La dichiarazione di Trump su Gerusalemme dà ad Abbas un’occasione per smuovere la situazione

Amira Hass

9 dicembre 2017,Haaretz

Sfortunatamente, però, la dirigenza palestinese ha dimenticato come si operano dei cambiamenti

Il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele è un’occasione per la leadership palestinese di disfarsi dei modi sclerotizzati di pensare e agire che hanno reso quegli stessi leader incapaci di cambiamento.

Sarà sfruttata questa opportunità di intraprendere un processo interno di democratizzazione? In primo luogo per ripristinare i rapporti tra un élite palestinese non eletta che è stata al potere per diversi decenni e la popolazione (non solo in Cisgiordania e a Gaza ma anche nella diaspora palestinese)? La speranza è che venga usata per operare un cambiamento. La preoccupazione è che ciò non accada.

Quando la leadership palestinese si riprenderà dallo shock provocato dal cambiamento simbolico nella politica americana – simbolico, ma potenzialmente esplosivo -, dirà che si tratta di un problema pan-islamico, pan-arabo, o forse europeo. La leadership avrebbe ragione a dirlo, ovviamente. I leader diranno che i palestinesi sono l’anello più debole della catena e che non possono essere lasciati soli a trattare con il piromane della Casa Bianca.

La si potrebbe considerare anche in altri termini. Il cambiamento nella posizione americana consente ai leader palestinesi, guidati dal presidente Mahmoud Abbas, di operare cambiamenti che dimostrino al loro popolo di non aver scelto la via diplomatica che dipende dal coordinamento con Israele su economia e sicurezza solo per favorire i propri immediati interessi personali e economici – e quelli dei gruppi vicini alla leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di Fatah.

Una delle spiegazioni prevalenti del fatto che Abbas abbia ostinatamente evitato lo svolgimento di elezioni e che, all’interno della sua fazione di Fatah, le elezioni siano state stabilite e dettate dall’alto e in modo tale da non essere discusse pubblicamente, è il “tornaconto personale”. Per lo stesso motivo si sostiene che Abbas abbia evitato di apportare modifiche al suo gabinetto che avrebbero permesso al suo governo di essere rappresentativo delle varie organizzazioni politiche e non solo della propria.

Ripresisi dallo shock, Abbas e il suo gruppo diranno, giustamente, che il cambiamento nella posizione americana non riflette necessariamente il fallimento del percorso diplomatico palestinese, ma piuttosto l’inettitudine delle fazioni moderate all’interno del Partito Repubblicano statunitense.

Dopo tutto, il presidente Trump ha insultato tutti i musulmani, compresi quelli di Paesi i cui governi sono considerati alleati degli Stati Uniti, oltre ad attaccare il Vaticano e l’Europa. I leader palestinesi potranno dire che l’audacia di Trump, nel rompere le convenzioni internazionali, non si limita ad un ambito specifico.

Recentemente lui e la destra economica ed evangelica che [Trump] serve e rappresenta hanno ottenuto due importanti vittorie: un aumento dei profitti per le grandi aziende attraverso i tagli delle imposte per le imprese e una sentenza della Corte Suprema che ha permesso l’immediata applicazione del divieto di ingresso ai cittadini di sei Paesi musulmani. Di conseguenza, Abbas e i suoi soci diranno che non esiste alcun nesso tra la situazione interna palestinese e i tentativi della comunità internazionale di fare i conti con le politiche di Trump.

La via diplomatica – che implica il riconoscimento simbolico internazionale di uno Stato palestinese – è stata preparata lentamente, inclusi diversi risultati incoraggianti, come l’accettazione [della Palestina] in istituzioni internazionali e la firma di convenzioni internazionali. Ma poi il percorso è stato bloccato dagli Stati Uniti. La strada diplomatica ha fatto arrabbiare Israele, ma ora si è esaurita senza aver cambiato la realtà dei fatti: autonomia limitata per l’Autorità Nazionale Palestinese, divisa tra enclave separate, assolvendo nel contempo Israele nonostante le sue responsabilità di potenza occupante. I Paesi occidentali appongono tuttora il loro timbro di approvazione su una leadership palestinese non eletta e non amata a causa del suo impegno a tenere a freno la popolazione e a mantenerla calma nei confronti di Israele, e per la sua volontà di far finta che ci sia ancora un “processo” in corso per edificare uno Stato. Il rischio è che la mossa di Trump non faccia altro che sostenere la richiesta dell’Europa che Abbas e le sue forze di sicurezza continuino a tenere a bada il popolo palestinese in cambio del loro immutato riconoscimento di questa come leadership legittima.

Gli Stati Uniti, finanziatori molto generosi dell’UN Relief and Works Agency [(UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndt.] e delle forze di sicurezza palestinesi, hanno accettato la realtà delle enclave molto prima dell’arrivo di Trump. Questo era il messaggio dietro il finanziamento per lo sviluppo delle strade rurali, al posto di larghe e veloci autostrade, ma in questa operazione Israele ha bloccato l’accesso [alle campagne] dalle città e dai villaggi palestinesi a beneficio dei coloni ebrei della Cisgiordania.

I Paesi europei non sono esenti, tuttavia, da responsabilità nel favorire la realtà delle enclave, con le loro donazioni che in qualche modo mitigano la cronica crisi finanziaria causata dalle restrizioni israeliane. Ma quei Paesi hanno cercato e stanno cercando di aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra, prendendo misure non ancora definitive per boicottare i prodotti delle colonie e dichiarando che l’Area C (che è sotto il pieno controllo israeliano) fa parte dello Stato palestinese. Sono almeno consapevoli del loro ruolo negativo nel sovvenzionare l’occupazione.

Non smetteranno certo di sovvenzionarla ora – attraverso l’assistenza umanitaria ai palestinesi – con il crescente senso di un’imminente catastrofe. Anche questo rafforzerà la logica di mantenere il governo di Abbas così come è adesso.

L’appello di Fatah, partito di Abbas, ai tre giorni di rabbia sulla questione di Gerusalemme senza apportare modifiche alla struttura interna [del potere] è una scommessa rischiosa. Mette in pericolo la vita e la salute di centinaia di giovani palestinesi, esponendoli ad arresti di massa, e tutto questo per niente. Per lo più, potrebbe invece dimostrare che il popolo palestinese non risponde agli appelli di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese poiché non si fida di loro. La popolazione agirà piuttosto quando e come vorrà.

Invece di perseguitare chiunque li critichi su Facebook e di mettere a tacere gli oppositori con una legge relativa a Internet, Abbas e le persone intorno a lui potrebbero iniziare a fare dei passi per rinnovare il sistema politico che hanno costruito con gli auspici degli accordi di Oslo. È difficile immaginare come potrebbe svolgersi tale processo, a causa della lunga sclerosi delle istituzioni dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. In ogni caso, richiederebbe l’inclusione e il coinvolgimento attivo di ampi settori della popolazione nelle fasi di ideazione e di azione, cosa che i leader di Fatah e dell’OLP hanno da tempo dimenticato di fare.

(traduzione di Luciana Galliano)




Università belga interrompe partenariato con torturatori israeliani

Ali Abunimah

7 Dicembre 2017, Electronic Intifada

L’università KU Leuven in Belgio ha intenzione di interrompere il suo ruolo nel progetto di “ricerca” finanziato dall’Unione Europea che si svolge in partenariato/collaborazione con i torturatori israeliani.

Luc Sels, rettore dell’università, ha annunciato mercoledì che i ricercatori avrebbero potuto completare la fase attualmente in corso del progetto LAW-TRAIN, che avrà termine in Aprile del 2018, ma che non prenderanno parte a fasi future.

LAW-TRAIN non può essere considerato separatamente dalla composizione del consorzio”, ha dichiarato Sels. “La partecipazione del Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano pone per forza un problema etico, considerato il ruolo che il forte braccio del governo israeliano gioca nell’imporre un’occupazione illegale dei Territori Palestinesi e la collegata repressione della popolazione palestinese.” Sels ha aggiunto: “Per tale motivo non ritengo opportuno presentare progetti di prosecuzione con un simile consorzio.”

Plate-forme Charleroi-Palestina, un gruppo di solidarietà belga, ha definito la decisione “una bellissima vittoria per le organizzazioni e gli individui che si sono mobilitati contro questa collaborazione con la polizia israeliana.”

    1. Lavorare con i torturatori

LAW-TRAIN è cominciato nel maggio del 2015 con l’apparente scopo di “armonizzare e condividere tecniche di interrogatorio tra paesi coinvolti in modo da far fronte alle nuove sfide della criminalità transnazionale.”

Oltre a KU Leuven, LAW-TRAIN coinvolge anche l’università israeliana Bar-Ilan, il Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano, il Ministero di Giustizia belga, la polizia Guardia Civile paramilitare spagnola, e la polizia rumena.

L’UE sostiene che LAW-TRAIN risponde a linee guida etiche. Tuttavia, esperti legali internazionali hanno affermato a giugno che LAW-TRAIN viola i regolamenti UE e il diritto internazionale, in quanto il Ministero della Sicurezza Pubblica israeliano “è responsabile di, o complice in, torture, altri crimini contro l’umanità e crimini di guerra.”

Accademici e attivisti belgi e palestinesi hanno chiesto che i partecipanti europei, inclusi la KU Leuven e l’istituto di ricerca portoghese INESC-ID, si ritirassero da LAW-TRAIN.

LAW-TRAIN è finanziato da Horizon 2020, un programma UE che fornisce milioni di dollari ai produttori di armi e ai trasgressori dei diritti umani israeliani sotto l’apparenza del supporto alla “ricerca”.

    1. Carta dei Diritti Umani

Sels, del KU Leuven ha scritto che uno dei futuri progetti di LAW-TRAIN era “una della questioni con cui mi sono dovuto confrontare subito” appena entrato in carica in agosto. Ha fatto notare che “gli attivisti hanno chiesto che interrompessimo subito il progetto, inclusi tutti i contratti (ad esso) relativi.”

Un altro risultato positivo è che Sels ha preso l’impegno a che la KU Leuven sviluppi “una carta dei diritti umani come strumento per valutare la partecipazione in progetti di ricerca.”

Questo potrebbe avere ampi benefici e spronare altri istituti e accademici a riesaminare la loro stessa complicità nelle violazioni dei diritti umani di Israele e di altri trasgressori.

Il governo portoghese si è già ritirato da LAW-TRAIN l’anno scorso, dopo che gli attivisti hanno sollevato preoccupazioni riguardo ai diritti umani.

Cornelia Geldermans, pubblico ministero olandese, indicata precedentemente nel comitato consultivo di LAW-TRAIN, sembra non essere più coinvolta, ma ci sono ancora tre accademici inglesi indicati come consulenti.

    1. Abusi finanziati dall’UE

Sels ha sottolineato che l’università avrebbe adottato un approccio imparziale alle questioni sui diritti umani, facendo notare che “i diritti umani vengono calpestati anche da alcune organizzazioni palestinesi.”

Ha ragione, e tali abusi sono facilitati anche dall’UE.

Per esempio, L’UE finanzia EUPOL-COPPS, una programma che forma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che reprimono violentemente l’opposizione palestinese all’occupazione militare israeliana.

Alcuni dei dirigenti che hanno guidato il programma sono stati, in precedenza, membri del Royal Ulster Constabulary, una realtà settaria smantellata, nota per abusi dei diritti umani nel Nord dell’Irlanda sotto governo inglese.

LAW-TRAIN non è l’unico progetto problematico finanziato dal progetto di ricerca Horizon 2020. L’iniziativa elargisce anche milioni di dollari a Elbit Systems, una compagnia israeliana che sta aiutando l’esercito israeliano ad eludere il divieto internazionale sulle bombe a frammentazione.

L’anno scorso Carlos Moedas, il commissario scientifico dell’UE a guida di Horizon 2020, ha fatto visita in Israele. Nonostante l’UE sostenga spesso che mantiene un “dialogo” con Israele sui diritti umani, a Moedas è stato suggerito da dirigenti UE che organizzavano il suo viaggio, di evitare commenti riguardo alle attività di sviluppo delle colonie da parte di Israele quando avesse incontrato il Ministro israeliano della Scienza.

Emanuele Giaufret, l’ambasciatore UE a Tel Aviv, ha recentemente vantato che Israele ha ricevuto la sbalorditiva somma di 534 milioni di dollari da Horizon 2020 fino ad ora.

Questa settimana Giaufret è stato visto “mentre celebrava la Giornata dei Diritti Umani” con il Ministero della Giustizia israeliano, il cui capo, Ayelet Shaked, ha notoriamente pubblicato un appello al genocidio dei palestinesi.

Giaufret ha anche stretto la mano a Uri Ariel, un ministro israeliano dell’ala di estrema destra che ha appoggiato un piano per espellere i palestinesi fuori dalla loro terra.

Uno studioso ben noto sull’Olocausto ha definito il piano sostenuto da Ariel come potenzialmente genocida e ha equiparato i valori del suo principale proponente, un altro legislatore israeliano, a quelli delle SS naziste.

In contrasto, gli attivisti accolgono certamente la decisione di KU Leuven di mettere fine al suo ruolo in LAW-TRAIN come una genuina vittoria per i diritti umani, contro la crescente complicità dei politici UE e il loro supporto per le politiche più estreme di Israele.

    1. Centinaia di politici spagnoli sostengono il BDS

Questa vittoria arriva tra altre grandi indicazioni della crescente consapevolezza europea del bisogno di mettere fine alla complicità, istituzionale e governativa, con i crimini di Israele contro i diritti umani.

La settimana scorsa, il Comitato Nazionale palestinese del BDS (BNC) ha accolto una dichiarazione firmata da centinaia di politici eletti in Spagna che esprimono supporto al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) come unico approccio per realizzare la giustizia e una pace duratura per il popolo palestinese.

Subito dopo la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, i palestinesi fanno appello ad una crescita di tali campagne.

I palestinesi, supportati dall’assoluta maggioranza nel mondo arabo e da milioni di persone di coscienza in giro per il mondo, non accetteranno l’ultima delle concessioni USA all’agenda estremista israeliana” ha detto il BNC.

Continueremo ad insistere per ottenere i nostri diritti sanciti dall’ONU e per mettere fine al regime di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele attraverso la resistenza popolare e il movimento globale di boicottaggio, sanzioni e disinvestimento.”

Ari Nieuwhof ha contribuito alla traduzione [in inglese ndt].

(Traduzione.di Tamara Taher)




Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Perché la Palestina è ancora il problema

John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I carcerieri incatenati di Gaza

Amira Hass

7 novembre 2017, Haaretz

Gli israeliani si rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi siamo i carcerieri.

Ho visto gazawi felici. Un giornalista di Kan, l’emittente pubblica israeliana, alcuni giorni fa è andato al checkpoint di Erez, ha sbattuto un microfono e una telecamera in faccia agli abitanti della Striscia di Gaza e li ha stimolati a sospirare di sollievo. Fantastico! Il posto di controllo di Hamas dal lato di Gaza è stato tolto e il barbuto personale di sicurezza non ci ha interrogati.

L’impressione che si ricava dal servizio televisivo e da un precedente reportage su Haaretz è che l’unico ostacolo che affrontano quelli che vogliono lasciare Gaza sia Hamas, ma ci sono alcune domande che non sono state fatte ai gazawi sul confine, insieme alle risposte che ne sarebbero seguite:

D. Adesso, dopo la rimozione dei posti di blocco di Hamas, chiunque voglia lasciare Gaza può farlo? R. Stai scherzando? Dal 1991 noi possiamo andarcene solo con l’autorizzazione di Israele.

D. Quanto dura il periodo di attesa per un permesso di uscita israeliano? R. Circa 50 giorni. A volte solo un intervento legale da parte di un’organizzazione israeliana come il ‘Centro legale Gisha per la libertà di movimento’ o ‘Medici per i diritti umani’ può far ottenere un permesso.

D. Quali sono gli strumenti di controllo al checkpoint israeliano? R. Uno scanner girevole, istruzioni gridate con i megafoni, a volte una perquisizione personale.

D. Che cosa vi è consentito portare? R. Non si possono portare computer portatili, panini, valigie con le ruote o deodoranti.

D. Oltre a quelli della Jihad islamica e di Hamas, a chi è vietato uscire? R. La maggior parte della gente non può uscire. La figlia di un mio vicino è stata in cura a Gerusalemme negli scorsi nove mesi e lui sta ancora aspettando un permesso per andare a visitarla. Lo stesso vale per tre amici che hanno avuto bisogno di un esame medico di controllo l’anno scorso. Giovani che vorrebbero studiare in Cisgiordania non possono farlo perché Israele non glielo consente. Circa 300 studenti che hanno avuto la possibilità di studiare all’estero stanno aspettando un permesso ed il loro visto è a rischio.

D. Sei stato interrogato dal servizio di sicurezza (interno) israeliano Shin Bet? R. Non oggi. Ma a volte arriviamo al checkpoint e ci prendono da parte, ci fanno sedere su una sedia per un giorno intero ed alla fine ci fanno alcune domande sui vicini di casa, per 10 minuti, o ci mandano a casa senza farci domande. E’ così che perdiamo un appuntamento all’ospedale o un incontro di lavoro.

Gli israeliani rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi ne siamo i carcerieri. Ecco perché essi [gli israeliani] sono incatenati dalla loro volontaria ignoranza. Riferire sulla situazione viene facilmente trasformato in propaganda ad uso dei politici. D’altro lato, le omissioni e le distorsioni negli articoli scritti dai dirigenti che fanno politica sono un fatto naturale. Come ad esempio l’articolo scritto dal Coordinatore delle attività governative nei territori [il governo militare israeliano sui territori palestinesi occupati, ndt], general maggiore Yoav Mordechai e da due suoi colleghi, pubblicato la scorsa settimana sul sito web dell’Istituto di Studi per la sicurezza nazionale.

Le omissioni e le distorsioni sono rivolte al pubblico in generale. Per esempio, l’articolo afferma: “Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza con la forza.” Invece, il quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea) e Fatah hanno agito in vari modi aggressivi per ribaltare i risultati delle elezioni democratiche per il Consiglio Legislativo Palestinese nel 2006, che Hamas aveva vinto.

“Hamas è diventato il potere sovrano”, hanno scritto Mordechai ed i suoi colleghi. Il potere sovrano? Anche se è Israele a controllare le frontiere, gli spazi aerei e marittimi ed il registro della popolazione palestinese? “Il governo di Hamas si sta indebolendo a causa della sua responsabilità relativamente all’impoverimento e alla disoccupazione.” I lettori che leggono questa frase nell’articolo hanno già dimenticato una precedente affermazione: “La situazione dei cittadini di Gaza è enormemente peggiorata dal 2007, soprattutto a causa delle restrizioni imposte alla Striscia da Israele (in termini di possibilità di muoversi da e per l’area ed in termini di attività economica).”

Gli autori del rapporto dell’Ufficio del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori sono prigionieri della loro stessa posizione. Il COGAT impone rigorosamente queste restrizioni e le ha rese ancor più rigide. Gli autori mettono in guardia nell’articolo sulla prospettiva di un peggioramento della situazione, sia economicamente che psicologicamente, ma da ciò non consegue un coraggioso richiamo ai politici perché rimuovano i divieti al movimento della popolazione, delle materie prime e della produzione locale.

Gli autori suggeriscono al governo che sarebbe preferibile permettere che il processo di riconciliazione interna palestinese vada avanti. Ed invitano coraggiosamente i gentili [cioè i non ebrei, ndt] a finanziare la ricostruzione di ciò che Israele ha distrutto e sta distruggendo. Dopotutto, è ciò che essi hanno fatto dal 1993 – inviando un fiume di denaro per evitare un deterioramento ancor peggiore e per mantenere uno status quo conveniente ad Israele. E’ giunto il momento che i gentili utilizzino quei soldi come pressione politica che costringa Israele a ripristinare la libertà di movimento per i palestinesi a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le pressioni USA fanno naufragare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Shlomi Eldar

30 ottobre 2017,Al-Monitor

SINTESI DELL’ARTICOLO

Pressioni esercitate dall’amministrazione Trump hanno provocato la sospensione da parte di Netanyahu della sua “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Il 29 ottobre il comitato ministeriale della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] sulle proposte di legge avrebbe dovuto approvare la proposta di legge nota come “Legge per una Gerusalemme Più Grande”, che avrebbe annesso a Gerusalemme le colonie di Maale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e del blocco di Etzion (compresa Efrat), in Cisgiordania. Circa 150.000 israeliani vivono in quelle città e consigli locali.

L’idea di annettere colonie israeliane adiacenti ai confini della municipalità di Gerusalemme per aumentare la popolazione della città e garantirne la maggioranza ebraica ha circolato per decenni. Nel 2007 il parlamentare del Likud  Yisrael Katz portò avanti un simile progetto, che non è mai decollato a causa delle preoccupazioni per le dure reazioni internazionali e dei palestinesi.

La preoccupazione che gli ebrei non costituiranno più una maggioranza nella capitale israeliana entro meno di un decennio – a causa sia della crescita demografica dei palestinesi che vivono a Gerusalemme est, sia dell’emigrazione di ebrei israeliani laici dalla città – nel febbraio 2016 ha portato l’ex ministro Haim Ramon a lanciare un movimento d’opinione per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Il gruppo era composto da un gran numero di esperti della difesa, di accademici e di attivisti di sinistra e del centro. Prima dei festeggiamenti annuali della “Giornata di Gerusalemme” del 2016, il movimento ha lanciato una vasta campagna pubblica per mettere in guardia gli israeliani indifferenti che, se non fossero state prese presto iniziative preventive, si sarebbero “svegliati con una maggioranza palestinese a Gerusalemme”.

La campagna ha fatto ricorso a varie tattiche intimidatorie, compreso persino un video di Hamas che mostrava incitamenti all’odio contro gli ebrei postati sulle reti sociali. Tuttavia i suoi toni esasperati quasi razzisti portarono importanti sostenitori dell’iniziativa, come l’ex capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet Ami Ayalon, ad andarsene.

In luglio il presidente di HaBayit HaYehudi [“La casa ebraica” il partito di estrema destra dei coloni, ndt.] Naftali Bennett ha presentato una sua proposta di legge – la “Legge per una Gerusalemme unificata” – che ha proposto al voto della Knesset. Questa proposta era già stata approvata il 18 giugno dal comitato ministeriale per le proposte di legge. La legge stabiliva che sia necessaria una maggioranza speciale di 80 membri della Knesset (su 120) per dividere la capitale tra la parte occidentale, ebrea, e una parte est prevalentemente palestinese. La Knesset ha votato 51 a 42 per approvare la legge in prima lettura.

Tuttavia il primo ministro Benjamin Netanyahu non voleva essere da meno rispetto al suo nemico politico Bennett per il titolo di maggior difensore di Gerusalemme, soprattutto dopo il fiasco di luglio riguardo ai metal detector che Israele ha piazzato alle entrate del complesso del Monte del Tempio e poi è stato obbligato a rimuovere in seguito alle pressioni internazionali. Il primo ministro ha deciso di appoggiare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande” stilata da un parlamentare del suo stesso partito, Yoav Kish, che era stata lasciata da parte per mesi, insieme ad una legge simile proposta da Yehuda Glick, un altro parlamentare del Likud.

La proposta di Kish gode del sostegno del ministro dei Trasporti Yisrael Katz, considerato uno dei più moderati e pragmatici parlamentari del Likud e un rivale di Netanyahu, dei membri del partito HaBayit HaYehudi e del partito di centro destra Kulanu.

Nell’introduzione della sua legge Kish ha scritto: “Il concetto di Gerusalemme come ‘eterna capitale’ di Israele è diventato sfumato, ha perso il suo valore simbolico.” Kish aggiunge che invece la questione della posizione di Gerusalemme è centrata su questioni demografiche e sulla determinazione dei palestinesi a controllare Gerusalemme ed i suoi luoghi santi. “Viene pertanto proposto che le comunità [ebraiche, ndt.] che circondano Gerusalemme siano annesse alla capitale. Ciò incrementerà la popolazione [ebraica, ndt.], consentirà di preservare l’equilibrio demografico e aggiungerà terre per la costruzione di case, zone commerci e turismo, conservando aree verdi.”

Come detto, il comitato ministeriale per le proposte di legge avrebbe dovuto approvare la legge il 29 ottobre e inviarla alla Knesset, dove probabilmente sarebbe passata con una larga maggioranza alla prima lettura. Ci sono pochi problemi più condivisi nel discorso pubblico israeliano, per non parlare della Knesset, che preservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme. Tuttavia, dodici ore prima che i ministri si riunissero, l’ufficio del primo ministro ha annunciato che il voto sulla proposta di legge era posticipato a tempo indefinito. Il primo ministro aveva bloccato la sua presentazione.

Ci sono state pressioni americane, è chiaro,” ha detto a Al-Monitor una fonte anonima palestinese nella città cisgiordana di Ramallah. Quando i palestinesi hanno sentito che Netanyahu stava per portare avanti la “legge dell’annessione”, ha affermato la fonte, hanno inviato un messaggio a Jason Greenblatt, inviato per il Medio Oriente del presidente Donald Trump. Gli hanno detto che la mossa sancisce la fine di ogni possibile iniziativa diplomatica con Israele.

La reazione ufficiale palestinese è stata stranamente silenziosa. L’unica dirigente palestinese importante che ha espresso pubblicamente rabbia e condanna è stata Hanan Ashrawi, membro del Consiglio Esecutivo dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politica palestinese, ndt.]. “E’ un fatto indiscutibile che ogni colonia è un crimine di guerra in base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e una diretta violazione delle leggi e convenzioni internazionali, compresa la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 2334,” ha affermato nella sua dichiarazione. Tuttavia neppure il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas si è espresso contro la legge, salvo che per dare una risposta laconica quando gli è stato chiesto in proposito dai mezzi di comunicazione palestinesi.

La fonte palestinese ha detto ad Al-Monitor che gli americani hanno chiesto ai palestinesi di mantenere un basso profilo per consentire a Netanyahu di ritirare la legge, affermando che la diplomazia silenziosa era l’unico modo per raggiungere il risultato desiderato. Gli americani avevano ragione. La velocità con cui Greenblatt e il suo entourage hanno agito nei confronti di Netanyahu ha messo in chiaro ai palestinesi quanto l’amministrazione USA sia seria riguardo ai progressi dell’iniziativa di pace israelo-palestinese e ancor più quanto Netanyahu sia ansioso di evitare di irritare l’amministrazione Trump.

In quanto persona così preoccupata della sua immagine di guardiano di Gerusalemme, ci si sarebbe aspettati che Netanyahu ignorasse le ammonizioni americane e gli dicesse che il problema è una questione interna israeliana che riguarda confini municipali e che non costituisce in alcun modo una dichiarazione di sovranità su parti della Cisgiordania. Invece nell’incontro settimanale del Consiglio dei ministri egli ha detto ai suoi ministri che gli americani “volevano comprendere l’essenza della legge. Poiché ci siamo coordinati con loro fino ad ora, conviene (continuare a) parlare e coordinarci con loro. Stiamo lavorando per avanzare e sviluppare l’impresa di colonizzazione e non per promuovere altre considerazioni.”

Shlomi Eldar è un editorialista per “Israel Pulse” di Al-Monitor [Pulsazioni di Israele, sezione dedicata ad Israele del sito informativo con sede a Washington, ndt.]. Negli ultimi 20 anni si è occupato dell’Autorità Nazionale Palestinese e soprattutto della Striscia di Gaza per i canali israeliani 1 e 10, informando sulla comparsa di Hamas. Nel 2007 per questo lavoro ha ottenuto il premio Sokolov, il più importante riconoscimento israeliano per i media.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele sta utilizzando in segreto uno studio legale USA per combattere gli attivisti del BDS in Europa e in Nord America

Chaim Levinson e Barak Ravid

26 ottobre 2017,Haaretz

Il governo israeliano ha assoldato avvocati per contrastare il BDS; la natura dell’incarico è mantenuta segreta e definita come “estremamente delicata”.

Secondo documenti ottenuti da Haaretz, il governo [israeliano] ha utilizzato in segreto un ufficio legale USA perché lo aiuti a lottare contro il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni in Europa, Nord America e altrove.

Il governo ha ingaggiato l’ufficio “Sidley Austin”, con sede a Chicago, per predisporre pareri legali e occuparsi di procedimenti giudiziari. I ministeri della Giustizia e degli Affari Strategici hanno rifiutato di rivelare la natura di queste attività, per le quali lo Stato ha pagato centinaia di migliaia di dollari negli ultimi due anni. I ministeri definiscono le attività “estremamente delicate dal punto di vista diplomatico”.

Circa due anni fa il consiglio per la sicurezza [israeliano] ha affidato al ministero degli Affari Strategici il coordinamento della lotta contro la “delegittimazione” e ha stanziato notevoli risorse per questo impegno. Il ministero degli Affari Strategici ha trasferito una parte dei fondi al ministero degli Esteri in varie parti del mondo e una parte dei soldi è stata data alle organizzazioni ebraiche all’estero per un lavoro di pubbliche relazioni nei campus e altrove.

Ma il ministero degli Affari Strategici sta anche operando su queste questioni in modi che non sono stati resi pubblici. Nel passato il direttore generale del ministero, Sima Vaknin, ha detto alla Knesset  che esso è coinvolto nella “raccolta di informazioni e nell’attacco”.

Lo scorso anno l’avvocato Eitay Mack, a nome di attivisti dei diritti umani, ha chiesto a ministri del governo di ottenere informazioni su tutti i contratti firmati con enti stranieri coinvolti in attività contro il BDS. Il ministero degli Esteri ha affermato di non avere simili impegni contrattuali, mentre il ministero della Giustizia ha fornito documenti censurati.

Questi documenti dimostrano che il dipartimento con funzioni speciali nell’ufficio del procuratore di Stato, che – in collaborazione con il ministero degli Affari Strategici – è responsabile nella gestione di argomenti legati alla sicurezza nazionale, all’inizio del 2016 ha lanciato un bando di gara per uffici legali internazionali.

Si trattava di “preparare documenti e pareri legali, presentare procedimenti giudiziari (cause o comparizioni) per quanto necessario a combattere il fenomeno del BDS, in particolare riguardo ad appelli ed iniziative per imporre boicottaggio e sanzioni contro le imprese e gli affari di Israele, e contro imprese straniere che hanno attività commerciali in Israele.”

Nel documento la descrizione dettagliata dei servizi è stata censurata. Il ministero della Giustizia ha affermato che i dettagli sono stati omessi perché la loro pubblicazione avrebbe portato a “danni per le relazioni estere del Paese e per la possibilità da parte di questi soggetti di fornire il servizio richiesto.”

Nel febbraio 2016 il ministero della Giustizia ha contrattato un ufficio legale, ma in maggio il ministro ha chiesto di modificare la scelta, dopo che riguardo a quella originaria era stato riscontrato un possibile conflitto di interesse.

Poi è stato approvato un contratto con un altro ufficio legale per 290.000 euro, con l’opzione di aumentare la cifra di altri 200.000 euro per un ulteriore incarico. In seguito è stata approvata un’altra estensione del contratto originale, questa volta per altri 437.000 euro, con un valore totale del contratto di 925.000 euro, ossia 4 milioni di shekel.

A causa della delicatezza dell’argomento per le relazioni estere di Israele la commissione delle gare d’appalto ha deciso di non rendere pubblici i contratti nel sistema informativo “Manof” del governo.

La segretezza che circonda i contratti suscita il sospetto che il lavoro riguardi non solo la stesura di pareri giuridici, ma anche la predisposizione di cause legali contro i sostenitori del BDS, in quanto Israele non vuole apparire come promotore di queste azioni, per evitare la sensazione che stia interferendo negli affari interni di altri Paesi.

C’è il pericolo di una china scivolosa nella segretezza, che nasconde le attività israeliane contro il BDS nel mondo,” ha detto Mack ad Haaretz. “E’ estremamente preoccupante che la terminologia militare utilizzata da importanti funzionari del ministero degli Affari Strategici venga utilizzata nella lotta all’estero contro civili che criticano lo Stato di Israele.”

Proprio come per Israele è difficile presentare positivamente l’occupazione, il regime del Sud Africa aveva difficoltà a far accettare l’apartheid,” afferma. “Pretoria lanciò un’operazione segreta di disinformazione e persecuzione degli attivisti anti-apartheid, il cui smascheramento portò alle dimissioni del primo ministro e all’apertura di un’inchiesta penale e a un procedimento civile negli USA. Speriamo che lo Stato di Israele non sfrutti la segretezza per superare i limiti del codice penale.”

Il denaro viene erogato come stanziamento di bilancio per contratti internazionali. Il rapporto del ministero della Giustizia su tali contratti mostra che il governo ha assoldato “Sidley Austin” nel marzo 2016 per servizi di consulenza, senza emanare un bando per una gara d’appalto. Nella prima metà del 2017 l’ufficio legale ha ricevuto in pagamento 219.000 dollari [circa 188.000 euro, ndt.]. Nessun altro studio legale è stato pagato in base allo stesso capitolo di spesa del bilancio.

Sidley Austin” non ha risposto alle domande riguardo a se stesse lavorando per il governo israeliano.

Sidley Austin” è uno dei principali studi legali americani e conta su 1.900 avvocati. E’ l’ufficio in cui una giovane avvocatessa, Michelle Robinson, ha incontrato uno stagista estivo di nome Barak Obama. Lo studio ha quattro sedi in Europa: a Bruxelles, Londra, Monaco e Ginevra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come Israele vince la guerra mediatica

Rod Such

25 ottobre 2017,Electronic Intifada

Balcony Over Jerusalem: A Middle East Memoir” [“Un balcone su Gerusalemme: una memoria del Medio Oriente”], di John Lyons con Sylvie Le Clezio, HarperCollins (2017)

Di tutti i pilastri che permettono di tenere in piedi il particolare tipo di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliani, uno dei principali rimane il ruolo dei mezzi di comunicazione occidentali nell’amplificare l’hasbara (propaganda) israeliana. Questo pilastro, tuttavia, sta iniziando ad incrinarsi.

In nessun altro luogo questo è più evidente che nelle riflessioni dell’illustre giornalista australiano John Lyons nel suo libro “Balcony Over Jerusalem” [“Un balcone su Gerusalemme”], un resoconto del soggiorno di lavoro in città suo e di sua moglie, la regista Sylvie Le Clezio, di sei anni, dal 2009 al 2015. Lyons vi si trovava come corrispondente per il Medio Oriente di “The Australian”, uno dei più importanti giornali del Paese.

C’è molto che vale la pena di notare in questo libro, ad esempio la dettagliata analisi di Lyons dei vari tentativi israeliani di “ingegneria sociale”. Ciò include il regime di permessi burocratici a vari livelli, inteso a reprimere la resistenza palestinese all’occupazione ed al continuo furto delle terre, sostenuto da zone militari chiuse e altri mezzi di confisca delle terre che rendono quasi insignificanti le stesse colonie della Cisgiordania.

Ma ciò che in ultima analisi risulta evidente in “Balcony Over Jerusalem” è l’esame che l’autore fa di come i mezzi di comunicazione dipingono Israele e di come il governo [israeliano] ed i gruppi di pressione che lo proteggono dal dover rendere conto [delle proprie azioni] tentano di intimidire i giornalisti e di distorcerne i reportage.

Una luna di miele presto finita”

Il titolo fa riferimento a un balcone dell’appartamento di Lyons e Le Clezio a Gerusalemme, che sovrastava la Gerusalemme est occupata e offriva una splendida vista sulla Città Vecchia, sulla Moschea di Omar, su quella di Al-Aqsa, sul Muro del Pianto, sul Monte degli Ulivi e sul deserto di Giudea. Lyons riconosce di aver cercato a lungo di essere inviato come corrispondente in Medio Oriente, fin da quando a metà degli anni ’90 aveva seguito la firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I gruppi della lobby israeliana lo individuarono come una stella nascente dei media australiani e venne invitato a fare un viaggio in Israele, proprio come a quell’epoca il Sud Africa dell’apartheid corteggiò i corrispondenti occidentali.

Egli accettò uno di tali “viaggi di studio”, ma se ne andò con la sensazione di non aver visto entrambe le parti. Benché ammirasse molto Israele, era determinato a fare il suo lavoro come giornalista e a fornire informazioni equilibrate e accurate. Lyons venne invitato a cena da dirigenti della lobby israeliana in Australia prima di lasciare la sua patria per andare a Gerusalemme. Ma, come sottolinea, “la luna di miele finì presto”.

Per cominciare, c’era quel balcone: da là non poteva fare a meno di notare la casa di una famiglia palestinese vicina, i cui tre figli ogni mattina andavano a scuola a piedi.

Un giorno l’esercito israeliano demolì la casa, lasciando solo una scala. Lyons andò a trovare la famiglia e trovò il proprietario della casa che scopava i gradini. “E’ stata una delle cose più tristi che abbia mai visto,” scrive. “Un uomo distrutto che spazza la sua scala verso il nulla.”

Uno dei primi articoli di Lyons riguardava l’occupazione da parte di coloni armati della casa dell’agente di viaggio Nasser Jaber, che se n’era andato dalla sua casa nella Città Vecchia di Gerusalemme mentre era in fase di ristrutturazione. I coloni cambiarono le serrature e contestarono il reclamo di Jaber per la casa.

Il resoconto di Lyons sull’espulsione incorse nelle ire dell’“Australia/Israel & Jewish Affairs Council (AIJAC)” [“Consiglio delle Relazioni Australia/Israele ed Ebraiche”, ndt.], che iniziò una campagna contro i suoi direttori sostenendo che si trattava di un reportage non accurato. Subito dopo vi partecipò anche l’ambasciata israeliana in Australia.

I tentativi fallirono perché l’articolo di Lyons era inattaccabile. Ma in seguito un’anonima giornalista israeliana, fingendo di essere una reporter australiana, tentò di convincere Jaber a dire di essere stato citato in modo errato nell’articolo di Lyons. La stessa giornalista israeliana tentò anche di coinvolgere il programma televisivo australiano “Media Match” per screditare il resoconto di Lyons, ma senza rivelare la sua vera identità – un altro tentativo fallito. Alla fine la giornalista venne scoperta.

La conclusione di Lyons sul perché sia avvenuta questa campagna di “giochi sporchi” è rivelatrice: “Se un corrispondente estero scrive dei “palestinesi” come un gruppo generico non ci sono problemi. Ma se un giornalista da’ un nome a un palestinese – un’identità, un’aspirazione, una professione, una vita –, come ho fatto io, ciò può scatenare l’ira dei sostenitori di Israele.”

Acque intorbidite

Questo non è l’unico modo con cui Israele semina dubbi sulle rivendicazioni dei palestinesi. Una famiglia palestinese di Gerusalemme est raccontò che qualcuno aveva tagliato un ulivo nel suo giardino e scritto “price tag” [“prezzo da pagare”, nome di un gruppo di coloni estremisti e violenti, ndt.] in ebraico, un attacco frequente nel resto della Cisgiordania, ma, secondo Lyons, meno comune a Gerusalemme, e di conseguenza degno di attenzione per i media stranieri.

Lo Shin Bet, la polizia segreta israeliana, in breve tempo arrestò un adolescente membro della famiglia e cercò di obbligarlo a confessare di aver tagliato l’albero e di averlo mascherato come un attacco di “price tag”.

Lyons cominciò a riconoscere in questo “un modello, che ho iniziato a vedere, di come Israele confonde le acque. Era molto più difficile per i mezzi di comunicazione informare che “Price Tag” si stava diffondendo tra gli estremisti ebrei dal momento che un giovane palestinese era stato interrogato per il crimine.”

Guardando indietro, Lyons si rende conto che fu il fatto di aver informato su come Israele tratta i bambini palestinesi ad aver scatenato veramente le ire dell’esercito, soprattutto in seguito alla diffusione su una televisione australiana del suo documentario “Fredda giustizia di pietra”, prodotto da Le Clezio, all’inizio del 2014.

Un ufficiale dell’esercito israeliano incontrò Lyons per fargli sapere in termini espliciti che l’esercito, che secondo quanto affermò era estremamente sensibile alla copertura mediatica straniera, non era contento del suo reportage. In seguito Lyons si accorse di avere un minor accesso a ufficiali israeliani.

Lyons non fu l’unico corrispondente straniero a subire pressioni da Israele o dai gruppi della lobby di casa sua. Le sue interviste a inviati di “The New York Times”, “The Guardian” e dell’agenzia “France-Presse”, tra gli altri, rivelarono tutti tattiche simili, come fare pressione sui direttori di un reporter e sostenere presunti errori fattuali.

Significativamente, l’ex capo-redattore del “Times” a Gerusalemme Jodi Rudoren disse a Lyons che secondo lei l’occupazione israeliana della Cisgiordania assomigliava “molto all’apartheid”.

Oltretutto, disse a Lyons, “il problema dell’apartheid è più grave per come sono trattati gli arabo-israeliani,” in riferimento ai palestinesi cittadini di Israele. Eppure i lettori del “Times” non ebbero neanche una vaga idea di questa prospettiva durante gli anni in cui Rudoren fu corrispondente.

Lyons crede che attualmente Israele stia vincendo la guerra mediatica, nonostante una immagine all’estero in continuo peggioramento. Ma pensa che, con Internet e con i telefonini di facile accesso, Israele non possa più controllare il messaggio, un’opinione che è avvalorata quotidianamente dalle reti sociali, con post di palestinesi che patiscono la crudeltà dell’occupazione.

Le occupazioni militari sembrano brutte perché lo sono,” scrive Lyons. “La reputazione di Israele sanguinerà finché continuerà il suo controllo su un altro popolo.”

Egli avverte: “Un giorno la storia farà i conti con Israele.”

Rod Such è un ex editorialista delle enciclopedie “World Book” [enciclopedia in inglese edita negli USA, ndt.] ed “Encarta” [enciclopedia multimediale edita da Microsoft, ndt.]. Vive a Portland, in Oregon, ed è attivo nella campagna “Portland Libera dall’Occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I giorni del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme sono contati?

Ahmad Melhem

23 ottobre 2017,Al-Monitor

Sintesi dell’articolo

La comunità greco-ortodossa in Palestina e in Giordania è in aperta rivolta contro il patriarca Theophilos III per la vendita di terre della chiesa a Israele e a israeliani.

Ramallah, Cisgiordania – I rapporti tra il patriarca Theophilos III di Gerusalemme e di tutta la Palestina e la comunità greco-ortodossa nei territori palestinesi e in Giordania sono più che mai vicini a trasformarsi in guerra aperta. Theophilos, che ha assunto la direzione della chiesa nel 2005, ha presieduto la chiesa mentre una serie di accordi sono stati raggiunti per la vendita o l’affitto di proprietà ecclesiastiche ad Israele, a singoli cittadini e a investitori israeliani. Come stabilito dalla legge giordana n° 27 (1958), il patriarca è responsabile della gestione di tutte le donazioni della chiesa. La chiesa ha proprietà in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, a Gaza e in Israele. Membri della comunità greco-ortodossa scontenti si sono organizzati contro Theophilos nel tentativo di cacciarlo e per spingere le autorità giordane e palestinesi a ritirargli il proprio riconoscimento.

Il 13 ottobre Haaretz ha informato che sei dunam [0,6 ettari, ndt.] di terra su cui si trovano decine di negozi attorno alla Torre dell’Orologio di Giaffa, così come 430 dunam [43 ettari, ndt.] a Cesarea, compresi gran parte del parco nazionale e dell’anfiteatro di Cesarea e un anfiteatro romano, sono stati venduti a imprese straniere anonime. La terra di Cesarea era stata affittata ad Israele, che non è stato informato della vendita. Ciò ha fatto seguito ad un accordo per vendere 500 dunam [50 ettari, ndt.] di terra nei quartieri di Talbiya e Rehavia a Gerusalemme est. Contratti precedenti erano stati raggiunti a Gerusalemme est e in Cisgiordania, anche per terreni nei pressi del monastero di “Mar Elias” a Betlemme.

Il movimento di opposizione – guidato dal “Consiglio Centrale Ortodosso Arabo” e dalla “Gioventù Ortodossa Araba” – ha ricevuto un importante impulso con la partecipazione di fazioni politiche e personalità palestinesi e giordane nella “Conferenza Nazionale in Appoggio alla Causa Arabo-Ortodossa in Palestina”, durata un giorno. I più di 200 partecipanti hanno confermato la propria opposizione al fatto che il patriarcato sia rappresentato da Theophilos, hanno chiesto le sue dimissioni e che venga processato per il suo ruolo nella vendita di terre della chiesa. La conferenza, che si è tenuta il 1° ottobre a Betlemme, ha incluso la partecipazione di Mahmoud al-Aloul, vice presidente e membro del comitato centrale di Fatah; Mustafa al-Barghouti, segretario generale di “Palestinian National Initiative” [“Iniziativa Nazionale Palestinese”, gruppo politico alternativo sia a Fatah che ad Hamas, favorevole alla resistenza non violenta contro l’occupazione, ndt.]; Qais Abdul Karim, vice segretario generale di Democratic Front for the Liberation of Palestine (DFLP) e un certo numero di dirigenti del Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) [rispettivamente “Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina” e “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, due gruppi storici della resistenza armata marxista, in cui dirigenti e militanti di origine cristiana sono numerosi, ndt.].

La conferenza si è conclusa con i partecipanti che hanno emesso 14 decisioni e raccomandazioni, compresa “la dichiarazione del caso della chiesa greco-ortodossa come problema strategico nazionale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), simile ai problemi di Gerusalemme e dei rifugiati” e “il ritiro del riconoscimento del patriarca come primo passo verso la destituzione dalla sua posizione, la sua imputazione, il rifiuto della sua partecipazione a qualunque cerimonia religiosa e l’individuazione di lui e dei suoi fedeli come esclusi dal contesto nazionale.” La conferenza ha formato un comitato di 17 membri delle fazioni politiche palestinesi e giordane, del consiglio greco-ortodosso e del movimento giovanile greco-ortodosso perché metta in pratica le decisioni della conferenza a livello politico, giudiziario e popolare.

Alif Sabbagh, portavoce della conferenza nazionale e del movimento di opposizione greco-ortodosso, ha detto ad Al-Monitor: “La conferenza è la prima di questo genere. E’ riuscita a radunare le forze palestinesi e giordane in appoggio al movimento greco-ortodosso e ad aggiungere il problema delle proprietà ecclesiastiche all’agenda dell’OLP perché è considerato di importanza nazionale piuttosto che religiosa.”

Aghlab Khoury, un attivista della “Gioventù greco-ortodossa”, ha detto ad Al-Monitor: “Questa conferenza intendeva principalmente revocare la legittimità popolare del patriarca e considerarlo persona non grata in base ai sentimenti nazionali di palestinesi e giordani. Un altro importante risultato è stato la richiesta alle autorità giordane e palestinesi di ritirare il riconoscimento ufficiale al patriarca Theophilos III e di impegnarsi con le istituzioni greco-ortodosse nel mondo per smascherarlo.” In un comunicato stampa del 4 ottobre il Consiglio Ortodosso Libanese, guidato da Robert al-Abiad, ha espresso “la propria solidarietà ed il proprio appoggio ad ogni decisione e raccomandazione emessa dalla conferenza nazionale.” Il consiglio ha anche condannato “la vendita di terra santa su cui ha camminato Gesù Cristo.”

Khoury ha inoltre sottolineato: “Il comitato che è scaturito dalla conferenza ha il compito di organizzare un incontro con il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas e con il re Abdullah II di Giordania per trasmettere loro tutte le decisioni della conferenza e per chiedere loro di ritirare la fiducia al patriarca.” Nel contempo il movimento di opposizione greco-ortodosso farà pressione sui dirigenti politici palestinesi e giordani per realizzare le richieste della conferenza.

Khoury ha rilevato: “Il prossimo futuro assisterà a un intenso movimento per tenere incontri e colloqui con le istituzioni locali in modo che offrano il proprio appoggio al boicottaggio del patriarca e facciano pressione sulle autorità politiche perché rispondano alla richiesta popolare di rimuoverlo dalla sua posizione.”

Dopo aver partecipato alla conferenza, Abd al-Karim, del DFLP, ha detto ad Al-Monitor: “Il movimento (di opposizione) non si limita più alla congregazione ortodossa, in quanto le proprietà della chiesa non sono solo di questa fede religiosa, ma sono parte di una causa nazionale più complessiva per conservare la proprietà (palestinese) della terra.” Ha aggiunto: “La raccomandazione della conferenza di non collaborare con il patriarca e le sue richieste che le autorità importanti, cioè Palestina e Giordania, ritirino il proprio riconoscimento al patriarca saranno aggiunte all’agenda del Comitato Esecutivo dell’OLP. Il comitato studierà questi punti e si consulterà con la Giordania per emanare una decisione comune che possa essere messa in pratica.”

Il movimento di opposizione greco-ortodosso ha già presentato una denuncia al procuratore generale dell’ANP Ahmad Barrak per rendere legalmente responsabile Theophilos. La legge n° 27 stabilisce la gestione delle proprietà ecclesiastiche da parte del patriarca, ma non cita il suo diritto di vendere o affittare le terre della chiesa. Secondo Sabbagh la denuncia, firmata da 309 persone e presentata il 30 agosto, chiede che Barrak indaghi su Theophilos per il suo coinvolgimento nel consegnare la terra della chiesa a israeliani. Ha aggiunto: “Presenteremo anche una denuncia contro il patriarca alla procura generale giordana, e solleveremo la questione della mancanza di trasparenza del patriarca nella gestione della terra della chiesa e della sua corruzione amministrativa e finanziaria.”

L’opposizione greco-ortodossa sta progettando di rafforzare le succitate attività organizzando manifestazioni e proteste contro Theophilos. Tali eventi arriveranno fino a Natale e si intensificheranno durante le feste, quando i contestatori tenteranno di impedirgli di entrare nelle chiese in Cisgiordania e in Israele.

Il movimento ha tenuto la sua prima protesta l’8 ottobre nel villaggio arabo di Reineh, in Israele. Personalità religiose cristiane e politiche, compreso il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Jamal Zahalka, hanno partecipato alla manifestazione, così come attivisti politici di Balad (Assemblea Democratica Nazionale) [gruppo politico della sinistra marxista israelo-palestinese, ndt.], del Movimento Islamico [gruppo politico israelo-palestinese di ispirazione islamica, ndt.] e del PFLP. Quel giorno i manifestanti hanno cercato di impedire al patriarca di entrare in una chiesa del villaggio. L’esercito israeliano è intervenuto per proteggere la sua incolumità.

Il movimento di base contro il patriarca deve continuare e raggiungere il suo acme durante il Natale, quando non permetteremo al patriarca di mettere piede nella chiesa della Natività,” afferma Sabbagh. “Esporremo la bandiera palestinese sulla chiesa della Natività e sulle chiese greco-ortodosse sotto sovranità palestinese al posto delle bandiere greche.” Sabbagh ha anche evidenziato: “Nelle precedenti celebrazioni del Natale abbiamo consentito l’ingresso in chiesa del patriarca in seguito all’intromissione del presidente Abbas, ma quest’anno non accetteremo nessun intervento. Come congregazione religiosa ortodossa, appoggiata da forze palestinesi, impediremo al patriarca di entrare in chiesa.”

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese per Al-Watan News [giornale in arabo edito in Oman, ndt.] con sede a Ramallah. Scrive per una serie di giornali arabi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Che cosa c’è dietro la riconciliazione tra Hamas e Fatah?

Ramzy Baroud

12 ottobre 2017, Palestine Chronicle

L’entusiasmo dell’Egitto nel mediare tra le contendenti fazioni palestinesi Hamas e Fatah non è il risultato di un improvviso risveglio di coscienza. Il Cairo ha di fatto svolto un ruolo distruttivo nel manipolare le divisioni palestinesi a proprio vantaggio, mantenendo rigidamente chiuso il valico di confine di Rafah.

Comunque la leadership egiziana agisce chiaramente in coordinamento con Israele e gli Stati Uniti. Mentre il linguaggio usato da Tel Aviv e Washington è assolutamente prudente riguardo ai colloqui condotti tra le due fazioni palestinesi, se letto attentamente il loro discorso politico non è del tutto negativo rispetto alla possibilità che Hamas si unisca ad un governo di unità sotto la direzione di Mahmoud Abbas.

Le affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’inizio di ottobre confermano questa ipotesi. Non ha respinto categoricamente un governo Fatah-Hamas, ma, secondo il ‘Times of Israel’, ha richiesto che “qualunque futuro governo palestinese smantelli il braccio armato dell’organizzazione terroristica (Hamas), recida ogni legame con l’Iran e riconosca lo Stato di Israele.”

Anche il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi vedrebbe con favore un Hamas indebolito, un Iran emarginato ed un accordo che rimetta l’Egitto al centro della diplomazia mediorientale.

Sotto l’egida del dittatore egiziano, il ruolo dell’Egitto, un tempo centrale nelle questioni della regione, è diventato marginale.

Ma la riconciliazione tra Hamas e Fatah fornisce ad al-Sisi un’opportunità di ridare lustro all’immagine del suo Paese, che negli ultimi anni è stata appannata dalla brutale repressione dell’opposizione interna e dai suoi improvvidi interventi militari in Libia, Yemen ed altrove.

A settembre, a margine della Conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, al-Sisi ha pubblicamente incontrato Netanyahu per la prima volta. L’esatta natura dei loro colloqui non è mai stata completamente rivelata, anche se le notizie riportate dai media hanno sottolineato che il leader egiziano ha cercato di convincere Netanyahu ad accettare l’accordo di riunificazione tra Hamas e Fatah.

Nel suo discorso all’Assemblea Generale Onu al-Sisi ha anche fatto un improvvisato appello appassionato per la pace. Ha parlato di un’“opportunità” che deve essere colta per raggiungere l’agognato accordo sulla pace in Medio Oriente ed ha invitato il presidente USA Donald Trump a “scrivere una nuova pagina della storia dell’umanità” sfruttando tale presunta opportunità.

E’ difficile immaginare che al-Sisi, che ha un’influenza ed una forza di persuasione limitate su Israele e gli USA, sia in grado con le proprie forze di creare il clima politico necessario alla riconciliazione tra le fazioni palestinesi.

In passato sono stati fatti simili tentativi, ma sono falliti, in particolare nel 2011 e nel 2014. Addirittura già nel 2006 l’Amministrazione di George W. Bush impedì qualunque riconciliazione, usando minacce e cancellando finanziamenti per assicurarsi che i palestinesi restassero divisi. L’amministrazione Obama ha fatto altrettanto, garantendo l’isolamento di Gaza e la divisione palestinese, mentre sosteneva anche le politiche israeliane in proposito.

A differenza delle precedenti amministrazioni, Donald Trump ha destato aspettative riguardo a una mediazione per un accordo di pace di basso profilo. Tuttavia, fin dall’inizio ha preso le parti di Israele, ha promesso di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ed ha nominato un fautore della linea dura, David Friedman, un sionista per eccellenza, come ambasciatore USA in Israele.

Indubbiamente nel giugno scorso Trump ha firmato un ordine provvisorio per mantenere l’ambasciata a Tel Aviv, deludendo molti dei suoi sostenitori filoisraeliani, ma la mossa non è indice di un serio cambiamento di politica.

“Voglio dare una chance ad un piano per la pace prima di poter anche solo pensare di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme”, ha recentemente detto Trump in un’intervista televisiva. “Se possiamo fare la pace tra i palestinesi ed Israele, penso che questo porterà ad una pace definitiva in Medio Oriente, che deve essere fatta.”

Giudicando sulla base dei precedenti storici, è più che ovvio che Israele e USA hanno dato luce verde alla riconciliazione palestinese con un chiaro obbiettivo in mente. Da parte sua, Israele vuole vedere una rottura di Hamas con l’Iran e il suo abbandono della resistenza armata, mentre gli USA vogliono dare “una chance” alle politiche in corso nella regione, dando la priorità agli interessi di Israele rispetto a qualunque risultato.

L’Egitto, essendo beneficiario di un generoso aiuto militare statunitense, è il tramite naturale per condurre la riconciliazione tra Hamas e Fatah come parte della nuova strategia.

Ciò che suggerisce chiaramente che dietro gli sforzi di riconciliazione vi siano potenti attori, è come sia filato liscio finora l’intero processo, in totale contrasto con anni di tentativi fallimentari e ripetuti accordi con risultati deludenti.

Ciò che inizialmente sembrava un altro inutile ciclo di colloqui ospitato dall’Egitto, è stato presto seguito da molto di più: anzitutto un iniziale compromesso, seguito da un accordo di Hamas a sciogliere il suo comitato amministrativo, creato per gestire gli affari di Gaza; poi, una positiva visita del Governo di Consenso Nazionale a Gaza ed infine l’appoggio ai termini di riconciliazione nazionale da parte delle due più potenti componenti di Fatah: il Consiglio Rivoluzionario e il Comitato Centrale.

Dato che Fatah controlla l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quest’ultimo appoggio propugnato da Mahmoud Abbas è stato un’importante pietra miliare necessaria a far progredire il processo, poiché sia Hamas che Fatah si sono detti pronti ad ulteriori successivi colloqui al Cairo.

Diversamente dagli accordi precedenti, quello attuale consentirà ad Hamas di prendere parte attiva nel nuovo governo di unità. Un alto dirigente di Hamas, Salah Bardawil, lo ha confermato in una dichiarazione. Tuttavia Bardawil ha anche ribadito che Hamas non deporrà le armi e che la resistenza contro Israele non è negoziabile.

A parte il ruolo di potere giocato da USA, Israele ed Egitto, questo è certamente il nodo cruciale. Comprensibilmente, i palestinesi desiderano raggiungere l’unità nazionale, ma tale unità deve essere fondata su principi che sono assai più importanti degli interessi egoistici dei partiti politici.

Inoltre, parlare di – o anche raggiungere – unità, senza fare i conti con le farse del passato e senza concordare una strategia di liberazione nazionale per il futuro in cui il fondamento sia la resistenza, il governo di unità tra Hamas e Fatah risulterà insignificante come tutti gli altri governi che non hanno avuto una reale sovranità e, al massimo, discutibili mandati popolari.

Ancor peggio, se l’unità è guidata dal tacito sostegno USA, da un assenso di Israele e da un programma autoreferenziale dell’Egitto, ci si può aspettare che il risultato sarà il più lontano possibile dalle reali aspirazioni del popolo palestinese, che resta indifferente all’imprudenza dei suoi leader.

Mentre Israele ha investito per anni nella spaccatura tra palestinesi, le fazioni palestinesi continuano ad essere accecate da miseri interessi personali e da un “controllo” senza alcun valore su una terra occupata militarmente.

Si dovrebbe chiarire che qualunque accordo di unità che tenga conto dell’interesse delle fazioni a spese del bene collettivo del popolo palestinese è un imbroglio; anche se inizialmente “ha successo”, sul lungo termine fallirà, poiché la Palestina è più grande di qualunque individuo, fazione o potere regionale che cerchi il consenso di Israele e l’elemosina degli Stati Uniti.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Sta per uscire il suo libro ‘The last Earth: a Palestinian story’ (L’ultima terra: una storia palestinese) (Pluto Press, London). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali dell’università Santa Barbara in California. Il suo sito web è: www.ramzybaroud.net.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)