Partito israeliano approva un piano di annessione per obbligare i palestinesi ad andarsene

Yotam Berger – 13 settembre 2017, Haaretz

Con l’approvazione di Netanyahu, il congresso di un partito di destra discute il proprio piano per annettere i territori palestinesi e proporre un ultimatum di resa o espulsione.

Martedì il congresso della fazione “Unione Nazionale”, che ha eletto dei parlamentari nel partito Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], presente nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato un piano per annettere in pratica i territori, favorendo nel contempo la partenza degli abitanti palestinesi o consentendo loro di rimanere, ma senza diritto di voto.

L’approvazione del piano, denominato dai suoi sostenitori il “Piano per la decisione”, è stata attivamente promossa dal deputato di Habayit Hayehudi Bezalel Smotrich. Esso intende “modificare il discorso e presentare una vera alternativa ad ogni piano basato sulla divisione della terra,” secondo una dichiarazione di “Unione Nazionale”.

Dopo un centinaio di anni di gestione del conflitto, è giunto il momento di prendere una decisione,” ha detto Smotrich all’assemblea. “I principi (della Sinistra) nell’arco di pochi anni sono stati accettati da una parte crescente della dirigenza israeliana. Prima a sinistra, e poi, sfortunatamente, anche a destra, che nella sua grande maggioranza ha perso la propria fede nella giustezza del nostro percorso ed è stata trascinata verso la soluzione dei due Stati.

La prospettiva del ‘Piano per la decisione’ non è nuova,” ha detto Smotrich. “Queste sono le fondamenta su cui è stato costruito il sionismo. Non accettiamo che qui ci siano due narrazioni che sono uguali. C’è una parte che è giusta e un’altra che sta minando il diritto di Israele ad esistere come Stato ebraico.”

Smotrich ha aggiunto: “Dobbiamo inculcare nella consapevolezza degli arabi e del mondo intero che non ci sono possibilità di costituire uno Stato arabo sulla Terra di Israele.”

Il piano è stato approvato all’unanimità dai delegati presenti, che includevano i parlamentari di Habayit Hayehudi Smotrich e Moti Yogev e il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel. Il segretario del partito Naftali Bennett, tuttavia, non è stato presente al congresso, né ha inviato un messaggio registrato, mentre lo ha fatto il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Il piano di Smotrich presenta una specie di ultimatum di resa o espulsione ai palestinesi in cui “verranno offerte due alternative agli arabi della Terra di Israele:

1. Chiunque sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali potrà rimanere qui e vivere come singolo individuo nello Stato ebraico.

2. Chiunque non sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali riceverà da noi assistenza per emigrare in uno degli Stati arabi.”

C’è anche una terza possibilità.

Chiunque insista a scegliere la terza ‘opzione’ – continuare a far ricorso alla violenza contro l’esercito israeliano, lo Stato di Israele e la popolazione ebraica, sarà risolutamente preso in consegna dalle forze di sicurezza con maggiore decisione di ora e in condizioni più sicure per noi.”

Il piano invoca inoltre una “decisione per la colonizzazione.”

Smotrich propone di offrire “autogoverno” agli arabi nei territori occupati, che “verrebbero divisi in tre governi municipali regionali che saranno nominati con elezioni democratiche,” su base distrettuale.

Secondo il piano, “questi governi si adattano alla struttura culturale e della famiglia estesa della società araba.” L’obiettivo è “di smantellare la collettività nazionale palestinese.” Viene sottolineato che “gli arabi di Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndt.] saranno in grado di condurre la loro vita quotidiana, ma in un primo tempo non potranno votare per il parlamento israeliano.”

Come lo stesso Smotrich ha scritto nel passato in merito al piano, “la grande sfida in questo contesto sarà la sfida democratica: la necessità di persuadere il mondo che tra tutte le diverse alternative, quella dei diritti democratici senza il diritto di voto al parlamento è la meno peggio. Certamente è una sfida, ma possiamo affrontarla.”

Razzisti? Noi?

I membri di “Unione Nazionale” sembrano offendersi quando gli viene chiesto di spiegare perché il loro piano non è razzista. “Dio ce ne guardi,” dice il segretario del partito Ofir Sofer. “E’ chiaro che ci sono delle difficoltà nel discuterlo utilizzando i concetti che abbiamo oggi. Ma non è razzismo,” afferma.

  Sofer aggiunge che, benché il piano utilizzi il termine “gli arabi della Terra di Israele,” non significa che gli arabo-israeliani perderebbero la loro cittadinanza.

Il piano propone la cittadinanza,” aggiunge. “La propone a lungo termine. (Anche oggi) gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare e gli arabi di Gerusalemme est non votano per la Knesset. Per questo penso che non si tratti di razzismo. Non puoi creare due situazioni contraddittorie – la colonizzazione e l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma non voterei mai per un piano razzista.”

Sofer contesta anche l’uso del termine “espulsione”. “Quando abbiamo parlato di espulsione?” chiede. “Stiamo parlando di incoraggiare l’emigrazione. E’ successo per gli eritrei, ecc. Qui ci stiamo riferendo esattamente ai militanti del terrorismo, a quelli che appoggiano il terrorismo. Lei è a favore di incoraggiare l’emigrazione degli eritrei e non dei terroristi?”

Per quanto riguarda una spiegazione su cosa significherà “preso in consegna dalle forze di sicurezza“ con cui il piano mette in guardia quelli che rifiutano di andarsene e conservano aspirazioni nazionali, sia il piano che Sofer sono vaghi.

Il programma di Smotrich può suonare effimero, ma ha ricevuto il riconoscimento da parte di Netanyahu, che ha inviato un messaggio videoregistrato al congresso.

Sono contento di sentire che avete dedicato le discussioni del congresso al tema del futuro della Terra di Israele. Fino a non molti anni fa, questo Paese era spopolato ed abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni in esilio, la Terra di Israele sta fiorendo,” ha detto Netanyahu nel saluto registrato.

Il primo ministro ha aggiunto: “In meno di 70 anni siamo riusciti a costruire un Paese prospero, leader mondiale in economia, tecnologia, sicurezza, agricoltura, sicurezza informatica, salute e in molti altri campi. Stiamo costruendo il Paese e ci stiamo insediando sulle montagne, nelle valli, in Galilea, nel Negev e anche in Giudea e Samaria, perché questo è il nostro Paese. Ci è stato concesso il privilegio di vivere sulla terra, ed abbiamo l’obbligo di conservarla con cura.”

Il saluto del premier ha ricevuto applausi piuttosto scarsi. La spiegazione più comune di questo tra gli attivisti di “Unione Nazionale” è la loro convinzione che Netanyahu non creda realmente al piano, ma stia semplicemente tentando di superare a destra Bennett, di Habayit Hayehudi. “Sta facendo l’occhiolino alla Destra,” dice un delegato. “Capisce che i voti sono a destra,” dice un altro.

Per il ministro dell’Agricoltura Ariel, non è sufficiente che Netanyahu stia prestando attenzione.

Il ‘Piano per la decisione’ è importante, soprattutto dal punto di vista della consapevolezza,” dice Ariel. “Non basta che ci sia mezzo milione di ebrei in Giudea e Samaria, e con l’aiuto di dio ce ne sarà un milione. Dobbiamo raggiungere la consapevolezza, riconoscere la giustezza (del potere e della colonizzazione israeliani in Cisgiordania). Dire: ‘Onorevole primo ministro, signor Netanyahu, non ci sono e non ci saranno mai due Stati tra il Giordano e il mare.’ Gliel’ho detto varie volte: ‘Tu sai che non ci saranno mai due Stati.’ Ma le discussioni giorno e notte sui due Stati indeboliscono ed erodono la consapevolezza della giustizia del nostro cammino, che la Terra di Israele è nostra.”

L’assenza di Bennett dal congresso non è stata casuale; quelli che lo conoscono dicono che il ministro dell’Educazione non è molto entusiasta delle proposte di Smotrich. Pochi anni fa Bennett ha presentato il suo “Piano di pacificazione”, che includeva l’annessione di alcune parti dei territori, ma nessun meccanismo di trasferimento della popolazione.

Benché Habayit Hayehudi e “Unione Nazionale” siano strettamente legati e abbiano corso insieme per la Knesset, i seguaci di Bennett dicono che egli sa che non riuscirà mai a raggiungere i vertici politici a cui aspira – in altre parole, la carica di primo ministro – in una lista unitaria con “Unione Nazionale”. Pensa che una lista che include convinzioni politiche come quelle di Smotrich non potrà mai essere un partito di governo. La loro alleanza è stata strategica, ma se egli avrà l’opportunità di candidarsi con un partito che possa attrarre più voti centristi, sarà felice di separarsi [da “Unione Nazionale”].

Ariel ne è ben consapevole. Per questo, nel suo discorso, ha chiesto a Bennett di mantenere l’alleanza. “Faccio un appello al mio collega ed amico, il ministro Bennett – l’unità è un valore. E quando si tratta di questioni politiche, può portare a risultati molto maggiori di altre cose. Per questo noi dell’’Unione Nazionale’ stiamo lottando per l’unità del nostro campo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché l’ONU ha partecipato ad una conferenza israeliana con un simpatizzante del nazismo?

 

Maureen Clare Murphy -14 September 2017, Electronic Intifada

Che cosa ci faceva il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente in una conferenza sull’antiterrorismo insieme a sostenitori del genocidio e ideologi di destra che vedono il mondo come un conflitto tra la civiltà giudaico-cristiana e i suoi nemici?

Di per sé la presenza di Nickolay Mladenov alla conferenza annuale dell’Istituto Internazionale per l’Antiterrorismo ad Herzliya [sede di un’università privata che ha stretti rapporti con i servizi di sicurezza e l’esercito israeliani, ndt.] è sconvolgente, così come le sue affermazioni come oratore principale.
 
Durante una parte improvvisata prima di esporre le sue osservazioni scritte, Mladenov ha affermato che in futuro l’Europa, come Israele, dovrà sempre più discutere dell’“equilibrio tra diritti umani individuali e sicurezza, tra lo Stato e l’individuo e tra quello che si può e si deve fare e quello che non si può e non si deve fare, in base alle leggi dello Stato e al diritto internazionale nella lotta contro il terrorismo.”
 
Che i diritti non si possano negoziare, ma siano da “bilanciare”, è una strana nozione da suggerire da parte di un importante funzionario dell’ONU.
 
Il discorso di Mladenov è stato esposto alla presenza della ministra della Giustizia israeliana, Ayelet Shaked, che a suo tempo ha promosso un appello genocida a favore del massacro delle madri palestinesi “che fanno nascere piccoli serpenti.”
Ha condiviso questo appello sulla sua pagina Facebook nel 2014, poco prima dell’attacco israeliano contro Gaza che ha ucciso più di uno ogni 1.000 palestinesi che vivono lì.
 
Diritti individuali versus sionismo
 
Shaked più di recente ha denigrato il sistema giudiziario che lei stessa dirige, per quello che ha definito il suo rispetto dei diritti umani a spese del sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.
 
Il sionismo non può continuare, e, lo affermo in questa sede, non continuerà ad inchinarsi al sistema dei diritti individuali intesi in modo universalistico che li separa dalla storia della Knesset (il parlamento israeliano) e dalla storia del diritto che tutti noi conosciamo,“ ha dichiarato Shaked.
 
Ha descritto la cosiddetta “Legge sullo Stato-Nazione” di Israele – che impone all’Alta Corte israeliana di favorire il “carattere ebraico” dello Stato rispetto a quello “democratico” – come una “rivoluzione morale e politica.”
E’ stato in presenza di estremisti etnocratici come Shaked, che rifiutano il concetto di diritti universali, che Mladenov ha affermato che “resistere fermamente contro il terrorismo deve essere parte integrante di ogni processo di pace,” e che “dobbiamo opporci al terrorismo ogniqualvolta e ovunque si manifesti.”
 
Uno dei co-relatori di Mladenov alla conferenza è stato Gilad Erdan, ministro israeliano degli Affari Strategici che supervisiona un programma di “attività segrete” per combattere il movimento non violento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) in appoggio ai diritti dei palestinesi.
 
Secondo un importante analista israeliano, queste attività possono riguardare “campagne diffamatorie, persecuzione e minacce alla vita degli attivisti” così come “infrangere e violare la loro privacy.”
 
Minacce contro i difensori dei diritti umani
 
Erdan ha promesso che gli attivisti del BDS “sapranno che pagheranno un prezzo per questo,” minacciando esplicitamente il difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento BDS Omar Barghouti.
Erdan ha anche dichiarato che “ogni terrorista dovrebbe sapere che non sopravviverà agli attacchi che sta per perpetrare,” una politica di “sparare a vista” messa in atto contro decine di presunti assalitori palestinesi, compresi bambini, che corrisponde di fatto ad una sentenza di morte – nonostante il bando alla pena capitale in Israele.
 
Mladenov concorda con la politica israeliana secondo cui il “bilanciamento” tra diritti individuali e sicurezza necessita di un compromesso persino riguardo al diritto alla vita di un individuo?
 
In ogni caso sembra che Mladenov pensi che i palestinesi non abbiano il diritto all’autodifesa o alla resistenza.
 
Durante il suo discorso si è vantato di un rapporto redatto lo scorso anno dal cosiddetto “Quartetto per la Pace in Medio Oriente” (cioè l’ONU, l’UE, gli USA e la Russia) che identifica “l’incremento della militanza” da parte di gruppi palestinesi e, con le parole di Mladenov, “quello che sta succedendo a Gaza”, come un ostacolo alla pace.
 
Le sue osservazioni fanno eco alla posizione presa dal suo collega Robert Piper, il capo coordinatore delle questioni umanitarie dell’ONU in Palestina. L’ufficio di Piper quest’anno ha pubblicato un rapporto segnalando l’allineamento dell’organizzazione mondiale con Israele ed i suoi sostenitori internazionali nello spingere per la resa totale di Gaza.
 
Quel rapporto reputa illegittimo il governo di Hamas lì – nonostante la vittoria del partito nelle ultime elezioni legislative palestinesi – a causa del suo rifiuto di ottemperare alla richiesta del Quartetto di “riconoscere il diritto di Israele ad esistere e di rinunciare alla violenza.” Una richiesta simile di rinunciare alla violenza e di riconoscere il diritto all’esistenza dei palestinesi non è stata fatta ad Israele .
 
 
Resistenza al terrorismo di Stato
 
Alla conferenza di Herzliya Mladenov ha detto che Israele ha “convissuto per decenni con il terrorismo”, ma non ha ricordato che lo Stato stesso [di Israele] è stato fondato sul terrorismo e sulla pulizia etnica.
 
Né ha riconosciuto che i palestinesi, come qualunque altro popolo occupato, hanno il diritto all’autodifesa – un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali.
 
Ma l’antiterrorismo è il paradigma attraverso il quale Stati come gli USA ed Israele – utilizzando una violenza massiccia e indiscriminata contro civili, di cui non sono mai stati chiamati a rispondere – portano avanti i propri interessi egemonici.
 
Un’occupazione militare infinita e bellicosa consente inoltre ad Israele di vendere la sua esperienza “antiterroristica” e i suoi armamenti come “collaudati in battaglia” – sulla pelle dei palestinesi.
 
L’antiterrorismo è il ringhioso smalto del “marchio Israele” e sembra che l’ONU se lo sia comprato.
 
Durante il suo discorso Mladenov ha ricordato che il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha recentemente formato un ufficio per l’antiterrorismo – un impegno che ha comportato “approfondite discussioni” con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con esponenti dell’esercito israeliano.
 
Mladenov ha solo accennato alla necessità di un orizzonte politico che conservi la speranza di un futuro migliore in Medio Oriente.
 
 “Sacrifici umani”
 
Non ha evocato uno scontro di civiltà come David Friedman, il curatore fallimentare [di un casinò di Trump, ndt.] e finanziatore delle colonie, che funge da inviato di Trump in Israele.
 
Durante il suo discorso alla conferenza Friedman ha ripetutamente fatto riferimento al “terrorismo islamista radicale.”
 
Friedman che, come Mladenov, ha espresso le proprie opinioni nell’anniversario degli attacchi dell’11 settembre negli USA, ha affermato: “Sappiamo che gli israeliani non solo condividono il nostro lutto di fronte al terrorismo, ma anche la nostra determinazione a colpire i terroristi islamici radicali ovunque siano e di garantire che le loro tattiche non diventino mai dei successi politici.”
 
Ha letto un elenco di attacchi condotti da palestinesi contro israeliani, e di telefonate di condoglianze che ha recentemente fatto alle famiglie di israeliani uccisi da aggressori palestinesi, compresi due poliziotti che, ha detto, sono stati accoltellati da “terroristi islamisti radicali” – confondendo i palestinesi che resistono all’occupazione militare israeliana con i combattenti dello Stato Islamico in Siria. Friedman ha sostenuto che gli israeliani non sono i soli nella regione a soffrire in conseguenza del terrorismo, ma non si riferiva ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane.
 
Riprendendo l’ormai sfatato argomento secondo cui le scuole palestinesi insegnano “l’istigazione” [alla violenza contro gli israeliani, ndt.], Friedman ha affermato: “I ragazzi palestinesi che imparano a odiare gli ebrei invece di imparare matematica e scienze sono i sacrifici umani della causa dell’estremismo radicale.”
 
Non importa che le forze israeliane abbiano ucciso più di trenta bambini palestinesi nel 2016 – facendone così l’anno più sanguinoso per i bambini palestinesi in Cisgiordania da più di un decennio – ed ucciso decine di bambini nelle loro case a Gaza nell’estate del 2014.
 
La maggiore attenzione dei media nei confronti della conferenza sull’antiterrorismo a Herzliya ha riguardato la partecipazione di Sebastian Gorka, il consigliere di Donald Trump recentemente destituito e pseudo-intellettuale con legami con gruppi nazisti e violentemente anti-semiti in Europa.
 
Gorka ha ricevuto una calda accoglienza quando ha assicurato ad un pubblico che  ne ha condiviso il discorso che “America ed Israele sono Stati fondatori della civilizzazione giudaico-cristiana e insieme sfideremo i nostri comuni nemici.”
Che cosa ha a che vedere un inviato ONU per la pace con una simile compagnia?
 
(traduzione di Amedeo Rossi)
 



Jewish Voice for Peace  invita i giovani ebrei a boicottare “Birthright Israel”

Allison Kaplan Sommer – 2 settembre 2017,Haaretz

La campagna #ReturnTheBirthright dichiara che “è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case”

Il discusso gruppo filo-palestinese “Jewish Voice For Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, ndt] ha lanciato una campagna per convincere giovani ebrei a non partecipare ai viaggi di “Birthright Israel”  [“Diritto di Nascita Israele”, ndt.], proprio mentre gli studenti dei college stanno tornando nei campus e riprendono le iscrizioni per le visite invernali.

Con lo slogan “#ReturnTheBirthright” [“Restituisci il diritto di nascita”], JVP sta lavorando per convincere ebrei dai 18 ai 26 anni, che possono essere scelti per un viaggio di 10 giorni gratis, a rifiutare l’allettante offerta.

Un “giuramento” sul suo sito web prende la forma di una petizione online in cui giovani ebrei dichiarano: “Non parteciperemo a un viaggio “Birthright” perché è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case. Ci rifiutiamo di essere complici di un viaggio di propaganda che maschera il razzismo sistematico e la quotidiana violenza che i palestinesi che vivono sotto un’occupazione senza fine devono affrontare. Il nostro ebraismo è fondato su valori di solidarietà e di liberazione, non di occupazione e di apartheid. Su queste basi restituiamo il “Birthright”, e chiediamo ad altri giovani ebrei di fare altrettanto.”

Birthright Israel” invia giovani adulti ebrei a fare un viaggio di dieci giorni in Israele con l’obiettivo di rafforzare l’identità ebraica e il rapporto con lo Stato ebraico. I viaggi sono finanziati attraverso una collaborazione tra lo Stato di Israele e un gruppo di donatori nordamericani. I primi finanziatori del progetto sono stati Michael Steinhardt e Charles Bronfman, ma negli ultimi anni Sheldon Adelson, miliardario delle case da gioco, grande donatore del partito Repubblicano e sostenitore del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha inondato il progetto con 250 milioni di dollari, diventando il suo principale benefattore.

Ben Lorber, responsabile di JVP per i campus, ha affermato che la nuova campagna nazionale è sorta da un certo numero di iniziative contro “Birthright Israel” in singoli campus, che hanno suggerito al gruppo di estendere il movimento ai campus di tutto il Paese.

E’ una cosa di cui gli studenti ebrei stanno discutendo e che stanno facendo da tempo,” ha detto Lorber. “E’ un’ingiustizia fondamentale che a noi, in quanto giovani ebrei, venga offerta la possibilità di questi viaggi gratis e che possiamo diventare cittadini di Israele se in seguito lo decidiamo, mentre ai nostri amici e compagni di classe palestinesi viene negata la stessa relazione con la terra da cui provengono i loro genitori o i loro nonni.”

La campagna, ha aggiunto, è rivolta, oltre che agli studenti, ai giovani adulti ebrei che hanno terminato l’università che potrebbero star pensando a viaggiare con “Birthright”. Lorber, che ha quasi trent’anni, ha detto di aver deciso per parte sua di non viaggiare con “Birthright” negli anni in cui poteva essere scelto.

E’ stata una decisione cosciente. Ero molto contrariato dall’annuncio pubblicitario che mi diceva: ‘Guarda questo bel viaggio gratis, puoi andare in spiaggia, fare un’escursione a Masada, metterti in rapporto con la tua patria,’ mentre i palestinesi che conosco hanno parenti che sono stati bombardati a Gaza, e non possono visitare Gerusalemme.”

Per contro, il capo di un’altra organizzazione studentesca ebraica, “J Street U”, che si definisce “filo-israeliana, per la pace”, ha detto di non credere che i giovani ebrei debbano essere dissuasi dal viaggiare in Israele grazie a “Birthright”.

Ben Elkind, direttore di “J Street U”, afferma che per lui fare un viaggio con “Birthright” è stato “una parte importante del mio impegno riguardo a Israele e al più generale conflitto israelo-palestinese” e di credere che “sia importante incoraggiare gli studenti a impegnarsi piuttosto che a non impegnarsi” sulla questione.

Mi sento profondamente coinvolto nelle questioni e nelle preoccupazioni” espresse dalla campagna di JVP, dice. “Penso che (gente come) Adelson non sia stata una forza produttiva nelle politiche su questo problema, e ritengo che ci siano ragioni per essere veramente preoccupati per la mancanza di libertà di movimento a danno dei palestinesi. Ma non sono sicuro che la risposta debba essere il boicottaggio di “Birthright”. Penso che potenzialmente ci siano iniziative alternative più utili.”

Elkind dice che “andare con “Birthright” non significa che la gente ne esca con le posizioni politiche di Sheldon Adelson.”

A questo scopo “J Street U” incoraggia i propri membri a rimanere in Israele oltre il periodo di viaggio con “Birthright” e ad approfittare del crescente numero di “programmi integrativi” in cui chi rimane dopo il tour con “Birthright” risulta “più profondamente impegnato nelle politiche della Cisgiordania.”

Mentre Lorber concorda con il fatto che  sia “uno sviluppo positivo” che alcuni dei giovani ebrei che vanno con “Birthright” prolunghino il proprio soggiorno con programmi alternativi e si informino ulteriormente sul dramma dei palestinesi, egli crede comunque che sia meglio rifiutare del tutto il viaggio. “Per noi si torna all’ingiustizia fondamentale. Accettando questo viaggio, diventi complice delle relazioni pubbliche di “Birthright” e sei parte di un viaggio che i palestinesi non possono fare.”

Il “manifesto” della campagna approfondisce con ulteriori dettagli queste ragioni: “Fare un viaggio di “Birthright” oggi significa giocare un ruolo attivo nell’aiutare la promozione da parte dello Stato del ‘ritorno’ degli ebrei, respingendo il diritto al ritorno dei palestinesi. Non è sufficiente accettare quest’offerta del governo israeliano e conservare una prospettiva critica durante il viaggio. Rifiutiamo l’offerta di un viaggio gratis da parte di uno Stato che non ci rappresenta, un viaggio che è ‘gratis’ solo perché è stato pagato con la spoliazione dei palestinesi.”

Il manifesto “supplica” i giovani ebrei di stare lontani da “un viaggio sponsorizzato da donatori reazionari e dal governo israeliano, dove la continua oppressione e l’occupazione dei palestinesi vi verranno nascoste, solo perché è gratis. Ci sono altri modi per noi di rafforzare la nostra identità ebraica, insieme con quelli che condividono i nostri valori.”

JVP si definisce contraria al “fanatismo e all’oppressione contro ebrei, islamici e arabi” e “chiede la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme est; sicurezza ed autodeterminazione per israeliani e palestinesi; una soluzione giusta per i rifugiati palestinesi basata sui principi stabiliti dalle leggi internazionali; la fine delle violenze contro i civili; pace e giustizia per tutti i popoli del Medio Oriente.”

Il gruppo è stato frequentemente e duramente criticato dalla maggior parte della comunità ebreo-americana per la sua partecipazione attiva alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Secondo l’“Anti-Defamation League” [“Lega contro la Diffamazione”, potente gruppo filo-israeliano statunitense, ndt.] “Jewish Voice for Peace (JVP) è il maggiore e più influente gruppo ebraico anti-sionista negli USA. Nonostante il tono neutrale del suo nome, JVP lavora per dimostrare l’opposizione ebraica allo Stato di Israele e per allontanare l’appoggio dell’opinione pubblica dallo Stato ebraico.”

Birthright Israel” non ha risposto alla richiesta da parte di Haaretz di una replica.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




I palestinesi esortano i docenti universitari dell’Ue a porre fine alla collaborazione con i torturatori israeliani

Ali Abunimah, 

4 Settembre 2017, Electronic Intifada

Docenti universitari palestinesi stanno esortando i loro colleghi europei a porre fine alla loro collaborazione con un progetto dell’Unione Europea che finanzia i torturatori israeliani.

La Federazione Palestinese dei Sindacati dei Docenti ed Impiegati Universitari ed il PACBI, la campagna palestinese per il Boicottaggio accademico e culturale di Israele, stanno sollecitando l’università belga di Lovanio e l’istituto di ricerche portoghese INESC-ID ad uscire dal programma “LAW-TRAIN” finanziato dall’UE.

Invitano anche tre professori universitari inglesi indicati come supervisori – Claire Nee dell’università di Portsmouth, Jo Taylor e William Finn, entrambi dell’istituto di formazione della polizia – a porre fine al loro ruolo nel progetto.

LAW-TRAIN” ha avuto inizio nel maggio 2015 con lo scopo apparente di “armonizzare e condividere tecniche di interrogatorio tra i Paesi coinvolti per far fronte alle nuove sfide della criminalità transnazionale.”

E’ un progetto in comune con il ministero della Sicurezza Pubblica israeliano, la polizia e l’università israeliana di Bar-Ilan.

Ma in giugno esperti di diritto internazionale hanno affermato che “LAW-TRAIN” viola le norme UE e le leggi internazionali perché il ministero della Pubblica Sicurezza israeliano “è responsabile di, o complice in, torture, altri crimini contro l’umanità e crimini di guerra.”

Finanziare i crimini di guerra

I docenti universitari affermano che la polizia israeliana e l’università Bar-Ilan sono anche direttamente coinvolte in numerose violazioni, comprese esecuzioni extragiudiziarie, torture, crimini di guerra e collusione con la polizia segreta di Israele.

La collaborazione con queste istituzioni tramite “LAW-TRAIN” non solo non tiene conto dei diritti umani dei palestinesi,” aggiungono, “ma fornisce il via libera perché quei metodi di tortura proseguano, e, ancora peggio, li presenta come un esempio da seguire in Europa.”

Fonti ufficiali europee sostengono che “LAW TRAIN” ha superato un esame ed una valutazione etica, ma, secondo esperti di diritto, il procedimento è stato lacunoso ed ha ignorato normative chiave europee che vietano di finanziare individui o enti coinvolti in gravi comportamenti scorretti.

LAW-TRAIN” è finanziato in base a “Horizon 2020”, un programma dell’UE che fornisce milioni di dollari ai produttori di armi israeliani e a violatori dei diritti umani sotto forma di appoggio alla “ricerca”. Per esempio, “Horizon 2020” sta fornendo milioni di dollari alla “Elbit Systems”, un’industria israeliana che sta aiutando l’esercito israeliano ad aggirare un bando internazionale contro le bombe a grappolo.

All’inizio di quest’anno il commissario per la scienza dell’UE Carlos Moedas ha visitato Israele per festeggiare il ruolo di Israele in “Horizon 2020”.

Politica accondiscendente dell’Europa

La logica ufficiale dell’appoggio incondizionato dell’UE ad Israele sembra essere che, impegnandosi nel “dialogo” e rassicurando Israele, questo si senta sufficientemente sicuro da fare passi verso la “pace” e la mitica soluzione dei due Stati.

Ma l’accondiscendenza dell’UE ha avuto l’effetto esattamente opposto, incoraggiando semplicemente Israele a commettere più crimini. Nel 2014, per esempio, l’UE ha lanciato un “dialogo” inteso a convincere Israele a congelare la demolizione di case e strutture palestinesi nella Cisgiordania occupata. Secondo un’analisi, Israele ha risposto accelerando le demolizioni delle strutture finanziate dall’UE.

Negli ultimi anni Israele ha distrutto almeno il valore di 74 milioni di dollari di progetti finanziati dall’UE con totale impunità.

Lo scorso mese Israele ha demolito parecchie scuole e progetti finanziati dai contribuenti europei in Cisgiordania. La risposta dell’UE è stata un debole comunicato, seguito da altri favori ad Israele.

Ironicamente, una delle proteste formulate con parole più dure – anche se innocue – contro le demolizioni è venuta dal governo del Belgio, che è profondamente complice di “LAW-TRAIN”: molte autorità giudiziarie belghe sono coinvolte nel programma.

Ma il fallimento più spettacolare della politica accondiscendente dell’UE si è esplicitato nella forma della recente promessa del primo ministro Benjamin Netanyahu secondo cui Israele non smantellerà nessuna colonia dalla Cisgiordania occupata – distruggendo l’alibi persino del più ingenuo dei dirigenti dell’UE che Israele sia interessato a una soluzione dei due Stati.

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base alle leggi internazionali, e persino l’UE afferma di opporvisi.

Ma non c’è da sorprendersi che Israele stia accelerando il suo furto e la sua colonizzazione della Cisgiordania: l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv lo scorso anno ha affermato pubblicamente che prodotti degli insediamenti israeliani sono i “benvenuti” sui mercati europei – anche se i principali gruppi per i diritti umani stanno chiedendo un divieto totale degli scambi commerciali con le colonie.

Ignari

Agendo come se fossero ignari, questa settimana i burocrati dell’UE hanno continuato a gratificare Israele con la visita di Elżbieta Bieńkowska, la commissaria “alle attività imprenditoriali” del blocco di 28 Paesi.

Il suo obiettivo è promuovere un’ulteriore “cooperazione” in campi quali scienza e tecnologia – spesso un nome in codice per sviluppo di armamenti e commercio di armi.

La visita di Bieńkowska è l’ultima di una sfilata di funzionari UE di alto livello a Tel Aviv che ha incluso il commissario alla scienza Moedas.

Un altro importane funzionario ha recentemente garantito l’appoggio dell’UE ai tentativi di Israele per mettere a tacere le critiche alle sue politiche, con il pretesto di lottare contro l’antisemitismo.

Funzionari dell’UE continuano anche a calunniare il movimento nonviolento per il Bboicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni con affermazioni che l’UE non può dimostrare, come l’asserzione secondo cui le attività del BDS hanno portato a un aumento degli episodi di antisemitismo.

Il chiaro e costante messaggio da Bruxelles a Tel Aviv è che l’UE non solo tollera i crimini di Israele, ma che li appoggia entusiasticamente.

E’ improbabile che ciò cambi finché i cittadini europei non rafforzeranno il messaggio che non consentiranno più che il loro danaro sia impropriamente utilizzato dai funzionari dell’UE e dalle istituzioni accademiche europee per appoggiare il regime israeliano di occupazione, colonialismo di insediamento e di apartheid.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La polemica su Shaked e sul sionismo

Nota redazionale: le dichiarazioni della ministra della Giustizia Ayelet Shaked hanno innescato una dura polemica sul giornale israeliano di centro-sinistra “Haaretz” tra le posizioni espresse dallo storico israeliano Daniel Blatman, da Gideon Levy, una delle firme più note del quotidiano, e dalla sua collega Ravit Hecht.

Riteniamo interessante per il lettore riportare lo scambio di opinioni tra gli editorialisti non solo per la questione specifica del giudizio sulle esternazioni di Shaked, quanto soprattutto perché evidenziano una visione radicalmente diversa del sionismo e della sua natura, sintetizzata in questi articoli di fondo e rappresentativa della divisione all’interno della sinistra israeliana. Blatman ritiene che la visione di Shaked rappresenti una novità nel campo sionista, Levy che si tratti di una manifestazione esplicita di quello che il sionismo è sempre stato come ideologia razzista basata su criteri etnico-religiosi, Hecht invece ritiene che si tratti di una sua degenerazione ideologica e politica propugnata dall’estrema destra israeliana. Infine Levy ribadisce la sua opinione, sostenendo che tra le posizioni di Hecht e di Shaked c’è una differenza di forma ma non di sostanza.

  1. Il nuovo sionismo nazionalista

La visione del mondo della ministra della Giustizia Shaked ricorda la xenofobia razzista degli Stati del sud degli USA dagli anni ’30 in poi

 Daniel Blatman, 1 settembre 2017 , Haaretz

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked si pone sempre più come leader del nuovo sionismo. Ciò non è solo la conseguenza della rivoluzione costituzionale che sta conducendo, cercando di cambiare l’immagine della Corte Suprema, o della serie di proposte di legge che sta promuovendo, compresa la legge sullo Stato-Nazione. Queste sono solo manifestazioni concrete di una coerente e consolidata visione del mondo, incentrata sull’attuazione di una trasformazione ad ampio raggio delle fondamenta ideologiche su cui è stato fondato lo Stato di Israele.

Il sionismo di Shaked non è solo un’ulteriore variazione ebraica dell’idea liberale nazionalista europea della seconda metà del XX secolo, della scuola di Theodor Herzl, Chaim Weizmann, Ze’ev Jabotinsky ed altri. Il nuovo sionismo di Shaked è una sintesi rivoluzionaria dell’etica colonialista del movimento laburista e delle componenti ebree etnocentriche-razziste, che insieme portarono ad un’importante revisione delle definizioni fondamentali dello Stato ebraico. Shaked sta essenzialmente cercando di sostituire l’idea sionista – la quale, al di là delle dispute che si sono create tra le sue varie componenti, era incentrata sulla sovranità ebraica come necessità esistenziale di un popolo perseguitato – con una basilare consapevolezza che definisce lo Stato di Israele come uno Stato uni-etnico, che attuerà la visione ebraica antiliberale del colonialismo. Le sue dichiarazioni di questa settimana alla conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani [Israel Bar Association] a Tel Aviv sono state un’altra tappa della messa a punto di questa ideologia.

Shaked ha già pubblicato recentemente i principi della sua visione del mondo in un articolo della rivista “Hashiloach”, e questo è anche il concetto centrale della proposta di legge sullo Stato-Nazione che sta promuovendo.

Lo Stato ebraico perciò è lo Stato del popolo ebreo. E’ diritto naturale del popolo ebreo vivere come ogni altra nazione,” scrive. “Uno Stato ebraico è uno Stato la cui storia è intrecciata e intessuta nella storia del popolo ebreo, la cui lingua è l’ebraico e le cui principali festività rappresentano la sua rinascita nazionale. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale l’insediamento di ebrei nei suoi campi, città e villaggi è una preoccupazione di primaria importanza. Uno Stato ebraico è uno Stato che favorisce la cultura ebraica, l’educazione ebraica e l’amore per il popolo ebreo. Uno Stato ebraico è la realizzazione di generazioni di aspirazioni per il riscatto ebreo. Uno Stato ebraico è uno Stato i cui valori derivano dalla sua tradizione religiosa, in cui la bibbia è il libro fondamentale ed i profeti di Israele il fondamento morale. Uno Stato ebraico è uno Stato in cui la legge ebraica riveste un ruolo importante. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale i valori della Torah di Israele, i valori della tradizione ebraica ed i valori della legge ebraica sono tra i suoi valori fondamentali.”

Nonostante Shaked si sforzi di presentare la sua visione del mondo come fondata sui principi classici neoconservatori e tenda ad usare citazioni di Milton Friedman [economista e teorico ultraliberista, ndt.], la sua visione del mondo proviene da zone molto più oscure. Più che il conservatorismo americano della fine del XX secolo, la sua visione del mondo ricorda la xenofobia razzista del sud degli Stati Uniti dagli anni ’30 in poi, e la destra razzista ostile all’immigrazione, che prospera oggi nei Paesi creati dal colonialismo europeo. La sua dichiarazione secondo cui “il sionismo non deve continuare, e non continuerà, a chinare la testa di fronte ad un sistema di diritti individuali interpretati in termini universalistici”, lo testimonia chiaramente.

Negli anni ’30, quelli della grande depressione e della nascita dei regimi totalitari in Europa, l’idea universalistica di diritti individuali affrontò una grave crisi negli Stati Uniti. Il rischio di guerra e di tensioni interrazziali creò difficoltà per gli attivisti dei diritti umani, soprattutto visti gli appelli a ridefinire l’essenza dell’ “americanismo” e lo status delle minoranze del Paese, definito attraverso la razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza etnica. L’attacco ai diritti di queste minoranze si intensificò anche a causa della crescente popolarità del fascismo europeo, che propugnava la definizione di Stato come una comunità selettiva e collettiva, che escludeva chiunque non appartenesse alla collettività. Questo valeva specialmente negli Stati del sud dell’America e si manifestava attraverso le leggi a favore della segregazione razziale della regione.

La visione di Shaked dello Stato ebraico è parallela a ciò che i sudisti negli anni ’30 chiamavano “preservare lo stile di vita americano”. Per preservare questo concetto, non solo si potevano emanare leggi che lo sostenessero e lo difendessero dal doversi inchinare ai diritti umani; si poteva anche difenderlo con la violenza. Centinaia di casi di linciaggi e violenze contro i neri sono la prova più lampante di quanto fossero profondamente radicate queste concezioni. Israele non è così distante da fenomeni simili di violenza aggressiva non statale, per esempio contro i richiedenti asilo o contro i palestinesi. Ma ciò che caratterizzava in ultima istanza il sud americano era il suo sistema legale di segregazione razziale unico. A questo punta Shaked.

Tuttavia bisogna ricordare che la separazione geografica non è mai stata il principale obiettivo dei bianchi nel sud americano. Certamente essi accettavano la realtà, forse anche la necessità, che i bianchi e i neri vivessero gli uni accanto agli altri, interagendo tra loro e mantenendo relazioni basate su interessi economici o esigenze occupazionali. Tutto era soggetto ai dettami della gerarchia razziale, o ciò che un ricercatore ha definito “l’era del capitalismo razzista.”

A questo conduce la visione sionista di Shaked. Invece della supremazia bianca, avremo la supremazia ebraica, insieme ad una visione etnocentrica-razzista che consentirà alcune prassi economiche vitali. Dopotutto, lo Stato ebraico di Shaked non intende separarsi dai palestinesi e certamente non vuole renderli cittadini. Proprio come nel sud americano la segregazione e la discriminazione politica contro i neri ha creato un ordine sociale e politico brutale e razzista, così sarà nel nuovo Stato nazional-sionista di Shaked, che non accetterà di inchinarsi alle definizioni universali dei diritti individuali e continuerà ad opprimere brutalmente le minoranze, la cui unica difesa contro la tirannia ideologica che lei propugna sono proprio quelle definizioni universali.

All’interno di questa visione dobbiamo inserire anche la paura dei rifugiati e il desiderio di espellerli dal Paese ad ogni costo. L’atteggiamento razzista nei loro confronti è un fenomeno familiare nelle società con un passato ed una tradizione coloniali, di cui Israele fa parte. Dietro all’approccio che considera i rifugiati una minaccia c’è la necessità di preservare la superiorità etnica della maggioranza coloniale, la cui presa sul territorio in cui vive non ha ancora superato l’esame della legittimazione storica a lungo termine. Ecco perché la necessità di controllare rigidamente le frontiere – quelle territoriali, ma soprattutto quelle etniche e razziali – è così cruciale. I migranti e i rifugiati spezzano questi confini; sono diversi per colore, per religione e stile di vita e quindi non solo recano danno all’egemonia etnica, ma potrebbero anche annacquare le caratteristiche umane della maggioranza della società e trasformarla in un’entità etnica e culturale differente da quella originaria.

Si tratta di un concetto nuovo dello Stato di Israele. Il concetto di Shaked di superiorità etnica ebrea poggia non solo su un’ideologia rigidamente chiusa, ma sulle politiche della paura. L’arena politica israeliana è oggi controllata da partiti che propugnano una politica della paura e Shaked vi ricopre un ruolo importante. Il messaggio principale di questa politica della paura è la necessità di mantenere l’identità ebraica dello Stato contro il mondo minaccioso che potrebbe sopraffarla ed eliminarla. Le componenti arabe, islamiche ed africane che circondano lo Stato ebraico da ogni lato potrebbero spazzarla via se essa non si rafforzerà per impedire una simile tremenda invasione.

Proprio come l’estrema destra in Australia o negli Stati Uniti cerca di erigere un muro di leggi, supportato da una potente flotta o da veri e propri muri lungo i confini a protezione della patria (quella coloniale, ricordiamoci) da ogni parte dalle infiltrazioni dal Messico o dall’Afghanistan, allo stesso modo Shaked ed i suoi colleghi stanno promuovendo una legislazione supportata da barriere, checkpoint e da un potente esercito che blinda i confini israeliani dalle orde minacciose delle masse nere. Questa combinazione di superiorità etnico-razziale, legislazione apposita e castrazione del sistema giudiziario in modo che non possa proteggere ciò che Shaked disprezza tanto – le definizioni universalistiche dei diritti universali – sta dando luogo al nuovo nazional-sionismo, il successore del sionismo storico.

Il professor Blatman è uno storico dell’università ebraica di Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

  1. La ministra israeliana della verità

    La ministra israeliana della Giustizia ha detto chiara e forte la verità: il sionismo si contrappone ai diritti umani, e quindi è proprio un movimento ultranazionalista, colonialista e forse razzista

 Gideon Levy, 1 settembre 2017,Haaretz

Grazie, Ayelet Shaked, per aver detto la verità. Grazie per aver parlato onestamente. La ministra della Giustizia ha dimostrato ancora una volta che l’estrema destra israeliana è meglio degli impostori del centrosinistra: parla con sincerità.

Se nel 1975 Chaim Herzog [all’epoca ambasciatore israeliano all’ONU, ndt.] stracciò platealmente una copia della Risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale dell’ONU che metteva sullo stesso piano sionismo e razzismo, la ministra della Giustizia ha ora ammesso la veridicità di quella risoluzione (che venne in seguito revocata). Shaked ha detto, forte e chiaro: il sionismo è in contrasto con i diritti umani e quindi è in realtà un movimento ultranazionalista, colonialista e forse anche razzista, come i fautori della giustizia sostengono in tutto il mondo.

Shaked predilige il sionismo rispetto ai diritti umani, la suprema giustizia universale. Crede che noi abbiamo un diverso tipo di giustizia, superiore a quella universale. Il sionismo al di sopra di tutto. E’ già stato detto prima, in altre lingue e da altri movimenti nazionalisti.

Se Shaked non avesse contrapposto tra loro questi due principi, avremmo continuato a credere ciò che ci è stato inculcato fin dall’infanzia: il sionismo è un movimento giusto e moralmente ineccepibile. Santifica l’uguaglianza e la giustizia: basta vedere la nostra dichiarazione d’indipendenza. Abbiamo imparato a memoria: “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, “tutti sono uguali nello Stato ebraico”; abbiamo appreso della giustizia della Corte Suprema araba e del ministro del governo druso. Che cosa possiamo volere di più? E’ tutto così giusto, così equo, potremmo esclamare.

Se tutto ciò fosse vero, Shaked non avrebbe motivo di ergersi a difesa del sionismo nei confronti dei diritti umani. Per lei e per la destra, la discussione sui diritti umani e civili è antisionista, addirittura antisemita. Mira a indebolire e a distruggere lo Stato ebraico.

Quindi Shaked crede, come tanti in tutto il mondo, che Israele sia edificato su fondamenta di ingiustizia e che perciò debba essere difeso dal discorso ostile sulla giustizia. In quale altro modo si potrebbe spiegare il rifiuto di discutere sui diritti? I diritti individuali sono importanti, lei dice, ma non quando sono slegati dall’ “impresa sionista”. E nuovamente: l’impresa sionista è in realtà in contraddizione con i diritti umani.

Quali sono oggi le sfide sioniste? “Giudaizzare” il Negev e la Galilea, eliminare gli “infiltrati”, coltivare il carattere ebraico di Israele e preservare la sua maggioranza ebraica. L’occupazione, le colonie, il culto della sicurezza, l’esercito – che è essenzialmente un esercito d’occupazione – questo è il sionismo nel 2017 circa. Tutti i suoi elementi sono il contrario della giustizia. Dopo che ci è stato detto che sionismo e giustizia sono fratelli gemelli, che nessun movimento nazionale è più giusto del sionismo, arriva Shaked e dice: è proprio il contrario. Il sionismo non è giusto, è contrario alla giustizia, ma noi dobbiamo stringerci ad esso e preferirlo alla giustizia, perché è la nostra identità, la nostra storia e la nostra missione nazionale. Nessun militante del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni potrebbe dirlo più nettamente. Ma nessuna Nazione ha il diritto di rifiutare i principi universali e di inventarsi i propri principi, che chiamano giorno la notte, definiscono l’occupazione giusta e la discriminazione uguaglianza.

Il sionismo è la religione fondamentalista di Israele e, come in ogni religione, è proibito negarla. In Israele, “non sionista” o “antisionista” non sono insulti, sono ordini sociali di espulsione. Non c’è niente del genere in nessuna società libera. Ma adesso che Shaked ha messo a nudo il sionismo, ha messo la mano sul fuoco ed ha ammesso la verità, possiamo finalmente pensare al sionismo in modo più libero. Possiamo ammettere che il diritto degli ebrei ad uno Stato è in contraddizione con il diritto dei palestinesi alla propria terra, e che il sionismo di destra ha dato origine ad un terribile errore nazionale che non è mai stato sanato; che ci sono modi per risolvere e riparare a questa contraddizione, ma gli israeliani sionisti non saranno d’accordo.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che sono d’accordo con le affermazioni di Shaked e quelli che non lo sono. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked

Il mio collega Gideon Levy preferisce gli estremisti di destra alla sinistra perché dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente opinioni pericolose ma popolari tra la gente

 Ravit Hecht – 1 settembre 2017, Haaretz

 

Nel suo pezzo di ieri [in realtà del 1 settembre, ndt.], Gideon Levy ha ringraziato la ministra della Giustizia Ayelet Shaked per aver detto la verità; Shaked ha detto che il sionismo non si inchinerà più alla Corte Suprema. La ministra sta quindi continuando con la sua campagna di provocazione contro la Corte, una campagna che sta prosperando in tutta la destra.

Dal testo di Levy emana un aroma di amore vero per la sua onesta ed audace principessa. Il suo editoriale trasmette un messaggio di ammirazione tra  radicali che dicono le cose come stanno nella loro corsa a fare danni.

E danni sono stati fatti. Che rivoluzione. Apocalypse now. La corte aggressivamente intimidita, e presto i media saranno finalmente addomesticati e messi a tacere. Il razzismo sta avendo un’impennata con l’incoraggiamento dei dirigenti e la corruzione dilaga, senza bisogno di travestirsi, per la semplice ragione che nessuno se ne vergogna più.

Tutto ciò si aggiunge alla calamità dell’occupazione – effettivamente una grande calamità –, che è l’unica cosa che Levy vede. Per quanto lo riguarda, senza risolvere questo disastro, ogni altra cosa potrebbe essere e sarà distrutta. Ciò include, per esempio, il suo diritto fondamentale di dire la sua opinione su Israele, o semplicemente di vivere qui senza essere spedito in un campo di rieducazione se rifiuta di giurare fedeltà al capo della coalizione David Bitan [della destra del Likud, ndt.].

Il danno dell’alleanza di Levy con gente come Shaked è la sua opinione secondo cui quello che Shaked, il ministro del Turismo Yariv Levin e quelli come loro stanno proponendo è il sionismo. Non lo è. E’ una sadica distorsione che interpreta la giustificata difesa degli ebrei attraverso la fondazione di una patria come una selvaggia aggressione verso l’esterno (contro i palestinesi) e verso l’interno (contro chi critica il governo). Chaim Herzog [all’epoca dell’episodio citato ambasciatore di Israele all’ONU, ndt.] aveva ragione a stracciare la risoluzione ONU che sosteneva che il sionismo era una forma di razzismo, perché il sionismo è stato una risposta al razzismo, alla persecuzione degli ebrei ovunque nel mondo e alla reale minaccia alla loro esistenza.

Senza sminuire la tragedia del popolo palestinese nel 1948, senza discolpare il partito Mapai, il predecessore del partito Laburista, per i suoi errori storici, e senza nulla togliere al ruolo del Likud nel fomentare le colonie e nell’accentuare la divisione tra israeliani, la disastrosa destra che è cresciuta negli ultimi anni è una questione completamente diversa. Non è un’evoluzione inevitabile del sionismo o una sua veritiera manifestazione, come sostiene Levy, ma un’espressione di pulsioni malefiche e pericolose – parte di un contesto globale avvelenato – che dirigenti normali ed accettabili hanno l’obbligo di frenare.

Levy preferisce la leadership di Shaked, di Miki Zohar [dirigente della destra del Likud, ndt.] e di Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra “Casa ebraica”, ndt.] ai dirigenti del Likud liberali, sicuramente agli abominevoli dirigenti del Mapai, perché essi dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente sentimenti popolari tra la gente. Non per fare un paragone diretto, ma anche Hitler diceva la verità, esprimendo i desideri segreti di molti, tedeschi e non solo. Né si faceva molti scrupoli nel metterli in pratica. Nei testi di storia era meglio lui dei dirigenti del suo tempo che dimostravano moderazione?

E’difficile ignorare il tango perfetto danzato da Shaked e Levy. Lei vuole un Israele più grande come parte della fantasia di una dominazione ebraica sancita dalla Bibbia, e lui vuole uno Stato binazionale come parte di un’esotica incursione nel campo del radicalismo selvaggio. Lei vede gli ebrei come una razza dominatrice con privilegi e gli arabi come una spina nel nostro fianco, mentre lui vede gli ebrei come i cattivi e gli arabi come carini Tamagogi senza responsabilità storiche per la loro difficile situazione.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che concordano con le affermazioni di Shaked, e quelli che discordano. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione,” sintetizza Levy .

Ci sono ancora alcuni fautori della giustizia in Israele che credono nel principio fondamentale del sionismo del diritto degli ebrei ad avere una patria in Israele e al contempo aborrono nel profondo l’affermazione di Shaked. Né lei né Gideon Levy li faranno scomparire.

(traduzione di Amedeo Rossi)

Il tango sionista

Perché l’onesto razzismo del ministro della Giustizia Ayelet Shaked è preferibile alle false opinioni della sinistra israeliana.

 Gideon Levy – 3 settembre 2017, Haaretz

Ravit Hecht , nel suo editoriale “Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked”, mi attribuisce un “aroma di amore vero” per la mia “onesta ed audace principessa”, la ministra della Giustizia Shaked. Hecht sa che i miei gusti in fatto di donne sono leggermente diversi, e che, nonostante quello che lei scrive, non so ballare il tango. Ma il mio apprezzamento per Shaked e per gente come lei è che non deludono: riconoscono apertamente il loro nazionalismo ed il loro razzismo. 

Non nascondono le loro opinioni secondo cui i palestinesi sono un popolo inferiore, abitanti indigeni che non si guadagneranno mai i diritti che gli ebrei hanno sulla terra di Israele-Palestina; che nessuno Stato palestinese vi sarà mai fondato; che Israele alla fine si annetterà tutti i territori occupati, come ha già fatto nella pratica; che gli ebrei sono il popolo eletto; che il sionismo è in contraddizione con i diritti umani ed è superiore a essi; che la spoliazione è redenzione; che i diritti biblici di proprietà sono eterni; che non esiste un popolo palestinese e non vi è un’occupazione; che l’attuale situazione durerà  per sempre.

Molte di queste opinioni sono diffuse anche tra la sinistra sionista, il campo ideologico di Hecht. L’unica differenza è che la sinistra sionista non le ha mai ammesse. Sviluppa le proprie opinioni nella luccicante carta da regalo dei colloqui di pace, della separazione e nel vuoto discorso dei due Stati, parole che non ha realmente inteso dire e che ha fatto ben poco per realizzare.

Questa è la ragione per cui preferisco Shaked. Con lei, quello che vedi è quello che hai – razzismo. Nelle sue azioni e nei suoi fatti, la sinistra sionista ha fatto di tutto per mettere in pratica le opinioni di Shaked, solo con parole ben educate e senza ammetterlo. La sinistra sionista è in imbarazzo per le cose di cui Shaked e i suoi colleghi non si vergognano. Ciò non rende la sinistra più morale o giusta. Nelle sue azioni è semplicemente stata quasi come Shaked.

L’occupazione non è stata meno crudele sotto i governi della sinistra israeliana, che è stata il padre fondatore dell’impresa di colonizzazione. Questi prìncipi della pace, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, hanno fondato più colonie di Shaked e provocato la morte di più arabi. La sinistra ha entusiasticamente difeso ogni operazione militare che Israele ha condotto e ogni azione brutale commessa dall’esercito israeliano. Non è semplicemente rimasta in silenzio di fronte a queste azioni, le ha appoggiate. Sempre.

Le operazioni “Piombo fuso “ e “Margine protettivo” contro Gaza (nel 2008-09 e nel 2014, rispettivamente) hanno implicato migliaia di morti senza senso, e la maggioranza della sinistra sionista le ha appoggiate. La maggioranza di quelli di sinistra ha appoggiato l’assedio di Gaza, le esecuzioni ai posti di blocco, i rapimenti notturni, le detenzioni amministrative, gli abusi, la spoliazione e l’oppressione – durante questi fatti la sinistra è rimasta totalmente silenziosa.

Ma la verità è che non si tratta di Shaked e non si tratta della sinistra. E’ il sionismo. Danni sono stati fatti, come ha scritto la stessa Hecht. Ma invece di cercare di riparare le fondamenta instabili, tutto Israele – e non solo la destra – ha fatto il possibile per indebolirle ancor di più.

Sì, questo riguarda la guerra d’indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i palestinesi ed i Paesi arabi da cui è nato Israele, ndt.], di cui bisogna discutere anche se è imbarazzante. Lo spirito del 1948 non ha mai smesso di soffiare qui e, a questo proposito, Shaked e Hecht sono dalla stessa parte. Secondo il loro punto di vista c’è solo un popolo qui che deve essere preso in considerazione, solo una vittima, e ha il diritto di fare tutto il danno che vuole all’altro popolo. Questa è l’evoluzione sostanziale del sionismo.

Ciò avrebbe potuto e dovuto essere modificato, senza venir meno al diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Ma la sinistra sionista non lo ha mai fatto. Non ha mai riconosciuto la Nakba [l’espulsione dei palestinesi nel 1947-48 dal territorio che sarebbe diventato Israele, ndt.] patita dai palestinesi, e non ha mai fatto niente per espiare i propri crimini. Ciò non è mai avvenuto perché la sinistra sionista crede esattamente in quello in cui crede Shaked.

E’ vero, ci sono molte altri problemi per cui la destra provoca disastri nazionali che la sinistra non avrebbe mai creato. Ma dall’altra parte della frontiera vive un popolo che negli ultimi 50 anni – in realtà negli ultimi 100 – ha sofferto ed è stato oppresso. Non passa un giorno senza che crimini orrendi vengano commessi contro di lui. Non possiamo dire: “Abbiate pazienza. Al momento siamo impegnati con lo status della Corte Suprema.”

E sul problema veramente fondamentale che oscura tutti gli altri, Shaked e Hecht stanno danzando un tango perfetto insieme, con un aroma di vero amore che emana da entrambe – un tango sionista.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Demolite: le scuole palestinesi distrutte da Israele all’inizio del nuovo anno scolastico

Chloé Benoist

Giovedì 24 agosto 2017,Middle East Eye

Il ritorno a scuola per molti significa un nuovo inizio, ma per alcuni bambini palestinesi ciò ha significato un ritorno alla distruzione ed alla violenza

Decine di bambini di Jubbet al-Dhib e dei villaggi circostanti nel distretto meridionale di Betlemme nella Cisgiordania occupata si aspettavano che mercoledì fosse il primo giorno di scuola in un nuovissimo istituto elementare, finanziato dall’Unione Europea (UE).

Tuttavia martedì sera le forze israeliane hanno demolito sei aule prefabbricate e confiscato tutto il materiale da costruzione, lasciando dietro di sé sul nudo cemento solo pile di sedie per i bambini.

Gli abitanti di Jubbet al-Dhib erano scioccati: “Quelli che demoliscono una scuola non sono persone, non sono esseri umani,” ha detto mercoledì ai giornalisti Manal Zawahra, un’abitante di Jubbet al-Dhib.

Non abbiamo fatto niente di male ai loro bambini, perché hanno fatto questo ai nostri? Vogliamo vivere in pace, ma non ce lo consentono,” ha aggiunto questa madre di sei figli.

Quella di Jubbet al-Dhib è la terza scuola palestinese ad essere demolita o a vedersi confiscare le infrastrutture dalle forze israeliane dall’inizio del mese. Ciò include l’unico asilo infantile della comunità beduina di al-Baba e lo smantellamento di pannelli solari – l’unica fonte di energia – di una scuola ad Abu Nuwar.

Giovedì le missioni UE a Gerusalemme e Ramallah in un comunicato hanno espresso “forte preoccupazione” in seguito alla confisca di strutture delle scuole palestinesi nelle comunità beduine.

Ogni bambino ha il diritto ad un accesso sicuro all’educazione e gli Stati hanno l’obbligo di proteggere, rispettare e soddisfare questo diritto garantendo che le scuole siano luoghi inviolabili e sicuri per i bambini,” dice la dichiarazione, chiedendo ad Israele “di porre fine alle demolizioni ed alle confische delle case e proprietà palestinesi in conformità con i suoi obblighi in quanto potere occupante in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Atto di sfida

Nonostante la demolizione, mercoledì mattina presto i bambini delle elementari si sono presentati dove si trova il basamento della scuola ed hanno aiutato a sistemare le sedie gettate via, mentre attivisti hanno sistemato una tenda rifugio sulle fondamenta distrutte delle aule prefabbricate.

Circa 60 bambini si sono stipati all’interno della tenda ed hanno cantato l’inno nazionale palestinese, mentre gli insegnanti hanno tenuto le lezioni sul posto come dimostrazione simbolica di sfida contro le politiche discriminatorie di Israele contro i palestinesi.

Questo luogo non rappresenta un pericolo per nessuno. Non è un pericolo per i carri armati o gli aerei (israeliani),” ha detto a MEE Sami Mroueh, il direttore educativo del distretto di Betlemme dell’Autorità Nazionale Palestinese. “L’aggressione contro questo luogo è un attacco ai diritti umani in generale ed ai diritti dei bambini in particolare.”

Mentre Mroueh ha insistito sul fatto che “rimarremo qui e continueremo ad insegnare (agli studenti) qui,” gli operatori dell’Ong che si sono occupati della scuola hanno detto che l’incombente minaccia di un’ulteriore azione israeliana, insieme alla difficoltà di insegnare in una tenda troppo affollata con un clima inclemente, rende questa possibilità improbabile nell’immediato futuro.

Violenza psicologica

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem in un comunicato rilasciato mercoledì ha affermato che 80 bambini hanno subito le conseguenze della demolizione della scuola. Sostiene che l’iniziativa israeliana “incarna la crudeltà burocratica e la sistematica vessazione da parte di autorità la cui funzione è espellere i palestinesi dalla loro terra.”

Un coordinatore dell’Ong francese coinvolta nella costruzione della scuola, che chiede di rimanere anonimo, ha detto a Middle East Eye che la demolizione ha rappresentato una “violenza psicologica” contro i giovani studenti.

Per bambini di quest’età, una cosa del genere gli fa capire improvvisamente qual è il loro posto nel mondo,” ha detto.

Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT), l’ente militare incaricato di mettere in atto le politiche israeliane nei territori palestinesi occupati, ha giustificato la demolizione affermando che mancavano le licenze edilizie rilasciate da Israele.

L’edificio a Jib al-Dib (sic) è stato costruito illegalmente la scorsa settimana, in palese violazione degli ordini di interruzione dei lavori e senza aver ottenuto i permessi richiesti,” ha detto a Middle East Eye un portavoce del COGAT.

Mentre gli abitanti hanno detto che i servizi igienici, che mercoledì sono rimasti la sola struttura ancora in piedi, sono stati l’unica parte della scuola ad aver ricevuto un ordine di sospensione dei lavori, il COGAT afferma che anche le aule nelle case mobili l’avevano ricevuto.

In luglio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA) ha affermato che le limitazioni israeliane nell’Area C – i due terzi della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo e per un periodo massimo di 5 anni dal 1993, ndt.]– hanno reso “praticamente impossibile” per i palestinesi ottenere licenze edilizie, a differenza dei coloni israeliani, a cui spesso vengono concesse.

Secondo l’OCHA, in conseguenza di simili politiche israeliane, più di un terzo delle comunità palestinesi nell’Area C non ha scuole elementari, obbligando i bambini a viaggiare per lunghe distanze per ottenere un’istruzione.

In giugno le autorità israeliane hanno anche confiscato circa 60 pannelli solari – donati dal governo olandese – che fornivano a Jebbet al-Dhib l’elettricità indispensabile.

B’Tselem ha registrato nel 2016 un numero “record” di demolizioni di case palestinesi in Cisgiordania.

Dall’inizio del 2017 le autorità israeliane hanno portato avanti progetti per migliaia di unità abitative nelle colonie della Cisgiordania e nella Gerusalemme est annessa, in palese violazione delle leggi internazionali.

Accesso all’educazione

I bambini di Jubbet al-Dhib, che vivono sulle polverose colline a sudest della città di Betlemme, devono camminare per almeno cinque chilometri per andare a lezione, attraverso terreni ripidi e difficili da percorrere, a rischio di incontrare cani inselvatichiti, soldati israeliani o abitanti della vicina colonia israeliana illegale di Nokdim – dove vive il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman.

Il difficile percorso di andata e ritorno, insieme alle aule sovraffollate ed allo stigma sociale contro gli impoveriti bambini di Jubbet al-Dhib nelle scuole della zona, per anni hanno influito negativamente sul loro accesso all’educazione.

L’istituto più vicino a Jubbet al-Dhib, la scuola elementare di Hatin, situato nel villaggio di Beit Ta’mir, consiste in una casa parzialmente affittata dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è stata ristrutturata in modo approssimativo per ospitare decine di studenti in ex-garage, così come nel piano interrato senza finestre.

Benché gli abitanti abbiano a lungo chiesto la creazione di una scuola a Jebbet al-Dhib, è stato solo durante l’estate del 2016 che le organizzazioni internazionali hanno iniziato a lavorare per edificare sulle terre del villaggio una scuola, la cui costruzione è terminata solo di recente, con finanziamenti dell’UE.

Hanno sottovalutato le distanze che i miei figli devono percorrere a piedi ogni giorno? Sono chilometri sotto il sole o la pioggia e non ci sono mezzi di trasporto,” ha detto Zawahra.

Quali sono i principi etici, umani o persino giuridici che possono giustificare il fatto di prendere costantemente di mira una comunità negandole l’accesso all’elettricità, all’acqua corrente ed ora alla scuola?” si chiede il coordinatore dell’Ong francese. “Quali giustificazioni possibili, se non per razionalizzare l’espansione della vicina colonia, che, essa sì, è veramente illegale?”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




L’Europa non deve comprare ciò che Israele vende per combattere il terrorismo

Jeff Halper, 20 agosto 2017 , Haaretz

Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in lavoro a domicilio ed ora vende al mondo intero il concetto di stato di polizia.

Ogni volta che avviene un attacco terroristico, come quello della scorsa settimana a Barcellona, i politici e gli “esperti” di sicurezza israeliani appaiono in televisione per criticare l’ingenuità degli europei. Se solo comprendessero il terrorismo come facciamo noi e prendessero le misure preventive che prendiamo noi, dicono, subirebbero molti meno attacchi. I più spregevoli in proposito sono stati i commenti del ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz dopo le bombe di Bruxelles nel marzo 2016, in cui morirono 34 persone.

Invece di porgere le condoglianze a nome del governo israeliano, ha inveito contro i belgi nel più arrogante dei modi. “Se in Belgio continuano a mangiare cioccolato, a godersi la vita e ad atteggiarsi a grandi liberali e democratici, senza tener conto del fatto che alcuni dei musulmani che vivono là organizzano azioni terroristiche,” ha sentenziato, “non saranno in grado di combatterli.”

I belgi hanno reagito con rabbia e ribadito la posizione della maggior parte dei governi europei: mentre continueremo ad essere vigili ed a prendere le necessarie precauzioni, non intendiamo sacrificare le nostre libertà e la nostra apertura politica per diventare delle copie di Israele. Poiché essi comprendono che il governo Netanyahu sta spacciando qualcosa di molto più insidioso delle mere precauzioni – ancor più delle armi, dei sistemi di sorveglianza e sicurezza e dei modelli di controllo della popolazione, che sono il pane delle esportazioni israeliane. Ciò che Israele raccomanda agli europei – e agli americani, canadesi, indiani, messicani, australiani ed a chiunque altro li ascolterà – è nulla di meno che un concetto del tutto nuovo di Stato, lo Stato sicuritario.

Che cos’è uno Stato sicuritario? Essenzialmente, è uno Stato che pone la sicurezza al di sopra di ogni altra cosa, sicuramente al di sopra della democrazia, del dovuto rispetto della legge e dei diritti umani, tutte cose che considera “lussi liberali” in un mondo sopraffatto dal terrorismo. Israele si presenta niente di meno che come il modello per i Paesi del futuro. Voi europei ed altri non dovreste criticarci, dicono Katz e Netanyahu, dovreste imitarci. Guardate che cosa abbiamo fatto. Abbiamo creato una democrazia vivace dal Mediterraneo al fiume Giordano, che dispensa ai suoi cittadini una florida economia e la sicurezza personale – anche se la metà della popolazione di quel Paese sono dei terroristi (cioè palestinesi senza cittadinanza che vivono in enclave isolate del Paese). Se noi possiamo ottenere questo, potete immaginare che cosa possiamo offrire a chi di voi è minacciato dagli attacchi terroristici?

Con un brillante ribaltamento dell’immagine, Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in un’industria a domicilio. Etichettandola come “terrorismo”, non solo ha delegittimato la lotta palestinese, ma ha trasformato i territori occupati in un laboratorio di contro insorgenza e controllo della popolazione, gli elementi di avanguardia sia delle guerre estere che della repressione interna. Ha trasformato le tattiche di controllo e gli strumenti bellici dei sistemi di sorveglianza ad esse corrispondenti in prodotti commercializzabili. Non c’è da stupirsi, come ci ricorda costantemente Netanyahu, che “il mondo” ami Israele. Dalla Cina all’Arabia Saudita, dall’India al Messico, dall’Eritrea al Kazakhstan, Israele fornisce gli strumenti con cui i regimi repressivi controllano i loro popoli in agitazione.

La vasta portata militare di Israele è ben documentata. Si dispiega in oltre 130 Paesi ed ha apportato sei miliardi e mezzo di esportazioni nel 2016. Meno note ma più dannose per i diritti civili sono le esportazioni di Israele nel settore della sicurezza. Tre esempi:

1. Israele spinge le agenzie di sicurezza e le forze di polizia straniere a fare pressione per [l’adozione di] prassi da Stato sicuritario nei loro stessi Paesi. Irride alla mancanza di volontà delle democrazie occidentali di impiegare i profili etnici e razziali, come fanno la sicurezza e la polizia israeliane all’aeroporto internazionale Ben Gurion ed in tutto il Paese. In contesti specifici come gli aeroporti, i profili possono certamente essere efficaci – il Ben Gurion è senza dubbio uno degli aeroporti più sicuri al mondo – ma questo avviene al prezzo di umiliare e far perdere tempo alle persone prese di mira. Comunque, quando vengono estesi al resto della società, perdono quell’efficacia e quasi invariabilmente si trasformano in un metodo legalizzato di intimidazione nei confronti di chiunque un governo voglia controllare.

2. La polizia nazionale israeliana svolge decine di programmi e conferenze di formazione delle forze di polizia di tutto il mondo, in cui pone l’accento non sulle tattiche di polizia interne, ma piuttosto sulla “contro insorgenza interna” e la pacificazione delle popolazioni che creano problemi. Il Centro ‘International Law Enforcement Exchange’ della Georgia negli Stati Uniti sostiene che 24.000 poliziotti americani sono stati formati dalla controparte israeliana. A differenza di altri Paesi occidentali, che pongono un netto discrimine tra i loro militari che conducono operazioni all’estero e le proprie agenzie di polizia e di sicurezza interna incaricate di garantire la sicurezza, ma anche i diritti civili dei loro cittadini, Israele non ha simili limiti interni. L’esercito e la polizia costituiscono un’unità interconnessa, con forze paramilitari – lo Shin Bet (servizi di sicurezza interna, ndtr.), la polizia di frontiera, il comando patriottico, Yasam (unità speciale antisommossa della polizia israeliana, ndtr.) ed altre – che li mettono ulteriormente in comunicazione tra loro. Quindi in Israele la distinzione tra cittadini con diritti civili e non cittadini “sospetti” e presi di mira si perde, e si tratta di una distinzione che la politica israeliana tenta di cancellare anche nella sua attività di formazione della polizia straniera.

3. Israele è un leader mondiale nella messa in sicurezza delle città, dei grandi eventi e delle aree “non governabili”. C’è un legame diretto tra la chiusura dei quartieri, villaggi e campi profughi palestinesi e la vendita di queste tattiche alla polizia locale per creare “zone di sicurezza” sterilizzate e “difese perimetrali” intorno a centri finanziari, distretti governativi, ambasciate, sedi in cui il G-8 e la NATO tengono i loro incontri al vertice, piattaforme petrolifere e depositi di carburante, centri di conferenze in ambienti “insicuri” del Terzo Mondo, località turistiche, centri commerciali, porti ed aeroporti, siti di grandi eventi e le case e gli itinerari di viaggio dei ricchi. Israele è altrettanto coinvolto nella questione del muro di confine di Trump, che è soprannominato il “confine Palestina-Messico.”

Ci sono l’impresa israeliana Magna BSP, fornitrice dei sistemi di sorveglianza che circondano Gaza, che è entrata in partenariato con imprese statunitensi per inserirsi nel lucroso mercato della “sicurezza di confine” ; la NICE Systems, i cui tecnici sono laureati dell’unità di sorveglianza 8200 dell’esercito israeliano. La ‘Privacy International’ ha indagato su come i governi autocratici di Tajikistan, Kyrgyzstan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakhstan siano riusciti a monitorare attivisti per i diritti umani, giornalisti ed altri cittadini all’interno e fuori dai loro Paesi, rivelando i più intimi dettagli delle loro vite private. “I principali operatori”, ha concluso Human Rights Watch, “sono multinazionali con uffici in Israele – NICE Systems e Verint.”

Nella sua versione definitiva lo Stato sicuritario auspicato da Netanyahu e Katz è essenzialmente un modello di Stato di polizia in cui la popolazione è facilmente manipolata dall’ossessione della sicurezza. Il modello israeliano è particolarmente odioso perché funziona: ne è testimone la pacificazione dei palestinesi. Sembra senza dubbio un buon argomento pubblicitario. Il problema è che trasforma la gente stessa del Paese in palestinesi senza diritti. Sembrerebbe che lo Stato sicuritario possa conciliarsi con la democrazia – dopo tutto, Israele si spaccia come “l’unica democrazia nel Medio Oriente.” Ma solo i pochi privilegiati nel mondo potranno godere delle tutele democratiche dello Stato sicuritario, come fanno gli ebrei israeliani. Le masse, coloro che resistono alla repressione e all’esclusione da parte del sistema capitalistico, coloro che lottano per una vera democrazia, sono condannati ad essere palestinesi globali. L’ ‘israelizzazione’ di governi, eserciti e forze di sicurezza significa la ‘palestinizzazione’ della maggioranza di noi.

Jeff Halper è un antropologo israeliano, direttore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) ed autore del libro “Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” (Londra, Pluto Books, 2015).[di prossima edizione italiana, ndt]

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele revoca la cittadinanza a centinaia di beduini del Negev facendoli diventare apolidi

Jack Khoury – 25 agosto 2017,Haaretz

Alcuni erano cittadini da 40 anni, hanno fatto il servizio militare e pagato le tasse, ma si sono trovati con lo status di cittadini cancellato schiacciando un tasto e senza ulteriori spiegazioni.

Decine di persone – uomini e donne, giovani e anziani – si ammassano sotto una grande tenda nel villaggio non riconosciuto [villaggi, soprattutto di beduini, che esistono da decenni ma che lo Stato israeliano non riconosce come tali, ndt.] di Bir Hadaj. Alcuni tengono i documenti in una borsa di plastica mentre altri stringono logore buste. Quello che li ha portati in questo villaggio a sud di Be’er Sheva, nel deserto del Negev israeliano, è stato che l’Autorità per la Popolazione, l’Immigrazione e le Frontiere ha revocato la loro cittadinanza, sostenendo che gli è stata concessa per errore.

A giudicare dal crescente aumento di denunce che si sono accumulate negli ultimi mesi, questo sembra un vasto fenomeno tra i beduini che abitano nel Negev. Centinaia se non migliaia di loro stanno perdendo la cittadinanza a causa di “registrazioni sbagliate”. Questa è la giustificazione che hanno ricevuto dal ministero dell’Interno, senza ulteriori dettagli o spiegazioni.

Il cinquantenne Salim al-Dantiri, di Bir Hadaj , per anni ha cercato inutilmente di ottenere la cittadinanza israeliana. Non capisce perché Israele non gliela voglia concedere; suo padre è stato soldato dell’esercito israeliano. “A volte dicono che c’è stato un errore con la registrazione dei miei genitori decine di anni fa. E’colpa nostra?” chiede al-Dantiri. Non è l’unico, ma molti di quelli che sono venuti all’incontro sono restii a dire il proprio nome per timore che ciò possa danneggiarli nei rapporti con l’Autorità per la Popolazione. Altri hanno già perso la speranza.

Mahmoud al-Gharibi, della tribù Al-Azazme della zona di Be’er Sheva è un falegname che è rimasto disoccupato per un anno in seguito a un incidente stradale. Ha 12 figli da due mogli. Una è cittadina israeliana e l’altra è della Cisgiordania. Sette dei suoi figli sono cittadini israeliani ma lui è apolide dal 2000. “Sono andato al ministero dell’Interno per rinnovare la mia carta d’identità,“ racconta. “Lì, senza nessun preavviso, mi hanno detto che hanno annullato la mia cittadinanza in quanto c’era stato un errore. Non mi hanno detto di cosa si trattasse o cosa ciò significasse. Da allora ho presentato 10 ricorsi, ricevendo 10 rifiuti, ogni volta con pretesti diversi. Ho due figli che hanno più di 18 anni ed anche loro sono apolidi. E’ inaccettabile. Ho vissuto in questa zona per decine di anni e mio padre era qui prima di me. Se c’è stato un errore, dovrebbero correggerlo.”

Nella tenda un’altra persona, che desidera rimanere anonima, dice che “molte di queste persone, soprattutto quelle che non parlano molto bene l’ebraico, non capiscono cosa gli stia succedendo. Nessuno spiega niente e improvvisamente il tuo status cambia. Entri come cittadino ed esci privato della cittadinanza, e allora inizia un processo infinito di lungaggini [burocratiche].

Per anni Yael Agmon, dei dintorni di Yeruham, ha accompagnato beduini al ministero dell’Interno per aiutarli a fare le pratiche per il passaporto o il rinnovo della carta d’identità. In molte occasioni ha assistito alla revoca della loro cittadinanza. “Puoi chiaramente vedere come un impiegato inserisce i loro dati nel computer ed essi perdono istantaneamente la loro cittadinanza. Allora devono fare i conti con un processo burocratico infinito. A volte gli costa decine di migliaia di shekel [10.000 shekel = 2.355 €] per l’onorario degli avvocati e alla fine non sempre riottengono la cittadinanza,” dice.

Salman al-Amrat arriva all’incontro nella tenda a causa dello status di sua moglie e del suo figlio maggiore. Il cinquantaseienne membro della tribù Al-Azazme è cittadino israeliano. Sua moglie di 62 anni è apolide benché sia nata qui, dice. “Ogni volta che cerchiamo di avere la sua cittadinanza ci scontriamo con un rifiuto.” Anche il figlio maggiore di Al-Amrat, che ora ha 34 anni, è apolide benché i suoi fratelli minori abbiano finalmente ottenuto la cittadinanza. “Per anni abbiamo tentato di ottenere la cittadinanza per lui, ma inutilmente. Ogni volta dicono di aver perso qualche documento. Ora stiamo tentando con un avvocato. E’ illogico che sei dei miei figli ed io abbiamo la cittadinanza e il mio figlio maggiore no,” dice.

Atalla Saghaira, un abitante del villaggio non riconosciuto di Rahma, ha lottato durante 13 anni per ottenere la cittadinanza, nonostante il suo defunto padre abbia fatto il militare nell’esercito israeliano. Ha iniziato nel 2002, quando ha fatto richiesta di un passaporto e il ministero dell’Interno gliel’ha rifiutato. “Hanno detto che i miei genitori erano diventati cittadini, ma non ne avevano il diritto,” afferma. Alla fine ha ottenuto la cittadinanza israeliana nel 2015. “Ho insistito per avere i miei diritti ed ho iniziato da solo una campagna contro la burocrazia finché ho ottenuto la cittadinanza, ma so che c’è gente che ha rinunciato,” dice. Il padre di Saghaira è stato camionista nell’esercito per molti anni, e se n’è andato dopo essere rimasto ferito. All’epoca aveva sette figli (compreso Atalla), ma tre di loro sono ancora apolidi.

Un altro residente di Bir Hadaj, Abu Garud Salame, lavora nella zona industriale di Ramat Hovav. Sostiene che tutti i suoi cinque figli e tre dei suoi fratelli hanno ricevuto la cittadinanza israeliana ma a lui è stata negata ogni volta che ha chiesto che gli venisse restituita. “Abbiamo vissuto qui per decine di anni. I miei genitori sono stati registrati negli anni ’50 ed ora sono stato privato della cittadinanza. Anche se ci fosse stato qualche errore nella registrazione non so perché devo pagarne io le conseguenze,“ dice. “Perché dobbiamo essere responsabili di quello che è successo decenni fa?”

Cambiamento automatico di status

La parlamentare Aida Touma-Suliman della Lista Unitaria [coalizione di partiti arabo-israeliani arrivata terza alle ultime elezioni israeliane, ndt.] negli ultimi mesi ha ricevuto molti appelli da persone che sono state private della loro cittadinanza israeliana. L’avvocatessa Sausan Zahar del “Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele – Adalah” recentemente ha presentato ricorso al ministro degli Interni Arye Dery e al procuratore generale Avichai Mendelblit chiedendo loro di porre fine a questa politica.

Secondo la sua petizione, queste cancellazioni generalizzate della cittadinanza vanno avanti almeno dal 2010. Quando cittadini beduini vanno agli uffici del ministero degli Interni a Be’er Sheva per occuparsi di questioni di routine come cambiare il loro indirizzo, ottenere un certificato di nascita o per registrare un nome, l’anagrafe esamina il loro status e quello dei loro genitori e nonni, risalendo fino ai primi giorni dello Stato [di Israele].

In molti casi l’impiegato dice loro che la cittadinanza israeliana gli è stata concessa per sbaglio. Immediatamente cambia la loro condizione da cittadini a residenti e si consegna loro un nuovo documento. Alle persone che hanno perso la cittadinanza non viene data nessuna spiegazione né la possibilità di presentare ricorso. Invece l’impiegato gli suggerisce di presentare domanda ed iniziare il procedimento per ottenere la cittadinanza da zero, come se fossero appena arrivati in Israele.

Molti, presi di sorpresa e senza una consulenza legale, non sanno cosa fare. Alcuni presentano una richiesta di cittadinanza, mentre altri semplicemente si disperano. Zahar dice che molte richieste vengono rigettate per la perdita di documenti, per la fedina penale (che non è una ragione valida per negare la cittadinanza) o persino per la difficoltà del postulante a parlare ebraico. Molte donne beduine che hanno perso la cittadinanza ricadono in quest’ultima categoria. Una di queste donne ha presentato appello contro la cancellazione della sua cittadinanza in base ad un presunto errore. Quando si è scoperto che il suo ebraico era lacunoso, il suo appello è stato rigettato. E’ rimasta apolide.

L’appello di “Adalah” al ministro degli Interni evidenzia che persone che sono state cittadine per 20, 30 o persino 40 anni, alcune delle quali hanno fatto il militare, che hanno votato e pagato le tasse, si sono trovate con impiegati che hanno cancellato il loro status schiacciando un tasto. Come residenti permanenti, possono votare per le elezioni amministrative ma non possono candidarsi, votare per le elezioni politiche o candidarsi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. Ricevono servizi come quello sanitario e la sicurezza sociale, ma non possono avere un passaporto israeliano. Se stanno fuori dal Paese per un lungo periodo possono anche perdere la residenza permanente e, a differenza dei cittadini, non possono trasmettere automaticamente il loro status ai propri figli.

Tra quelli che restano senza cittadinanza israeliana ci sono persone nate in Israele da genitori che hanno la cittadinanza israeliana. Ci sono famiglie in cui un figlio è cittadino mentre un altro è residente permanente. Alcune delle persone colpite sono state private della loro cittadinanza quando hanno tentato di rinnovare il passaporto per andare in pellegrinaggio alla Mecca, un precetto obbligatorio dell’Islam e una cosa che ora non possono fare.

Registrazione durante il Mandato Britannico

Lo scorso anno la commissione della Knesset per gli Interni e l’Ambiente ha tenuto una discussione sul problema, in seguito alla serie di ricorsi per la restituzione della cittadinanza. Durante questa discussione i funzionari del ministero dell’Interno hanno confermato che questa politica esiste: quando cittadini beduini arrivano agli uffici del ministero, gli impiegati controllano l’anagrafe per [verificare] la registrazione dei loro genitori e nonni tra il 1948 e il 1952.

Forse quegli anni non sono stati scelti a caso. Tra la fondazione dello Stato [di Israele] nel 1948 e l’approvazione della legge sulla cittadinanza nel 1952, molti arabi non poterono registrarsi all’anagrafe in quanto le loro comunità erano governate da un’amministrazione militare. Ciò includeva zone del Negev che avevano un’alta concentrazione di abitanti beduini dopo il 1948. In molti casi controllare la registrazione dei nonni di una persona richiede la verifica della cittadinanza durante il Mandato Britannico – un periodo in cui la cittadinanza israeliana non esisteva neppure.

Dopo la discussione alla Knesset dello scorso anno, è stato chiesto al ministero dell’Interno di verificare le dimensioni del fenomeno, la sua legalità e tener aggiornata da allora la commissione per gli Affari Interni. Il capo del dipartimento per la cittadinanza del ministero, Ronen Yerushalmi, ha presentato i risultati al presidente della commissione, David Amsalem (del Likud), nel settembre 2016. Intitolato “Registrazioni errate dei residenti del Negev”, il rapporto afferma che “le dimensioni del problema possono riguardare 2.600 persone con cittadinanza israeliana, che potrebbero perderla a causa di errata registrazione da parte del ministero dell’Interno.” Aggiunge che, poiché non sono stati esaminati casi singoli, i dati non sono esatti e il numero potrebbe anche essere maggiore.

Durante un incontro della commissione nel dicembre 2015, il consulente legale della commissione, Gilad Keren, ha manifestato dubbi riguardo alla legalità della procedura: “La legge sulla cittadinanza si riferisce a casi in cui la cittadinanza è stata ottenuta in base a dati falsi, vale a dire in circostanze più gravi, non quando lo Stato ha commesso un errore. Riguarda persone che hanno fornito informazioni false prima di ottenere la cittadinanza. La legge consente al ministero dell’Interno di revocare la cittadinanza solo se sono passati meno di tre anni da quando è stata concessa. Dopo quel periodo per revocarla c’è bisogno dell’intervento di un tribunale. Quindi non capisco come, quando una persona è stata un cittadino per 20 anni e lo Stato fa un errore, lo status di questa persona venga modificato.”

Il ricorso di “Adalah” al ministro dell’Interno e al procuratore generale chiede una sospensione immediata della prassi di cancellazione della cittadinanza. Zahar sostiene che la persona colpita da questa cancellazione non ha neppure il diritto ad un processo prima che la sua cittadinanza israeliana gli venga ritirata. Oltre ad infrangere il diritto alla cittadinanza, scrive, questa politica viola in modo palese il diritto all’uguaglianza. Si fonda in modo discriminatorio sulla nazionalità, in quanto i cittadini non ebrei si sono trovati con la revoca della cittadinanza in seguito ad un errore nella registrazione dei loro genitori o nonni in base alla “Legge del Ritorno” [che consente a chiunque sia ebreo di ottenere la cittadinanza israeliana, ndt.].

Temo che quello che si vede sia solo la punta dell’iceberg e che quello che non si è ancora visto sia ancora più grave,” afferma Touma-Suliman. Dice che se Dery e Mendelblit non risolvono presto la questione, questa arriverà all’Alta Corte di Giustizia. “Non ci sono giustificazioni per questa politica,“ dice. “Il ministero viola in modo evidente la legge. E’ inaccettabile che in una famiglia che vive sotto lo stesso tetto metà dei bambini siano cittadini mentre l’altra metà siano residenti o persone con uno status indeterminato.”

Haaretz ha contattato una serie di importanti ex funzionari del ministero dell’Interno e dell’Autorità per la Popolazione, compreso il capo dell’agenzia fino al 2010, Yaakov Ganot, e Amnon Ben-Ami, il suo direttore fino a poco tempo fa. L’ex ministro dell’Interno Eli Ben-Yishai, che ha recentemente ricoperto l’incarico nel 2013, ha affermato che se è stata presa una decisione per revocare la cittadinanza dei beduini del Negev, “non ne so niente e non ricordo di aver avuto una discussione riguardo a questo problema durante il mio mandato.”

L’Autorità per la Popolazione ha risposto che i casi succitati non erano esempi di revoca della cittadinanza ma di errori di registrazione nel passato, in cui persone sono state registrate come cittadini ma non lo erano. Ha detto che ora è il momento di risolvere il problema, aggiungendo che il ministero sta discutendo della questione, il ministro ha preso una decisione e la commissione per gli Affari Interni della Knesset è stata informata. Afferma che “sono stati fatti dei tentativi per affrontare questo problema dal punto di vista legale in un modo che non colpisca lo status in Israele di queste persone.” L’Autorità per la Popolazione sostiene anche che il procuratore generale si occuperà del ricorso presentato da “Adalah”.

L’ufficio di Dery ha insistito sul fatto che i casi non erano assolutamente esempi di revoca della cittadinanza ma piuttosto situazioni di risistemazione dello status legale. “Il ministero ha destinato funzionari presso l’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione per occuparsi del processo che riguarda questo gruppo di persone nel modo più facile e semplice possibile. Il ministro Dery ha chiesto loro di trovare ogni modo possibile per accelerare la procedure nel tentativo di evitare di imporre loro qualunque tipo di disagio,” afferma l’ufficio.

L’ufficio del procuratore generale ha detto ad “Adalah” che l’anagrafe generale sta procedendo ad un esame di migliaia di persone che sono state erroneamente registrate come cittadini invece che come residenti permanenti. La risposta afferma che a coloro i quali vengano trovati registrati come tali per errore sarà concesso di ottenere la cittadinanza con un processo accelerato, nel caso in cui rispondano ai criteri legali.

In base alla risposta, finora a nessuno è stata negata la cittadinanza ed i diritti dei residenti sono stati rispettati. Di conseguenza la risposta afferma che la Procura Generale non vede ragioni per intervenire sulla decisione dell’Autorità per la Popolazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Solo i palestinesi possono cambiare la loro realtà

Amira Hass, 23 agosto 2017, Haaretz

I palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

Cominciamo dalla fine: anche se i palestinesi avessero un’unica, unita, rispettata leadership che avesse una reputazione di integrità, ed anche se i suoi membri avessero eccellenti doti intellettuali, si dedicassero al loro popolo ed avessero capacità strategiche, sarebbe stato difficile per loro sfidare l’ attività di esproprio/acquisizione che Israele continua a rafforzare e intensificare. Difficile, ma possibile.

Ma non c’è un’unica leadership, ce ne sono parecchie, e litigano tra di loro anche quando appartengono allo stesso partito (Fatah), organizzazione (OLP) o contesto istituzionale (due governi). Non è colpa del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma di un sistema e di un modus operandi di cui lui è al tempo stesso uno dei creatori ed uno dei risultati.

L’atteggiamento della popolazione verso la leadership è caratterizzato da sospetto, sdegno e disprezzo, insieme a paura. Le accuse più blande rivolte alla leadership di Ramallah parlano di mancanza di organizzazione, inefficienza e indolenza. Quelle più gravi riguardano la corruzione e l’attaccamento al potere per motivi personali e settari. Accuse simili sono lanciate in modo leggermente meno esplicito al governo ed alle Ong di Gaza.

A molti è chiaro che il quadro di riferimento di Oslo, che è scaduto nel 1999, era una trappola. I Paesi donatori a favore dei palestinesi continuano a sostenerlo per timore di un disastro umanitario ancor più grave, della perdita di controllo e perché sono incondizionatamente fedeli ad Israele. Le donazioni sono diminuite, ma restano una trappola. Implicano obbedienza e mantenimento della “calma”, o consentono solo una collera di bassa intensità. Ma i palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

La testa gira ed il cuore duole, perché di fronte a loro c’è un nemico sofisticato, malvagio ed efficiente, che non ha confini.

Visivamente, l’immagine di una piovra potrebbe essere appropriata, ma vi sono due problemi nell’utilizzarla per raffigurare il regime israeliano. Uno è che ricorda le caricature antisemite, ma quello è il problema di un regime che imita le caricature. Il secondo è che Israele sfodera molto più di otto tentacoli, in quanto mette insieme diverse tradizioni di dominazione – occupazione militare, colonialismo (l’espulsione di un popolo dalla sua patria per insediare altri al suo posto) e apartheid (poiché l’espulsione non è del tutto riuscita, ne è seguita la separazione basata sull’ineguaglianza). Dovrebbe essere chiaro che questo si riferisce alla situazione su entrambi i lati della Linea Verde (linea di demarcazione tra Israele ed i Paesi arabi confinanti fino alla guerra del 1967, ndtr.). Israele ha avuto un’opportunità per cambiare nel 1993. Ha scelto di non coglierla.

Un’immagine più adeguata potrebbe essere quella di un computer che emette comandi in tutte le direzioni. Una volta programmato, non si ferma più. Spedisce squadre armate a irrompere nelle case della gente mentre dorme ed a confiscare denaro e proprietà; squadroni di distruzione a demolire asili, case e pozzi: squadre armate non ufficiali a scacciare pastori e contadini. Impiega anche ladri di terra – funzionari, progettisti, architetti e imprese di costruzione – che fanno in modo che i palestinesi soffochino nei loro centri abitati. Lo spazio è tutto per gli ebrei, dice il comando supremo. Il computer emette anche comandi mentali: ignora qualunque cosa dedicandoti in modo esclusivo all’eredità ebraica. Attraverso l’orgoglio per la nostra Nazione, che produce premi Nobel, elimina qualunque altra cosa come non importante. Declama la nostra sofferenza ed eroismo ad Auschwitz.

Contro gli efficienti e complessi apparati israeliani stanno i palestinesi, con una pletora di dirigenti in competizione, strategie in conflitto, ministri del governo che non si coordinano tra loro, un’informazione che non è di dominio pubblico e non è accurata, la faticosa duplicazione di istituzioni il cui lavoro si sovrappone, i vuoti slogan e la disperazione. Una manifestazione di questa disperazione è l’enunciato che Israele è la parte forte, per cui il cambiamento può e deve venire solo da Israele. Ma no, gli israeliani non hanno interesse a cambiare la situazione. Noi ne traiamo beneficio. La spinta al cambiamento può e deve venire dagli stessi palestinesi, a casa loro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Acquirente fai attenzione: l’impresa israeliana che aiuta i governi a spiare i loro stessi cittadini

Richard Silverstein ,martedì 22 agosto 2017, Middle East Eye

Consentendo ai governi di violare i telefoni dei loro cittadini, un’azienda israeliana di sicurezza informatica ha presumibilmente reso il mondo più pericoloso per gli attivisti a favore dei diritti umani che lottano contro l’impunità delle imprese e degli Stati.

Dato che negli ultimi anni gli smartphone si sono moltiplicati e sono diventati un mezzo di comunicazione indispensabile per tutti noi, si sono moltiplicate anche le nuove aziende che si dedicano a violare questi telefoni a favore di governi – compresi i servizi militari, dello spionaggio e della polizia.

I clienti di queste imprese innovative utilizzano la nuova tecnologia per sorvegliare criminali e terroristi, per individuare e far fallire i loro piani. Questo è un uso legittimo. Ma ce ne sono altri che sono molto più redditizi per le imprese – e molto meno accettabili per le società democratiche.

Prendiamo per esempio l’attivista per i diritti umani degli Emirati [Arabi Uniti] Ahmed Mansoor. Nell’agosto 2016 ha ricevuto un messaggio ingannevole [ phishing message] che sembrava provenire da una fonte fidata. Ma si è insospettito ed ha immediatamente inviato il suo telefono a “Citizen’s Lab” [Laboratorio del Cittadino, centro studi interdisciplinare che si occupa del controllo sulle informazioni, ndt.] dell’università di Toronto per un’analisi forense.

Da questa verifica è risultato che le autorità degli Emirati si erano procurate “Pegasus”, il più potente programma di malware [sistemi usati per apportare modifiche indesiderate ad un apparecchio informatico, ndt.] mai creato che si possa trovare sul mercato e venduto dall’azienda israeliana “NSO Group”.

Se Mansoor avesse aperto il link, esso avrebbe preso il controllo del suo telefono e consentito alla polizia di accedere non solo a tutto quanto vi si trovava (email, contatti e messaggi di testo, per esempio), ma anche alla macchina fotografica, al video e all’audio. La polizia avrebbe sentito e visto tutto quello che faceva e sarebbe stata in grado di prevenire ogni sua azione.

      1. Attacchi di “Pegasus”

In un caso collegato del 2016, le autorità degli EAU hanno anche utilizzato “Pegasus” in un tentativo di intrusione che ha preso di mira il giornalista di MEE Rory Donaghy, che informava in modo critico sui soprusi del regime autocratico del Paese. Nel pieno di un’inchiesta su questo attacco, il “Citizen’s Lab” ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti del regno erano stati presi di mira allo stesso modo e che il governo aveva pagato a “NSO Group” 600.000 dollari per questi tentativi [di intercettazione].

Anche se è un prodotto commerciale, “Pegasus” – come molti altri strumenti simili per lo spionaggio ora sul mercato – è chiaramente anche un mezzo politico che consente a regimi autoritari di spiare i propri cittadini.

Infatti potrei andare anche oltre e dire che “Pegasus” è spesso utilizzato come arma informatica offensiva usata dall’élite mondiale per proteggere i propri interessi e contrastare il legittimo controllo da parte delle Ong e di altre associazioni di attivisti.

Il governo compra (la tecnologia) e può usarla come vuole,” ha detto a “HuffPost” Bill Marczak, un ricercatore di “Citizen’s Lab” che ha analizzato molte campagne di controllo che secondo lui sono state condotte con “Pegasus”.

Sono praticamente dei mercanti di armi digitali.”

Nelle ultime settimane il gruppo finanziario privato che possiede “NSO Group”, valutato oggi 1 miliardo di dollari, ha cercato di vendere la compagnia, sollevando grandi questioni tra gli attivisti dei diritti digitali in merito a se un nuovo investitore ridurrà il sospetto uso del sistema di spionaggio dell’azienda contro dissidenti politici ed attivisti da parte di alcuni governi.

      1. Dall’esercito alla tecnologia

Ci sono parecchie imprese che creano questo tipo di software maligni in vari Paesi, ma alcune di quelle di maggior successo sono israeliane.

Ciò è principalmente un risultato della “SIGINT-Unità 8200”, la più numerosa dell’esercito israeliano, che spia i segnali elettromagnetici, monitora, intercetta e sorveglia i nemici di Israele in Medio Oriente e in tutto il mondo.

I suoi ufficiali ricevono l’addestramento più sofisticato nello spionaggio ed uso dei segnali e creano la tecnologia più avanzata per farlo. Quando lasciano il servizio attivo trovano le porte aperte nel mondo tecnologico. Possono avere un lavoro molto ben remunerato nelle grandi imprese o utilizzare le competenze che hanno acquisito nell’esercito per fondare un’azienda innovativa propria.

Alcune delle aziende di maggiore successo includono Waze, Wix, Taboola, NICE Systems, Amdocs, Onavo (acquistata da Facebook per 150 milioni di dollari), Checkpoint, Mirabilis e Verint. 

Molti dei progetti riguardano la sicurezza informatica, che è quello che l’ “Unità 8200” è stata costituita per debellare nei suoi tentativi di intercettare le comunicazioni delle forze nemiche di Israele. Alcune iniziative sono concentrate sulla protezione della sicurezza informatica. Questi sono i bravi, o i “cappelli bianchi” nella terminologia degli hacker.

Ma altri continuano lungo la direzione che gli hacker dell’”Unità 8200” perseguono durante il servizio militare: sono destinati ad aggirare le funzioni di sicurezza di vari sistemi.

Forse quella che ha avuto più successo tra queste imprese è “NSO Group” che si trova a Herziliya [importante università privata israeliana in stretti rapporti con i servizi di sicurezza, ndt.], il cui motto è “rendi il mondo un posto più sicuro.” Ma l’azienda ha reso sicuramente il mondo molto più pericoloso per un gran numero di attivisti politici e per i diritti umani che lottano contro l’impunità di imprese e governi.

      1. Vulnerabilità da miliardi di dollari

NSO” è stata fondata nel 2010 da due veterani dell’esercito israeliano, Shalev Hulio and Omri Lavie, che non erano stati nell’“Unità 8200” (nonostante informazioni in contrario). Secondo la rivista israeliana “Globes” [quotidiano di informazioni finanziarie, ndt], Lavie ha fatto il militare nei corpi di artiglieria e Hulio nel servizio di ricerca e soccorso.

Alle scuole superiori né Hulio né Lavie erano studenti particolarmente brillanti e, secondo le informazioni del “Globes”, hanno passato un sacco di tempo insieme sulla spiaggia. Dopo aver lasciato l’IDF, hanno deciso di diventare imprenditori di servizi in rete.

NSO” è la loro terza e di gran lunga più importante iniziativa imprenditoriale di successo. Secondo i fondatori, la sua nascita è avvenuta per puro caso. Vari clienti avevano chiesto loro se ci fosse un modo per prendere il controllo di un cellulare senza avere accesso fisico all’apparecchio reale.

Benché avessero sentito dire che c’era [questa possibilità], non riuscivano a trovare nessun ingegnere informatico che avesse idea di come farlo, finché un giorno, seduti in un caffè, i due udirono per caso parlarne veterani dell’“Unità 8200”. Così nel 2010, proprio quando gli smartphone stavano per essere trasformati da oggetti per un solo uso in apparecchi quotidiani potenti, multiuso e indispensabili, fondarono “NSO”.

Iniziarono a farsi una clientela tra le forze di polizia di vari Paesi, offrendo la possibilità di spiare criminali sospetti in modi che nessuno aveva mai previsto. Fondarono una succursale per le vendite negli USA, “WestBridge Technologies”, per incentivare la penetrazione commerciale in uno dei loro maggiori mercati potenziali.

Attraverso la “Francisco Partners”, la società di capitale di rischio che nel 2015 ha comprato “NSO”, questa è finita sotto l’egida di un’impresa che possiede una serie di altre compagnie di telecomunicazioni che hanno fornito informazioni sensibili per fare passi avanti nelle possibilità di hackeraggio. Per esempio, “Intelligence Online” [rivista informativa nel campo dell’informatica, ndt.] riporta che Boaz Goldman è presidente del consiglio di amministrazione di “Inno Networks”, che installa reti di comunicazione mobile (3G e 4G). E’ appena entrato nel consiglio di amministrazione di una holding con sede in Lussemburgo che include “NSO Group” in un complicato rapporto finanziario. Questo accordo d’affari fornisce all’azienda di armi informatiche un accesso diretto a grandi reti (SS7 – Signal System 7) utilizzate per trasmettere testi, email, chiamate telefoniche, dati di geo-localizzazione e chiavi di cifratura.

NSO” ha anche iniziato a crearsi fonti che gli forniscono accesso a prototipi di modelli di cellulari prima che vengano immessi sul mercato, il che gli permette di fare analisi scientifiche in modo che gli ingegneri di “NSO” possano cercare falle di vulnerabilità che consentano un accesso totale ai telefoni che i loro clienti desiderano prendere di mira.

      1. Zona grigia

Si potrebbe pensare che i produttori di telefonini intendano proteggere i propri prodotti come Fort Knox [area militare in cui sono conservate le riserve auree e monetarie degli USA, ndt.] e vietarli agli sguardi loschi di hacker come “NSO”. Ma l’impresa opera in una zona grigia e cerca di garantirsi quello di cui ha bisogno da varie fonti sia all’interno che all’esterno delle industrie produttrici.

Prima dei portatili, i criminali comunicavano nel modo in cui lo facevano tutti: con telefoni fissi, mail o di persona. La tecnologia per intercettare o controllare queste comunicazioni era semplice e primitiva: per i telefoni si usava una “cimice” [microspie per l’ascolto di conversazioni private, ndt.] su una linea telefonica.

La cimice avrebbe dovuto presumibilmente essere approvata da un giudice ed essere messa in funzione con l’aiuto di una compagnia telefonica. C’era un processo di controllo e questo veniva in genere rispettato, almeno nelle società democratiche.

La comunicazione elettronica ha cambiato tutte le regole, aprendo nuove modalità per spiare le singole persone. Si possono intercettare dall’esterno i segnali di comunicazione tra chi parla. “NSO” ne ha approfittato, sviluppando un programma che, una volta scaricato, prenderà il controllo del telefonino di chi lo utilizza.

Così non c’è più bisogno di intercettare telefonate, perché il cliente di “NSO” è effettivamente all’interno dello stesso telefono. Le forze di polizia ed i governi possono distruggere i piani per commettere reati o attacchi terroristici prima che avvengano e preservare l’ordine pubblico.

      1. Una breccia delle dimensioni di un camion

Ma c’è un aspetto problematico in questa tecnologia per altri versi benefica: “NSO Group” controlla solo quelli che l’hanno comprata, non l’utilizzatore finale. Il primo cliente può offrirla ad altri individui o enti nel suo governo, o creare un’identità commerciale fittizia per celare l’uso finale che farà di “Pegasus”.

NSO” sostiene di seguire tutte le regole israeliane che governano l’esportazione dei suoi prodotti e vende solo agli alleati di Israele e mai ai suoi nemici. Sostiene anche di vendere solo a governi e mai a singoli individui o ad utilizzatori non autorizzati. Afferma che “Pegasus” è previsto solo per lottare contro criminali e terroristi e mai per essere usato a fini politici.

Tuttavia sottolinea che, una volta che ha venduto il prodotto, non ha il controllo (o per lo meno questo sostiene) su chi usa la tecnologia o sul come. Questa è una breccia abbastanza grande da farci passare un camion Mack [marca che produce negli USA camion enormi, ndt.], e consente ad “NSO” – e a decine di altre imprese di spionaggio informatico che offrono programmi simili – di evitare la responsabilità sui modi ripugnanti in cui la loro tecnologia viene usata.

Nel caso di Mansoor l’hackeraggio è stato diretto contro un cittadino considerato un criminale dallo Stato. Ma egli non lo è da nessun punto di vista riconosciuto da una società democratica. Non è stato imputato di nessun reato, di aver rapinato qualcuno o di aver messo una bomba. Nel 2011 è stato condannato a tre anni con l’accusa di oltraggio allo Stato (in seguito è stato amnistiato e liberato) – e ciò a quanto pare è stato sufficiente in un regime autocratico come quello degli EAU per considerarlo sospetto.

La tecnologia dell’”NSO” è caduta in cattive mani anche in Messico. Come ha informato il “New York Times”, i telefoni di attivisti politici, per i diritti umani e contro la corruzione messicani che stavano facendo un’inchiesta su possibili delitti commessi dal governo e dai suoi agenti sono stati infettati da “Pegasus”. Il “Times” afferma che le vittime se ne sono accorte per la prima volta nell’estate 2016.

Una di queste era l’avvocato che rappresenta i genitori di 43 studenti medi uccisi dalla polizia messicana in un caso per cui non è mai stata perseguita. Altri stavano facendo un’inchiesta sulla corruzione di dirigenti d’azienda collusi con rappresentanti eletti.

Secondo mail interne della “NSO” datate a partire dal 2013 e lette dal “New York Times”, il governo messicano ha pagato alla “NSO” più di 15 milioni di dollari per tre progetti. Funzionari messicani hanno negato di essere coinvolti nello spionaggio ed hanno aperto un’inchiesta.

Questi usi violano le disposizioni della licenza di esportazione israeliana in base alla quale “NSO” vende i propri prodotti. Ma ci sono scarse possibilità che i funzionari israeliani intervengano in questo caso. Sono interessati a promuovere le esportazioni israeliane, non a limitarle. Né vedono il proprio ruolo come un servizio di censori nei confronti del comportamento delle imprese israeliane.

Middle East Eye” ha contattato l’agenzia di controllo dell’esportazione per la difesa del Ministero della Difesa israeliano per chiedere di commentare i suoi rapporti con “NSO”. Non ha risposto prima che questo articolo venisse pubblicato. Abbiamo anche posto delle domande all’ufficio stampa del Ministero della Difesa, e neppure questo ha risposto a tempo per la pubblicazione.

Per esempio, molti esportatori di armi israeliani sono sospettati di essere impegnati in truffe e altre pratiche corruttive per ottenere contratti per la vendita di armamenti con eserciti stranieri. Poche tra queste imprese sono state messe sotto inchiesta dalle autorità israeliane, benché a parecchie sia stato vietato di fare affari in vari Paesi.

Citizen Lab” ha detto a “Forbes” che “NSO” ha registrato domini in Israele, Kenya, Mozambico, Yemen, Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Uzbekistan, Thailandia, Marocco, Ungheria, Nigeria e Bahrain, suggerendo che “Pegasus” potrebbe essere stato usato in questi Paesi, anche se non ci sono prove evidenti.

Secondo email interne, contratti e proposte di “NSO” visionate dal “New York Times”, “NSO” fa pagare ai clienti 650.000 dollari per spiare i proprietari di 10 iPhone, più 500.000 dollari di commissione per la configurazione.

E’ evidente quanto questo affare possa essere una miniera d’oro – ed anche perché “NSO” potrebbe essere tentata di allentare le considerazioni etiche per massimizzare il suo profitto potenziale. “Middle East Eye” ha cercato un cofondatore di “NSO” e l’addetto stampa dell’impresa per un commento. Nessuno ha risposto.

Da imprenditori astuti quali sono, Lavie e Hulio hanno deciso di poter giocare da entrambi i lati. E’ così che nel 2013 hanno fondato “Kaymera”, un’altra azienda tecnologica con sede nell’università di Herzilya destinata a proteggere i clienti contro intrusioni informatiche indesiderate.

Nella maggior parte delle iniziative imprenditoriali, questo passaggio del confine avrebbe fatto scattare l’allarme. Ci potrebbero essere dei vantaggi nel condividere informazioni: non appena un ingegnere dell’ “NSO” ha individuato il punto debole di un’impresa, potrebbe condividerlo con “Kaymera” per risolverlo.

Ma con la stessa facilità potrebbe succedere il contrario: “Kaymera” potrebbe informare “NSO” dei punti deboli che ha scoperto nei sistemi informatici o di comunicazione di un cliente. Questa informazione potrebbe effettivamente essere monetizzata a favore di entrambe le aziende. Middle East Eye ha contattato “Kaymera” per avere un commento e l’impresa non ha risposto.

Il problema è che, in uno Stato di sicurezza nazionale come Israele, considerazioni etiche come queste passano in secondo piano rispetto ai benefici per la sicurezza e finanziari.

      1. Unicorni e galline dalle uova d’oro

La crescente clientela di “NSO” e i profitti che genera hanno attirato l’attenzione di società di capitale di rischio alla ricerca di opportunità di investimenti lucrosi. Una di queste è stata la società privata di investimenti “Francisco Partners” con sede negli USA.

Nel 2014 la società ha comprato una quota di maggioranza in “NSO” per 120 milioni di dollari. Le migliori società finanziarie investono in un’impresa per un lungo periodo, offrendo non solo un investimento di capitale, ma anche consulenza strategica e gestionale. Ma altre investono a breve termine. “Francisco” è una di queste.

Cosa interessante, “Francisco Partners” e un ramo di “NSO” hanno un passato di rapporti con l’ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump Michael Flynn, che ha dato le dimissioni in febbraio dopo indiscrezioni sui suoi rapporti con la Russia.

Secondo moduli informativi finanziari, una controllata di “NSO” con sede in Lussemburgo, “OSY Group”, ha pagato a Flynn 40.280 dollari per il suo ruolo come membro del consiglio di amministrazione dal maggio 2016 al gennaio scorso. Flynn – che avrebbe lavorato per molte imprese di sicurezza informatica – è stato anche consulente del socio proprietario di “NSO”, “Francisco Partners”, ma non ha mai rivelato quanto lo hanno pagato.

Un mese prima che Flynn entrasse nel consiglio di amministrazione di “OSY”, “NSO Group” ha aperto una nuova branca nella zona di Washington chiamata “WestBridge Technologies” che, secondo l’ “Huffington Post”, è “in lizza per contratti con il governo federale per prodotti del gruppo “NSO”. Assumere Flynn avrebbe messo a disposizione di “NSO Group” una figura con ottimi contatti a Washington, per aiutarla a inserirsi nel mondo notoriamente esclusivo della destinazione dei fondi dei servizi segreti.”

Francisco Partners” ha tenuto “NSO” solo per un anno prima di iniziare a venderla con una valutazione di un miliardo di dollari. Nelle scorse settimane “Blackstone Group”, una delle più grandi società finanziarie di Wall Street, avrebbe accettato di acquistare una quota del 40% in “NSO”.

Un investimento di 400 milioni di dollari da parte di “Blackstone” avrebbe fatto diventare “NSO” un “unicorno” (una startup che ha raggiunto il valore di un miliardo di dollari o più) ed offerto ai suoi fondatori – e a “Francisco Partners” – un enorme guadagno.

Data la maggiore penetrazione nel mercato mondiale che l’investitore “Blackstone” avrebbe fornito a “NSO”, le notizie hanno preoccupato gli attivisti per la libertà nella rete.

Access Now”, una Ong statunitense che sostiene un internet libero e democratico, ha dato vita ad una petizione on line ed a una campagna con l’intenzione di informare l’opinione pubblica sul modello di attività di “NSO”. “Citizen Lab” si è unito al progetto scrivendo una lettera aperta al consiglio di amministrazione di “Blackstone”, invitandolo a “considerare con attenzione le implicazioni etiche e per i diritti umani” del loro potenziale investimento.

      1. Blackstone” si ritira

Questa settimana sono comparse notizie secondo cui “Blackstone” è uscita dalle trattative con “NSO” senza arrivare ad un accordo. Rispondendo ad una richiesta di commento da parte di “Middle East Eye” nel giorno in cui è stata annunciata la fine dei colloqui, un rappresentante di “Blackstone” ha rifiutato di commentare l’affare. Un’altra società di investimenti, “ClearSky Technologies”, avrebbe accettato di acquistare una quota del 10% in “NSO”. Ma anch’essa ha confermato a “Middle East Eye” che non investirà nell’azienda.

Un portavoce di “NSO” ha rifiutato di discutere con la Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] dei colloqui o del perché sono saltati.

Ma pare probabile che la polemica generata da “Access Now” e le questioni sollevate dai giornalisti abbiano reso prudente la società sulla responsabilità che si sarebbe accollata.

Finché ‘Blackstone’ non parla,” ha detto Peter Micek, consulente legale di ‘Access Now’, “non sapremo se hanno ascoltato le voci di difensori dei diritti umani, giornalisti e vittime di reati le cui vite sono state sconvolte dagli strumenti di ‘NSO Group’”.

Ma questo accordo defunto dimostrerà ad altri investitori, compreso l’attuale proprietario di ‘NSO’, ‘Francisco Partners’, che non c’è niente da guadagnare – e tutto da perdere – nell’investire nelle violazioni dei diritti umani.”

Tutto ciò mette in luce nuove domande su come “NSO” fa affari e sull’inconsistenza del suo modello etico. Perché, per esempio, “Pegasus” perde il simbolo e il controllo di “NSO” una volta che viene concessa la licenza ad un cliente? Perché l’azienda non può fissare condizioni esplicite nei suoi contratti stabilendo da chi e come sarà utilizzato?

      1. Condizioni di utilizzo

Sembra ridicolo che un’impresa, la cui tecnologia è destinata a infiltrarsi e controllare le attività di singole persone prese di mira, non sia in grado di monitorare gli usi a cui vengono destinati i suoi prodotti.

Ovviamente, se “NSO” potesse controllare come i clienti utilizzano i suoi prodotti, potrebbe essere ritenuta responsabile se violano le condizioni di utilizzo. Gli attivisti per i diritti umani presi di mira o imprigionati a causa di “Pegasus” potrebbero forse fare causa per le proprie sofferenze a “NSO” in qualche sede giurisdizionale. Questa sarebbe un’ulteriore ragione per cui “NSO” preferisce non sapere quello che succede una volta che il suo malware lascia i suoi server.

E’ indispensabile che il futuro acquirente ne sia consapevole e risponda a queste preoccupazioni in modo costruttivo. Inoltre gli Stati che sono già clienti di “NSO” devono fare un lavoro molto migliore per monitorare come la tecnologia per la sorveglianza viene utilizzata nelle zone di loro competenza.

Gli Stati che stanno pensando di diventare clienti di “NSO” devono anche fornire tutele per garantire che “Pegasus” venga usato unicamente contro i veri cattivi, ma non contro civili, fautori del benessere pubblico, avvocati, giornalisti o attivisti politici.

Richard Silverstein scrive sul blog “Tikun Olam”, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro è comparso su “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di far sentire la propria voce] (Verso), e a un altro saggio nella raccolta di prossima pubblicazione “Israel and Palestine: Alternative Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di sovranità nazionale] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)