Gli ebrei stanno cominciando a temere la democrazia

Anshel Pfeffer

12 luglio 2018, Haaretz

Non possiamo essere vittime un’altra volta’: grazie a Trump, Netanyahu e Putin, i tempi gloriosi della democrazia liberale sono finiti. La bilancia della storia non pende dalla parte della giustizia. Da che parte staranno gli ebrei?

Martedì mattina una parlamentare della Knesset è stata espulsa da una riunione della commissione parlamentare per aver declamato una parte della Dichiarazione di Indipendenza israeliana.

L’articolo che ha letto sancisce che lo Stato di Israele “promuoverà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; si baserà sulla libertà, la giustizia e la pace, come previsto dai profeti di Israele; garantirà la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla religione, dalla razza o dal sesso.”

Dubito che la ‘Legge sullo Stato-Nazione’, che la commissione stava discutendo e che cerca di vanificare formalmente quella “completa eguaglianza”, verrà davvero approvata in tempi brevi.

Benjamin Netanyahu la sta improvvisamente promuovendo per ciniche ragioni elettorali. La legge, al centro di controversie, non ha bisogno di percorrere tutto il suo iter perché i suoi detrattori – i partiti di opposizione, i consiglieri legali dello stesso governo, i media, potenzialmente l’Alta Corte – siano tacciati di essere traditori.

E comunque, al di là della sceneggiata parlamentare di Tzipi Livni (dirigente della coalizione di centro “Unione Sionista”, all’opposizione, ndtr], quegli articoli non sono stati mai applicati in 70 anni di esistenza di Israele. Ma è stato certamente un momento simbolico.

L’espulsione di Livni, dopo che le è stato vietato di presentare una copia della Dichiarazione d’Indipendenza in una tribuna nell’aula della commissione, ha rappresentato un chiaro slittamento di Israele da ogni aspirazione a costruire il proprio futuro in base a valori, verso un Israele edificato esclusivamente sul nazionalismo ebraico.

Ciò significa una scelta tra due tipi di democrazia e due tipi di stile di vita ebraico. E non si tratta solo di Israele. Lo stesso slittamento sta avvenendo dovunque.

Nel 1945, quando gli ebrei hanno incominciato a realizzare il fatto devastante che un terzo del loro popolo era stato sterminato in pochi anni, si è verificato un altro mutamento importante. Con la distruzione di ciò che era stato il cuore della civiltà ebraica per 1000 anni, per la prima volta gli ebrei che vivevano nelle democrazie vittoriose del nord America e della Gran Bretagna stavano diventando la maggioranza [degli ebrei in Occidente, ndtr.].

Per molti secoli il benessere degli ebrei, spesso la loro stessa sopravvivenza, erano dipesi dalla benevolenza di monarchi e dittatori. Questo aveva imposto un certo tipo di discreta ricerca di indulgenza. I dirigenti delle comunità ebraiche dovevano valutare quale despota ingraziarsi. Era una questione di sopravvivenza.

Con lo spostamento del centro di gravità della vita ebraica verso le Nazioni democratiche e con l’aumento del numero di ebrei che conducevano una vita di cittadini liberi ed uguali – con l’emigrazione dei sopravvissuti in Europa e degli ebrei Mizrahi [ detti anche sefarditi, ndtr.] dai territori arabi verso l’Occidente ed Israele – l’attivismo ebraico assunse un carattere molto differente. Venne allo scoperto, con campagne pubbliche, pressioni politiche, uso dei media e attività di sensibilizzazione. Infine gli ebrei ebbero eguali diritti e parallelamente fiducia in sé stessi sufficiente per esigerli fino in fondo e pubblicamente.

Gli anni del dopoguerra annunciarono anche un nuovo tipo di coinvolgimento degli ebrei nella società. Alcuni ebrei in precedenza erano stati importanti in tutti i movimenti per l’eguaglianza e la giustizia, ma questo avveniva normalmente a livello personale. Spesso, come nel caso degli ebrei comunisti, era un passo verso l’assimilazione e la perdita di identità religiosa e nazionale a favore di una più grande fratellanza umana. Nelle situazioni in cui ebrei si univano tra loro per lottare per cause sociali, si occupavano abitualmente delle questioni specifiche dei lavoratori ebrei.

Ma vivere in un ambiente più aperto e libero incoraggiò per la prima volta l’ampia partecipazione degli ebrei nelle Nazioni democratiche a cause più generali, per i diritti civili, identificandosi come ebrei, sia che si trattasse di rabbini in quanto membri di intere comunità. Non vi era più la preoccupazione che marciare per obbiettivi controversi e contestati avrebbe provocato la collera delle autorità verso tutti gli ebrei.

E vi era anche un senso del dovere. Gli ebrei conducevano una vita tranquilla. Nella diaspora ogni grave minaccia fisica di antisemitismo stava scomparendo. Per coloro che lo scegliessero, vi era uno Stato ebraico sovrano dove vivere. Per gli altri, una vita come membri di una minoranza rispettata e ben integrata.

Per molti ebrei una nuova era di sicurezza e prosperità significava che noi ora dovevamo garantire che altre, meno fortunate, minoranze, come anche i rifugiati e gli immigrati, avrebbero ricevuto il nostro incondizionato appoggio: un grande senso etico di ‘tikkun olam’ [riparare il mondo, ndtr.], che ha animato molti ebrei negli ultimi 60 anni. E quando nei primi anni ’90 l’impero sovietico crollò, rendendo liberi ancor più ebrei sia di emigrare in Occidente e in Israele, sia di restare nelle loro patrie di nuova democrazia, la tendenza sembrò irreversibile.

Un quarto di secolo fa, per la prima volta nella storia, quasi l’intero popolo ebraico viveva in società libere. Con l’eccezione dell’Iran e di poche piccole e isolate sacche, tutti gli ebrei, dovunque vivessero, sono stati liberi e uguali ormai da una generazione.

Non abbiamo ancora cominciato a comprendere il vero significato di quel fenomeno storico – e stiamo ormai affrontando un enorme problema riguardo a quale sia il tipo di libertà in cui vogliamo vivere.

Non avviene solo in Israele, dove siamo in un limbo tra la costruzione di una società basata sui valori ed una che considera la preservazione della nazionalità ebraica superiore ad ogni considerazione morale. Lo stesso divario si sta aprendo nell’America di Trump ed in tutta Europa, dove un Paese dopo l’altro soccombe alla nuova ondata di politiche populiste.

La grande maggioranza degli ebrei americani può in questo momento mostrare tendenze progressiste, ma vi è una sostanziale, forse crescente, minoranza tra loro che crede fermamente che una stabile sicurezza si possa trovare soltanto nell’alleanza con un establishment conservatore, e sì, bianco.  

E se si parla con gli ebrei in Europa si troveranno molti con un approccio sfrontatamente illiberale. Non solo tra le comunità ebraiche in Francia e Belgio, dove gli ebrei sono stati uccisi in anni recenti per il fatto di essere ebrei. Questa mentalità si rafforza più si va verso est.

Come mi ha detto il capo di una comunità regionale in Russia: “Quando Israele bombarda Gaza ed uccide gli arabi è una buona cosa per gli ebrei. È ciò che fa sì che i nostri vicini qui ci rispettino molto di più. È il miglior antidoto all’antisemitismo.”

Questa settimana un rabbino in Ungheria mi ha detto: “Gli ebrei progressisti sono attori di un dramma storico in cui loro rappresentano le vittime, tutte le vittime. Perché questo è ciò che apprendono dall’esperienza storica ebraica. Ma questo è solo un sacco di buoni propositi.

Il mondo adesso sta diventando un posto meno liberale, un posto in cui i non ebrei stanno dimenticando l’olocausto. Gli ebrei hanno bisogno di una strategia di sopravvivenza, perché non diventiamo vittime un’altra volta. Questo significa essere una Nazione forte, alleata con altre Nazioni forti. Non con le vittime.”

È una strategia di sopravvivenza nel mondo di Trump, Putin e Netanyahu. 

In Europa, non più un importante centro di vita ebraica, ma ancora una patria per ben due milioni di ebrei sparsi nel continente, ho incontrato sempre più ebrei alle prese con i valori liberali del dopoguerra con cui sono stati educati.

Istintivamente rifiutano la retorica anti-immigrati e islamofobica che li circonda. Non gli appare soltanto sbagliata. È troppo simile a ciò che i loro genitori e nonni sentivano non molto tempo fa.

Ma poi portano i figli nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche circondate da guardie armate e temono di dover scegliere da che parte stare.

Potrebbe essere terminato il breve periodo nella storia ebraica in cui è sembrato che il mondo intorno a noi stesse allineandosi con ciò che volevamo credere fossero valori sia ebraici che liberali, che la bilancia pendesse dalla parte opposta al razzismo e all’odio, non solo verso gli ebrei, ma verso chiunque, ed in cui pensavamo che fosse solo questione di tempo perché potessimo costruire società migliori e più giuste, in Israele ed in ogni altro Paese dove vivono gli ebrei.

Di sicuro non può più essere dato per scontato. Prepariamoci a dover mettere alla prova quei valori.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pennellate di vita comune dalla Striscia di Gaza

Patrizia Cecconi da Gaza

16 giugno 2018, Pressenza

Ieri era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità.

Ieri era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.

L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.

Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.

Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.

Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.

Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteria et voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.

In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.

Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.

In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta libera.

I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.

Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.

Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.

Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.

Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.

E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.

A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.

Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.

Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.

Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.




La Grande Marcia del Ritorno: il massacro dei cecchini a Gaza

Richard Falk

10 giugno 2018, Global Justice in the 21st century

Nessun paese agirebbe con maggior moderazione di Israele”, Nikki Haley, Ambasciatrice USA alle Nazioni Unite.

Nota preliminare: Il massacro dei cecchini a Gaza in risposta alla Grande Marcia del Ritorno è un’altra pietra miliare nella resistenza palestinese e un ennesimo terrificante episodio nella storia dell’apartheid israeliano di violenza eccessiva e crudele, un sequel vergognoso di crimini per i quali non esiste un possibile tribunale giudicante che renda giustizia alle vittime. L’articolo che segue consiste nella giustapposizione di notizie, del bruciante editoriale di un giornalista israeliano coraggiosamente intransigente, Gideon Levy, e di un ampio e brillante commento del mio amico Jim Kavanaugh. L’articolo è dedicato alla memoria di Razan al-Najjar, la coraggiosa paramedica di 21 anni colpita a morte mentre assisteva i manifestanti palestinesi feriti più o meno vicino alla recinzione di Gaza. Questa giovane donna incarna la purezza della resistenza non violenta ed eroica, un’identità a cui è stata data profondità storica grazie alla sua gioia di vivere e al supremo sacrificio impostale dalla brutalità di un cecchino.

Si presume che la leadership politica e i comandanti militari israeliani abbiano scelto una tale esibizione di violenza eccessiva e vendicativa per un chiaro obiettivo politico, che rimarrà segreto. Sembrerebbe voler sfruttare il sostegno illimitato della presidenza Trump e una situazione politica regionale più che favorevole nella loro storia, ma ci si può ancora chiedere “a quale scopo?” Per me l’ipotesi migliore è che l’azione sia stata progettata per convincere la gente di Gaza, più che Hamas, che la resistenza, e in particolare la resistenza disarmata, è inutile. Senza un piano diplomatico e con il processo delle annessioni che procede senza ostacoli, Israele profitterebbe del riconoscimento palestinese che la lotta è finita e che i palestinesi hanno perso. La Grande Marcia del Ritorno è stata una sfida e un rifiuto ad ammettere la sconfitta, senza dubbio irritando Israele, e infliggendo una grande sconfitta nell’altra guerra: la Guerra di Legittimazione combattuta per conquistare i cuori e le menti sulla base di un elevato fondamento morale e politico.

Insomma, dobbiamo capire che il problema di vincere la Guerra di Legittimazione è principalmente una lotta per far sì che la verità venga ascoltata, venga compresa in tutte le principali questioni in campo. La legge e la morale sono dalla parte delle richieste palestinesi, ma questo si è sinora dimostrato politicamente irrilevante in quanto la geopolitica e le capacità militari pendono fortemente dalla parte di Israele. Può la resistenza palestinese, rafforzata da un crescente movimento di solidarietà globale, superare il vantaggio israeliano? Il tempo lo dirà. Finora le associazioni dei media si sono schierate con Israele, ed è un campo di battaglia nella Guerra di Legittimazione in cui i palestinesi hanno sinora sostanzialmente fallito.]

(Traduzione di Luciana Gagliano)




Il ministro della Difesa di Israele definisce l’idea di aiutare Gaza ‘delirante’. Ma mente intenzionalmente

Noa Landau

10 giugno 2018, Haaretz

Domenica mattina il ministro della Difesa [israeliano] Avigdor Lieberman si è nuovamente pronunciato contro gli aiuti umanitari a Gaza.

In un’intervista alla radio dell’esercito prima dell’incontro del comitato sulla sicurezza di domenica su questo argomento, Lieberman ha definito l’ipotesi che misure di aiuto umanitario condurrebbero alla cessazione del terrorismo “allucinante e delirante”. Ma alla domanda di specificare che cosa avrebbe consigliato precisamente a riguardo, ha eluso una chiara risposta ed ha continuato ad esprimersi con slogan.

Lieberman, capo del partito Yisrael Beitenu [“Israele Casa Nostra, partito di estrema destra nazionalista, ndtr], in un certo senso ha ragione; le misure di aiuto umanitario qui e nella Striscia di Gaza non sono una soluzione a lungo termine ad un problema che verte essenzialmente sulle aspirazioni alla liberazione nazionale. Ma ha anche torto e mente, perché sa molto bene che la posizione del suo governo, propugnata dall’esercito e dal suo ministero, sostiene gli aiuti umanitari affiancati a vari interventi di sostegno allo scopo almeno di interrompere la violenza nella regione.

Ma è vero che la drammatica situazione economica a Gaza non influisce sul livello delle minacce terroristiche? Dipende da chi si interpella nel governo e da quanto sono negativi i sondaggi per l’intervistato. Solo la scorsa settimana, durante la sua visita in Europa, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto ai giornalisti che l’escalation nella Striscia è dovuta allo strangolamento economico, “chiaro e semplice”, come ha detto lui. Ovviamente Netanyahu accusa Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per la crisi, a causa degli “enormi investimenti sotterranei” di Hamas, cioè i tunnel. Ma il risultato, secondo il primo ministro, è che “stanno soffocando sul piano economico e hanno deciso chiaramente e semplicemente di schiantarsi contro la barriera (di confine).”

Netanyahu ha anche detto: “Stiamo esaminando varie possibilità per prevenire una crisi umanitaria là [a Gaza]. Israele è quello che fa di più e forse l’unico che si attiva su questo problema.” L’ultima affermazione non è esatta; si stanno sollecitando sforzi internazionali non meno che quelli israeliani per una soluzione e, a differenza di Israele, i governi stranieri stanno anche investendo denaro dei propri cittadini. Ma nei mesi scorsi Israele ha certamente bussato ad ogni porta per raccogliere fondi per l’assistenza a Gaza. Per esempio, a gennaio, durante una conferenza di emergenza a Bruxelles dei Paesi e delle organizzazioni donatori verso i palestinesi, Israele ha presentato un piano di emergenza per la ricostruzione umanitaria di Gaza ed ha chiesto alla comunità internazionale di finanziarlo.

Il piano israeliano per salvare Gaza, che è stato preparato sotto la guida del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori – cioè dell’esercito, quindi dell’ambito di competenza di Lieberman – comprende una proposta di costruzione di un impianto di desalinizzazione, un impianto di depurazione, un impianto di raccolta dei rifiuti, il potenziamento della zona industriale di Erez e altre voci, per un costo totale previsto di 1 miliardo di dollari. Israele ha proposto di fornire competenze tecniche e tecnologia per i progetti e di avere maggiore flessibilità riguardo all’importazione di materiali “a doppio utilizzo”, che potrebbero essere usati anche per atti di terrorismo, a Gaza. Questo significa che ci può essere più flessibilità nel blocco quando Israele lo decide. L’ex Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori, general maggiore Yoav Mordechai, ha detto più volte in passato che “il problema è soprattutto di Hamas e dell’ANP, ma ha un forte impatto su Israele. È una componente ulteriore della concezione di sicurezza dell’esercito

La buona notizia, se così si può dire, è che anche il pubblico israeliano sembra ormai capire la falsità di politici come Lieberman e i suoi epigoni. In un’inchiesta condotta di recente dall’israeliana “Meet the Press” [‘Incontra la stampa’, programma televisivo di Canale 2 israeliano, ndtr.], come risposta alla domanda su che cosa dovrebbe fare Israele riguardo alla Striscia di Gaza, il 41% degli israeliani era d’accordo che Israele dovrebbe fornire “aiuto agli abitanti della Striscia di Gaza”. Questo dato va raffrontato con il 28% che ha detto che Israele dovrebbe “sconfiggere e rovesciare il governo di Hamas”, il 18% che ha auspicato di “lasciare la situazione com’è”, e l’11% senza un’opinione su una questione che influisce così pesantemente sulle loro vite e su quelle dei loro vicini. E questa è la risposta migliore ai politici populisti e incendiari: la gente non è sempre stupida.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Commissione della Knesset bandisce una legge per definire Israele come uno Stato di tutti i suoi cittadini

Jonathan Lis

4 giugno 2018, Haaretz

Lunedì [4 giugno] una legge proposta da tre deputati della “Lista unitaria” [coalizione di partiti arabo- israeliani, terza forza alle ultime elezioni politiche, ndt.] in cui si chiede che Israele sia definito uno Stato di tutti i suoi cittadini è stata bocciata dalla commissione di controllo della Knesset [che vaglia l’ammissibilità delle proposte di legge, ndt.] prima che raggiungesse l’aula della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] per la votazione.

Sette parlamentari hanno appoggiato la decisione di impedire il dibattito sulla “Legge fondamentale: un Paese per tutti i suoi cittadini,” proposta dai deputati Jamal Zahalka, Haneen Zoabi e Joumah Azbarga; due deputati si sono opposti (Esawi Freige del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] e Ahmad Tibi della “Lista unitaria”), e il deputato Bezalel Smotrich di “Casa ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndt.] si è astenuto.

È la prima volta nelle ultime due legislature che una proposta di legge è stata bocciata prima di essere discussa in parlamento.

Il consulente legale della Knesset Eyal Yinon ha chiarito in un comunicato che “sia sul piano teorico che su quello specifico è difficile non vedere una simile proposta di legge come un tentativo di negare l’esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico, e quindi, in base all’articolo 75(e) del regolamento, la commissione di controllo della Knesset ha la potestà di impedirne la presentazione.

Yinon ha sottolineato che la legge “comprende una serie di articoli che intendono modificare il carattere di Israele da Stato-Nazione del popolo ebraico a Stato in cui c’è uno status per ebrei ed arabi riguardo alla nazionalità.”

Il consigliere giuridico ha anche detto che la legge sembra intesa per modificare principi basilari –cancellando per esempio essenzialmente la “Legge del Ritorno” (che sancisce il diritto di ogni ebreo di immigrare in Israele), e stabilendo invece che l’ottenimento della cittadinanza israeliana sia basato sull’appartenenza personale ad una famiglia di un altro cittadino dello Stato.”

Inoltre, scrive Yinon, la legge nega il principio secondo cui i simboli dello Stato riflettono la rinascita nazionale del popolo ebraico, oltre al rifiuto dell’ebraico come lingua principale dello Stato.

Durante una discussione sulla proposta della “Lista unitaria”, il presidente della Knesset Yuli Edelstein [ex oppositore del regime sovietico ed ora deputato del Likud, ndt.] ha affermato: “Questa è una legge insensata che qualunque persona intelligente può capire che debba essere immediatamente bloccata. Una legge che intende erodere le fondamenta dello Stato non deve aver accesso alla Knesset. È la prima volta dalla mia nomina come presidente della Knesset 5 anni fa che raccomando che la commissione di controllo escluda una legge. I tre deputati di Balad [uno dei partiti che costituiscono la “Lista unitaria”] continuano a cercare di raccogliere voti con provocazioni, e non possiamo tendere loro una mano in questo.”

Al contrario il deputato Freige ha affermato che “la maggioranza ebraica spesso sfida la minoranza araba, e un esempio di questo è la cosiddetta “Legge dello Stato-Nazione” [legge proposta dal governo per accentuare la prevalenza ebraica sullo Stato, ndt.]. Perché gli estensori di quella legge possono presentarla ma Zahalka no?”

La minoranza,” ha detto il deputato Tibi,” ha il diritto di protestare e di opporsi ad accordi come quelli che stabiliscono diritti di cui gode solo la maggioranza ebraica in Israele, una situazione che rafforza l’inferiorità della minoranza araba.”

Il deputato Smotrich, che si è astenuto, ha detto di essere “completamente d’accordo con il presidente della Knesset che questa è effettivamente una legge assurda. Tuttavia una direttiva che impedisca che una legge venga discussa alla Knesset deve derivare da una Legge Fondamentale, e non dai regolamenti della Knesset.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Li mandavano alla guerra

Luis Bruschtein

6 giugno 2018, Página 12

L’annullamento della partita che la Selezione nazionale [argentina] avrebbe dovuto giocare questo sabato a Gerusalemme est è stato il culmine di decisioni assurde di una politica estera da sciocchi. Il Medio Oriente è una zona di conflitti infiniti, ma che anche così ha conservato determinate regole del gioco. Non sarebbe stata la prima volta che la Selezione avrebbe giocato in Israele. Prima di ogni Mondiale la squadra nazionale ha giocato in quel Paese, qualcosa che aveva cominciato a diventare una specie di fatto scaramantico anche se aveva provocato proteste e discussioni. Però tutte le precedenti partite erano state ad Haifa o a Tel Aviv. Giocare a Gerusalemme est rompe tutti i precari equilibri che reggono le relazioni internazionali con le parti in conflitto. Implica prendere una posizione, impegnarsi come parte del conflitto a fianco di Israele.

Risulta quanto meno sospetto che il ministero degli Esteri non abbia cercato di impedire la realizzazione della partita per garantire per lo meno l’integrità fisica dei giocatori. Pur essendo alleati incondizionati di Israele, i presidenti degli Stati Uniti avevano resistito allo spostamento dell’ambasciata di questo Paese a Gerusalemme, come esigeva il governo di destra israeliano. Alla fine il 14 maggio Donald Trump ha spostato l’ambasciata, il che ha determinato il fatto che migliaia di palestinesi siano scesi in piazza per protestare. Ci sono stati circa 60 morti e migliaia di feriti a causa della repressione. Sono passate solo due settimane da quegli scontri. In quello scenario volevano che si giocasse una partita che di “amichevole” non aveva niente, e che semmai si poteva interpretare come un’aperta provocazione contro i palestinesi.

Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967. L’ONU non riconosce questa situazione dato che i trattati internazionali non ritengono Gerusalemme come parte di Israele, ma condivisa con la Palestina. In seguito all’occupazione di Gerusalemme est nel 1967, i governi e la destra israeliani hanno promosso una campagna di colonizzazione di quei territori occupati e hanno cercato di ottenere il riconoscimento internazionale. Anche all’interno di Israele questa politica espansionistica è messa in discussione da settori della popolazione. E a livello internazionale gli Stati Uniti hanno spostato la propria ambasciata dopo quasi 50 anni. Dopo l’iniziativa nordamericana il governo del Guatemala ha annunciato che seguirà i suoi passi e Washington gli ha promesso di pagare le spese.

Il governo israeliano ha promosso la colonizzazione di questi territori e l’espulsione dei cittadini palestinesi. A quelli che sono rimasti ha concesso lo status di residenti. Non sono neppure cittadini, abitanti che sono nati in quei territori così come il loro padri, i loro nonni e i loro antenati sono “stranieri”.

Ma la decisione unilaterale dei governi espansionisti israeliani non aveva avuto nessuna conseguenza internazionale finché pochi giorni fa Trump ha deciso di spostare la sua ambasciata. L’invito del governo di destra di Netanyahu alla squadra nazionale argentina non ha avuto niente di innocente perché dopo la sanguinosa repressione ci sarebbe stata la festa con una partita internazionale che Israele e Argentina avrebbero giocato nei territori occupati.

Non sarebbe la prima volta che il bellicoso governo di Netanyahu cerca di utilizzare l’Argentina per i suoi fini politici. Sia l’annullamento dell’accordo con l’Iran che la morte del procuratore Alberto Nisman [pubblico ministero molto discusso che stava facendo un’inchiesta sull’attentato contro un centro ebraico AMIA a Buenos Aires, che nel 1994 fece 85 morti e centinaia di feriti, e trovato ucciso in circostanze misteriose nel 2015. Nisman accusò Iran ed Hesbollah e la presidentessa Kirchner di complicità nell’insabbiamento delle prove, ndt.] sono stati usati da Netanyahu nella sua campagna internazionale contro l’accordo di pace che all’epoca stava firmando l’allora presidente nordamericano Barak Obama con il governo iraniano. E in questi due fatti ha lasciato il segno il servizio segreto israeliano, il Mossad, nel lavoro che ha fatto insieme all’ex SIDE diretto da Jaime Stiuso [collaboratore della dittatura militare e poi direttamente implicato nelle indagini di Nisman e con CIA e Mossad, ndt.]. Sono dettagli oscuri dietro le quinte, che includono viaggi, finanziamenti e informazioni false. In quell’occasione Netanyahu viaggiò negli Stati Uniti invitato dai Repubblicani e nel suo discorso a Washington usò la situazione argentina per mettere in dubbio il trattato di pace firmato da Obama.

È stato inusuale che un presidente straniero parlasse negli Stati Uniti contro il presidente di quel Paese. Netanyahu ha dimostrato di non avere scrupoli per intervenire nelle questioni interne di altri Paesi. Dopo gli attentati contro la rivista “Charlie Hebdo”, a Parigi, il governo francese gli chiese di non partecipare alla grande manifestazione di ripulsa che vi si tenne. La presenza del capo israeliano di destra era una provocazione per la popolazione islamica francese, al di là degli attentati. Il governo voleva abbassare la pressione di una situazione molto tesa. Però Netanyahu volle approfittare degli attentati a Parigi per la sua campagna elettorale e non gli importarono né le vittime né la situazione che provocava nel Paese ospite.

Anche i sostenitori di Macri durante la campagna elettorale hanno utilizzato l’accordo con l’Iran e la morte di Nisman. Sulla base di queste coincidenze il governo di Mauricio Marci ha rafforzato i rapporti con Benjamin Netanyahu con l’acquisto di materiale bellico israeliano per la repressione interna. Ci sono stati viaggi di protocollo della vice-presidentessa Gabriela Michetti e poi della ministra della Sicurezza Patricia Bullrich.

Nel contesto di questa relazione è emersa questa grave decisione diplomatica che poneva la squadra nazionale in un contesto di guerra a favore di una delle due parti in conflitto. È stata una decisione politica, oltre ai milioni di dollari che si è fatta pagare la AFA [Federación Futbolística Argentina, ndt.]. E nessuno ne ha discusso con i giocatori e con l’allenatore, né ha chiesto loro se fossero disposti ad assumersi questo impegno di carattere politico in mezzo a un conflitto.

I giocatori hanno cominciato a rendersi conto che li avevano messi in un gioco pericoloso quando hanno percepito il forte tono delle proteste che aveva provocato l’annuncio della partita. L’intenzione, inoltre, era chiara, perché gli stadi di Haifa e di Tel Aviv sono più grandi del “Teddy” di Gerusalemme. Il malessere, che già si era sentito in qualche commento, si è trasformato in preoccupazione. Ci sono state richieste perché si garantisse che nello stadio non fosse presente nessun politico israeliano. Però, quando si sono resi conto del carattere della partita, i giocatori e l’allenatore hanno dichiarato il proprio rifiuto.

È ovvio che non si è trattato solo dell’AFA e che c’è stato un intervento della presidenza e del ministero degli Esteri su richiesta del governo israeliano. Netanyahu è comparso solo quando è stata annullata la partita, però quelli che conoscono le sue ambizioni politiche danno per certo che è stata una sua idea. Prima non ha voluto che apparisse che stava facendo pressioni sul governo argentino e poi ha voluto presentare di fronte ai suoi elettori la cancellazione della partita come un atto antiebraico. Non è stato un atto contro gli ebrei, ma la reazione di fronte alla prepotenza di Netanyahu e ad una iniziativa irresponsabile del governo e del ministero degli Esteri argentino.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




Amnesty International: la demolizione illegale e il trasferimento forzato di un villaggio di Beduini palestinesi rappresenta un crimine di guerra.

Comunicato Stampa

1 giugno 2018, Amnesty International

Le autorità israeliane devono annullare immediatamente il progetto di demolire il villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar e di trasferire forzatamente la comunità che ci vive, ha dichiarato Amnesty International in vista dell’arrivo anticipato dei bulldozer previsto per il 1 giugno, dopo che la settimana scorsa la Corte Suprema di Israele ha autorizzato la demolizione.

È stato previsto che i residenti del villaggio siano trasferiti in un’area vicino a quella che era la discarica municipale di rifiuti di Gerusalemme, nei pressi del villaggio di Abu Dis.

“La scandalosa decisione presa la settimana scorsa dalla Corte Suprema di permettere all’esercito israeliano di demolire l’intero villaggio di Khan al-Ahmar è stata un colpo tremendo per le famiglie che da quasi dieci anni stanno facendo una campagna di informazione e combattono una battaglia legale per rimanere sulla loro terra e preservare le loro abitudini di vita. Procedere con la demolizione non sarebbe solo un atto di crudeltà, ma rappresenterebbe anche un trasferimento forzato, che è un crimine di guerra”, ha detto Magdalena Mughrabi, vice-direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Khan al-Ahmar è abitato da circa 180 residenti della tribù beduina Jahalin. È circondato da diversi insediamenti illegali israeliani che si trovano ad est di Gerusalemme.

Da più di 60 anni, la tribù beduina Jahalin sta lottando per mantenere le proprie abitudini di vita. Dopo essere stati scacciati negli anni 1950 dalle loro terre nel deserto del Negev, hanno subito continue vessazioni, pressioni e reinsediamenti da parte dei vari governi israeliani.

Alla fine di agosto 2017, il ministro della difesa israeliani Avigdor Lieberman annunciava che entro alcuni mesi il governo avrebbe sgomberato l’intera comunità. Lo scorso 24 maggio, la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore della demolizione dell’intero villaggio di Khan al-Ahmar, compresa la scuola che è stata costruita usando vecchi copertoni di auto e che fornisce istruzione a circa 170 ragazzi di cinque diverse comunità beduine.

La Corte ha deciso che il villaggio è stato costruito senza i dovuti permessi di costruzione, anche se per i Palestinesi è impossibile ottenere tali permessi nelle aree della Cisgiordania sotto controllo israeliano conosciute col nome di Zona C.

“Le autorità israeliane hanno distrutto migliaia di vite palestinesi, sottoponendo uomini, donne e bambini ad anni di traumi e di ansie con la loro politica profondamente discriminatoria di negare innanzitutto i permessi di costruzione per poi distruggere con i bulldozer case, scuole e strutture per la pastorizia”, ha detto Magdalena Mughrabi.

“Invece di continuare a punire i Palestinesi perché costruiscono senza permessi, le autorità israeliane devono smettere di costruire ed espandere i loro insediamenti illegali in Cisgiordania, ciò che rappresenterebbe un primo passo per rimuovere i civili israeliani che vivono in questi insediamenti.”

“La sentenza della Corte Suprema è estremamente pericolosa e può rappresentare un precedente ai danni di altre comunità che cercano di opporsi ai progetti israeliani di trasferirle nei centri urbani. Le autorità israeliane devono rispettare i loro obblighi legali internazionali e abbandonare ogni piano di trasferimento forzato per Khan al-Ahmar e altre comunità.”

Informazioni sul contesto

Khan al-Ahmar si trova circa due chilometri a sud della colonia di Kfar Adumin nella Cisgiordania occupata. Dal 2009, la comunità beduina che vi risiede sta combattendo contro i continui ordini di demolizione di edifici e infrastrutture, tra cui la “scuola di gomme”. Quello stesso anno, gli abitanti delle vicine colonie israeliane di Kfar Adumin, Alon e Nofei Prat hanno chiesto alla Corte Suprema israeliana di permettere all’esercito israeliano di eseguire gli ordini di demolizione già emessi.

Khan al-Ahmar è una delle 46 comunità palestinesi della Cisgiordania a rischio di trasferimento forzato, a causa dei piani di ricollocamento israeliani e delle pressioni ad andarsene che vengono esercitate sui residenti. Queste comunità si trovano nella zona designata come Area C in base agli Accordi di Oslo firmati nel 1993 da Israele e dall’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). In quest’area, che rappresenta più del 60% della Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano ha il completo controllo sulla sicurezza. L’Amministrazione Civile israeliana, che è un corpo militare, controlla la pianificazione ambientale e urbanistica.

L’esercito israeliano ha recentemente annunciato nuovi progetti di demolizione per i villaggi di Ein al-Hilweh e Umm Jamal nella Valle del Giordano, di Jabal al Baba a est di Gerusalemme, e del 20% degli edifici nel villaggio palestinese di Susiya che si trova nelle colline a sud di Hebron.

La politica di Israele di insediare civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, distruggendo arbitrariamente le proprietà palestinesi e trasferendo forzatamente gli abitanti che vivono sotto occupazione, viola la Quarta Convenzione di Ginevra ed è un crimine di guerra compreso nello statuto della Corte Penale Internazionale.

A partire dal 1967, Israele ha evacuato e trasferito forzatamente intere comunità ed ha demolito più di 50.000 case e infrastrutture palestinesi.

Traduzione di Donato Cioli

A cura di AssopacePalestina

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Perché Israele ha bisogno di uccidere

Patrizia Cecconi

2 giugno 2018, Pressenza

Osservando i fatti in quella striscia di terra del Vicino Oriente chiamata Striscia di Gaza, non ci si chiede più cosa sta spingendo quel popolo a rischiare la vita nella grande manifestazione iniziata il 30 marzo e chiamata Grande marcia del ritorno.  Sono state fatte tante analisi in questi due mesi e sono state dette anche molte sciocchezze, o più precisamente molte bugie, ma la verità è comunque emersa circa le ragioni di tanta esasperata determinazione.

Quel che viene da chiedersi, invece, è cosa spinge Israele a seguitare ad uccidere gratuitamente riuscendo a tirarsi addosso le attenzioni negative delle istituzioni abitualmente indulgenti rispetto alle sue azioni. E’ facile rispondere che Israele uccide con leggerezza perché può contare sull’incondizionato appoggio degli Usa e dei suoi satelliti, ma questa è una ragione insufficiente a spiegare, perché riguarda la copertura delle sue azioni nefande e non la spinta a commetterle.

Ieri ad esempio, penultimo venerdì della Grande Marcia, che motivo avevano i soldati israeliani per colpire un’ambulanza che portava soccorso? Chi o che cosa è stato a spingere quei soldati a sparare contro un gruppo di infermieri assassinando una giovane volontaria dall’aria di bambina in fiore? 21 anni, poco più  che adolescente, Razan Al Najjar era stata come un raggio di sole in questi due mesi in cui si era prodigata con  generosità ed efficienza al  soccorso dei feriti. Lei partecipava alla marcia così, portando aiuto con tanta determinazione e altrettanta grazia. Anche chi scrive aveva avuto modo di conoscerla durante una delle visite al border e non è stato facile scriverne, da morta, dopo averla riconosciuta in foto, viva, con quell’espressione a mezzo tra la gioia dell’adolescente che sorride al fotografo e la serietà del compito che aveva scelto di svolgere.

Hanno ucciso proprio lei ed hanno commesso un errore i suoi assassini perché c’è qualcosa di imponderabile nelle emozioni umane, qualcosa che va oltre la sfera della ragione. Hanno ucciso ragazzini inermi e il mondo ha fatto ahi! Hanno ucciso invalidi, già da loro stessi resi invalidi, su grucce o sedie a rotelle e il mondo ha detto ahi, Israele! Hanno ucciso fotoreporters “armati” solo di una macchina fotografica e individuabili col giubbetto “press” e il mondo ha sentito Israele invocare il suo diritto alla difesa e ha detto hmmm… hanno ucciso oltre 120 uomini donne ragazzi e bambini tutti disarmati e il mondo ha ripetuto la magica frase “sicurezza per Israele” passando sopra ai cadaveri. Hanno ferito 13.000 manifestanti disarmati e prima che il mondo potesse parlare, Israele ha detto “è tutta colpa di Hamas”! E il mondo ha detto “è colpa di Hamas” e si è addormentato sereno.

Ma ieri è successo qualcosa di particolare. Ieri non hanno ucciso un bambino, un invalido, una donna, o 120 palestinesi. Ieri hanno ucciso Razan Al Najjar. Un fiore che portava un nome e che, al pari del video che mostrava il camice insanguinato e l’inutile disperato tentativo di salvarla, ha fatto il giro del mondo con annessa foto. Non è morta “una palestinese”, è morta una ragazza palestinese ben identificabile come “umana”, col suo viso, il suo sorriso, il suo camice insanguinato senza un comprensibile perché, e poi altre foto sono apparse di Razan al confine, di Razan che corre a recuperare un ferito, di Razan con i guanti sanitari insanguinati mentre presta soccorso. Di Razan viva, sorridente, piangente, attiva e generosa. Perché l’hanno uccisa? Perché Israele uccide in questo modo i palestinesi che già sottopone alla tortura dell’assedio?

Abbiamo paura di rispondere. Temiamo che andando per esclusione possa emergere una verità terribile da accettare. Premettiamo che le autorità che governano la Striscia avevano accettato una sorta di tregua pilotata dall’Egitto, e anche se la marcia non è delle autorità governative, l’influenza di Hamas nel tenere bassa la guardia si è fatta sentire. Eppure anche ieri ci sono stati decine di feriti da colpi sparati dai cecchini, oltre ad altre decine di intossicati dai gas. A giudicare dall’andamento delle manifestazioni che abbiamo monitorato in diretta non sembrava ci fosse alcun motivo di sparare. E allora perché?

Israele è al di sopra della legalità internazionale, e lo è a tal punto di aver fatto della legalità internazionale un ectoplasma capace di prendere forma solo quando riguarda altri Stati. Ma questo spiega solo l’arroganza a crimine avvenuto e non spiega ancora cosa induce Israele a commetterlo.

L’accanimento con cui impedisce a una barca carica di feriti di raggiungere la Grecia per potersi curare è in fondo della stessa natura dello sparare gratuitamente a manifestanti disarmati. Poi in realtà spara anche in assenza di manifestazioni.  Potremmo supporre  che vuole ridurre i palestinesi al silenzio. Ma sono 70 anni che ci prova e sa che non può riuscirci. Vuole rendere la vita ai palestinesi e, nello specifico, ai gazawi talmente impossibile da farli fuggire? No, perché gli impedisce di uscire costringendoli in prigione. Vuole forse creare una sorta di califfato in accordo con l’Egitto che si estenda verso il Sinai in cui verranno rinchiusi i palestinesi illudendoli che quello è il loro Stato? Ci sembra improbabile e, comunque, non avrebbe a che fare con la gratuità delle violenze.

Forse Israele non ha elaborato, come collettività, la violenza subita nei secoli dagli ebrei e, in particolare, quella subita durante il nazifascismo e che tuttora rappresenta la coperta capace di bloccare le sanzioni per i suoi crimini. Senza calarci in un’interpretazione psicoanalitica che non abbiamo le competenze per sviluppare, possiamo però avanzare l’ipotesi che Israele stia affermando se stesso con la tragica introiezione dei valori negativi di cui non riesce a liberarsi. Vuoi perché li usa a propria giustificazione, vuoi perché deve superarli ma, non separandosene perché li usa, non può superarli se non inglobandoli per rielaborarli e poi, infine, potersene liberare.  Ma intanto, in questo percorso, ha bisogno di un corpo su cui scaricare la negatività subita e renderlo dipendente, annichilirlo, farne l’equivalente di quel che il “corpo ebreo” ha subito durante il nazismo.

Affermare la sua superiorità per curare le sue ferite. Sparare gratuitamente, lasciar boccheggiare ma non morire, grazie alla mortificante elemosina dei donatori 2 milioni di gazawi i quali, non potendo essere pubblicamente definiti esseri inferiori li si taccia di terrorismo, ottenendo così il consenso planetario al loro annichilimento. Far scendere normalmente i palestinesi dai bus in Cisgiordania per controllare i documenti mortificando la loro dignità sotto lo sguardo armato di quattro soldatelli diciottenni è un modo meno sanguinario ma tendente allo stesso scopo: spegnere l’autostima del popolo occupato per accrescere quella del popolo (popolo) occupante fino a considerarsi non occupante ma legittimo proprietario, potente, superiore per decreto divino, impunibile.

Sono solo ipotesi interpretative dettate dall’osservazione diretta. Possono essere confutate, ma solo da chi può farlo in seguito a lunga osservazione diretta. Israele comunque, al momento, ha un comportamento assolutamente criminale e questo non è, come potrebbe sembrare, un giudizio di valore, ma è un dato di fatto.

L’uccisione della piccola infermiera Razan, bella e commovente nella sua gioventù spezzata come per un atto vandalico, può essere l’errore che Israele non avrebbe dovuto fare e che forse cambierà l’andamento del suo progetto.
Israele sa che in questo caso non potrà usare la coperta del “diritto a difendersi” e quindi userà quella della “shoà”, ma forse stavolta resterà scoperto. Sarà il volto pulito e luminoso di Razan a inchiodarlo alla sua realtà di Stato che per emanciparsi da quel che ha subito si è infilato nella stessa uniforme del suo vecchio persecutore. Molto peggio che Stato canaglia! e quando la parte sana del suo corpo sociale se ne renderà conto cosa succederà? Ogni ipotesi è possibile.

Ora possiamo soltanto osservare che se i media non cederanno al silenzio ma avranno il coraggio di dire la verità, e cioè: Razan non è stata uccisa in scontri con i soldati, ma per il gusto sadico di un soldatello, forse affascinato dal suprematismo israeliano, di annientare una ragazza inerme, bella, forte nelle sue idee e quindi perfetto bersaglio da centrare in pieno petto in modo che il soldatino ancora in forse sul suo essere superiore o meno potesse affermarsi attraverso il fucile, sua appendice di virilità.

Come scrive il poeta giordano Abduhadi Raji Majali “Gaza è l’unico luogo nel mondo arabo che ha offerto martiri di ogni tipo. Ha fornito bambini, disabili e anziani … Il mare è chiuso e la terra è chiusa e l’aria è assediata .. ma il popolo di Gaza ha creato una quarta strada …E con tutta questa miseria, i gazawi producono arte attraverso la sabbia delle spiagge…Gaza è un fenomeno … Penso che Gaza sia un mito che Allah ha posto sulla terra in modo che il mondo possa imparare da esso …”

Questa è la percezione che anche il grande poeta Mahmud Darwish aveva di Gaza e la esprimeva in una sua poesia, Gaza è un fenomeno! e proprio perché Gaza è un fenomeno in cui accadono cose impensabili, forse l’assassinio sadico di Razan, potrebbe essere il primo gradino della discesa agli inferi di Israele o del suo adattarsi al rispetto del Diritto universale umanitario e del Diritto internazionale entrambi violati con impassibile e impunita costanza per 70 anni, gli stessi della resistenza che il popolo palestinese, nonostante frazionamenti e rivalità politiche, porta avanti rivendicando il rispetto dei  propri diritti.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Zeitun.info.




I palestinesi sono stati abbandonati dai loro leader

Alaa Tartir

1 giugno 2018, Foreign Policy

Roma, 1 giugno 2018, Nena News – Quando l’amministrazione Trump ha deciso di trasferire l’Ambasciata USA a Gerusalemme, momento cruciale nella lotta del popolo palestinese per la libertà, i dirigenti dell’Autorità Palestinese non sono riusciti in alcun modo a dare una risposta significativa. Non sono nemmeno riusciti a evitare l’assassinio di civili a Gaza e, anzi, hanno mantenuto le politiche punitive contro i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia, tra cui quella di trattenere i salari dei dipendenti pubblici.

Dopo 22 anni di attesa dall’ultimo incontro, il Consiglio Nazionale Palestinese si è recentemente riunito a Ramallah per eleggere il Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il suo presidente. L’incontro di quattro giorni, che si è tenuto tra il 30 aprile e il 3 maggio, è stato una dolorosa dimostrazione di come i leader palestinesi stiano minando la democrazia.

L’incontro si è concluso con l’annuncio di una nuova leadership palestinese, basata sul clientelismo e su meschine politiche tra fazioni. Le cosiddette elezioni hanno dimenticato l’elemento principale di ogni sistema politico funzionante: la gente, che è stata messa da parte, emarginata, e a cui è stata tappata la bocca in una terribile dimostrazione della crescente sconnessione tra governanti e governati. Anche se questo non è un fenomeno nuovo, il livello di arroganza della leadership è stato stupefacente.

Oltre all’occupazione israeliana del loro territorio, i palestinesi subiscono l’assenza di una guida legittima, di strutture politiche responsabili e inclusive e di una governance democratica, efficace e trasparente. Tutto ciò impedisce ai palestinesi di far fronte ai diversi livelli di oppressione e repressione che si trovano davanti. Rovesciare questo triste stato di cose è un obiettivo irraggiungibile, con il sistema politico palestinese attuale. Però è anche un presupposto indispensabile, se le future generazioni di palestinesi vogliono avere un futuro migliore.

Se spera di reinventare l’attuale sistema politico, il popolo palestinese e una nuova generazione di dirigenti devono smascherare le élite politiche di oggi che continuano a dividere, indebolire e emarginare la popolazione. Questo processo di reinvenzione va ben oltre la questione di sciogliere l’Autorità Palestinese (AP), l’accoppiata Fatah-Hamas e il quadro dettato dagli Accordi di Oslo venticinque anni fa. Richiederà una più alta rappresentanza politica, un approccio più inclusivo alla pianificazione nazionale e una buona dose di fantasia per superare le idee antiquate e la miope visione del mondo che attualmente domina il pensiero politico della leadership palestinese.

L’attuale leadership non è disponibile né interessata alle rivendicazioni del popolo, perché minacciano il dominio dell’AP in Cisgiordania (e quello di Hamas a Gaza). La leadership, quindi, continua ad agire in modo autoritario, cercando di mettere a tacere ogni voce che ne mette in dubbio la legittimità o sfida il suo monopolio in fatto di governance.

Negli ultimi dieci anni, molte organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno documentato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza palestinesi per mettere a tacere chi protesta. Ci sono state anche detenzioni politiche, limitazioni alla libertà di parola e di partecipazione politica e manifestazione, così come spionaggio, atti di tortura e gravi violazioni dei diritti umani in risposta all’attivismo politico in strada o sui social media.

Le recenti manifestazioni al confine di Gaza e gli scontri a Gerusalemme nell’estate del 2017 devono essere compresi nel loro contesto. La frustrazione per lo status quo e la mancanza di prospettive, insieme alle condizioni di vita disperate, hanno portato allo scontro alla barriera militare della Striscia di Gaza; a Gerusalemme Est, sono state le politiche esplicite sugli insediamenti, volte a incrementare la popolazione ebraica a causare gli scontri, e la repressione da parte sia di Israele che dell’Autorità Palestinese ha provocato la resistenza in Cisgiordania. La protesta collettiva palestinese, oggi, è un’espressione di resistenza alla violenza dell’occupante israeliano, ma anche alla leadership palestinese.

Non sorprende, quindi, che dopo il meeting dell’Autorità Palestinese del 30 aprile siano aumentate le tensioni. Anche se molti palestinesi – dato il ruolo storico dell’OLP nel portare la lotta palestinese sul piano mondiale – continuano a idealizzare l’organizzazione come “unica legittima rappresentante del popolo palestinese nel mondo”, i palestinesi hanno anche visto in diretta TV, come dice un giovane di Gaza, “quanto siano marci questo organismo e le sue istituzioni”. Ha aggiunto che “quando svanisce anche l’ultima speranza… ti metti a capo di una rivolta per essere ascoltato, visto, riconosciuto.”

Per le generazioni più giovani, la reazione alla frustrazione è stata organizzarsi e mobilitarsi.

Come sottolinea un altro giovane attivista di Gaza, “L’abbiamo visto nell’estate del 2017 a Gerusalemme, e adesso lo vediamo a Gaza. Anche se questi scontri ciclici non durano… solo la gente, non la leadership politica, potrà modificare gli squilibri di potere tra colonizzatori e colonizzati.”

Una terza giovane attivista sostiene, con rabbia, che “siamo noi, la gente, la generazione futura, i giovani, e non Hamas, quelli che stanno protestando”. La lotta, secondo lei, è una delle forme di “resistenza popolare contro ogni forma di controllo e dominazione, sia essa palestinese, israeliana, egiziana o qualsiasi altra… Ne abbiamo abbastanza del modello gerarchico che crea solo dittatori e élite VIP che ci fanno solo del male”.

È chiaro che c’è una nuova via d’accesso per i leader del futuro: un attivismo locale, dal basso, che generi leader legati alle loro cerchie sociali e alle battaglie quotidiane della gente, piuttosto che un’élite disinteressata e distante nei lussuosi uffici di Ramallah.

Le proteste di Gaza sono il risultato di questa rabbia popolare. Israele ha cercato di dare una falsa immagine del coinvolgimento di Hamas nelle dimostrazioni al confine per criminalizzare e screditare i manifestanti. Anche se Hamas non è l’organizzatore della marcia, è coinvolto direttamente e indirettamente perché è uno degli attori principali che governano Gaza. È fondamentale riconoscere che Hamas è parte integrante della scena politica palestinese a prescindere dal danno che causa (come anche Fatah) alla lotta palestinese per la libertà e indipendentemente dalle strategie, idee, o principi ideologici. Hamas ha semplicemente fatto ciò che avrebbe fatto qualsiasi partito politico: ha strumentalizzato le proteste per ricavarne un vantaggio politico.

Le manifestazioni a Gaza riguardano fondamentalmente gli innegabili e internazionalmente riconosciuti diritti del popolo palestinese nel suo insieme. Molti attori politici, oltre a Hamas, hanno partecipato alle marce, il che dimostra che esiste una nuova generazione di leader, non divisi in fazioni; una lezione che Fatah e Hamas farebbero meglio a imparare.

Anche se le marce potrebbero durare poco, la comunità internazionale una lezione l’ha imparata: le rivendicazioni dei semplici cittadini palestinesi dovrebbero essere prese sul serio. E questo non solo per il tragico bilancio delle vittime, ma anche perché gli attori internazionali capiscono che un movimento sociale palestinese dal basso potrebbe davvero destabilizzare e minacciare lo status quo, uno status quo che va benissimo alla maggioranza degli attori.

Se la futura generazione di leader palestinesi riuscirà ad ottenere una certa influenza, non potrà limitarsi a criticare e maledire lo status quo. Dovrà essere propositiva e immaginare un futuro ben determinato, e mettere in pratica quella visione con azioni concrete e realizzabili. Cambiare le politiche richiede saper fare politica, e cambiare le regole attuali richiede saper stare al gioco.

Sarà un processo complesso e caotico, ma i futuri leader palestinesi diventeranno visibili solo se formeranno nuovi partiti, proporranno liste di giovani alle elezioni, stabiliranno una cultura di responsabilità e creeranno un governo ombra guidato dai giovani che si metta in gioco in un dibattito nazionale sulle priorità del popolo palestinese.

“Ti spetta qualcosa in questo mondo, perciò alzati” ha detto una volta Ghassan Kanafani, scrittore e attivista politico palestinese assassinato dal Mossad, i servizi segreti israeliani. I palestinesi di Gaza, Haifa, Gerusalemme e ovunque stanno facendo proprio questo: si stanno alzando per la giustizia, la libertà, la dignità e l’autodeterminazione come valori fondamentali. Le forze che combattono questi valori, molto spesso con il pretesto della sicurezza, dovranno renderne conto finché non sosterranno pace e giustizia. Solo allora potremo parlare di un futuro di pace e prosperità per la Palestina. Nena News

Alaa Tartir è direttore editoriale di Al-Shabaka – The Palestinian Policy Network, ricercatore associato al CCDP (Centro su Conflitti, Sviluppo e Peacebuilding) di Ginevra e visiting professor alla Paris School of International Affairs, Sciences Po.

(Traduzione di Elena Bellini)

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Israele usa gli ebrei della diaspora come scudi umani

Yossi Klein

31 maggio 2018, Haaretz

Israele è contento di sfruttare gli ebrei del resto del mondo, ma non si è preoccupata del fatto che le sue azioni li mettono in pericolo.

Israele è un pericolo per gli ebrei del resto del mondo. Si proclama suo protettore, ma non si preoccupa delle conseguenze che le sue azioni hanno per loro. Gli ebrei all’estero pagano il prezzo dell’ostilità nei confronti di Israele, eppure lo Stato continua ad avvolgerseli attorno come un giubbotto esplosivo. Tu vuoi danneggiarmi? Va bene, ma sappi che loro salteranno in aria per primi.

Gli effetti sugli ebrei all’estero non fanno parte delle stime militari di Israele. Fa quello che fa anche se ciò li danneggia. Ma questo non gli impedisce di affermare di rappresentarli, di parlare in loro nome e di usarli come ostaggi. Sono scudi umani. La vostra lealtà al vostro ebraismo, dice, viene prima della vostra lealtà alla vostra patria.

L’ebraismo nel cui nome lo Stato parla non è quello della maggior parte degli ebrei della diaspora. Israele limita o esclude il loro ebraismo. L’ebraismo di Israele è quello di una minoranza che ha preso il controllo del Paese e negli Stati Uniti è più attento ai cristiani evangelici che agli ebrei riformati o ortodossi. Lo Stato li combatte, eppure li usa.

Il governo di Israele ha sempre utilizzato gli ebrei della diaspora. L’identità israeliana si nasconde dietro l’ebraismo. I pericoli a cui Israele espone gli ebrei della diaspora non l’hanno mai frenato. Nel 1956 ha usato gli ebrei egiziani per sabotare il loro Stato. Ha mandato Jonathan Pollard [ebreo statunitense arrestato nel 1985 per aver fatto la spia a favore di Israele nei servizi di intelligence della Marina militare USA, ndt.] a spiare il loro stesso Stato. Ha imposto se stesso agli ebrei del resto del mondo, obbligandoli a mettere in discussione la propria lealtà, mentre insisteva nell’equiparare le critiche contro Israele a un’aggressione contro l’ebraismo e a tutti gli ebrei – cioè all’antisemitismo. Abbiamo molto di questo tipo di antisemitismo proprio qui. In base a questa formula, metà degli israeliani sono antisemiti perché non sopportano il governo. Ma l’efficacia di accusare il mondo di antisemitismo sta scomparendo. L’uso eccessivo ha usurato il meccanismo della vergogna e ha anticipato la sua data di scadenza. Sono passati i giorni in cui potevamo giustificare un attacco contro Gaza con quello che ci è stato fatto ad Auschwitz.

Israele non lo vuole ammettere, ma dal suo punto di vista c’è un aspetto positivo nell’antisemitismo. “Dimostra” il fallimento dei Paesi stranieri nel proteggere i loro ebrei. La loro negligenza sottolinea le nostre qualità. Il capo dello Stato, che è anche il capo degli ebrei del mondo, è orgoglioso della sicurezza che fornisce ai suoi ebrei, Tre anni fa, dopo gli attacchi terroristici contro ebrei francesi, ha invitato la comunità [ebraica francese] a venire in Israele perché il loro Paese non li può proteggere. (Circa 5.000 ebrei sono morti in attacchi terroristici in Israele).

Israele respinge la condanna per le sue azioni a Gaza. Abbandona gli ebrei ed esclude i non-ebrei, ma farebbe qualunque cosa per avere un po’ di simpatia da loro! È assetato di ogni briciola di apprezzamento. Il nostro Stato privatizzato esproprierà e nazionalizzerà e adotterà e si attribuirà qualunque risultato, da una medaglia nel judo al lancio di una nuova attività imprenditoriale.

Lo abbiamo visto la scorsa settimana. Sono state attaccate due dei più delicate questioni nazionali dell’Olanda: la vittoria di Israele all’Eurovisione e le uccisioni a Gaza, entrambi care al nostro cuore. La parodia olandese di “Toy” [“Giocattolo”, la canzone israeliana che ha vinto l’Eurovisione, ndt.], che includeva critiche alle azioni israeliane al confine con Gaza, è stata immediatamente accusata di “antisemitismo”, e l’ambasciata israeliana ha protestato. L’ambasciata sa molto bene che la canzone non è antisemita, ma ha prevalso il desiderio di confondere la critica a Israele con l’antisemitismo.

Chiunque critichi la cantante Neta Barzilai [la vincitrice dell’Eurovisione, ndt.] critica anche il primo ministro, sua moglie, il suo partito e il governo, e desidera farlo cadere. Perché? Perché lo diciamo noi, e ricaviamo la nostra autorità nel definire l’antisemitismo dai sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto.

Ci siamo cercati da soli Benjamin Netanyahu, ma perché sono da criticare tutti gli ebrei del mondo? Perché devono pagare il prezzo della lotta del re degli ebrei con le sue inchieste penali? Se vivessi all’estero starei seguendo le sue recenti iniziative con timore e sospetto. Il bunker sotterraneo [Netanyahu ha convocato le riunioni per la sicurezza nazionale in un bunker, ndt.] e l’auto blindata per Sara [la moglie di Netanyahu, ndt.] non sono di buon auspicio per gli ebrei in Israele e all’estero.

Quando sentiremo che ha chiamato agenti immobiliari in Toscana o ha aperto un conto bancario nei Caraibi sarà venuto il tempo di fare le valigie. L’audace difensore degli ebrei è disposto a sacrificare ognuno di noi pur di far cadere anche solo una singola accusa nella faccenda del sottomarino [uno degli scandali in cui Netanyahu è coinvolto].

(traduzione di Amedeo Rossi)