese. I sionisti hanno sempre guardato ai palestinesi come invisibili, se non assenti, o piuttosto “presenti assenti” [definizione israeliana di una parte dei palestinesi rimasti o tornati nel territorio del nuovo Stato, ndtr.]. L’identità di quanti rimasero all’interno dei confini di quello che era diventato Israele venne cancellata con il termine “arabo-israeliani” e i loro diritti vennero negati da una miriade di leggi (di cui la “Legge per lo Stato-Nazione” è solo l’ultima riproposizione).

Ciò è dovuto al fatto che, contrariamente al pensiero liberale moderno, in Israele la cittadinanza e la nazionalità sono concetti separati, indipendenti. In altre parole, Israele non è lo Stato dei suoi cittadini, ma lo Stato del popolo ebraico. Quindi i palestinesi in Israele hanno passaporto israeliano ma non hanno gli stessi diritti dei cittadini ebrei.

Con la nuova “Legge per lo Stato-Nazione”, i palestinesi in Israele ora sono considerati “immigrati nativi” o stranieri nella loro stessa patria, perché Israele viene definito da questa legge “la patria storica del popolo ebraico”, ovvero non lo Stato di tutti i suoi cittadini. Questo è il risultato diretto del sionismo e della sua ideologia razzista.

È anche il risultato diretto del prevalere di opinioni antidemocratiche tra gli ebrei israeliani. La contraddizione tra ideali professati e comportamenti concreti, che è stato il meccanismo del cambiamento politico in molti luoghi nel mondo, non esiste in Israele perché nella società israeliana la fede democratica o la democrazia civica sono assenti.

Nella cultura politica e nella prassi israeliane non c’è un impegno per l’uguaglianza di tutti i cittadini. E non c’è tradizione di libertà civili in Israele perché una simile tradizione è incompatibile con il sionismo.

Quindi si può comprendere l’opposizione dell’establishment alle richieste per la creazione di un unico Stato per palestinesi ed ebrei, uno Stato democratico e laico governato con elezioni parlamentari e il governo della maggioranza nella Palestina storica. Questa idea è stata categoricamente rifiutata dalla società degli ebrei israeliani perché significherebbe di fatto la fine del sionismo.

E, dato che Israele si trasforma concretamente in uno Stato esclusivamente etno-religioso, dobbiamo porre delle domande scomode: ciò significa che anche l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo etc. possono essere la base di Stati moderni? E se noi insistiamo ancora che la religione dovrebbe essere separata dallo Stato, dov’è l’indignazione internazionale? Perché i principali mezzi di comunicazione non sono ossessionati dallo Stato ebraico allo stesso modo in cui lo sono dello “Stato islamico”? In cosa Israele è diverso dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che intendeva costruire uno Stato solo per i musulmani attraverso la violenza e la spoliazione?

La lotta contro l’apartheid è in corso

L’approvazione della “Legge sullo Stato-Nazione” dovrebbe eliminare qualunque dubbio che ci possa ancora essere tra gli osservatori “neutrali” che Israele è, di fatto, uno Stato dell’apartheid.

Proprio come il Sudafrica dell’apartheid diede la cittadinanza ai sudafricani bianchi e relegò i neri in “bantustan indipendenti” [enclave con limitato autogoverno della popolazione nera, ndtr.], il sionismo concede a tutti gli ebrei il diritto di cittadinanza nello Stato di Israele, mentre nega la cittadinanza ai palestinesi – i suoi originari abitanti.

Mentre il Sudafrica dell’apartheid utilizzava la razza per determinare la cittadinanza, lo Stato di Israele utilizza l’identità religiosa per definire la cittadinanza. Proprio come l’apartheid sudafricano emanò leggi che criminalizzavano la libertà di movimento dei neri sulla loro terra ancestrale, Israele controlla ogni aspetto della vita dei palestinesi attraverso le strutture di un’occupazione militare fatta di posti di blocco, strade e colonie solo per gli ebrei e il Muro, insieme a una rete di norme giuridiche.

I paralleli tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid sono infiniti. E probabilmente l’unica significativa differenza tra i due è che Israele, con un’impunità senza precedenti, non paga mai per i suoi delitti, come messo in rilievo dagli ultimi crimini di guerra a Gaza.

Cosa rimane al popolo palestinese dopo l’approvazione di questa legge palesemente razzista? Bene, non siamo sicuramente tanto sciocchi da aspettarci qualcosa dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Anni di “negoziati” hanno creato solo bantustan in Cisgiordania e un campo di concentramento a Gaza. I palestinesi fanno ancora le spese di attacchi spietati da parte delle truppe razziste israeliane nascoste nei loro elicotteri ed F16 costruiti negli USA.

Quello che gli inviati USA nella regione hanno cercato di fare è arrivare ad una “soluzione” in linea con le condizioni di Israele, ignorando risoluzioni del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU] e leggi internazionali. Né l’attuale amministrazione USA di destra né la codarda UE hanno un piano equo su come risolvere la crisi in Palestina.

L’unica cosa su cui noi palestinesi possiamo contare è la forza della gente, proprio come i sudafricani hanno fatto quando, attraverso una lunga campagna globale, hanno obbligato i governi a boicottare il loro regime di apartheid.

Continueremo ad estendere il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) e a marciare verso la barriera a Gaza finché porremo fine a questa follia. Continueremo anche a lavorare a un modello alternativo, democratico e laico, che garantisca uguaglianza e abolisca apartheid, bantustan e separazione in tutta la Palestina. Non abbandoneremo la lotta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al-Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ondata di morte degli attacchi israeliani colpisce Gaza

La redazione di MEE

venerdì 20 luglio 2018, middleeasteye.net/

Le forze israeliane hanno sferrato vari attacchi lungo la Striscia di Gaza dopo uno scontro a fuoco con combattenti dell’ala armata di Hamas.

L’offensiva arriva dopo che quattro palestinesi sono stati uccisi da Israele, in seguito al fatto che i combattenti delle brigate di Izzedine al-Qassam hanno sparato alle forze israeliane che presidiano il confine di Gaza. 

L’esercito israeliano ha detto che “gli aerei da caccia dell’IDF [l’esercito israeliano,ndtr.] hanno lanciato un vasto attacco contro gli assalti terroristici legati all’organizzazione terroristica di Hamas in tutta la Striscia di Gaza”.

Venerdì un soldato israeliano era stato ucciso a colpi di arma da fuoco palestinese sul confine di Gaza, ha detto l’esercito, facendo temere lo scoppio di un conflitto più vasto con Gaza.

Quest’ultima escalation segue le proteste settimanali del venerdì da parte dei palestinesi nella zona cuscinetto di Gaza, nel corso delle quali, secondo il ministero della Salute locale, 120 dimostranti sono stati feriti in scontri.

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha minacciato una risposta “ancora più dura” a qualsiasi nuovo fuoco missilistico di Hamas – dopo che l’esercito ha riferito di “tre lanci” dal territorio, due dei quali sono stati intercettati.

Tuttavia, venerdì in tarda serata un portavoce di Hamas ha detto che Israele e Hamas hanno accettato di ripristinare la tregua.

“Grazie agli sforzi egiziani e delle Nazioni Unite è stato concordato di tornare ad un periodo di tregua tra [Israele] e le fazioni palestinesi”, ha detto alla Reuters [agenzia di notizie inglese, ndtr.] il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum.

Il ministero della Salute di Gaza ha dichiarato che venerdì pomeriggio il bombardamento israeliano ha ucciso quattro palestinesi e ferito gravemente altri tre a est della città di Khan Younis.

I morti sono Mahmoud Khalil Qishta, 23 anni, ucciso a est di Rafah;, Mohammed Riyad Farahza, 31 anni, e Shahban Rihab Abu Khater, 26 anni, entrambi uccisi a Khan Younis.

Anche Mohammed Badwan è morto dopo essere stato colpito venerdì dal fuoco delle forze israeliane a Gaza City.

L’ala militare di Hamas, le brigate “Izzedine al-Qassam”, ha confermato che i quattro uccisi erano membri del gruppo.

I quattro sono stati uccisi subito dopo che l’esercito israeliano ha riferito che si stava sparando da Gaza verso il sud di Israele.

Gli aerei e i carri armati dell’esercito israeliano hanno colpito “obiettivi militari in tutta la Striscia di Gaza”, ha detto l’esercito in una dichiarazione sui social media, riferendosi probabilmente agli avamposti di Hamas.

Le agenzie di stampa palestinesi hanno diffuso foto che mostrano gli effetti degli attacchi israeliani nel centro di Gaza.

Israele considera Hamas, il partito di governo a Gaza, responsabile di qualsiasi razzo o colpo sparato dall’enclave palestinese, nonostante vi operino vari gruppi armati.

Il violento scontro è avvenuto mentre i palestinesi stavano manifestando lungo il recinto che separa Gaza da Israele per il 17° venerdì consecutivo della Grande Marcia del Ritorno.

La Grande Marcia del Ritorno chiede la fine del blocco di 11 anni messo in atto da Israele contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi nelle terre da cui le loro famiglie sono fuggite durante la costituzione dello Stato di Israele nel 1948.

In una dichiarazione rilasciata giovedì Ashraf al-Qidra, portavoce del ministero della Salute di Gaza, ha detto che dall’inizio della marcia il 30 marzo, l’esercito israeliano ha ucciso almeno 142 palestinesi e ne ha feriti più di 16.000.

L’aggressione di venerdì è arrivata a meno di una settimana dalla serie di attacchi aerei israeliani del 14 luglio, uno dei quali ha ucciso due adolescenti palestinesi di Gaza City.

Israele ha intensificato la sua attività di attacchi aerei contro Gaza, oltre a rafforzare l’assedio che dura da 11 anni, con il preteso obiettivo di dissuadere Hamas dall’invio di aquiloni e palloncini incendiari su Israele.

Le autorità israeliane ritengono Hamas responsabile della Grande Marcia di Ritorno, un’opinione che gli organizzatori della campagna hanno respinto.

I funzionari israeliani si sono palesemente infuriati per l’uso da parte di alcuni manifestanti di aquiloni e palloncini incendiari che oltrepassano la barriera di separazione ed entrano in Israele, sostenendo che gli aquiloni hanno scatenato incendi e danneggiato quasi 3.000 ettari di terreni agricoli e boschi.

I palestinesi considerano quegli economici oggetti volanti uno strumento di resistenza contro le ben armate forze israeliane schierate dietro la barriera, che hanno ucciso decine di manifestanti e ferito migliaia di persone. Non si sono registrate vittime israeliane.

I media israeliani hanno riferito che, nonostante gli appelli di Hamas ai suoi membri affinché smettano di lanciare aquiloni, quelli che li lanciano ma non sono affiliati al gruppo hanno respinto l’appello, impegnandosi a continuare fino a quando il devastante blocco di Gaza esercitato da Israele non sarà revocato.

Venerdì mattina Lieberman aveva accusato Hamas di “costringerci inevitabilmente a una situazione in cui non abbiamo scelta, una condizione in cui dovremo intraprendere una vasta e dolorosa operazione militare”.

Tel Aviv ha anche affermato che le forze israeliane si sono finora “comportate in modo responsabile e con moderazione”.

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 




Tre storie incontrate per caso. Interviste da Gaza a tre feriti della Great Return March

Patrizia Cecconi

20 luglio 2018, Articolo 21

Tre piccole storie, piccole in quanto brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E., non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir, che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e che, come loro, è stato ferito dagli snipers israeliani nel concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno.

Incontrati per caso nell’ospedale Al Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione in attesa della marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi, ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in lingue, una in scienze mediatiche e così via.

Mohammed lo incontriamo sulla porta dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il passo invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia di palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.

Quel giorno Mohammed fu colpito a entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”. Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori, cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70 anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato che fa supporre si tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non riesce a camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.

Lasciato Mohammed alle cure mediche con tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche domanda. E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente pacifica, che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete di separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi, essendo disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro i soccorritori.

Parlando della sua vita privata, Khaled ci dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui suoi figli.

Non è pentito di essere andato al border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita: quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella nell’animo perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.” Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo ha in cura e non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si tratta Basel Ayoub, 18 anni.

Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche lui come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale Al Awda, perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro settore dell’ospedale.

Tornando a Basel la sua storia ha dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’ scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più. Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.

Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che è uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!

Ma la storia di Basel è una sorta di allegoria della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali proiettili dei killers appostati oltre la rete.

Abbiamo detto che la storia di questo ragazzo è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare quando un cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle spalle è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma, ritiene essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.

In ogni famiglia palestinese c’è almeno un martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a ripeterlo sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto che i martiri non nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso alcuni giorni  fa, era suo cugino e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior convinzione che resistere sia un dovere.

Il padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.

Facciamo tanti auguri a Basel e a suo padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori.

Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo aver sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe, sento il Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.

Israele oggi ha minacciato ancor più violenza in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme. Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni. Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le braccia.

Intanto tra poco si partirà per i vari punti del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà che Israele non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche oggi  seguiteranno a volare.




L’UE stronca il ministro israeliano: così si alimenta la disinformazione e si mescolano BDS e terrorismo

Noa Landau

17 luglio 2018, Haaretz

Federica Mogherini dell’UE ha scritto una lettera molto critica al ministro della Sicurezza Pubblica di Israele Gilad Erdan, accusandolo di fare affermazioni infondate e inaccettabili secondo cui l’Unione appoggerebbe il terrorismo

La ministra degli Esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini, ha inviato una lettera personale molto tagliente al ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan chiedendogli di fornire le prove delle affermazioni “vaghe e non comprovate” che l’UE stia finanziando terrorismo ed attività di boicottaggio contro Israele attraverso organizzazioni no profit.

Nella sua lettera, acquisita da Haaretz, Mogherini risponde a un rapporto diffuso in maggio dal ministero degli Affari Strategici intitolato “I milioni dati da istituzioni dell’UE a Ong legate al terrorismo e al boicottaggio contro Israele.”

Nella lettera inviata insieme al rapporto a Mogherini, Erdan scriveva: “Uno studio approfondito realizzato dal mio ministero ha rivelato che nel 2016 l’UE ha finanziato 14 Ong europee e palestinesi che promuovono esplicitamente e chiaramente il BDS.” Ha anche accusato che “molte Ong che promuovono il BDS e che ricevono finanziamenti diretti o indiretti dall’UE sono legate a organizzazioni che l’UE definisce terroristiche.” Erdan ha aggiunto che tali finanziamenti minacciano i rapporti tra l’UE e Israele ed anche “le possibilità di una pace.”

In seguito il rapporto è filtrato al giornale “Israel Hayom” [“Israele oggi”, giornale gratuito israeliano di destra, ndtr.], che lo ha pubblicato sotto il titolo “Milioni di euro di odio”. Nel giorno in cui il rapporto è stato reso noto, Erdan ha twittato: “L’Ue continua a finanziare con decine di milioni di shekel all’anno organizzazioni del BDS, alcune delle quali legate a organizzazioni terroristiche.”

Nella sua lettera, che è stata inviata a Erdan il 5 luglio, Mogherini scrive: “Le accuse secondo cui l’UE appoggerebbe l’incitamento all’odio o il terrorismo sono infondate e inaccettabili. Anche lo stesso titolo del rapporto è inopportuno e fuorviante: mette insieme il terrorismo e il tema del boicottaggio e crea nell’opinione pubblica una confusione inaccettabile riguardo a due fenomeni differenti.” Aggiunge che l’UE si oppone fermamente “a ogni insinuazione sul coinvolgimento dell’UE nel sostegno al terrore o al terrorismo,” e che “accuse vaghe e insostenibili servono solo a contribuire a campagne di disinformazione.”

Mogherini sostiene anche che il rapporto in questione contiene degli errori: “Per esempio, delle 13 organizzazioni elencate nel rapporto, 6 non ricevono finanziamenti dell’UE per attività in Palestina e nessuna di loro riceve fondi UE per attività del BDS,” scrive. Nota anche: “Inoltre, come riportato ampiamente dalla stampa israeliana nelle ultime settimane, un certo numero di organizzazioni citate nel rapporto riceve finanziamenti anche da altri donatori internazionali, compresi gli Stati Uniti.”

Riguardo al presunto appoggio al movimento BDS, Mogherini scrive a Erdan: “L’Unione Europea non ha cambiato la propria posizione riguardo al cosiddetto movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (BDS). Confermando la propria politica di chiara distinzione tra il territorio dello Stato di Israele ed i territori da esso occupati dal 1967, L’UE rifiuta ogni tentativo di isolare Israele e non appoggia appelli al boicottaggio. L’UE non finanzia azioni relative ad attività di boicottaggio. Tuttavia il semplice fatto che un’organizzazione o un singolo individuo sia in rapporto con il movimento BDS non significa che questa entità sia coinvolta nell’incitamento a commettere atti illegali, né la esclude da finanziamenti dell’UE.”

L’UE è fortemente impegnata nel rispetto della libertà di espressione e di associazione in linea con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. La libertà di espressione è applicabile anche ad informazioni ed idee ‘che offendono, scioccano o disturbano lo Stato e qualche settore della popolazione.’ Ogni azione che abbia come risultato di chiudere lo spazio in cui operano organizzazioni della società civile, limitando indebitamente la libertà di associazione, dovrebbe essere evitata.”

Riguardo alle accuse di appoggiare il terrorismo, Mogherini scrive: “L’UE ha norme molto severe per selezionare e vagliare i beneficiari dei fondi UE. Prendiamo molto seriamente in considerazione ogni accusa di uso scorretto dei fondi UE e siamo impegnati a verificare tutte quelle che vengono presentate con prove concrete. Siamo sicuri che i finanziamenti UE non siano stati utilizzati per appoggiare il boicottaggio di Israele o attività del BDS e sicuramente non per finanziare il terrorismo.”

Alla fine della lettera Mogherini invita Erdan a Bruxelles a mostrare le prove delle sue accuse: “Lei e i suoi funzionari siete i benvenuti a Bruxelles in qualunque momento a presentare le prove che dovreste avere per sostenere queste accuse,” scrive. “Nel contempo invitiamo il vostro governo a perseguire con noi un dialogo produttivo su questioni della società civile, come previsto dal “Piano d’Azione UE-Israele”, in uno spirito di cooperazione aperta e trasparente piuttosto che con materiale senza fondamento reso pubblico senza un dialogo e un coinvolgimento preventivi.”

Nel rapporto diffuso dal ministero degli Affari Strategici si sosteneva che nel 2016 l’UE ha trasferito più di 5 milioni di euro a organizzazioni “che promuovono la delegittimazione e il boicottaggio contro Israele.” Benché il rapporto sia descritto come “approfondito”, la maggior parte delle accuse è basata su un piccolo numero di casi da fonti accessibili a tutti. Haaretz ha esaminato qualcuna delle affermazioni fatte dal rapporto ed ha scoperto che l’interpretazione di alcuni degli avvenimenti descritti si discosta dalle informazioni su cui si basa. Per esempio, un boicottaggio solo delle colonie è occasionalmente interpretato come un appoggio al BDS, anche se le organizzazioni in questione non lo sostengono necessariamente, o addirittura vi si oppongono, applicando i principi del movimento al vero e proprio Israele. Questa interpretazione si collega con il modo in cui il governo israeliano negli ultimi anni ha cercato di annullare la distinzione tra i due.

Tuttavia per l’UE questa distinzione è importante. Mentre l’UE non finanzia direttamente attività che promuovono il boicottaggio dello Stato di Israele – escludendone le colonie – vede l’appoggio ideologico al movimento come legittima libertà di espressione politica. L’UE è in grado di controllare l’uso dei suoi finanziamenti, dato che in genere sono destinati in anticipo ad attività specifiche e c’è una supervisione costante.

In altri casi il rapporto del ministero definisce come “sostegno al terrorismo” esempi specifici in cui agenti di Hamas o del Fronte Popolare [per la Liberazione della Palestina, gruppo armato palestinese di orientamento marxista, ndtr.] hanno preso parte ad altre attività sostenute da Ong che ricevono fondi UE. Su questa base Israele sta accusando l’UE di finanziare indirettamente il terrorismo. Una lettura del rapporto mostra anche che un grande numero di denunce sono una riproposizione di affermazioni fatte da organizzazioni di destra, soprattutto dall’Ong “Monitor” [Ong israeliana che si occupa di controllare le Ong internazionali da un punto di vista filo-israeliano, ndtr.].

Erdan ha risposto a questo rapporto dicendo: “È triste che il ministero degli Esteri dell’Unione Europea abbia ancora una volta scelto di nascondere la testa nella sabbia e ignorato le evidenti prove che le organizzazioni del BDS che ricevono fond, sia direttamente che indirettamente, sono legate o collaborano con organizzazioni terroristiche come Hamas e il Fronte Popolare. Mogherini ammette che la maggior parte delle organizzazioni che appaiono nel rapporto del mio ministero in effetti promuovono il boicottaggio di Israele, eppure utilizza la risibile scusa che i soldi sono dati a organizzazioni del boicottaggio ma utilizzati per altri scopi, e non per le loro attività intese a boicottare Israele.”

Purtroppo scuse come questa rappresentano la politica dell’Unione Europea anche in altre questioni, come il suo atteggiamento nei confronti dell’Iran e del terrorismo palestinese,” continua. “Anche su questi problemi l’UE ha scelto di agire come un’ostrica e si comporta come se fosse cieca nei riguardi dell’odio, dell’incitamento alla violenza e del boicottaggio.”

L’Ue ha commentato questo rapporto informativo dicendo: “In genere non commentiamo o facciamo filtrare scambi di messaggi con i Paesi che sono nostri partner, ma sulla questione delle accuse contenute nel recente rapporto pubblicato dal ministero degli Affari Strategici, i nostri uffici centrali hanno esaminato accuratamente il rapporto e sono arrivati alla conclusione che le accuse presentate nel rapporto sono infondate.”

L’Ue ha norme molto rigide per verificare e vagliare i beneficiari di fondi UE. Siamo quindi fiduciosi che i fondi UE non siano stati usati per finanziare il terrorismo.”

La nostra lotta contro il terrorismo non è mai stata così dura, ed abbiamo sempre mantenuto una posizione chiara sulle organizzazioni terroristiche. Siamo anche sicuri che i nostri fondi non sono stati usati per appoggiare il boicottaggio di Israele, in particolare non le attività del BDS,” si legge nel commento.

L’UE ripudia ogni tentativo di isolare Israele e non appoggia appelli al boicottaggio. Nel contempo l’UE rimane ferma nel proteggere la libertà di espressione e di associazione in base alla Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea. Come sempre l’UE verifica ogni seria denuncia presentata in relazione a tali attività e finanziamenti. Se ci dovesse essere una qualche prova che confermi quelle affermazioni, le autorità israeliane saranno le benvenute a presentarcele come parte di un dialogo aperto e trasparente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Uno o due stati, Israele ha il potere di manipolare il compromesso palestinese

Ramona Wadi

12 luglio 2018, middleeastmonitor.com

In seguito alla dichiarazione del 2016 del Quartetto sul Medio Oriente che ha reso obsoleto il compromesso dei due stati, la comunità internazionale, compresi i rappresentanti del Quartetto, non è riuscita a trovare altre strategie. La diplomazia internazionale ha deciso di estendere la farsa del far vedere di star lavorando per l’impossibile.

Ci sono altre narrazioni che contribuiscono a questa illusione. Da un lato, l’Autorità Nazionale Palestinese ha ripetutamente sollecitato l’attuazione del paradigma dei due stati, mettendo la leadership in linea con gli obiettivi internazionali e, contemporaneamente, in contrasto con le aspirazioni palestinesi. Nel frattempo, Israele è diventato irremovibile nel suo rifiuto di consentire lo scenario dei due stati.

Nel giro di pochi giorni, il ministro della Scienza e della Tecnologia Ofir Akunis, così come il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, hanno confermato il loro rifiuto a prendere in considerazione l’opzione dei due stati. Come riporta Israel National News, Akunis ha sottolineato: “Durante l’era Obama e Kerry ho detto che non ci sarebbe stata una soluzione a due stati e ho orientato in tal senso l’opinione pubblica in Israele, negli Stati Uniti e in Europa”. Ha affermato che i sostenitori dei due stati cercherebbero di “distruggere l’esistenza di Israele” attraverso “l’istituzione di uno Stato palestinese terrorista “.

In un’intervista con la BBC, Barkat ha respinto l’idea dei due stati e ha proposto un sistema in cui ai palestinesi sarebbe concessa parziale autonomia, mentre Israele sarebbe rimasto “saldamente responsabile della sicurezza e della difesa”. Israele, ha aggiunto, è “l’unica democrazia – una vera democrazia in Medio Oriente.

Una parte di questa equazione viene costantemente omessa. Sia che la comunità internazionale, Israele e l’ANP parlino di uno o di due stati, il risultato finale è comunque un sistema oppressivo per i palestinesi. Questo perché la sola narrativa e il solo risultato che venga preso seriamente in considerazione è la sopravvivenza di Israele come entità coloniale. Attualmente, vi è una discrepanza per cui la soluzione dei due stati è ancora oggetto di discussione da parte della comunità internazionale, con solo l’ANP ad essere veramente interessato ad una soluzione, mentre Israele sta apertamente rifiutandola per creare prospettive di maggiore espansione coloniale.

C’è dell’ironia nel fatto che mentre Israele sta rafforzando la sua netta opposizione alla possibilità di due stati, la leadership palestinese propenda in tal senso. La persistente richiesta di negoziati da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese per creare uno stato frammentato sul territorio, del tutto privo di contiguità, ostruisce la strada all’emergere delle crescenti richieste palestinesi di uno stato decolonizzato. Quindi, la narrazione prevalente di un solo stato è quella del “Grande Israele”, e intanto l’ANP si mette contro alle richieste di decolonizzazione della gente. Sostiene anche una situazione per cui i Paesi che appoggiano la Palestina non hanno altra opzione diplomatica che sostenere strategie che possono solo contribuire all’eliminazione di ciò che rimane della terra palestinese. Ciò fa anche sì che il sostegno diplomatico internazionale alla Palestina sia sintonizzato solo con l’ANP per quel che riguarda le richieste internazionali, mentre la gente è dimenticata.

Quindi, se il compromesso dei due stati verrà alla fine completamente abbandonato, le uniche narrazioni che la comunità internazionale prenderà in considerazione saranno quelle provenienti da Israele. Dunque, proprio come l’attuale presunta soluzione è progettata per dare a Israele il maggior tempo possibile per implementare la sua espansione, qualsiasi altro paradigma futuro legittimerà semplicemente le ulteriori violazioni che Israele commette nel suo tentativo di colonizzare l’intero territorio che un tempo era la Palestina storica.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Dovremmo rendere omaggio alla Striscia di Gaza

Gideon Levy

15 luglio 2018, Haaretz

Lo spirito di Gaza non è stato spezzato da nessun assedio e soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese.

Se non fosse per la Striscia di Gaza, l’occupazione sarebbe stata da tempo dimenticata. Se non fosse per la Striscia di Gaza, Israele avrebbe cancellato la questione palestinese dalla sua agenda e proseguito tranquillamente con i suoi crimini e le sue annessioni, con la sua routine, come se 4 milioni di persone non stessero vivendo sotto il suo tallone. Se non fosse per la Striscia di Gaza, anche il mondo avrebbe dimenticato. In gran parte lo ha già fatto. Ecco perché noi adesso dobbiamo rendere omaggio alla Striscia di Gaza – soprattutto allo spirito della Striscia di Gaza, l’unico che ancora soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese per la libertà.

La lotta risoluta della Striscia di Gaza dovrebbe destare ammirazione anche in Israele. La manciata di persone dotate di coscienza che è rimasta qui dovrebbe ringraziare l’indomito coraggio della Striscia di Gaza. Il coraggio della Cisgiordania è svanito dopo il fallimento della Seconda Intifada, come anche quello del campo della pace israeliano – gran parte del quale si è da tempo disgregato. Solo il coraggio della Striscia di Gaza rimane saldo nella sua lotta.

Perciò, chiunque non voglia vivere per sempre in un Paese malvagio, deve rispettare le braci che il giovane popolo della Striscia di Gaza sta ancora cercando di attizzare. Se non fosse per gli aquiloni, i fuochi, i razzi Qassam, i palestinesi sarebbero completamente usciti dalla consapevolezza di tutti in Israele. Solo la Coppa del mondo e il Festival europeo della canzone desterebbero qualche interesse. Se non fosse per i campi incendiati nel sud, ci sarebbe un’enorme bandiera bianca a sventolare non solo sopra la Striscia di Gaza, ma sull’intero popolo palestinese. Gli amanti della giustizia, anche in Israele, non possono desiderare questo genere di asservimento.

È difficile, persino arrogante, scrivere queste parole da una tranquilla e sicura Tel Aviv, dopo un’altra notte insonne e da incubo nel sud, ma tutti i giorni e le notti nella Striscia di Gaza sono molto più difficili a causa della disumana politica di Israele, sostenuta dalla maggior parte dei suoi cittadini, compresa la gente che vive nel sud. Non meritano di portarne il peso, ma ogni lotta esige un prezzo di vittime innocenti, che ci auguriamo non diventino dei morti. Bisognerebbe ricordare che solo i palestinesi vengono uccisi. Sabato la 139ma vittima del fuoco israeliano lungo il confine è morta. Aveva 20 anni. Venerdì è stato ucciso un ragazzo di 15 anni. La Striscia di Gaza paga l’intero prezzo di sangue. Questo non la fa desistere. Quello è il suo spirito. Non si può che provare ammirazione.

Lo spirito della Striscia di Gaza non è stato domato da nessun assedio. I cattivi di Gerusalemme chiudono il valico di confine di Kerem Shalom, e Gaza spara [i razzi]. I malvagi nel complesso governativo di Kirya [grattacielo che ospita uffici pubblici, ndtr.] a Tel Aviv vietano ai giovani di essere curati in Cisgiordania per evitare di avere le gambe amputate.

Per anni hanno impedito a pazienti oncologici, comprese donne e bambini, di ricevere terapie salvavita. L’anno scorso è stato approvato solo il 54% delle richieste di uscire dalla Striscia di Gaza per ragioni mediche, rispetto al 93% nel 2012. È una crudeltà. Si dovrebbe leggere la lettera scritta in giugno da 31 medici oncologi israeliani, che chiedevano che si ponesse fine alla violenza verso le donne di Gaza affette da tumore, le cui domande di permesso di uscita impiegano mesi di tempo per essere esaminate, segnando il loro destino.

I 31 razzi lanciati venerdì notte su Israele dalla Striscia di Gaza sono una risposta moderata a questa crudeltà. Non sono altro che un muto richiamo al destino della Striscia di Gaza, rivolto a coloro che pensano che 2 milioni di persone possano essere trattate così per oltre 10 anni continuando come se nulla stesse accadendo.

La Striscia di Gaza non ha scelta. E nemmeno Hamas. Ogni tentativo di gettare la colpa sull’organizzazione – che io vorrei solo fosse più laica, più femminista e più democratica – è un’elusione di responsabilità. Non è stato Hamas a chiudere la Striscia di Gaza. Né vi si sono chiusi dentro i suoi stessi abitanti. Israele (e l’Egitto) lo hanno fatto. Ogni timido tentativo da parte di Hamas di fare qualche passo avanti con Israele riceve un immediato e automatico rifiuto da Israele. E neanche il resto del mondo vuole parlare con loro, chissà perché.

Tutto ciò che gli resta sono gli aquiloni [incendiari], che potrebbero portare ad un’altra serie di spietati bombardamenti e lanci di granate da parte di Israele, che Israele ovviamente non vuole. Ma quale scelta ha la Striscia di Gaza? Una bandiera bianca di resa sui suoi confini, come quella che hanno alzato i palestinesi in Cisgiordania? Il sogno di una verde isola al largo del Mediterraneo, che il ministro israeliano dei Trasporti Yisrael Katz costruirà per loro? La lotta è la sola strada che resta, una strada che dovrebbe ricevere rispetto, anche se si è un israeliano che potrebbe esserne vittima.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Attacchi aerei israeliani mortali colpiscono duramente l’enclave di Gaza

MEE e agenzie

sabato 14 luglio 2018, Middle East Eye

Almeno due adolescenti uccisi, molti palestinesi feriti in quello che il leader israeliano Netanyahu chiama “il colpo più duro” dal 2014

Fonti mediche ufficiali a Gaza affermano che attacchi aerei israeliani hanno ucciso due adolescenti e ferito almeno altri 14 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, in quella che l’esercito israeliano ha descritto come una delle sue più vaste operazioni dal 2014.

Sabato sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che Israele ha inflitto il suo “colpo più duro” ad Hamas dalla guerra del 2014 con una serie di attacchi aerei ed ha minacciato di intensificarli, se necessario.

I due morti palestinesi sono stati identificati dal portavoce del ministero della Salute di Gaza Ashraf al-Qidra come Amir al-Nimra, 15 anni, e Luay Kahil, 16 anni, entrambi colpiti da bombe degli attacchi aerei nel quartiere Katiba di Gaza City.

Al-Qidra ha aggiunto che ambulanze e strutture del ministero della Salute sono state pesantemente danneggiate dagli attacchi aerei a Katiba.

Fonti locali hanno detto a Middle East Eye che un edificio in costruzione su piazza Katiba è stato preso di mira da almeno 4 missili di aerei da combattimento F-16.

Mentre l’edificio era disabitato, la piazza centrale di Gaza City è uno spazio pubblico in cui notoriamente si riuniscono famiglie e bambini.

Stavo guidando il mio taxi sulla strada principale nei pressi dell’edificio (Katiba), quando improvvisamente potenti missili l’hanno colpito,” ha detto a MEE Iyad Hamed da un ospedale in cui è stato curato dopo l’attacco. “La bomba è scoppiata in mezzo a noi, abitanti e passanti nella zona.”

Chiediamo alla resistenza palestinese di rispondere duramente a questa arroganza e barbarie di Israele per porre fine a queste violazioni,” ha aggiunto Hamed.

Sabato mattina Israele ha detto di aver lanciato attacchi aerei che hanno preso di mira strutture di Hamas a Gaza, il giorno dopo che forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi che manifestavano nei pressi della barriera che separa l’enclave da Israele.

Più tardi in una dichiarazione in video Netanyahu ha detto: ”Durante una consultazione con il ministro della Difesa, il capo di stato maggiore (militare) e il comando di massima sicurezza dello Stato di Israele abbiamo deciso una dura azione contro il terrorismo di Hamas.”

(L’esercito) ha inferto ad Hamas il colpo più duro dall’operazione “Margine protettivo” e se necessario aumenteremo la forza dei nostri attacchi,” ha aggiunto, in riferimento all’operazione di Israele nella Striscia di Gaza del 2014.

In un comunicato postato su twitter l’esercito israeliano ha affermato che aerei da combattimento israeliani hanno colpito due “tunnel terroristici di Hamas” – uno nel sud di Gaza e l’altro a nord – così come altre infrastrutture lungo il territorio costiero.

Ha affermato che gli obiettivi hanno incluso “complessi utilizzati per preparare attacchi terroristici incendiari e una struttura di addestramento terroristico di Hamas”, e che gli attacchi sono stati effettuati “in risposta ad atti di terrorismo istigati durante le violente proteste che hanno avuto luogo lungo la barriera di sicurezza.”

L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito più di 40 obiettivi all’interno di parecchi complessi, in quello che ha descritto come una delle più vaste operazioni dalla devastante guerra del 2014.

Secondo testimonianze a Gaza, gli attacchi aerei di sabato mattina hanno danneggiato infrastrutture militari di Hamas, mentre non sono state diffuse informazioni simili sugli attacchi avvenuti sabato sera.

L’esercito israeliano ha detto che combattenti di Gaza hanno sparato più di cinquanta colpi di mortaio e razzi verso Israele, facendo suonare le sirene di allarme e fuggire gli israeliani nei rifugi. Haaretz [giornale israeliano, ndtr.] ha informato che 16 razzi sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistica Iron Dome.

Un portavoce della polizia israeliana ha affermato che tre israeliani sono stati portati in ospedale in seguito agli attacchi. Haaretz ha informato che quattro israeliani sono stati leggermente feriti dopo che un razzo sparato da Gaza ha colpito la loro casa nella città meridionale di Sderot.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha rivendicato la responsabilità per i colpi di mortaio di sabato mattina contro Israele, aggiungendo che sono stati lanciati “in risposta agli attacchi aerei israeliani.”

La protezione e la difesa del nostro popolo sono un dovere nazionale e una scelta strategica,” ha sostenuto Barhoum.

Un portavoce di Hamas ha detto ad Haaretz che “l’escalation e l’intensificazione dell’aggressione israeliana non definiranno una nuova agenda,” aggiungendo che non “bloccheranno il processo di ritorno. Le forze della resistenza non permetteranno ad Israele di continuare ad attaccare il popolo palestinese, e saremo pronti a rispondere.”

Una fonte ufficiale palestinese, che ha parlato in incognito con l’agenzia di notizie [inglese] Reuter, ha affermato che l’Egitto ed altri attori internazionali erano in contatto con Israele e Gaza per cercare di ripristinare la calma. Non ci sono stati commenti immediati da fonti ufficiali al Cairo.

All’inizio della settimana Israele ha chiuso Kerem Shalom, l’unico valico commerciale della Striscia di Gaza, inasprendo l’assedio dell’enclave palestinese, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato “passi ulteriori”.

Le autorità israeliane hanno incolpato Hamas della “Grande Marcia del Ritorno”, un’accusa che gli organizzatori della campagna hanno respinto, ed ha accusato il partito che governa Gaza di essere dietro gli aquiloni incendiari diretti al di là della barriera di sicurezza che hanno appiccato incendi in Israele.

I palestinesi di Gaza hanno partecipato alla “Grande Marcia del Ritorno” dal 30 marzo, chiedendo la fine del blocco di undici anni imposto da Israele contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre che le loro famiglie hanno abbandonato durante la fondazione dello Stato di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza, da quando allora sono scoppiati proteste e scontri lungo la barriera, almeno 139 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano.

Nessun israeliano è stato ucciso. Comunque l’esercito israeliano afferma che venerdì un soldato è stato ferito da una granata.

Nel contempo il ministero della Salute di Gaza sostiene che 220 palestinesi sono rimasti feriti nelle proteste di venerdì nei pressi della barriera di Gaza, oltre a Othman Rami Hales, 15 anni, e a Mohammed Nasser Shurrab, 20 anni, che sono stati colpiti a morte.

Informazioni aggiuntive a Gaza di Mohammed Asad.

(traduzione di Amedeo Rossi)