Gli israeliani che prendono molto sul serio la ricostruzione del Terzo Tempio

Ayelett Shani – 10 agosto 2017, Haaretz

Eran Tzidkiyahu, una guida per il conflitto israelo-palestinese, spiega perché gli attivisti del Tempio sono così determinati – e come la loro missione entra in conflitto con una parte fondamentale dell’identità palestinese.

Colloquio con: Eran Tzidkiyahu, 36 anni, ricercatore presso il “Forum per la Riflessione Regionale” e guida di percorsi “geopolitici”. Dove: ai piedi del Monte del Tempio. Quando: domenica [6 agosto]

Cosa vuol dire che lei è una “guida geopolitica”?

Significa che sono impegnato nel conflitto dalla prospettiva dei suoi aspetti geografici e politici. Essenzialmente, porto in giro le persone e mostro loro il conflitto sul campo – sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], nei territori, nelle colonie. In luoghi che sono sacri per gli ebrei, i cristiani e i musulmani.

Quali persone sono interessate a questo tipo di visite?

Rappresentanti di varie organizzazioni della società civile, studenti e docenti di università israeliani e del resto del mondo, ebrei americani, gruppi di rabbini. Non molto tempo fa ho guidato importanti funzionari del Mossad [servizio segreto israeliano, ndt.]

Stamattina presto siamo anche saliti sul Monte del Tempio. Il poliziotto all’entrata ha chiesto se volevamo una scorta, ci ha avvertito di non toccare niente, di non entrare nelle moschee. Ha detto che la situazione è delicata.

Penso che ci dobbiamo fermare un attimo e guardare questo posto da di fuori. Cerco di leggere lo spazio come se fosse un testo. Non sono interessato solo agli eventi principali che si stanno svolgendo, ma anche alle piccole cose che li circondano. La guardia, il rancore degli Haredim (ebrei ultra-ortodossi) che attendono sul ponte. Le conversazioni dei poliziotti.

Interessante. Cosa vede lei che io non posso vedere?

Per esempio, tutte le entrate al Muro del Pianto (Spianata) sono molto larghe. Solo l’entrata (per i non-musulmani) al Monte del Tempio è stretta e in disparte. Lo Stato non è interessato a che vi si entri, intenzionalmente non fa un ingresso in un terminal con 10 punti di controllo. No, è piccolo e gli ebrei che stanno lì vi vengono trattenuti per un bel po’ di tempo.

Prima che perquisissero la mia borsa, lei mi ha chiesto se avessi portato una copia del Libro dei Salmi. Lei ha detto che ci avrebbe potuto provocare più problemi del tablet e del registratore. Che cosa intende?

Gli ebrei non hanno il permesso di portare oggetti religiosi sul Monte del Tempio. La polizia impone lo status quo che vieta agli ebrei di praticare riti sul Monte. E se qualcuno non è al corrente di ciò ed è in possesso di un simile oggetto, il suo ingresso al Monte del Tempio sarà notevolmente ritardato.

Ma c’era un folto gruppo di ebrei haredim [ebrei ultra-ortodossi, ndt.] che aspettavano di salire. Non portavano siddurim (libri di preghiera)?

Per loro ci sono armadietti speciali in basso in cui sistemare i loro oggetti. Chiunque tiri fuori un libro ebraico sulla spianata del Monte del Tempio è immediatamente arrestato dalla polizia. Una novità che ho notato oggi per la prima volta è che hanno sistemato dei parasole lungo il percorso. Qualcuno ha preso la decisione di fare ombra a questa stretta e scomoda colonna di persone che aspettano in fila.

E lei cosa ne pensa?

Secondo me riflette un cambiamento di approccio da parte della polizia. Penso sia una prova del grande numero di pressioni esercitate sulle autorità responsabili del Monte del Tempio, da vari gruppi a favore del Tempio. Che questi gruppi stanno diventando sempre più potenti.

Forse mi potrebbe dire qualcosa di questi gruppi del Tempio.

Attualmente è un vero insieme di organizzazioni, gruppi ed individui che pongono il Monte del Tempio in cima ai loro programmi, sia che si tratti di ottenere diritti per salire e pregare sul Monte o per promuovere la costruzione del Terzo Tempio. Negli anni ’90 questi gruppi erano marginali, erano considerati fuori posto. Oggi una parte notevole delle loro richieste è entrata nell’opinione comune. In larga misura il (deputato del Likud) Yehudah Glick è il responsabile dell’unificazione di questi gruppi in un ente unico che agisce per promuovere strategicamente i suoi obiettivi. Insieme al (ministro della Sicurezza Pubblica) Gilad Erdan, al (ministro della Cultura e dello Sport) Miri Regev e al comandante del distretto di polizia di Gerusalemme, ha avuto successo nel raggiungere risultati concreti.

Specifichi i risultati.

Del Monte del Tempio si parla nei corridoi della Knesset e nell’ufficio del primo ministro. Il “Comitato per gli Affari Interni e l’Ambiente” guidato da Regev ha tenuto molte audizioni sul diritto degli ebrei di pregare sul Monte del Tempio. Il Murabitun ed il Murabitat (gruppi musulmani, il primo delle donne, il secondo degli uomini, che si considerano i guardiani del Monte del Tempio) sono stati dichiarati illegali. I gruppi di ebrei salgono al Monte del Tempio in numeri e frequenza in continuo aumento. Ma il risultato principale, come ho già detto, è la penetrazione nell’opinione generale. Oggi ogni israeliano laico può affermare che abbiamo diritti sul Monte del Tempio, e molti di loro appoggiano persino il diritto di pregarvi.

E’ un cambiamento nell’opinione pubblica.

Che si esprime anche in concreto. Dal livello di Gilad Erdan, che si esprime contro lo status quo che si suppone debba garantire, alla fuga di notizie dal governo in materia di metal detector, che dimostrano che la loro condotta non è limitata solo a ciò che è pratico e fattibile – che ci sono anche aspetti che riguardano la religione, l’identità, persino credenze messianiche; a cose che posso vedere con i miei occhi.

E’ la polizia che dovrebbe incaricarsi degli ebrei che salgono al Monte del Tempio. Di impedirlo, di ritardarlo, di ridurlo. I sostenitori del Tempio sono, ovviamente, in buoni rapporti con i poliziotti sul Monte del Tempio, e i poliziotti li riconoscono. Lo scorso anno ho visto emergere un evidente rapporto più stretto tra i poliziotti e i sostenitori del Tempo. Quest’anno, circa un mese prima dell’uccisione dei poliziotti drusi (il 14 luglio 2017), il generale della polizia Yoram Halevi è salito sul Monte con un gruppo di sostenitori del Tempio, dove è stato fotografato con loro. E’ il comandante del distretto ed ha ricevuto sul Monte la loro benedizione, che è stata fotografata e documentata. Questa è pura follia. Nel suo blog Arnon Segal, un attivista del Tempio, ha scritto che questa (specifica) salita al Monte del Tempio è stata una “salita dello Stato nazionale” dedicata alla memoria di Hallel Ariel, la ragazza uccisa [da un attentatore palestinese, ndt.] a Kiryat Arba (nel 2016). I suoi genitori sono attivisti estremamente entusiasti ed impegnati del Tempio. Sua madre parla continuamente di una consapevolezza del Tempio.

Che cosa vorrebbe dire “consapevolezza del Tempio?

Vivere la propria vita con la consapevolezza che il proprio scopo in questo Paese in quanto ebreo è di vivere in base ai comandamenti della Torah e che c’è un grande numero di comandamenti che non possono essere osservati senza il Tempio. Per cui si deve vivere con una totale dedizione verso di esso. Per esempio, lavora con donne nel cuocere il pane speciale che deve essere preparato per il Tempio. Per questa gente il Tempio è la ragione per cui sono qui.

A lei sembra una cosa sincera?

Certo. Sono persone interessanti e serie, e non ho nessuna intenzione di ignorarle. In parte per le potenziali ripercussioni di quello che stanno facendo, e in parte perché stiamo parlando di persone intelligenti che hanno una profonda coscienza religiosa e nazionale, alcune delle quali sono totalmente coinvolte anima e corpo. Più li guardo e li ascolto da vicino, più vedo questa esperienza come assolutamente sincera.

Capisco che lei è in stretto contatto con loro.

Li conosco tutti personalmente. Ho anche seguito tutto un corso per guide del percorso del Monte del Tempio tenuto dalla “Fondazione per il Patrimonio del Monte del Tempio”.

Cos’è un corso per guida del percorso del Monte del Tempio?

Alla luce del fatto che sempre più ebrei stanno salendo al Monte, le organizzazioni del Monte del Tempio hanno deciso di lanciare un’iniziativa: l’obiettivo è che ogni ebreo che va al Monte trovi un altro ebreo che lo accompagnerà, gli dirà cose su di esso e gli spiegherà la storia e la teologia.

Non riesco ad immaginare lei inserito in un corso come quello.

Quando mi sono unito al corso loro erano veramente molto preoccupati. Mi hanno chiesto quali erano le mie motivazioni, perché conoscono me e le mie opinioni. Quando ho detto che volevo solo capire, hanno accettato che partecipassi – a condizione, naturalmente, che non avrei scritto nessun post su Facebook né condiviso con qualcuno i contenuti del corso.

Ma c’è un progetto ovvio.

Certamente. Il corso è tenuto da importanti attivisti del Tempio. Lo stesso Yehudah Glick mi ha consegnato il certificato che ho completato il corso.

Qual era il contenuto del corso?

C’era un contenuto principalmente storico-religioso riguardante il Tempio e il Monte. Molta attenzione era dedicata alle dimensioni del Tempio. Una delle principali ragioni del divieto halachitico (diritto ebraico) per la salita al Monte del Tempio ha a che fare con la preoccupazione in merito all’ingresso in zone sacre proibite, per cui questo è estremamente importante per loro, in quanto vogliono sapere dove gli è permesso camminare e dove è proibito. Per loro la questione più interessante è dove si trovasse in realtà esattamente l’altare sulla piattaforma rialzata ad est della Cupola della Roccia [la Moschea di Omar, che si trova sulla Spianata delle Moschee, ndt.].

Perché?

Perché non c’è bisogno di un tempio per offrire sacrifici. Il sacrificio della Pasqua ebraica, per esempio. Loro dicono: “Perché non dovremmo entrare con un capretto e offrire il sacrificio della Pasqua sul Monte del Tempio?” Dopotutto, ciò non dovrebbe violare la santità per i musulmani. E’ consentito. E’ persino prescritto. Per questo è importante sapere dov’è l’altare.

Non posso neanche cominciare a dirle quanto mi risulta difficile identificarmi con tutto ciò.

Guardi, quando lei sta lì in piedi sul Monte, con quelle persone e sono in piedi sui gradini settentrionali e guardano la Cupola della Catena [piccola costruzione musulmana adiacente alla Cupola della Roccia, ndt.], loro non vedono quello che vede lei. Stanno vedendo il luogo dell’altare dei sacrifici. Il luogo del Tempio. Si trovano in un’altra dimensione.

Come in una specie di visione? E’ questo che lei ha sentito quando si trovava tra di loro?

Assolutamente. Loro sono al settimo cielo. Non vedono le cose che li circondano – la fila o i poliziotti o il Waqf [l’associazione musulmana che si occupa della gestione della Spianata delle Moschee, ndt.]. Vogliono andare subito su, e nel momento in cui attraversano le porte, alcuni di loro si inchinano e si prostrano. Ciò è consentito dall’ebraismo solo sul Monte del Tempio. Prostrazione totale, mani e piedi stesi a terra. In qualunque altro luogo ciò sarebbe considerato idolatria ed è vietato. Questa gente sta vedendo sul Monte un passato e un futuro mitologici, e non il presente.

Sì. Questo spiega decisamente molto.

Per quanto li riguarda, la costruzione del Tempio è un’idea logica e corretta. Guardi, dopotutto “Sion” non è costruire kibbutz. Se lei avesse chiesto ad un ebreo 200 anni fa quale fosse il significato del “Ritorno a Sion”, avrebbe risposto: “Tornare alla Terra Santa e ricostruire il Tempio.” Per questo la gente prega ed è dove la consapevolezza “sionista” era diretta – fino all’avvento del Sionismo. Il Sionismo è essenzialmente un ripudio di questo discorso, un tentativo di secolarizzarlo, di renderlo nazionalista. Il sionismo ha tentato di sfuggire a questa idea del Tempio, ed ora lo stiamo vedendo tornare.

Sta tornando o è stato ripreso dal Sionismo religioso?

Essenzialmente è rientrato in gioco come risposta alla possibilità di un compromesso territoriale. La gente di “Gush Emunim” [organizzazione dei coloni israeliani, ndt.] non è concentrata sul Tempio. [Gli accordi di] Oslo sono stati la crisi che ha portato settori più ampi dell’opinione pubblica sionista religiosa a dimostrare interesse per il Monte del Tempio. Nel marzo 1996 il consiglio rabbinico “Yesha” (che rappresenta i rabbini dei coloni) emanò un appello per salire al Monte del Tempio. Era al culmine del mese di Ramadan, e il venerdì seguente la diffusione dell’appello 250.000 palestinesi si recarono a pregare lì. Questa è la dinamica nelle due parti [in conflitto]. Pochi mesi dopo, scoppiarono gli scontri del tunnel del Muro del Pianto e il Movimento Islamico (israeliano) decise di impegnarsi a pieno nella questione di Al-Aqsa.

Lo status quo, gli accordi non scritti tra le autorità e il Waqf, che avevano retto per 30 anni crollarono. Essenzialmente sia il consiglio rabbinico “Yesha” che i dirigenti del Movimento Islamico in Israele sono uniti attorno allo stesso luogo sacro. Non si tratta di una coincidenza. E’ impossibile parlare del Monte del Tempio come guida dell’identità ebraica senza parlare di Al-Aqsa (con cui i musulmani si riferiscono a tutta la Spianata) come guida dell’identità palestinese. Allo stesso modo in cui questa idea è sorta in un momento in cui c’era un tentativo di raggiungere un compromesso e forse porre fine al conflitto, la stessa cosa è successa dal lato palestinese. Non si tratta di una questione accademica o di un argomento filosofico: si tratta di un dato di fatto per tutti i palestinesi.

Ne è convinto?

Poco prima che ci incontrassimo, un vecchio palestinese nel quartiere musulmano mi ha detto: “In quanto palestinese, sono obbligato a proteggere questo luogo: le parlo col cuore e non con la testa.” Non è che ogni palestinese di Jenin [in Cisgiordania, ndt.] o di Umm al-Fahm [cittadina arabo-israeliana, ndt.] stia pensando tutto il tempo ad Al-Aqsa, ma al centro dell’identità palestinese, a cosa li differenzia dal mondo arabo e islamico attorno a loro c’è il loro rapporto con Al-Aqsa ed il senso della missione eterna di proteggerla nel corso della storia contro la conquista degli eretici. E’ un messaggio palestinese nazionale non meno che islamico religioso. Nello stesso modo in cui gli ebrei vedono come santo il periodo del Secondo Tempio, l’etica di Masada e di Hanukkah, l’ultimo periodo di sovranità ebraica, così l’Islam in questo Paese si unisce attorno all’idea della protezione dei luoghi santi di Gerusalemme -“Al-Aqsa, il cui luogo su cui sorge noi benediciamo” (dalla Surah 17:1 del Corano) – come il terzo luogo più sacro per l’Islam, là stiamo proteggendo i luoghi sacri dell’Islam dai pericoli che incombono. Queste sono le basi molto profonde dell’identità palestinese qui.

Non vogliamo ripercorrere tutta la lunga storia di scontro sul Monte del Tempio, ma quello che li accomuna tutti, penso, è una dinamica di reazione. Una parte vi viene trascinata in seguito alle azioni della parte avversa.

Le persone, sia da parte palestinese che da quella israeliana, la vedono come se “l’altra parte stia facendo ciò a noi,” mentre in effetti la situazione è come la descrive lei, c’è un flusso continuo di risposte e contr-risposte.

Forse potrebbe descrivermi questo luogo attraverso gli occhi dei palestinesi. Attraverso gli occhi dei singoli che vengono qui sul Monte per pregare cinque volte al giorno.

Il Monte del Tempio non è solo il terzo luogo più sacro per i musulmani in Israele, è il parco più grande di Gerusalemme est, lo spazio aperto più grande in una zona che per il resto è un disastro urbanistico. E’ l’unico luogo in cui c’è un certo livello di libertà e di indipendenza per i palestinesi, perché è il posto in cui la sovranità israeliana non è totale e l’occupazione israeliana è meno presente. Pertanto si possono vedere famiglie riunite per fare un picnic, persone che l’attraversano senza una ragione speciale in pieno giorno, solo per starci, per pregare, per mangiare. Questo fenomeno è gradualmente cambiato negli ultimi anni, e questo è proprio quello che i palestinesi sentono che stanno perdendo – non solo il loro simbolo nazionale, ma anche il proprio spazio di libertà personale a cui sono legati non solo al livello religioso ma anche a quello individuale. Di nuovo, si deve capire – non ci sono parchi, non ci sono giardini, c’è solo il Monte del Tempio. I ricordi dell’infanzia di molti di loro sono radicati in questo luogo. Alla luce del rapporto di forze in questo spazio, interpretano tutto quello che succede da parte israeliana come un tentativo di privarli del loro spazio qui.

Riguardo alla sovranità, ieri ho letto una vecchia citazione dello storico Shlomo Ben-Ami, che sosteneva che più abbiamo il controllo sul Monte del Tempio, più ne siamo ostaggi.

Ha ragione. Siamo ostaggi della questione della sovranità sul Monte del Tempio. La nostra sovranità qui è il problema e non la soluzione.

Ogni volta che c’è un esplosione di proteste, quando viene messa a dura prova, scopriamo che in realtà non abbiamo la sovranità [sul Monte del Tempio].

Secondo me questo è vero per tutta Gerusalemme. Lo Stato di Israele crede che la soluzione a Gerusalemme sia nel mettere in pratica la sovranità, ma sono già 50 anni che la sovranità a Gerusalemme si è manifestata solo come potere, ed ogni bambino che frequenta un corso preparatorio in scienze politiche può affermare che più si usa la forza fisica, meno tu possiedi realmente un vero potere istituzionale. Una sovranità che si esprime attraverso battaglioni di poliziotti di frontiera non è una sovranità profonda, e non ci sarà una soluzione per il Monte del Tempio finché parleremo in termini di sovranità assoluta. Chi è il proprietario “riconosciuto” del Monte del Tempio? Importa realmente? Il processo giuridico è desiderabile per la gestione di questa faccenda? In fin dei conti non abbiamo la sovranità né sul Monte del Tempio né su Gerusalemme est, e questa è la realtà. Non siamo neanche in grado di sistemarvi dei metal detector.

Qualcuno fa riferimento alla sensazione di successo tra i palestinesi in seguito a questo recente ciclo (di violenze). Lei che cosa ha sentito dire?

Ho sentito amici palestinesi, anche del tutto laici, parlare con assoluto entusiasmo del potere e dell’organizzazione comunitaria. Dicono di non essersi mai sentiti così. Se erano stati bambini durante al Seconda Intifada, o nati dopo, non sono mai stati abituati a questa sensazione di comunità; hanno conosciuto solo la sopravvivenza giorno per giorno, spaventati da chiunque vedessero. Improvvisamente si sono sentiti legati, una sensazione di comunità, una speranza che potesse cambiare. I media palestinesi sono pieni di appelli a trarre le conclusioni da questa vittoria. La prima conclusione è che Israele non può opporsi ad azioni organizzate di massa non violente.

Di chi è stata l’idea che i fedeli musulmani rifiutassero di entrare sulla Spianata (finché fossero rimasti sul posto i metal detector)? Delle preghiere di sfida fuori dalle porte?

Non lo so. Stavo seduto qui qualche giorno da con degli amici, esperti di Gerusalemme, tra loro dei palestinesi, e non riuscivamo a trovare una risposta su chi abbia iniziato tutto questo – i leader religiosi, il Waqf o gli abitanti. Dopotutto, il Waqf non avrebbe potuto sapere che gli abitanti lo avrebbero appoggiato.

Come appare sul campo?

Un sacco di gente nelle strade. Le donne della città gli hanno portato una grande quantità di cibo. Stiamo parlando di cinque preghiere al giorno, che è praticamente tutto il giorno. Gente che arriva da ogni parte del Paese. Il giorno prima ero a Baka al-Gharbiyeh [cittadina a maggioranza araba in Israele, ndt.], dove ho incontrato intellettuali arabi molto noti che stavano dicendo – domani andremo su ad Al-Aqsa, tutta la famiglia. Abbiamo una missione qui, abbiamo un dovere. La polizia ha messo sbarramenti su una strada. Di notte hanno controllato ogni macchina per cercare di scoraggiare la gente dal cercare di attraversarli, ma ciononostante decine di migliaia lo hanno fatto.

Qual è esattamente il ruolo che il Waqf ha giocato nella vicenda dell’organizzazione spontanea?

Quello che è successo qui nelle ultime due o tre settimane è sorto dalla piazza palestinese di Gerusalemme est. A Gerusalemme non c’è una dirigenza. Semplicemente non esiste. C’è il Waqf. E’ l’istituzione più vasta e più influente. In seguito a questi avvenimenti, il Waqf e la piazza si sono incontrati. Un’istituzione ben organizzata con potere, danaro e gerarchia ha incontrato una piazza che stava desiderando ardentemente una dirigenza e un’azione collettiva. Gli interessi convergevano – il Waqf ha guadagnato dalla piazza un rinnovato potere, e la piazza ha guadagnato una dirigenza. A un certo livello, è la stessa piazza di Gerusalemme che si è preoccupata per anni di Al-Aqsa.

Quando (il re di Giordania) Abdullah e Bibi (Netanyahu) si sono messi d’accordo sull’installazione di telecamere nel 2015, la piazza semplicemente non lo ha permesso. Ora la piazza è di nuovo entrata sulla scena. Secondo me c’è stato un cambiamento profondo nella concezione delle attività organizzate a Gerusalemme est. Stanno emergendo nuove strutture, un nuovo modus vivendi. E’ ragionevole ipotizzare che qui sorgeranno nuovi dirigenti. Qui è successo qualcosa di molto importante – un’organizzazione popolare non violenta che ha obbligato Israele a cedere. L’internet palestinese si sta già occupando dell’argomento.

Cosa vede lei? Cosa stanno scrivendo?

“Siamo riusciti ad incidere su Israele e dobbiamo continuare così.” Questa opinione pubblica, che ha sempre subito accordi sulla propria testa, è ora l’opinione pubblica che ha guidato gli avvenimenti, e (il presidente turco) Erdogan e (il presidente USA) Trump e re Adbullah e Bibi possono solo rimanere ai margini. La piazza di Gerusalemme sta attualmente riscoprendo la propria forza.

Pensa che Netanyahu l’abbia capito?

Non lo so. Sulla questione del Monte del Tempio, Netanyahu si è costantemente nascosto dietro poliziotti di basso rango.

Cosa pensa di Yoram Halevi, il comandante del distretto di Gerusalemme, di cui abbiamo parlato prima?

Non lo conosco. A giudicare solo dal suo risultato, è un disastro. Yoram Halevi sale sul Monte del Tempio con gli attivisti del Tempio, cambia il loro status, si esprime in modo arrogante in materia di metal detector, come se si trattasse dell’ingresso in un supermercato. Stiamo parlando di una mancanza di professionalità e di comprensione del terreno. E’ questa idea di voler impartire una lezione, di agire in modo inflessibile, tanto da scatenare la protesta popolare.

Voleva “evitare che i palestinesi avessero l’impressione della vittoria.”

E’ quello che ha detto. E alla fine ha perso. Se è davvero un professionista serio, è apparentemente motivato da altre considerazioni.

La conclusione di questa conversazione è davvero sconfortante.

In realtà sono ottimista. Penso che se togliamo dall’equazione la questione della sovranità, sarà possibile pensare a soluzioni creative. A un discorso di cooperazione. Quando saremo uguali, non ci sarà la differenza nell’equilibrio di forze che esiste attualmente: potremmo proseguire questo dialogo, e gli ebrei potrebbero pregare sul Monte del Tempio come fanno i musulmani.

Non ci conterei molto.

Perché no? E’ successo in Irlanda, con gli accordi del Venerdì Santo. Anche là c’era un conflitto di secoli, con un aspetto religioso. E’ un lungo percorso, e spetta a noi tentare e prendere quel percorso – o soccombere al pessimismo. Non possiamo cambiare il corso della storia, possiamo solo scegliere il nostro percorso.

Sa, sono tornato qui, dopo tre anni in Francia, nel mezzo dell’operazione “Margine protettivo” (nel 2014). Dalla tranquilla Strasburgo proprio dentro alle sirene dell’allarme aereo. Non è stata una cosa semplice, ma non dubito di aver fatto la scelta giusta. Sento che la mia vita è ricca di valori e di senso, nonostante le sfide e le preoccupazioni sul futuro dei bambini.

Strasburgo mi ha ispirato. Dopotutto è stata al centro del conflitto tra Francia e Germania per secoli ed è diventata un simbolo della riconciliazione europea. C’è un grande numero di coppie franco-tedesche che vivono lì e che non sono in grado di comprendere come qualcuno possa aver combattuto per questo, così come i bambini nati dopo la riconciliazione in Irlanda.

Se c’è una cosa che ho imparato è che devi essere umile quando si tratta di storia e non dire che qualcosa non accadrà perché può sempre succedere. Un bambino nato un minuto dopo la firma degli accordi sarà incapace di capire come noi abbiamo potuto pensare o vivere in modo diverso.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Benny Morris e Daniel Blatman riprendono la discussione sulla scia dell’uscita del libro di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza”

NOTA REDAZIONALE: riteniamo interessante per il lettore seguire il dibattito storiografico sulla guerra del ’47-’48 da cui è nato lo Stato di Israele che viene proposto ai lettori israeliani dal quotidiano “Haaretz”.

Come in altri articoli[vedi http://zeitun.info/?s=pulizia+etnica ]che abbiamo già tradotto, il principale protagonista è lo storico ebreo- israeliano Benny Morris, autore negli anni ’90 di importanti studi che hanno messo in serio dubbio la narrazione israeliana sugli avvenimenti che portarono all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, e che in seguito è passato ad un attivo sostegno delle politiche dei governi israeliani, ed in particolare del Likud. In questo caso se la prende con un suo collega israeliano-palestinese che ha scritto un libro su quelle tragiche vicende. Come in precedenti circostanze, sullo stesso giornale gli risponde un altro storico ebreo- israeliano Daniel Blatman, che si è occupato di studiare l’Olocausto e i movimenti ebraici europei non sionisti, come il Bund, partito socialista ebraico .

Israele non ha messo in atto una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948

Il problema dei rifugiati palestinesi fu il risultato di un piano strategico sionista e della “pulizia etnica”, sostiene erroneamente lo storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, in cui “strage” ed “espulsione” compaiono in quasi tutte le pagine.

Haaretz

di Benny Morris – 29 luglio 2017

Ho affrontato la lettura del nuovo libro del prof. Adel Manna, “Nakba e sopravvivenza: lo storia dei palestinesi che sono rimasti con qualche speranza ad Haifa e in Galilea, 1948-1956”. Conosco bene la narrazione dei palestinesi – una narrazione di spossessamento e discriminazione, di sventura storica e di infinita ingiustizia senza averne alcuna colpa.

In questa narrazione c’è solo una parte che è nel giusto ed una quantità di cattivi, tra i quali i sionisti sono i più importanti. La narrazione è stata diffusa ormai da decenni dalla dirigenza palestinese e dagli opinionisti arabi, così come dagli storici e studiosi arabi e dai loro sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said ed Ilan Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle librerie dell’Occidente. In Israele, i loro scritti sono in buona parte introvabili in quanto la maggior parte di essi non è stata tradotta in ebraico.

Questo vuoto non sarà riempito dalla pubblicazione, in ebraico, da parte dell’istituto Van Leer e dalla casa editrice Hakibbutz Hameuchad, di “Nakba e sopravvivenza”, (Nakba significa “catastrofe”, come è nota ai palestinesi la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo. Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato all’Università Ebraica di Gerusalemme e per anni ha insegnato in varie università e college. Il suo campo di studi comprende la storia della Palestina, i palestinesi e Gerusalemme nel periodo ottomano e in quello contemporaneo e il conflitto arabo-israeliano.

Da una conoscenza superficiale di Manna, credevo che egli conoscesse la storia della Palestina e dello Stato di Israele. Ho sperato che sarebbe riuscito ad evitare la narrazione palestinese e a costruire una storia basata sulla documentazione e sui fatti, dimostrando un’apertura intellettuale e una visione dei due lati della medaglia. Sono rimasto deluso. A dire la verità, Manna non nasconde il suo punto di partenza. Nella sua introduzione c’è un impegno o una avvertenza che il libro è scritto “dalla prospettiva dei sopravvissuti…Nel mio libro ho scelto di non adottare la posizione dello storico imparziale che nei suoi scritti lascia da parte le proprie posizioni personali ed ideologiche”, (forse tutte o in gran parte già implicite nell’uso della parola “sopravvissuti”- come se gli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948 cercassero di sopravvivere ad una continua politica e ad una campagna intese alla loro eliminazione).

Devo avvertire i lettori che le 377 pagine dense e fitte di “Nakba e sopravvivenza” sono affette da innumerevoli ripetizioni, sia di racconti (per esempio, quello dell’esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal Krum il 5 novembre del 1948, che è raccontata almeno tre volte) e di varie recriminazioni. La descrizione complessiva di quello che è successo qui nel 1948 come “massacro ed espulsione” o “espulsione e massacro” compare in quasi tutte le pagine almeno una volta, se non varie. Quindi oserei dire che il numero di volte in cui nel libro compare questa frase è superiore al numero di arabi che sono stati uccisi in casi in cui hanno avuto luogo stragi.

Vale la pena notare, peraltro, che massacri di arabi contro ebrei, e ce ne sono stati, sono appena citati nel libro – e quando Manna fa riferimento al massacro nella raffineria di petrolio ad Haifa il 30 dicembre 1947 lo definisce come un “attacco” o un “grave attacco”, non come un massacro. Questo è il modo in cui le cose compaiono in una narrazione rispetto ad un vero saggio storiografico.

Il libro è diviso in due parti. Il primo affronta quello che successe nel 1948 e il secondo si concentra su quello che avvenne tra il 1949 e il 1957 agli arabi che rimasero in Israele, che si definiscono come “abitanti palestinesi dello Stato di Israele” o come “arabi del 1948”. In entrambe le parti l’enfasi è posta sul corso degli eventi nel nord – la Galilea ed Haifa – con pochissimo spazio dedicato a quello che successe nel centro e nel sud del Paese.

Nel suo lavoro Manna fa ampio uso della stampa araba (cosa che approvo), della stampa di sinistra ebraica e dei verbali di processi, soprattutto sentenze dell’Alta Corte di Giustizia, relative alla minoranza araba ed ai partiti politici arabi dal 1948 al 1957.

Buona parte del libro si basa su interviste che lui o altre persone hanno fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita dello Stato di Israele. Manna difende appassionatamente il valore della “storia orale” come una fonte attendibile per la ricostruzione degli avvenimenti e di sentimenti del passato. Attraverso “Nakba e sopravvivenza” egli “mostra” che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente). Non fornisce dettagli su come le interviste sono state condotte. A volte non dice neppure quando si sono svolte o chi ha fatto l’intervista.

E’ ovvio che Manna ha fatto una ricerca di archivio molto povera (praticamente tutte le sue note sono annotazioni archivistiche approssimative e/o non corrette; per esempio la maggior parte dei riferimenti all’Archivio dell’esercito israeliano). Quasi tutte le citazioni da fonti primarie sono riferite di seconda mano da ricerche di altre persone, compresi libri che ho scritto io (a proposito dei quali Manna fa sia apprezzamenti positivi che riserve, alcune delle quali giustificate). Ha accuratamente scelto cosa inserire nel suo libro e cosa escludere.

Progetto strategico sionista

Per lo più gli storici distorcono la storia non attraverso grossolane falsificazioni ma piuttosto ignorando documenti e fatti importanti. Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo fecero anche negli anni successivi alla guerra; non ci fu un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non ci fu neppure una guerra: ci fu solo un’espulsione e nient’altro.

A merito di Manna, egli nota che i dirigenti degli arabi di Palestina e quelli arabi della regione rifiutarono effettivamente il piano di spartizione [della Palestina tra ebrei sionisti e palestinesi, ndt.] (adottato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947, che secondo Manna era immorale), ma dimentica di citare che il giorno seguente alcuni palestinesi aprirono il fuoco e iniziarono attacchi che in alcune settimane si ingigantirono fino a diventare una guerra civile generalizzata – la prima fase della guerra che andò dal novembre 1947 al maggio 1948. Per come la vede Manna, la guerra semplicemente scoppiò; nessuno le diede inizio.

Il suo argomento centrale, di fatto il tema del libro, è che il problema dei rifugiati palestinesi sia nato come conseguenza di un progetto sionista che venne coscientemente adottato fin dall’inizio e in conseguenza di una messa in pratica sistematica di questo progetto: “Il trasferimento degli arabi dalle zone del Paese verso i vicini Stati arabi era diventato un obiettivo dichiarato fin dal rapporto della commissione Peel [commissione del potere mandatario inglese in seguito alla più importante rivolta palestinese contro inglesi e sionisti, ndt.] del 1937. Il piano dell’offensiva ebraica (Piano D), messo in atto nell’aprile 1948, era un importante anello nella pianificazione dell’espulsione dei palestinesi, (ma) la politica di pulizia etnica fu molto più estesa e complessa di qualunque piano scritto… In Galilea una politica di pulizia etnica venne messa in pratica nelle prime fasi della guerra, in zone che erano state destinate allo Stato ebraico in base al piano di spartizione [della Palestina deciso dall’ONU, ndt.].

Manna indica due azioni iniziali dell’Haganah [principale milizia armata sionista, da cui è nato l’esercito israeliano, ndt.] subito nel dicembre 1947 (le azioni a Khisas e a Balad al-Sheikh) come manifestazioni del “desiderio da parte dei dirigenti dell’Yishuv (la popolazione ebraica del Paese prima della fondazione dello Stato di Israele) che nessun palestinese rimanesse nella Galilea orientale e nella pianura costiera.” In seguito menziona come risultato di questa politica l’ “espulsione” degli abitanti di Tiberiade, Safed, Beit She’an, Giaffa, Haifa e Acri nell’aprile e maggio del 1948. Manna continua a dire che durante la seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 – durante la guerra convenzionale che fece seguito all’invasione della Palestina da parte degli Stati arabi vicini – la politica di Israele fu e rimase l’espulsione della popolazione araba locale. Infine Manna sostiene che questa politica fu ancora perseguita dal 1949 al 1956. Secondo lui il divieto di ritorno dei rifugiati e le espulsioni di massa di “infiltrati” nei primi anni dopo il 1948 furono manifestazioni di questa politica, e nota che la sua stessa famiglia fu era tra le persone espulse da Majdal Krum in Libano nel 1949.

Manna afferma che Israele usò leggi contro l’infiltrazione per espellere quanti più arabi possibile dal nascente Paese, comprese persone che non erano infiltrate ma risultavano non possedere un certificato del registro dell’anagrafe o una carta d’identità israeliana. Indica persino il massacro di Kafr Qasem [in cui, in concomitanza con la guerra contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez, 48 ignari contadini palestinesi con cittadinanza israeliana di ritorno dai campi vennero uccisi dall’esercito israeliano che, senza informarli, aveva anticipato il coprifuoco in vigore nelle zone arabe del Paese, ndt.] nella cosiddetta “Zona del Triangolo” del 29 ottobre 1956 come una manifestazione di questa politica.

Le argomentazioni di Manna non sono convincenti. Ha ragione quando dice che c’era una politica di espropriazione delle terre e di discriminazione contro gli arabi che rimasero in Israele (benché il governo militare e l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento fossero misure logiche alla luce dei tentativi di distruggere l’Yishuv e della continua ostilità, compresa la violenza da parte degli arabi nei Paesi limitrofi, tra cui rifugiati dalla Palestina, contro lo Stato di Israele ed i suoi abitanti ebrei). Ma, una politica di espulsione dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una simile politica, perché non venne messa in pratica? Perché il numero di arabi in Israele è aumentato costantemente, in parte per le infiltrazioni di rifugiati all’interno di Israele che, nel corso degli anni, ottenero la carta d’identità?

L’autore sostiene anche che l’intenzione di Israele era di approfittare della campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il piano è fallito a causa della mancata partecipazione della Giordania alla guerra. Anche questo non ha fondamento. In Israele c’erano sicuramente figure di spicco, tra cui il capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Dayan, che negli anni ’50 speravano che scoppiasse un’altra guerra e permettesse a Israele di occupare la Cisgiordania o forse persino di espellere in Giordania gli arabi israeliani. Tuttavia non si trattava di una “politica” statale.

Nessun ordine di espulsione

Torniamo al 1948. Se Manna avesse letto i documenti dell’archivio dell’Haganah, dell’archivio dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] o degli archivi di Stato di Israele (o la versione aggiornata del 2003 del mio libro sul problema dei rifugiati “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto”), avrebbe scoperto che non ci fu una politica di espulsione dei “palestinesi” e che l’Haganah non espulse arabi prima dell’aprile 1948 (con l’eccezione degli abitanti arabi di Cesarea, in cui le motivazioni non avevano niente a che fare con la lotta contro gli arabi). Avrebbe anche trovato che l’Haganah e i dirigenti dell’Agenzia Ebraica (il governo dell’Yishuv) si attennero alla politica di accettazione del piano di spartizione (benché certamente non ne fossero contenti), che includeva una numerosa minoranza araba nello Stato ebraico che si stava formando. Il 24 marzo 1948 Yisrael Galili, capo del comando nazionale dell’Haganah (e di fatto il vice del ministro della Difesa David Ben-Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai settori dell’Haganah perché si attenessero alla politica del momento di lasciare al loro posto e di garantire la pace e la sicurezza delle comunità arabe nella zona destinata al nascente Stato (salvo che in casi eccezionali per ragioni militari).

Persino nel passaggio dell’Yishuv a una strategia di attacco nell’aprile e maggio 1948 dopo quattro mesi di strategia difensiva, i suoi dirigenti e membri dello Stato Maggiore dell’Haganah non adottarono una politica di “espulsione degli arabi” e le varie unità operarono in modo diverso a seconda della zona. Il “piano D”, dal 10 marzo 1948, non obbligava ad “espellere gli arabi” – anche se ai comandanti di brigata era stato dato il permesso di espellere le popolazioni arabe o di consentire loro di restare. Molto dipendeva dalle caratteristiche degli arabi del posto, dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti ebrei, oltre che dalle circostanze in ogni singola zona.

Ad Haifa fu la dirigenza araba che chiese ai suoi abitanti di andarsene (il sindaco ebreo, Shabtai Levy, e gli attivisti del sindacato dei lavoratori Histadrut [sindacato sionista, ndt.] chiesero loro di rimanere); a Tiberiade non ci furono espulsioni (benché forse le autorità del mandato britannico incoraggiarono l’esodo degli arabi); a Giaffa la popolazione se ne andò a causa della pressione militare ebraica e della previsione di un’occupazione ebraica dopo il ritiro delle truppe britanniche; a Safed scapparono a causa della conquista della città da parte del Palmach [milizia armata sionista inserita nell’Haganah, ndt.], non in conseguenza di ordini per espellerli; ad Acri non ci fu un ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti rimase in città dopo che venne occupata il 18 maggio.

Manna ha ragione quando dice che durante l’operazione “Hiram” alla fine dell’ ottobre 1948 e nelle settimane successive i soldati dell’IDF misero in atto una serie di massacri (a Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun, Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove) e qui e là espulsero villaggi (Jish, Eilabun, Birim e altri). Ed è anche vero che il trattamento dei drusi [minoranza religiosa considerata eretica dai musulmani, ndt.](che avevano in effetti stretto un’alleanza con l’Yishuv) e dei cristiani fu diversa da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano attaccato l’Yishuv. Tuttavia non ci fu una politica e non ci fu uniformità di comportamento tra le unità e gli ufficiali.

Il 12 novembre Ya’akov Shimoni, un funzionario del ministero degli Esteri (che in precedenza era stato un importante membro del servizio di intelligence dell’Haganàh (lo Sha’i)), visitò la Galilea con altri funzionari del ministero e parlò con i soldati e con altri ufficiali e funzionari sul campo. Scrisse: “Il trattamento (a Hiram) degli abitanti arabi della Galilea come nei confronti dei rifugiati arabi che stavano vivendo nei villaggi della Galilea o nelle loro vicinanze ha riflettuto un comportamento casuale ed è stato diverso da luogo a luogo in base alle iniziative di un comandante o dell’altro o di un ufficiale e dell’altro dei vari dipartimenti del governo: in un luogo hanno espulso e in un altro hanno lasciato la popolazione sul posto; in un posto hanno accettato la resa di un villaggio e in un altro invece no; in un posto hanno favorito i cristiani e in un altro hanno trattato cristiani e musulmani allo stesso modo senza distinzione; in un posto hanno persino consentito ai rifugiati che erano scappati in un primo momento dopo la conquista di tornare alle proprie case, e in un altro non l’hanno permesso.”

E il 18 novembre Shimoni aggiunse: “Troppe mani stanno mescolando la polenta…Loro (i comandanti dell’IDF) non hanno nessun ordine chiaro in mano o una prassi chiara riguardo al modo di comportarsi con gli arabi.”

E’ vero che dopo la visita di Ben-Gurion ai comandi del fronte settentrionale alla fine dell’operazione “Hiram” venne emanato alle brigate dell’esercito un ordine (generico) a nome di Moshe Carmel, comandante del fronte, per “aiutare” gli abitanti ad andarsene, ma la direttiva arrivò troppo tardi e non venne messa in pratica alla lettera. In un posto espulsero [la popolazione araba], in un altro non lo fecero.

L’argomentazione di Manna è che i massacri dell’operazione “Hiram” vennero organizzati “dall’alto” e intendevano far scappare gli arabi. Tuttavia: 1) Manna non ha nessuna documentazione che dimostri un simile rapporto e 2) in molti dei villaggi in questione fughe o espulsioni di massa non avvennero in seguito a massacri, né a Dir al-Assad né a Majdal Krum (qui Manna si sbaglia riguardo al suo villaggio: non ci fu un’espulsione da Majdal Krum), né a Arab al-Mawasi, né a Jish né a Hule. E’ possibile che comandanti sul campo abbiano pensato che un massacro avrebbe portato a una fuga di massa; forse un’ansia di vendetta, o solo semplice crudeltà erano la causa di queste uccisioni. Non ci sono prove in un senso o nell’altro, salvo sul fatto che unità di tre diverse brigare (la Golani, la Settima e la Carmeli) misero in atto una serie di massacri durante quelle settimane.

C’è in effetti il sospetto – ma sulla base del materiale che è a disposizione dell’analisi pubblica è impossibile arrivare alle conclusioni certe nel modo in cui lo fa Manna. Ma è vero che gli esecutori di questi crimini non furono puniti (in apparenza grazie all’intervento del ministro della Difesa).

In più bisogna notare che dal giugno 1948 la politica del governo di Israele fu di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese, e che questa politica venne messa in pratica durante tutta la guerra e nel dopoguerra in modo sistematico (benché decine di migliaia di rifugiati riuscirono ad infiltrarsi nel Paese o venne loro consentito di tornare nel quadro di un “ricongiungimento familiare” o con accordi speciali. Per esempio, il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli abitanti di Eilabun, tornarono grazie a detti accordi e alla fine ottennero la cittadinanza israeliana, come gli stessi genitori di Manna, che si infiltrarono nel Paese dopo un lungo periodo nel campo di rifugiati di Ain al-Hilweh in Libano).

“Successo parziale”

Per cui è stato così che alla fine della guerra 125.000 arabi rimasero nello Stato di Israele e 160.000 alla fine del 1949, la maggioranza dei quali nel nord. Manna non spiega per niente come ciò accadde, citando solo quelli, tra i 20.000 e i 30.000, che vennero cooptati all’interno della popolazione del Paese nel maggio 1949 con l’annessione allo Stato del “Triangolo”, che va da Umm al-Fahm fino a Kafr Qasem. Egli sostiene che questi individui utilizzarono vari metodi per “sopravvivere” (collaborando con le autorità, nascondendosi in grotte nei pressi dei loro villaggi, e così di seguito). Non spiega perché, se c’era davvero una politica complessiva di espulsione, non sia stata messa in pratica, perché l’esercito e la polizia non espulsero semplicemente gli arabi rimasti, villaggio dopo villaggio, e lasciarono anche un gran numero di arabi ad Haifa, Acri e Giaffa, molti dei quali musulmani.

Riguardo a Nazareth, in cui la maggior parte della popolazione araba rimase, Manna giustamente nota la sensibilità israeliana verso l’opinione pubblica del mondo cristiano. Ma riguardo a Majdal Krum? A chi all’estero sarebbe importato che gli abitanti del villaggio di Manna o di quelli vicini – Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, oggi tutti grandi villaggi o cittadine – venissero espulsi alla fine dell’ottobre 1948? Nell’estate del 1948 l’IDF consigliò al governo che Acri venisse svuotata dei suoi abitanti. Perché, se l’espulsione era la prassi, non vennero espulsi fuori dal Paese, a Giaffa o altrove? Ben-Gurion temeva il suo ministro per le Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose all’espulsione degli abitanti di Acri)?

Non ci sono spiegazioni per tutto ciò, tranne l’assenza di una qualunque politica di espulsione, anche se Ben-Gurion e molti altri volevano che nello Stato ebraico rimanessero quanti meno arabi possibile, e certamente non ci fu un’ espulsione sistematica come sostiene Manna. Non fu la “tenacia” degli abitanti dei villaggi che impedì la loro espulsione – se ci fosse stato un ordine di espulsione, se ne sarebbero andati (come successe a Caesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi in cui agli abitanti venne ordinato di andarsene).

“Nonostante i molti tentativi da parte dell’esercito e di altri elementi di espellere gli arabi dalla zona, il successo fu solo parziale,” scrive Manna. Un’assurdità. Quando qualcuno punta contro di te e contro la tua famiglia un fucile e ti dice di andartene, soprattutto dopo che ha già ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna sono semplicemente poco serie.

L’autore ha apportato un significativo contributo al discorso sugli arabi in Israele, sottolineando l’influenza della Nakba sulle loro vite e mentalità negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state interiorizzate da molti ebrei israeliani. Ci sono molti passi del libro in cui Manna critica il suo stesso popolo. Descrivendo le azioni degli arabi nella rivolta del 1936-1939, ad esempio, li accusa di aver commesso “gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, incendiando campi e distruggendo proprietà…Il terrorismo venne impiegato anche all’interno della stessa comunità araba, soprattutto contro gli oppositori della rivolta.”

Scrive anche che i dirigenti della rivolta, compreso Haj Amin al-Husseini [Gran Muftì di Gerusalemme e leader politico palestinese, ndt.] assunsero “posizioni estremiste e intransigenti, che causarono gravi danni” ai palestinesi. Tuttavia questi lampi di lucidità critica sono davvero rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (ed i loro storici?) e afferma che non hanno ancora condotto “un dibattito critico e serio sulla storia della Nakba e sulle sue implicazioni.” Si direbbe che ha ragione.

Per la Nakba non c’era bisogno di una “politica di espulsione”

A differenza di quanto sostiene Benny Morris, il saggio di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza” è un libro stimolante, degno di nota per il suo approccio metodologico nel presentare una storia credibile e sfaccettata della tragedia palestinese del 1948

Haaretz

Di Daniel Blatman – 4 agosto 2017

Le critiche di Benny Morris all’importante libro “Nakba e sopravvivenza: la storia dei palestinesi che sono rimasti ad Haifa e in Galilea, 1948-1956” di Adel Manna (vedi articolo “Israele non aveva una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948,” 29 luglio) sono parte dei tentativi dello storico – durati in modo continuativo per 15 anni – di negare quello che egli sosteneva in passato: che Israele mise in atto una pulizia etnica a tutti gli effetti durante la guerra di indipendenza di Israele del 1948. (“Nakba”, che significa catastrofe, è il termine utilizzato dagli arabi per descrivere la guerra, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante un periodo di circa due anni).

In passato Morris lo ha affermato con encomiabile coraggio. In un dibattito con lo scrittore israeliano Aharon Megged sulle pagine di Haaretz nel 1994 dichiarò: “Il nuovo materiale fattuale che è stato reso pubblico nei documenti (per esempio: dettagli che sono stati celati riguardo a massacri, espulsioni ed espropri condotti dalle forze di difesa ebraiche nel 1948 e negli anni seguenti) hanno dato luogo a una diversa interpretazione dell’impresa sionista. La principale aspirazione del sionismo era di risolvere i problemi del popolo ebraico nella Diaspora con la costruzione di un’entità statale che sarebbe stata un rifugio per gli ebrei e un Paese modello.”

“Ma,” continuava Morris, “i sionisti avevano anche altri obiettivi: prendere il controllo della Terra di Israele dal mare al fiume [Giordano] per sostituire i palestinesi che vi vivevano: per cacciarli fuori dal Paese nel momento decisivo le forze di difesa del movimento sionista diedero espressione al bisogno bellicoso ed espansionista che è sempre stato alla base dell’ideologia sionista, e fecero in modo – sia con mezzi per farli fuggire e espellerli, o impedendo il ritorno dei rifugiati – di spingere fuori dai confini dello Stato in formazione la grande maggioranza degli arabi che vivevano nelle zone che divennero lo Stato di Israele, ed anche di allargare lo Stato oltre le linee disegnate dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 [che diede il beneplacito alla partizione della Palestina, ndt.].”

Il Benny Morris del 1994 ha fatto un lavoro migliore per spiegare quello che il dott. Manna afferma nel suo libro. Ma negli ultimi anni Morris ha cercato di “correggere un errore” e di dimostrare che le conclusioni a cui è arrivato con le sue ricerche sull’espulsione dei palestinesi erano in realtà sbagliate. Non so cosa gli abbia fatto cambiare le conclusioni riguardo alla catastrofe che Israele inflisse al popolo palestinese nel 1948. Quello che è peggio è il fatto che Morris critichi maliziosamente una ricerca che sta cercando, in modo equilibrato e critico, di affrontare la Nakba e le sue conseguenze da un punto di vista che non corrisponde alla narrazione sionista – una narrazione che anche Morris aveva duramente contestato in passato per i suoi preconcetti ideologici.

Morris nella sua recensione afferma: “Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo hanno fatto anche negli anni successivi alla guerra; non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non c’è neppure stata una guerra: c’è stato solo un’espulsione e nient’altro.” Ma questa non è un’affermazione simile a quelle che egli stesso aveva fatto 23 anni fa?

Nel suo libro Manna fa uno stimolante tentativo di scrivere una storia sfaccettata della tragedia palestinese, e il suo approccio metodologico è degno di nota. Ha ragione quando sostiene che la ricerca israeliana riguardante gli avvenimenti che hanno riguardato il 1948 soffre del problema di una separazione innaturale tra la “ricerca ebraica” e la “ricerca araba”. In altre parole, tra la storia scritta dagli storici ebrei e quella scritta dagli storici arabi. Ci sono molte ragioni di questa divisione, dal fatto di comprendere le lingue pertinenti all’influenza delle narrazioni nazionali sullo storico.

A differenza di molti dei suoi critici, Manna parla correntemente l’arabo, l’ebraico e l’inglese, ed è questa la ragione per cui, per esempio, può leggere ed esaminare non solo documenti ufficiali dell’Haganah (la milizia armata ebraica pre-statale), ma può anche analizzare la stampa araba e altre fonti arabe. In altre parole, a differenza di Morris, le cui ricerche si basano principalmente sui documenti ufficiali degli archivi israeliani ed inglesi, Manna presenta un quadro complesso e più credibile della tragedia palestinese.

La tendenziosità di Morris è chiara, per esempio, anche nelle sue critiche a Banna riguardo alle interviste che ha raccolto dai sopravvissuti della Nakba, che sono ora uomini e donne anziani. Com’è possibile, contesta Morris, che dopo così tanti anni la gente ricordi quello che accadde realmente? Secondo Morris ” Attraverso ‘Nakba e sopravvivenza’ egli «mostra» che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente).”

In altre parole secondo Morris quello che importa realmente per comprendere “quello che accadde realmente” è quello che ha trovato lui negli archivi israeliani o britannici. Strano, dato che in una recensione che scrisse nell’edizione ebraica di Haaretz (“Quei rifugiati non hanno nessun posto in cui tornare, 24 novembre 1992) in una raccolta enciclopedica pubblicata dall’Instituto per gli Studi Palestinesi sui villaggi palestinesi che furono cancellati dalle mappe nel 1948, pensava in modo diverso: “Gli autori non hanno intervistato rifugiati (e tra pochi anni non ne rimarrà nessuno”), affermò.

Benny Morris crede ancora che il ruolo dello storico non sia altro che quello di raccontare ai suoi lettori quello che ha trovato in un archivio e in documenti resi pubblici da qualche organizzazione governativa o meno. Se gli studi sull’Olocausto, per esempio, avessero continuato ad essere basati su un approccio simile – come è stato in realtà il caso della storiografia tedesca negli anni ’70 – non avremmo saputo praticamente niente sulle vite degli ebrei e sui loro tentativi di sopravvivere durante gli anni della loro grande tragedia, come oggi sappiamo grazie alle molte testimonianze degli stessi sopravvissuti.

Ed è proprio quello che fa Manna: propone la storia della tragedia nazionale del suo popolo dal punto di vista della vittima, del sopravvissuto. La politica di Israele sul problema palestinese e la politica di espulsione non sono il cuore del libro: quello che vi si trova è la storia dell’espulsione e della sopravvivenza.

Anche sulla questione dell’espulsione Morris si agita nel tentativo di allontanare se stesso da quello che era una volta. Ma qui cammina su un terreno minato: ricercatori seri del fenomeno della violenza di massa non devono trovare una prova inequivocabile dell’esistenza di una “politica di espulsione” per arrivare alla conclusione che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Egli asserisce che non ci fu una politica di questo tipo, e se ci furono direttive emesse per perpetrare massacri nei villaggi palestinesi esse furono comunicate, egli afferma, “attraverso un ordine (generico).”

Si potrebbe pensare che quando gli Ottomani decisero di espellere gli armeni nel 1915 lo abbiano pubblicato sulla stampa ufficiale, o quando Ratko Mladic decise di massacrare oltre 7.000 musulmani bosniaci, uomini e ragazzi, a Srebrenica nel 1995 abbia reso pubblico il suo ordine. Ordini e istruzioni di attuare tali crimini sono dati oralmente, in discussioni riservate e in modo implicito, in un linguaggio ambiguo. Ciò non significa che quelli che li mettono in atto non sappiano esattamente quello che intende la persona che dà questi ordini ambigui.

Morris scopre la prova definitiva della debolezza delle affermazioni di Manna riguardo alle espulsioni nel fatto che alla fine della guerra 160.000 arabi rimasero all’interno di Israele. Questa è un’espulsione? Se ci fosse stata una politica di espulsione, chiede, come è possibile che siano rimasti così tanti palestinesi? Ciò mi ricorda quello che hanno scritto i negazionisti dell’Olocausto nei primi anni dopo la II guerra mondiale. Una soluzione finale? Di cosa state parlando? Com’è possibile che centinaia di migliaia di ebrei siano rimasti in ogni Paese europeo, e milioni in Unione Sovietica? Forse, sostengono questi antisemiti, molte centinaia di migliaia morirono per le dure condizioni in vari posti – ma…camere a gas e uccisioni di massa?

Ovviamente nessuna ricerca è priva di errori e di affermazioni imprecise. Questo è vero anche per la ricerca di Manna, e Morris cita alcune di queste. Ma il libro di Manna è un importante contributo allo studio della tragedia palestinese e soprattutto una rara opportunità per il lettore ebreo di comprendere gli aspetti umani della grande catastrofe che l’indipendenza nazionale del suo popolo ha inflitto a membri di una nazione che ha vissuto in questo Paese per molti anni prima di essa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Fanculo, spazzate via Gaza”, dice un portavoce della nuova campagna UE

Ali Abunimah e Dena Shunra – 3 agosto 2017, Electronic Intifada

L’Unione Europea ha ingaggiato come volto di una nuova campagna promozionale un israeliano che invoca una violenza genocida contro i palestinesi.

Avishai Ivri compare in un video postato lo scorso mese dall’ambasciata dell’UE a Tel Aviv sulla sua pagina Facebook.

“L’Unione Europea. Pensate che sia contro Israele, vero?” Inizia a dire Ivri. “Lasciate che vi sorprenda.”

Ivri allora elenca statistiche sui rapporti commerciali e turistici, intese a convincere gli spettatori israeliani di quanto l’Unione Europea favorisca Israele. Ha anche vantato che l’UE è un acquirente dell’industria bellica di Israele, sopratutto droni.

L’UE “è il miglior vicino che abbiamo,” ha concluso Ivri.

Appoggio il genocidio

Ivri era un autore di “Latma”, un spettacolo di sketch ormai terminato che rifletteva punti di vista di estrema destra e razzisti, come raffigurare migranti e rifugiati dai Paesi africani come scimmie.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg.

Durante l’attacco israeliano del novembre 2012 che uccise 174 palestinesi [si riferisce all’operazione “Pilastro di difesa”, ndt.], Ivri auspicò che fosse ancora più violento.

“C’è una strategia che non è ancora stata sperimentata; 1.000 arabi uccisi per ognuno dei nostri morti,” twittò. “Penso che dalla scorsa settimana siano in debito con noi di 5.000 [morti].”

Durante lo stesso attacco Ivri raccomandò: “Fanculo, spazzate via Gaza.”

Ivri è un convinto sostenitore della soluzione dello Stato unico, ma in cui palestinesi e israeliani non avrebbero gli stessi diritti. Al contrario, appoggia l’eliminazione dei palestinesi come intero popolo – un obiettivo che corrisponde alla definizione del diritto internazionale di pulizia etnica e probabilmente di vero e proprio genocidio.

Nel gennaio 2013 Ivri ha twittato che “Giudea e Samaria” – il nome che Israele utilizza per la Cisgiordania occupata – “possono sempre essere annesse, punto e basta.” Se i palestinesi oppongono resistenza, avverte, “saranno portati via, su camion. La forza è sempre un’opzione, ma preferiamo una soluzione concordata (ma sennò, la forza).”

“Non esiste una cosa come una nazione palestinese e sicuramente non ha interesse in uno Stato,” a twittato in febbraio.

“Nello Stato di Israele a 500 anni da oggi nessuno ricorderà che ci fosse una cosa chiamata palestinesi, ” ha twittato in maggio.

“I palestinesi sono una Nazione?” chiese nel 2012, prima di rispondersi: “Sono merda.”

Ivri vede i continui attacchi israeliani contro i palestinesi come la possibilità per Israele di mettere in atto il suo progetto violento teso ad eliminare la Palestina.

Durante l’attacco israeliano dell’estato 2014 contro Gaza che ha ucciso più di 2.200 palestinesi [si riferisce all’operazione “Margine protettivo”, ndt.], compresi 550 bambini, Ivri ha invocato la conquista totale del territorio costiero – così come della Cisgiordania.

Ivri ha twittato: “In 10 anni, quando Israele sarà il potere sovrano sia a Gaza che in Giudea e Samaria, ci domanderemo a cosa abbiamo pensato per 30 (o 60) anni e perché non lo abbiamo fatto parecchi anni fa.”

“Nessuno governerà Gaza per Israele. Solo Israele lo può fare,” ha twittato durante lo stesso attacco israeliano, aggiungendo che “i giorni al potere” del capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas “sono contati, e dopo che se ne sarà andato Israele governerà anche sulla Giudea e Samaria.”

Durante l’attacco Ivri ha anche diffuso un articolo in cui sosteneva che Israele sarebbe stato giustificato se avesse tagliato le forniture idriche ed elettriche a Gaza – cosa che è stata fatta, violando le leggi internazionali.

Disumanizzare i palestinesi

Ivri giustifica questo tipo di violenza che sostiene lo sterminio con la demonizzazione e disumanizzazione totale delle vittime del regime di occupazione e di apartheid israeliano. Ironicamente, a volte riconosce l’esistenza dei palestinesi unicamente per individuarli come demoni.

“I palestinesi sono gli eredi dei nazisti,” ha twittato nel maggio 2016, aggiungendo che la bamdiera palestinese “significa una sola cosa = un appello per uccidere ebrei, ovunque siano.”

Questo è stato un argomento costante. Nell’ottobre 2014 ha offerto una “sintesi: i palestinesi sono nazisti.”

Non hanno ancora costruito camere a gas,” ha affermato, perché “la cosa più moderna che hanno avuto a disposizione sono ordigni esplosivi artigianali. Ma sono assolutamente nazisti.”

Durante l’attacco del 2014 contro Gaza, ha twittato che “Hamas è nazista. Non come loro, non approssimativamente, non qualcosa di simile. Nazisti.”

Nell’ottobre 2015, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha provocato uno scandalo internazionale assolvendo Hitler dall’ideazione dello sterminio di milioni di ebrei europei e accusando invece un palestinesi [il Gran Muftì di Gerusalemme, ndt.], Ivri ha detto la sua appoggiandolo palesemente.

“I palestinesi si sono offerti volontari per aiutare Hitler,” ha affermato Ivri. “E’ una cosa ben nota.”

Di norma, ci si aspetterebbe che la UE rifiutasse paragoni gratuiti di altri avvenimenti con il genocidio nazista. Ma a quanto pare ciò va bene purché il bersaglio siano i palestinesi.

L’istigazione di Ivri non prende di mira solo i palestinesi nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Odia anche i palestinesi cittadini di Israele, riferendosi ai beduini come a una “bomba ad orologeria”.

Si fa anche promotore della discriminazione razziale nelle assunzioni: “Un datore di lavoro non può sapere se i suoi dipendenti potenziali sono coinvolti nel terrorismo. Cosa dovrebbe fare? Chiaramente non vorrebbe assumere per niente arabi. Mettetevi per un attimo nei suoi panni.”

Sostegno a favore di crimini di guerra

Il sostegno di Ivri a favore di crimini di guerra contro palestinesi è costante e disinvolto. Quando nel marzo 2016 Elor Azarya ha giustiziato a sangue freddo il palestinese ferito e impossibilitato a nuocere Abd al-Fattah Yusri al-Sharif – un omicidio per cui al medico dell’esercito è stato comunque data una lieve condanna – Ivri l’ha approvato.

“Un esercito veramente etico si assicura che i terroristi siano morti,” ha twittato.

Dal 2016, Israele ha incrementato la sua campagna contro i difensori dei diritti umani. Persino l’UE ha cercato di sollevare una timida protesta contro la cosiddetta legge israeliana della “trasparenza”, che inasprisce i controlli sui gruppi per i diritti umani che ricevono finanziamenti dai governi europei.

Ivri si è unito agli attacchi senza sosta del governo israeliano contro i gruppi, compreso l’israeliano B’Tselem, che documentano soprusi contro i palestinesi.

Lo scorso dicembre ha twittato che “B’Tselem e il resto delle organizzazioni europee operanti in Israele sono un’ulteriore arma nell’arsenale degli odiatori degli ebrei e di Israele nel mondo.”

L’UE promuove l’odio

Una richiesta via mail di “The Electronic Intifada” all’ambasciata UE di Tel Aviv includeva una domanda su quanto denaro dei contribuenti europei abbia ricevuto come compenso Ivri per il video.

L’ambasciata non ha risposto a questa domanda né alle altre sul costante incitamento di Ivri al razzismo ed alla violenza, compresi crimini di guerra.

Ma in precedenza l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv non ha fatto segreto del suo punto di vista estremista a favore di Israele.

In una lettera aperta che riflette sull’imminente fine dei suoi quattro anni come ambasciatore, Lars Faaborg-Andersen ha ricordato che da giovane negli anni ’70 passò un periodo in un kibbutz – una forma di colonia sionista che giocò un ruolo cruciale nella pulizia etnica dei palestinesi, ma che godette di una rosea reputazione progressista tra occidentali ingenui o complici [del sionismo].

“In quei giorni giovani europei e americani affluivano in Israele per partecipare all’esperimento dei kibbutz socialisti e dimostrare la propria solidarietà con David nella sua lotta per la sopravvivenza contro i Golia arabi che lo circondavano, ” ha scritto Faaborg-Andersen, facendo rispuntare la mitologia sionista che toglie di mezzo la Nakba, l’espulsione da parte di Israele della grande maggioranza della popolazione palestinese nel 1948, così come la successiva occupazione e colonizzazione della terra palestinese.

Durante il suo incarico come ambasciatore, Faaborg-Andersen e i suoi colleghi dell’UE hanno fatto tutto il possibile per promuovere la guerra di Israele contro la lotta palestinese per la sopravvivenza e la libertà, compreso il finanziamento dell’industria bellica e i torturatori israeliani, partecipando agli attacchi di Israele contro il movimento nonviolento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni e continuando ad essere pienamente complici del brutale assedio israeliano contro Gaza.

L’ambasciata dell’UE a Tel Aviv ha anche svolto il ruolo di campo di addestramento per membri della lobby di Israele a Bruxelles.

Ma sicuramente il risultato personale più vergognoso di Faaborg-Andersen sarà di essersi calato nella parte di aperto sostenitore della violenza genocida come il volto dell’Unione Europea e dei suoi molto strombazzati “valori”.

Ofer Neiman ha contribuito alla ricerca.

Ali Abunimah è direttore esecutivo di Electronic Intifada. Dena Shunra è traduttrice ed autrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alcuni Stati arabi temono che una rivolta palestinese possa far scoppiare un’altra primavera araba

Zvi Bar’el – 30 luglio 2017, Haaretz

Non tutti gli Stati musulmani sono uguali quando si tratta del “diritto” di proteggere quello che i musulmani chiamano il “Nobile Santuario”

In uno sconcertante comunicato rilasciato giovedì la famiglia reale saudita ha accreditato voci secondo cui re Salman si è riunito con alcuni leader mondiali per determinare un “punto di svolta” che ha portato al fatto che il Monte del Tempio [definizione ebraica della Spianata delle Moschee, ndt.] venisse riaperto ai fedeli musulmani.

La dichiarazione non rivela chi abbiano contattato il re o suo figlio Mohammed. Tuttavia è probabile che ci sia stata un colloquio con alti funzionari israeliani – se non direttamente, quanto meno attraverso consiglieri del principe ereditario che hanno noti legami con i dirigenti israeliani.

Il Monte del Tempio, o Haram al-Sharif (come è noto ai musulmani), può anche essere un luogo santo, ma la soluzione alla tempesta che si è scatenata in merito per due settimane è politica – ed ognuno dei “padri” della crisi sta cercando di attribuirsi una parte dell’onore di averla risolta.

Allo stesso modo c’è stata una lotta di potere sulla sovranità e sul controllo tra il WAQF (l’ente fiduciario religioso musulmano del luogo) e il governo israeliano, una lotta concentrata sul mantenere lo status quo – una cosa che è emersa da decisioni politiche, non religiose.

Il contenimento della crisi era pertanto focalizzato su due piani: prevenire che la crisi diventasse internazionale e che coinvolgesse le Nazioni Unite; evitare che straripasse nelle città musulmane nei Paesi arabi e musulmani. Ciò avrebbe provocato il fatto che i regimi arabi perdessero il controllo dello sviluppo della crisi e mettessero a rischio le delicate relazioni tra loro e l’opinione pubblica.

Proteste di massa – persino quelle derivanti da sentimenti religiosi – possono rapidamente trasformarsi in proteste contro la politica interna, la mancanza di libertà di espressione, le difficoltà economiche e la mancanza di democrazia.

La novità nell’attuale questione è che Israele non era l’unico a temere un’intifada palestinese. Molti dirigenti arabi condividevano la preoccupazione perché – come dimostrato durante le “Primavere arabe” all’inizio di questo decennio – le rivolte sono un male pericoloso e contagioso e un’intifada palestinese non è più solamente un riflesso di una lotta nazionalista contro l’occupazione israeliana. Potrebbe mobilitare una tale solidarietà di massa che potrebbe mettere i regimi arabi in violento contrasto con i loro popoli.

Il movimento di protesta egiziano Kefaya è nato nel 2004, per combattere le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi, l’occupazione USA dell’Iraq e per la richiesta di riforme in Egitto. La potenzialità del Monte del Tempio di mobilitare le masse e la minaccia che ciò pone sono molto maggiori, e non solo perché riguarda tutti gli Stati islamici. Questo potenziale impedisce ai regimi musulmani di bloccare qualunque manifestazione generi, a causa dell’aureola sacra che la circonda, imponendo loro di apparire come se appoggiassero le richieste dell’opinione pubblica contro chi viola la sacralità del luogo.

Ma non c’è santità senza politica, e quello che appare come un sito universale dei musulmani – che richiede ad ogni musulmano che lo protegga con ogni suo mezzo – ha alla sua base anche dispute interne tra Stati arabi e musulmani. Fa tornare alla mente la controversia ebraica sul controllo del Muro del Pianto e delle relative preghiere.

Non tutti gli Stati musulmani sono uguali quando si tratta del “diritto” di proteggere il Monte del Tempio. Da una parte c’è l’Iran, uno Stato musulmano sciita che santifica il Monte del Tempio e rilascia dichiarazioni militanti contro il fatto che Israele lo stia trasformando in un sito ebraico. Ma gli Stati arabo-sunniti non accordano all’Iran il diritto di esprimere un parere sulla questione. Ma persino tra gli Stati islamici sunniti l’Afganistan o la Malaysia non hanno lo status dell’Egitto o della Giordania, e quello della Turchia e del Qatar non è lo stesso dell’Arabia saudita quando si tratta del Monte del Tempio. Ciò non perché siano meno musulmani o arabi, ma perché la controversia è politica e solo i noti “membri di un circolo ristretto” hanno il permesso di avere un ruolo in questa particolare contesa.

Il circolo ristretto ha anche una rigida gerarchia. Per esempio, l’unico rappresentante dei luoghi santi islamici in Palestina, secondo la decisione della Lega araba, è l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce la maggior parte delle fazioni palestinesi, ndt.]. Ma lo stesso Yasser Arafat, che forzò la mano della Lega per ottenere la rappresentanza esclusiva, condivise la responsabilità con altri Stati arabi quando venne messo in discussione il futuro del Monte del Tempio.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas sta seguendo le orme di Arafat a questo proposito. Potrebbe respingere una richiesta del presidente USA Donald Trump, ma non dell’Arabia saudita.

Il diritto degli Stati arabi di intervenire sulla questione palestinese in generale, e del Monte del Tempio in particolare, dipende principalmente dalla loro presenza nell’arena mediorientale. Per esempio, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan può maledire Israele quanto vuole, chiedere al mondo musulmano di andare al Monte del Tempio a manifestare la propria adesione all’islam, accusare Israele di volersi impossessare del luogo sacro e impegnarsi a non demordere finché non venga ristabilito lo status quo sul Monte del Tempio. Ma in pratica il suo peso e la sua autorità nell’influenzare l’ANP o i capi religiosi della Cisgiordania, per non parlare di Israele, sono quasi nulli.

I contatti della Turchia con Hamas, il suo schierarsi con il Qatar nella crisi con l’Arabia Saudita, il suo prendere le distanze dall’Egitto e le sue relazioni con l’Iran lasciano Erdogan con un microfono in mano ma senza una voce politica reale. Questa settimana Erdogan si è recato in Arabia saudita per conservare le proprie relazioni con re Salman e offrirsi di mediare tra l’Arabia saudita e il Qatar, ma senza molto successo.

Membro della coalizione sunnita istituita da re Salman, la Turchia sta già cominciando ad apparire in Arabia saudita come uno Stato non così amichevole. Recentemente Erdogan ha inasprito i toni contro l’Europa, soprattutto la Germania, e un quotidiano filo-governativo questa settimana ha affermato che la Germania di Angela Merkel è peggiore di quella di Hitler per odio e oppressione.

Inoltre Erdogan sta continuando a scontrarsi con Trump, mentre i suoi legami con la Russia sono sempre più stretti, con un accordo previsto per l’acquisto di missili S-400, che ha provocato una tempesta nella NATO.

La Turchia ha uno status strategicamente importante, con cui Erdogan si diverte a giocare, ma, in questo particolare gioco dello squash, sta andando incontro a un solido muro arabo.

L’Egitto sta prendendo una posizione a parte, riflessa non solo dalla presa di distanza dall’incidente del Monte del Tempio, ma anche nei tentativi del presidente Abdel-Fattah al-Sissi di stabilizzare i confini con Gaza a spese dell’ANP; nel suo preponderante sostegno all’acerrimo nemico di Abbas, Mohammed Dahlan; negli accordi che i capi dell’intelligence egiziana hanno ottenuto con Hamas per aprire il valico di confine di Rafah e piazzare un impianto energetico finanziato dagli Emirati Arabi Uniti – tutto ciò non ha permesso al presidente egiziano di fare pressione o influenzare Abbas. Ora Sissi è più interessato al processo di riconciliazione in Libia per proteggere i confini occidentali dell’Egitto da una infiltrazione terroristica.

Non c’è da sorprendersi, quindi, che le piazze egiziane siano rimaste in silenzio durante il clamore del Monte del Tempio e i media egiziani si siano occupati di altri problemi scottanti.

Sissi si sta coordinando e mantiene colloqui soprattutto con il re di Giordania Abdullah, con il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman e con Israele. Ciò è in contrasto con l’ex-presidente Hosni Mubarak, che in situazioni simili era solito convocare le parti al Cairo per definire una soluzione egiziana (non sempre con successo).

Il re di Giordania Abdullah II ha ricevuto un affronto da Netanyahu, che ha festeggiato il “rilascio” da Amman della guardia di sicurezza israeliana, mentre il re si agitava nel tentativo di spiegare gli avvenimenti. La Giordania è vista come la polveriera più sensibile riguardo al Monte del Tempio – tra l’altro perché la “Fratellanza Musulmana” in Giordania gode non solo di un riconoscimento legale rispetto all’Egitto e all’Arabia saudita, ma anche perché ha 16 dei 130 seggi in parlamento. Ma la sua rappresentanza simbolica non riflette il reale potere nelle strade, dimostrato dalla sua capacità di mobilitare manifestanti e di infiammare gli animi quando le questioni riguardano i rapporti con Israele in generale e i luoghi santi in particolare.

La Giordania, attraverso il Waqf, è la titolare riconosciuta del complesso della moschea di Al-Aqsa, e in base agli accordi di pace con Israele deve essere consultata su ogni questione riguardante lo status quo del luogo. La sua responsabilità, pertanto, non si limita a preservare la libertà di culto ad Al-Aqsa. La Giordania è vista come responsabile di fronte al mondo musulmano, anche se l’ANP ha preso il ruolo di unico rappresentante dei luoghi santi. Così, ogni episodio fuori dalle regole nel luogo santo potrebbe far vacillare lo status del re sia nel suo regno che rispetto agli altri Stati musulmani.

I dettagli dell’accordo raggiunto con Israele questa settimana non sono del tutto chiari. La Giordania ha annunciato che non è stato siglato nessun accordo e che il rilascio della guardia di sicurezza Ziv, che ha sparato ed ucciso due cittadini giordani [all’interno dell’ambasciata israeliana ad Amman, ndt.] è dovuto al suo rispetto dei protocolli internazionali riguardanti il personale diplomatico. Ma fonti giordane hanno detto ad Haaretz che “la rapidità con cui ha avuto luogo la liberazione, insieme alla rimozione dei metal detector (alle entrate del Monte del Tempio), indica che è stato fatto un accordo ed è probabile che consista in ulteriori impegni israeliani che non sono stati resi noti.”

Se Israele si è preso tali impegni, questi non riguardano necessariamente il Monte del Tempio, ma piuttosto la cooperazione militare e di intelligence tra i due Stati – o piuttosto l’intercessione israeliana presso Trump per incrementare l’aiuto USA alla Giordania.

Una delle domande ancora senza risposta è perché, contrariamente alle stime e alle previsioni di funzionari della Difesa israeliana, non sia scoppiata un’intifada su larga scala. A prima vista negli attuali avvenimenti del Monte del Tempio sono presenti tutti gli ingredienti che nel 2000 hanno fatto scoppiare la Seconda Intifada. Un oltraggio al luogo santo; misure per la presa di possesso ebraica dell’ingresso al sito; l’assenza di un processo di pace; l’indifferenza araba ed internazionale; una lotta interna tra palestinesi. Ma l’errore di fondo nell’affidarsi ad un’analogia come strumento per analizzare e valutare il comportamento dei dirigenti e dell’opinione pubblica sta nel dare molta importanza alle similitudini e ignorare o eliminare le differenze.

E’ possibile fare un elenco di innumerevoli differenze tra il contesto, le circostanze e il comportamento politico e militare di israeliani e palestinesi nel 2000 e nel luglio 2017. Ma sembra che la differenza fondamentale sia che la Seconda Intifada scaturì dal successo della Prima Intifada, che portò alla firma degli accordi di Oslo.

I tragici risultati della Seconda Intifada – sia dal punto di vista umanitario che strategico – sono rimasti profondamente impressi nella memoria collettiva palestinese. E’ difficile immaginare quale sia la data di scadenza di un trauma simile. La guerra civile in Libano rappresenta ancora un’efficace protezione contro un suo nuovo scoppio. Forse anche in Palestina il trauma funziona ancora – ma è meglio non metterlo alla prova.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele sotto tiro per gli attacchi a giornalisti palestinesi ed agenzie di informazione

30 luglio 2017, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Nei giorni scorsi le forze israeliane sono state oggetto di una severa condanna per attacchi a giornalisti palestinesi e agenzie di informazione, in seguito ad un’incursione nella notte di sabato contro una società di produzione mediatica a Ramallah ed a molteplici attacchi a giornalisti che informavano sulle proteste di massa nei territori palestinesi occupati contro le misure di sicurezza, ora ritirate, alla Moschea di Al-Aqsa.

In un raid all’alba di sabato le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di PalMedia, una società di produzione nel settore dei media, che fornisce servizi di trasmissione a parecchi organi di informazione, tra cui Russia Today, al-Mayadeen, al-Manar e al-Quds News, hanno messo a soqquadro gli uffici e distrutto attrezzature, con l’accusa di presunta “istigazione”.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha denunciato il raid in una dichiarazione in cui ha affermato che “le politiche israeliane di violenza e repressione sono un palese tentativo di spezzare la risolutezza del popolo palestinese” e configurano una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani relativamente alla libertà di espressione.

Israele si sta chiaramente impegnando in una costante politica che prende di mira deliberatamente i mezzi di comunicazione ed i giornalisti palestinesi che lavorano con coraggio per rappresentare la narrazione umana palestinese e che informano sull’ occupazione militare israeliana e le sue permanenti politiche di apartheid e di pulizia etnica,” ha detto.

Queste politiche israeliane di violenza e repressione, come anche i recenti attacchi contro esponenti della stampa palestinese all’interno e intorno a Gerusalemme est occupata, sono un palese tentativo di spezzare la tenacia del popolo palestinese.”

Ha invitato la comunità internazionale ad agire immediatamente per “frenare la continua violazione da parte di Israele delle leggi e delle convenzioni internazionali e per sostenere i nostri sforzi nonviolenti e diplomatici per chiedere giustizia e protezione per il popolo palestinese in tutte le sedi giuridiche internazionali.”

Anche il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) domenica ha rilasciato una dichiarazione in risposta al raid contro PalMedia ed a ciò che ha definito un palese incremento degli attacchi contro giornalisti “che svolgono il proprio lavoro informando circa i sit-in pacifici organizzati da abitanti di Gerusalemme.”

La grande quantità di violenti attacchi indiscriminati contro media e giornalisti conferma la persistenza delle violazioni e dell’aggressione dell’occupazione israeliana alle libertà dei mezzi di comunicazione con diversi mezzi violenti”, ha dichiarato l’ONG con sede a Ramallah.

Mada considera questi incidenti come mezzi per impedire che si diffonda al resto del mondo la vera immagine di ciò che sta avvenendo sul terreno e le politiche messe in atto contro i palestinesi, ed inoltre insiste sull’urgente necessità di perseguire i responsabili di tali attacchi, che sono tuttora impuniti.”

Mada ha affermato che, nelle ultime due settimane, ha osservato decine di violazioni commesse dalle forze israeliane nei confronti di giornalisti a Gerusalemme.

Questi attacchi erano di diverso tipo, ma comprendevano arresti, pestaggi, minacce, confisca e distruzione di attrezzature, impedimento di trasmettere gli avvenimenti, interrogatori ed il fatto di prendere di mira giornalisti con pallottole vere e lacrimogeni.”

Il 22 luglio la corrispondente televisiva di Ma’an Mirma al-Atrash è stata colpita da un candelotto di gas lacrimogeno e lievemente ferita al viso durante una protesta nella città di Betlemme, in Cisgiordania.

Mada ha sottolineato il violento arresto, filmato, del fotogiornalista Fayez Abu Rmeila durante una protesta il 25 luglio, aggiungendo che egli è stato sottoposto a due interrogatori dopo che è stato spinto e picchiato da un poliziotto che gli ha anche confiscato la carta di identità e la memory card.

Abu Rmeila ha detto a Mada che “a causa di una disputa insorta tra me ed il poliziotto, lui mi ha aggredito e minacciato di spaccarmi la testa se avessi parlato in malo modo.” In seguito ha detto di essere stato nuovamente picchiato, insultato ed ingiuriato nel centro di detenzione.

Il rapporto di Mada elenca almeno altri 11 giornalisti, inviati di organi locali ed internazionali come la Reuters, aggrediti a Gerusalemme da poliziotti israeliani.

Anche l’Ong “Reporter Senza Frontiere” ha condannato gli ostacoli posti dalle forze israeliane alla copertura mediatica nel corso della crisi di Al-Aqsa, azione che era già stata ampiamente denunciata dal sindacato palestinese dei giornalisti, dal ministero dell’Informazione palestinese, dal “Comitato di Protezione dei Giornalisti” e da altri.

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa ha accusato le forze israeliane di fare uso di “intimidazione, divieto di accesso, violenza ed arresti per limitare o impedire la copertura mediatica delle manifestazioni e degli scontri scatenati dall’introduzione di ulteriori misure di sicurezza intorno alla Moschea di Al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme.”

In seguito ad un precedente raid contro l’ufficio di PalMedia tre anni fa, “Reporter Senza Frontiere” ha affermato che il raid “si è aggiunto al lungo elenco di violazioni dei diritti dei mezzi di informazione palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane, attraverso continue minacce, arresti ed operazioni militari.”

Israele è stato accusato di etichettare qualunque mezzo di informazione critico nei confronti di Israele e delle sue politiche nelle comunità palestinesi come “istigazione”, allo scopo di reprimere le critiche alle politiche discriminatorie di Israele, alla sua perdurante occupazione della Cisgiordania giunta al suo cinquantesimo anno e al suo decennale assedio della Striscia di Gaza, che ha precipitato quel territorio in una interminabile crisi umanitaria.

Nel bel mezzo delle proteste a Gerusalemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anche accusato la rete televisiva satellitare Al Jazeera, con sede in Qatar, di aver “incitato deliberatamente alla violenza” ad Al-Aqsa attraverso la sua informazione sugli eventi, ed ha chiesto che gli organi competenti israeliani chiudano i suoi uffici in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




L’innamoramento di Israele per gli antisemiti ungheresi mette in luce l’orribile essenza del sionismo

Asa Winstanley – 26 luglio 2017,Middle East Monitor

Il sionismo, l’ideologia ufficiale dello Stato di Israele, è sempre stato un progetto politico antisemita. Benché il sionismo si sia presentato come una soluzione all’antisemitismo europeo, in realtà ha significato una sua continuazione nello spirito e nella pratica.

La premessa di base che sta dietro al sionismo è sempre stata fondamentalmente anti-ebraica. L’idea che gli ebrei non siano autentici cittadini dei loro Paesi d’origine in Europa ed altrove e che dovrebbero andarsene per diventare coloni in un Paese straniero – Israele – è tale che la sinistra politica non ha problemi a riconoscerla come antisemita quando è sostenuta dalla destra politica. Quando la stessa menzogna esce dalla bocca dei sionisti, allora (compreso qualche qualche gruppo progressista e di sinistra) viene accettata perché appoggiano Israele. E’ ora di porre fine a questa ipocrisia e di ammettere che il sionismo è antisemitismo.

Un’ulteriore prova di ciò è risultata evidente all’inizio di questo mese con la questione di George Soros in Ungheria. Il governo di destra ha lanciato una campagna di manifesti esplicitamente anti-semiti che ha preso di mira gli immigrati; i manifesti mostravano il volto sorridente di Soros e una didascalia: “Non lasciamo che Soros abbia l’ultima parola [letteralmente: che rida per ultimo, ndt.]!”

Nato ebreo ungherese, Soros è un finanziere miliardario e finanziatore di cause progressiste attraverso le sue “Fondazioni per una Società Aperta”. I beneficiari della sua generosità includono gruppi che promuovono politiche immigratorie più aperte.

Il messaggio chiaramente insito nei manifesti era che ricchi ebrei stanno dietro una trama per inondare l’Ungheria di immigrati, una tipica menzogna della propaganda fascista. “Human Rights Watch”, un’organizzazione in parte finanziata da Soros, ha condannato la campagna, affermando che “evoca ricordi dei manifesti nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.”

Anche la comunità ebraica ungherese ha manifestato preoccupazione, e l’ambasciata israeliana a Budapest inizialmente ha fatto lo stesso. Tuttavia, ore dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu – che è anche il ministro degli Esteri – in un comunicato rilasciato dal ministero degli Esteri ha scavalcato l’ambasciata. Il “chiarimento” ha sostenuto che George Soros “minaccia continuamente i governi israeliani democraticamente eletti” ed ha affermato che finanzia organizzazioni “che diffamano lo Stato ebraico e cercano di negargli il diritto di difendersi.”

B’tselem, il gruppo per i diritti umani israeliano che si dedica a documentare le violazioni a danno dei palestinesi da parte di Israele, è un altro gruppo sostenuto dalle fondazioni di Soros.

Il “chiarimento” di Netanyahu è molto significativo in quanto ha offerto un appoggio al primo ministro ungherese Viktor Orban. Lo scorso mese Orban ha elogiato il leader ungherese della Seconda Guerra Mondiale Miklos Horthy, definendolo uno “statista eccezionale”. Horthy fu un alleato di Adolf Hitler e il suo regime collaborò con i nazisti nella deportazione degli ebrei. Mezzo milione di ebrei ungheresi furono uccisi durante l’Olocausto nazista.

Ciononostante Netanyahu ha dato il proprio sostegno al leader ungherese alla vigilia della sua visita a Budapest all’inizio del mese, durante la quale ha lodato le credenziali filo-israeliane di Orban. “C’è un nuovo antisemitismo che è rappresentato dall’anti-sionismo e che consiste nel delegittimare l’unico Stato ebraico,” ha detto Netanyahu dopo colloqui con Orban. “L’Ungheria è, in molti modi, all’avanguardia degli Stati che vi si oppongono.”

Questa è in sintesi la politica israeliana: l’antisemitismo è ridefinito da “odio degli ebrei in quanto tali” a “critiche contro Israele”. Ciò ha raggiunto un culmine talmente estremo che persino ai sionisti non ebrei è consentito di uscirsene con i giudizi anti-ebraici più stravaganti finché appoggiano Israele sempre e comunque.

La faccenda ci ricorda un cartone animato orribilmente antisemita creato nel 2015 da un’organizzazione di coloni israeliani che riceve finanziamenti pubblici. Il grottesco esempio di propaganda era un attacco generalizzato contro B’tselem, Yesh Din e altri gruppi israeliani per i diritti umani. In esso un personaggio losco, con il naso grande definito come “Lo ebreo” [nel testo inglese “Ze Jew”], ha delle monete europee lanciategli in cambio di bugie propagandistiche inventate contro Israele. Classico esempio antisemita di incitamento contro gli ebrei critici di Israele, era persino intitolato “L’ebreo eterno”, come un film di propaganda nazista del 1940.

Come ha scritto recentemente Haaretz in un editoriale sulla faccenda di Soros, “Chi sostiene progetti universalisti e lotta per i diritti umani, compresi i diritti delle minoranze e degli stranieri, in Israele è denunciato come nemico.”

Attivisti ebrei nei movimenti di solidarietà con la Palestina in Gran Bretagna raccontano sistematicamente di essere vittime delle denunce più ferocemente antisemite da parte dei sionisti, che spesso esprimono l’auspicio che gli attivisti o le loro famiglie fossero stati uccisi durante l’Olocausto.

Riguardo a Soros, la destra ungherese e quella israeliana sembrano aver trovato una causa comune. Poco dopo che Netanyahu ha appoggiato la campagna di odio anti-semita di Orban, un parlamentare del suo partito di estrema destra, il Likud, ha proposto quella che ha chiamato la “Legge Soros”, per bloccare le donazioni ai gruppi di sinistra che godono di finanziamenti stranieri.

L’innamoramento di Israele per gli antisemiti ungheresi mette in luce l’orribile essenza del sionismo. La sua china verso il fascismo sempre più esplicito continua a ritmo sostenuto.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Giornalisti del NYT, della Reuter e dell’Economist autocensurano i propri articoli da Israele in modo da non essere “brutalmente presi di mira”- John Lyons

Philip Weiss – 26 luglio 2017,Mondoweiss

Negli USA la lobby israeliana viene citata di rado in modo critico sui media più importanti. Ma controllate questo brano del programma politico ” Drum ” [“Tamburo” in inglese] della ABC australiana di due giorni fa: i corrispondenti, veterani del Medio Oriente, Antony Loewenstein e John Lyons descrivono le incessanti pressioni da parte di Israele e della sua lobby su giornalisti che sono critici nei confronti di Israele.

La conduttrice del programma Ellen Fanning ha notato che nel nuovo libro di Lyons (“Balcony Over Jerusalem: A Middle East Memoir” [ “Balcone su Gerusalemme: ricordi del Medio Oriente”]) egli ricorda di essersi incontrato con un importante corrispondente dell’agenzia di stampa France-Presse e di avergli chiesto: “Quanti corrispondenti dall’estero si autocensurano? “

Lyons:

“Ha risposto: ‘Tutti’, e lui è uno dei più duri capi redazione in circolazione. Come parte del libro ho intervistato The New York Times, the Economist, Reuters, AFP, ed ho scoperto una caratteristica comune. La Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] ha persino proprie parole specifiche che si possono utilizzare per non far arrabbiare gli israeliani. Sono andato là con l’idea che se fossi stato a Washington e a New York avrei raccontato quello che vedevo. Ma ogni volta che avessi voluto parlare di colonie, qualcosa di reale, sarei stato preso di mira, in quanto giornalista.”

“Se racconti la verità su quello che vedi davanti a te in Israele e in Cisgiordania, sarai brutalmente preso di mira.”

Lyons è un giornalista di grande esperienza. E’ stato corrispondente per sei anni da Gerusalemme per “The Australian” [principale quotidiano australiano, ndt.] ed ora è co- direttore editoriale del giornale.

Gli attacchi non vengono solo da Israele, ma dalla lobby filo-israeliana globale. Lyons:

“Beh, nel libro ho scritto un capitolo intitolato ‘La lobby”, che riguarda essenzialmente la lobby australiana, prende in considerazione i numerosi viaggi che ogni sorta di politici e giornalisti e tutti quanti fanno. Incessanti carovane che attraversano Gerusalemme, che è una parte ridotta di ciò…Ma posso dire…in base alla mia esperienza personale nell’ “Autralian”, che è un giornale molto filo-israeliano, eppure i miei direttori, la pressione su di loro, di cui hanno parlato per il libro – la pressione c’è, è chiaro che non sono contenti di quello che hai fatto, e delle infinite lamentele –

Due o tre anni fa ho fatto un reportage per “Four Corners” [“Quattro angoli”, importante programma televisivo australiano di attualità politica, ndt.]. E allora ho dovuto difenderlo per mesi e mesi. Alla fine ci siamo difesi da ogni obiezione…Ancor prima che “Four Corners” andasse in onda, uno dei gruppi di Melbourne ha fatto circolare: ‘Questo è il link per le proteste, clicca qui, e invia una protesta automatica alla ABC’.”

Per cui i viaggi sono solo la parte “delicata” di ciò!”

Ecco il reportage di “Four Corners” del 2014: documenta il fatto che l’esercito israeliano stava prendendo di mira ragazzini palestinesi per arrestarli e incarcerarli e “minacciando i bambini di violentarli”, nel tentativo di rendere insopportabile la vita ai palestinesi in Cisgiordania. Queste pratiche ovviamente non sono terminate ( e ricordate che su “60 minuti” [programma televisivo statunitense di notizie della CBS, ndt.] cinque anni fa il defunto Bob Simon [giornalista americano della rete televisiva CBS, ndt.] ha protestato contro Michael Oren [politico, diplomatico, scrittore e storico israeliano nato negli USA, dirigente del partito centrista “Kulanu”, ndt.] perché si era rivolto ai suoi superiori nel tentativo di interferire sul suo reportage a proposito dei cristiani che lasciano la Palestina).

Anche Antony Loewenstein è un giornalista con molta esperienza. Ha pubblicato vari libri sulla Palestina e su altre questioni internazionali, e recentemente ha concluso una missione di un anno e mezzo a Gerusalemme.

Egli afferma:

“Quello che dice John è vero. Ho scritto di questo per 15 anni. Il modo in cui spesso funziona è che un giornalista che è critico – ebreo, non-ebreo, musulmano, palestinese, cristiano, qualunque cosa sia – se è critico contro le colonie, contro l’occupazione, contro il governo israeliano, contro il modo in cui la lobby israeliana in Australia, secondo me in modo dannoso e disonesto, fa pressione sul sistema dei media, ABC ed altri, e sui governi, sarà preso di mira in privato e in pubblico.”

Cosa dire della lobby palestinese? Chiede Fanning. Loewenstein:

“Esiste una lobby, è ridotta ma in crescita. Ha influenza ma è relativamente insignificante. E’ più che altro il modo in cui penso funzioni il potere politico in questo Paese.

Chiunque passi del tempo in Israele o in Cisgiordania o a Gaza, che, come dice John, sono state occupate per 50 anni…Secondo me ora è permanente. Ci dobbiamo chiedere perché così tanta gente nei media e nelle elite politiche rifiuta di parlare della realtà. Un’occupazione permanente è un orrore…

Occorre essere molto più sinceri con i nostri politici ed essere giornalisti che non cedono alle intimidazioni della lobby israeliana, cosa che succede continuamente.”

Però Loewenstein in seguito osserva che l’opinione pubblica si è spostata in modo evidente, nonostante i media siano decisamente a favore di Israele.

E conclude:

“La lobby ha il diritto di esistere. La questione è che gruppi come AIJAC (Australia/Israel & Jewish Affairs Council [Consiglio Australia/Israele e delle questioni ebraiche]) sono così bellicosi e di estrema destra, stanno appoggiando le politiche del governo israeliano che sono a favore delle colonie, dell’occupazione, anti-arabe e profondamente razziste.”

La lobby israeliana in Australia ha già attaccato Loewenstein per i suoi commenti durante il programma.

Non c’è neanche bisogno di dire che la lobby israeliana continuerà ad esercitare un potere spropositato finché giornalisti e politici si rifiuteranno di parlarne apertamente. Cosa che non sta succedendo negli USA.

Grazie ad Ofer Neiman [probabilmente si tratta di uno dei leader del movimento BDS israeliano “Boycott from Within”, “Boicottaggio dall’interno”, ndt.]

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quando Israele minaccia i palestinesi di una nuova Nakba, minaccia sé stesso di estinzione

Bradley Burston, 25 luglio 2017 ,Haaretz

C’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato o neanche riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno.

Che cosa ci dice riguardo ad Israele il fatto che un importante ministro del governo, che è anche una pappamolla, ritiene necessario, in un momento di tensioni al limite della guerra con i palestinesi, andare alla televisione israeliana e su Facebook a diffondere un messaggio di puro incitamento all’uso delle armi?

Il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, un alleato chiave di Netanyahu che spesso proclama e difende le politiche del primo ministro, è stato per lungo tempo considerato un elemento relativamente moderato nel governo più ferocemente oltranzista nella storia della Nazione.

Eppure, questa settimana, quando Israele si è trovato di fronte ad esplosioni di violenza al suo interno e con i suoi vicini, Hanegbi ha usato uno dei termini più incendiari per avvertire i palestinesi delle possibili conseguenze dei brutali omicidi di tre israeliani, un settantenne e due dei suoi figli adulti, avvenuti sabato sera:

Ecco come inizia una ‘Nakba’”, ha minacciato Hanegbi il giorno dopo sulla sua pagina Facebook.

Esattamente così”, ha scritto, citando il termine arabo per “catastrofe”, che è diventato sinonimo dell’esperienza palestinese della guerra del 1948, in cui centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono cacciati dalle forze israeliane dalle loro case nella Terra Santa.

Ricordatevi il ‘48”, ha poi scritto. La guerra, che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ha creato anche circa settecento mila rifugiati palestinesi. La Nakba è un evento profondamente traumatico per i palestinesi. Il dolore e la rabbia che si accompagnano alla Nakba sono stati indirettamente riconosciuti dal governo Netanyahu nei suoi sforzi di impedire che la narrazione palestinese fosse oggetto di insegnamento nelle scuole arabe in Israele.

Ricordatevi il ‘67”, ha continuato. Centinaia di migliaia di palestinesi, alcuni dei quali profughi della guerra del 1948, furono sfollati dalla guerra dei Sei Giorni, in cui le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza.

Hanegbi, che in una precedente intervista nello stesso giorno ha detto che la violenza non stava conducendo ad una terza intifada, ma ad una terza Nakba, ha ribadito il concetto nel post su Facebook: “Quando vorrete fermarla, sarà già stata persa. Sarà già avvenuta la terza ‘Nakba’.”

L’attento uso delle virgolette da parte di Hanegbi per modificare – più precisamente, per attenuare – il termine Nakba non è certamente sfuggito ai lettori palestinesi. Né lo è stato il senso della sua conclusione:

Per due volte avete pagato il prezzo della follia dei vostri dirigenti. Non provocateci nuovamente, perché il risultato non sarà diverso. Siete stati avvertiti!”

Il post di Hanegbi è arrivato in un momento in cui la rabbia covata sotto la cenere dei social media, scaturita da quel vulcano sacro nel cuore di Gerusalemme, stava infiammando gli animi di mezzo mondo.

Arriva anche nel periodo in cui i dirigenti israeliani, da Benjamin Netanyahu in giù, stanno dedicando un’enorme quantità del loro prezioso tempo per parlare di istigazione [all’odio].

Parlano di come l’istigazione può diventare armata, trasformarsi in atti di assassinio, di terrore, di escalation, di intransigenza, di vendetta e di guerra. E non mancano loro gli esempi, dal momento che i social media arabi diffondono innumerevoli esempi di minacce terroristiche e ignobili caricature antisemite.

Ma c’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato e neppure riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno. Attacchi verbali vergognosamente fanatici contro i palestinesi. Dichiarazioni di dirigenti israeliani e di rabbini compiacenti che descrivono tutti gli arabi come bestie feroci, esseri subumani, una razza di terroristi sanguinari.

Incoraggiate e appoggiate da mezzi di informazione condiscendenti e scandalistici, le deboli e fragili coalizioni delle politiche israeliane non hanno fatto che accelerare l’istigazione israeliana, mentre i politici fanno a gara su tutti i social media per mostrare quanto può essere distruttiva la loro volontà di rendere le cose sempre più insopportabili.

E così è accaduto che, invece di operare per disinnescare l’atmosfera esplosiva dell’ultima settimana, i politici di estrema destra si sono avvicendati nelle trasmissioni televisive per promuovere misure di ulteriore privazione del diritto dei palestinesi di pregare alla moschea di Al-Aqsa, premendo al tempo stesso per dare via libera agli ebrei per pregare sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], che è parte dello stesso complesso. In toni che potevano essere seri ma anche non esserlo, il deputato di estrema destra Bezalel Smotrick ha suggerito in un tweet che dovrebbe essere immediatamente costruita una sinagoga sul Monte.

Quando gli attivisti musulmani hanno accusato Israele di pianificare di impadronirsi del sito a proprio uso esclusivo, gli attivisti ebrei sono apparsi fin troppo felici di confermare le accuse.

Al tempo stesso, quando alcuni ministri del governo hanno chiesto l’introduzione della pena di morte, un deputato del partito di Netanyahu, il Likud, li ha superati.

Voglio dire la verità senza sembrare, dio non voglia, troppo estremista”, ha detto il deputato Oren Hazan in un video postato nel weekend.

Ma se fosse dipeso da me, ieri notte sarei andato dalla famiglia dell’assassino, avrei preso lui e i suoi familiari e li avrei ammazzati tutti. Sì, proprio così. Senza alcun rimorso. Li avrei ammazzati.”  

Cosa ci dice questo su Israele? Che se vuoi che la tua voce sia ascoltata, puoi dire – impunemente – “Vedrò la demolizione delle vostre case e la pena di morte per voi, ed aggiungerò l’esecuzione di massa di civili.”

Che cosa ci dice questo sui leaders israeliani? Che per mantenere l’illusione di essere più duri di chiunque altro, possono fare minacce che arrivano fino all’ espulsione di massa e alla pulizia etnica – una nuova Nakba. Proprio il genere di minacce che in un mondo come il nostro possono alla fine offrire il pretesto per minacciare lo stesso Israele di estinzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ecco perché gli Stati arabi sono palesemente silenziosi sulla crisi del Monte del Tempio

Zvi Bar’el – 23 luglio 2017, Haaretz

Le tensioni sul luogo sacro potrebbero spingere gli Stati arabi in rotta di collisione con i movimenti islamici, ma la calma dipende dalla rimozione dei metal detector israeliani dal Monte.

Quando il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato in discorsi vanagloriosi in merito agli incontri con leader arabi – compresa la recente indiscrezione su un incontro segreto di cinque anni fa con il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti – sembrava ignorasse le forze islamiche che stavano attente a queste iniziative diplomatiche. Le recenti tensioni sul Monte del Tempio [denominazione israeliana della Spianata delle Moschee, ndt.] di Gerusalemme ha messo in chiaro che ogni mossa diplomatica o per la sicurezza è anche immediatamente misurata su una prospettiva che trascende l’importanza religiosa dei luoghi santi.

La moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio, come la Kaaba alla Mecca e la Tomba dei Patriarchi [denominazione israeliana della moschea di Ibrahim, ndt.] a Hebron, è un luogo islamico inseparabile dai problemi nodali del conflitto israelo-palestinese. Sono luoghi che, se danneggiati, provocano nell’opinione pubblica sdegno che può spingere i regimi negli Stati arabi ed in altri Stati musulmani in rotta di collisione con i movimenti islamici dei rispettivi Paesi.

Ciò li spinge anche in conflitto con un’opinione pubblica musulmana sensibile, che può delegittimare rapporti più stretti tra Israele e Paesi arabi e con un’opinione pubblica araba laica, che vede gli avvenimenti come un tentativo deliberato da parte di Israele di appropriarsi dei siti palestinesi.

Il riconoscimento del potere del popolo e la minaccia che l’opinione pubblica araba rappresenta sono uno dei più importanti prodotti emersi dalle Primavere arabe, soprattutto quando ciò riguarda Israele ed i luoghi santi. Queste questioni costituiscono un ampio, anche se forse l’unico, comun denominatore che questi settori dell’opinione pubblica condividono.

Finora in questi Paesi la rabbia araba e musulmana non si è tradotta in dimostrazioni pubbliche nella forma di manifestazioni di massa o in articoli aspramente critici. Gli avvenimenti sul Monte del Tempio della scorsa settimana o simili hanno già meritato titoli in prima pagina nella maggior parte del mondo arabo, ma finora – forse per la prima volta – non si sono viste le consuete proteste anti-israeliane nelle strade del Cairo, di Amman e del Marocco.

Come previsto, il sito web della Fratellanza Musulmana ha accusato il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi di aver capitolato davanti ad Israele. Un sito web ha parlato del presidente egiziano e dei “sionisti” come forze alleate. In un’ intervista con un sito egiziano, un membro del Comitato Popolare per la Difesa del Sinai, Ahmed Samah al-Idarusi, ha lamentato che, rispetto al passato, “ora riscontriamo un silenzio diplomatico e culturale egiziano tale che neppure le elite sono capaci di rilasciare un solo comunicato congiunto di condanna.”

Lo stesso Sisi ha chiesto ad Israele di agire immediatamente per calmare le tensioni riguardo al Monte del Tempio. Ma la sua retorica è stata molto più tenue che nel settembre 2015, quando ha accusato Israele di dissacrare sfacciatamente la santità del luogo.

Secondo informazioni dall’Egitto, il ministro delle Dotazioni Religiose del Paese, Mukhtar Gumaa, ha chiesto ai predicatori delle moschee di evitare di fare commenti sulla moschea di Al-Aqsa nei loro sermoni del venerdì e di parlare invece solo di come trattare bene i turisti stranieri in Egitto.

L’Arabia saudita, il cui re, Salman, ha fatto pressione sugli Stati uniti perché spingano Israele a riaprire il complesso del Monte del Tempio ai fedeli musulmani, si è astenuta dal fare dichiarazioni in materia – e il silenzio non è stato solo da parte di importanti dirigenti sauditi. E’ stato anche impossibile trovare notizie dettagliate nella stampa saudita di venerdì sulla sequenza di avvenimenti sul Monte del Tempio.

Solo un evento mediatico è diventato virale, ed è stato quando uno spettatore di un programma trasmesso dalla televisione in lingua araba con sede a Londra Al-Hiwar ha chiamato la stazione ed ha dichiarato: “Sono contrario ad una vittoria di Al-Aqsa, perché una vittoria di Al-Aqsa sarebbe una vittoria di Hamas e del Qatar!”

Può darsi che questo spettatore rappresenti una nuova opinione, considerando che l’attuale conflitto tra l’Arabia saudita e il Qatar e Hamas è ciò che determinerà la natura della risposta araba. Da questo punto di vista, finché il Qatar verrà considerato un sostenitore della Fratellanza musulmana e di Hamas, e finché gli eventi sul Monte del Tempio saranno attribuiti ad Hamas, i disaccordi tra arabi giocheranno un ruolo importante nella politica araba.

Ma anche se questa opinione non può essere ignorata, ciò non significa che sarà possibile per questi Stati mettere un freno alle rivolte dell’opinione pubblica musulmana, che obbligherà i regimi arabi ad unirsi nella battaglia per il loro luogo sacro se vi continueranno violenti scontri.

Israele, che si sta scambiando segnali con l’Arabia saudita e sta portando avanti precipitose consultazioni con il re giordano Abdullah e il presidente egiziano Sisi, sta ora cercando una soluzione a doppio taglio: affrontare la sicurezza sul Monte del Tempio e gestire la sua perdita di prestigio. Può prevedere di ottenere una simile soluzione se decide di togliere i metal detector che sono stati piazzati dopo l’attacco del 14 luglio sul Monte del Tempio, che ha ucciso due poliziotti israeliani.

Secondo fonti giordane, le soluzioni che sono state discusse finora non hanno prodotto un accordo. Una proposta è stata che i metal detector siano utilizzati da poliziotti giordani in borghese; un’altra che gli attuali metal detector che si dovrebbero attraversare siano sostituititi da dispositivi manuali, oppure che l’operazione di controllo con i metal detector sia gestita da una forza di polizia congiunta israeliana-palestinese-giordana.

Il problema è che ognuna di queste proposte danneggia la reputazione di Israele, che sta pretendendo la sovranità totale quando si tratta degli ingressi al Monte, o la richiesta dei palestinesi, che per il momento stanno rifiutando ogni coinvolgimento israeliano sul Monte del Tempio e sugli ingressi ad esso.

La dichiarazione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, secondo cui l’ANP sta interrompendo i contatti con Israele, potrebbe non aiutare, ma ciò non impedisce uno scambio di segnali con i funzionari della sicurezza palestinese nel contesto della cooperazione per la sicurezza o uno scambio di idee tra Israele, i palestinesi e i giordani.

Sabato un dirigente giordano ha detto ad Haaretz che il re Abdullah comprende la necessità di controlli per la sicurezza, ma ha aggiunto: “Quando la questione viene percepita come una lotta per il prestigio tra Israele ed i palestinesi, e, cosa non meno [importante], come una lotta politica interna nel governo israeliano, il re non può chiedere ai palestinesi di cedere in nome della stabilità del governo israeliano.”

Questi commenti contengono un indizio dell’attesa dei giordani di un gesto da parte di Israele che dia argomenti al monarca giordano per convincere Abbas ad accettare nuovi accordi per la sicurezza sul Monte del Tempio. E’ possibile che Netanyahu riceva messaggi simili dal presidente egiziano.

Ora la questione decisiva è in quale misura il primo ministro israeliano possa accettare di spogliare i metal detector del simbolismo che hanno assunto ed acconsentire a proposte che siano accettabili anche per i dirigenti arabi. In questo processo, potrebbe anche rafforzare le fondamenta delle relazioni con loro.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Senza precedenti e incendiario: perché il boicottaggio di Al-Aqsa è importante

Richard Silverstein – 21 luglio 2017, Middle East Eye

Le nuove misure di sicurezza sull’Haram al-Sharif violano gli accordi tra Giordania ed Israele, non evitano la ripetizione dell’ultimo attacco di venerdì e alimentano ulteriormente l’odio.

Lo scorso venerdì tre palestinesi con cittadinanza israeliana della città settentrionale di Umm al Fahm hanno attaccato poliziotti fuori dall’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, ndt.], il terzo luogo più sacro per l’Islam (noto agli ebrei israeliani come il “Monte del Tempio”).

Negli ultimi anni Israele ha imposto una serie di misure che restringono l’accesso dei musulmani al luogo, mentre periodicamente ha anche incrementato aggressioni armate da parte di poliziotti contro la moschea di Al-Aqsa e i fedeli che vi si trovavano.

Queste violazioni della sacralità dei luoghi hanno fatto infuriare i musulmani in tutto il mondo, ma soprattutto i palestinesi, sia in Israele che in Cisgiordania. Molte delle continue violenze degli attacchi di ‘lupi solitari’ contro bersagli israeliani, che hanno lasciato circa 50 israeliani e 250 palestinesi uccisi, sono state motivate da sdegno religioso contro la condotta di Israele.

L’attacco di venerdì è stato il più audace in tempi recenti. Tre membri di un clan locale, tutti denominati Muhammad Jabareen, sono riusciti a far passare armi all’interno della città santa di Gerusalemme, poi le hanno recuperate ed hanno sparato contro la polizia. Hanno ucciso due poliziotti drusi israeliani e ne hanno leggermente ferito un altro.

Come è tipico di queste situazioni, lo Shin Bet ha imposto un ordine restrittivo delle informazioni su alcuni aspetti del caso. Ha rifiutato di dire il nome degli aggressori, benché avesse le loro carte d’identità e sapesse chi erano. Ho pubblicato i loro nomi e foto delle carte d’identità con l’aiuto di fonti riservate della sicurezza israeliana. In seguito la misura restrittiva è stata tolta.

Dopo aver attaccato la polizia, gli uomini armati sono fuggiti all’interno dell’Haram al Sharif, dove le forze di sicurezza israeliane li hanno inseguiti ed uccisi. Un video girato da palestinesi mostra uno degli aggressori a terra disarmato. Dopo essersi alzato ed aver tentato di scappare, viene abbattuto da una scarica di proiettili.

E’ normale che in simili circostanze le forze israeliane uccidano gli attaccanti indipendentemente dal fatto che siano armati o che abbiano causato danno ad altri. Il metodo di esecuzione è a volte definito il “colpo di grazia”. Una volta che un palestinese ha ucciso o ferito un israeliano in questi attacchi, la sua vita è considerata nella maggioranza dei casi persa.

Tante accuse, nessuna responsabilità

In altri Paesi, dopo una minaccia grave alla sicurezza, le autorità prenderebbero approfonditamente in esame le circostanze che hanno consentito che avvenisse l’incidente, una assunzione di responsabilità che l’opinione pubblica pretenderebbe a gran voce.

Mentre i responsabili israeliani della sicurezza potrebbero aver condotto questa analisi, pochi hanno messo in discussione come lo Shin Bet [servizio di intelligence interno, ndt.] e la polizia abbiano permesso a tre uomini armati di lanciare un attacco così sanguinoso. Invece questi due organi si sono impegnati in una guerra tra loro, additandosi per incolparsi l’un l’altro. Nel frattempo nessuno si è assunto la responsabilità concreta.

La principale discussione riguarda se i metal detector, che sono stati installati immediatamente dopo l’attacco, avrebbero dovuto essere stati usati prima, e se avrebbero evitato l’aggressione.

Tuttavia non c’è una tale sicurezza, salvo che la polizia israeliana voglia obbligare ogni palestinese che entra da ogni porta della Città Vecchia a sottomettersi a simili controlli. Ciò richiederebbe la militarizzazione totale di una delle più sacre città al mondo e il posizionamento di decine, se non centinaia, di metal detector. Ciò significherebbe lunghe file per chi desidera entrarvi, anche per i turisti che alimentano una parte importante dell’economia locale.

I poliziotti e gli aggressori

L’identità etnica sia dei poliziotti morti che dei loro assassini è di particolare importanza. I poliziotti erano drusi israeliani. La loro religione è una derivazione dell’islam, ma sono sempre stati considerati una minoranza e a volte perseguitati.

Dalla fondazione di Israele nel 1948, lo Stato ha coltivato relazioni di amicizia con i drusi ed essi in cambio hanno servito nell’esercito israeliano, a differenza del resto dei musulmani palestinesi, che rifiutano il servizio militare.

Anche se ciò sta cambiando negli ultimi anni, i drusi sono visti come ancora più aggressivi del soldato ebreo israeliano medio. I soldati drusi sono stati coinvolti in molte uccisioni controverse di civili disarmati a Gaza ed altrove.

I rapporti tra i drusi e gli ebrei israeliani sembrano seguire un tipico modello coloniale, in cui il potere dominante cerca di dividere la popolazione nativa maggioritaria favorendo una singola tribù minoritaria a danno del resto. In altre parole, divide et impera.

Gli sparatori erano, come ho detto, di una città del nord di Israele. Umm al Fahm è un focolaio a sostegno della sezione settentrionale del Movimento Islamico, guidato dal leader musulmano, l’ imam Raed Salah. E’ anche la sua città natale. E’ stato più volte arrestato per aver incitato alla resistenza contro la gestione israeliana dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme.

Negli ultimi anni la maggior parte degli attacchi palestinesi contro israeliani sono stati perpetrati da persone che vivevano a Gerusalemme, nei dintorni o in Cisgiordania. Relativamente pochi di questi attacchi hanno coinvolto palestinesi con cittadinanza israeliana, che sono in genere considerati una popolazione più leale e “affidabile” di quella fuori da Israele (in Cisgiordania e a Gaza).

Con questa rivolta, che ora coinvolge la minoranza palestinese israeliana, Israele entra in un periodo ancora più teso ed instabile di quello che ha affrontato in passato.

Resistenza alla repressione

La risposta ufficiale israeliana all’attacco è stata pronta e pesante. Tutta la Haram al-Sharif è stata chiusa per la prima volta da quando un cristiano evangelico australiano con problemi mentali tentò di iniziare una guerra santa facendo saltare in aria la moschea di Al-Aqsa nel 1969.

Andando persino oltre, le forze di sicurezza hanno chiuso tutta la Città Santa con molteplici posti di controllo destinati ad evitare che chiunque entrasse nella parte palestinese della all’interno delle mura. Mercanti con i negozi nel suk sono stati minacciati con pesanti sanzioni se li avessero tenuti aperti. Anche questa è stata un’iniziativa senza precedenti.

Mentre Israele l’ha presentato come un tentativo di impedire ai palestinesi di mettere in atto proteste di massa che avrebbero potuto portare a una nuova “Intifada”, ciò ha colpito i palestinesi come una forma di punizione collettiva per l’attacco contro la polizia israeliana. Simili azioni sono una violazione delle Convenzioni di Ginevra, a cui in simili circostanze Israele spesso attribuisce scarso valore.

Lunedì Israele ha riaperto l’Haram al-Sharif e in parte la Città Vecchia, benché la maggior parte delle porte nella zona siano rimaste chiuse. Ma ci sono stati cambiamenti radicali nelle procedure della sicurezza. Personale della sicurezza ha installato metal detector e videosorveglianza in modo unilaterale. Questa è stata una violazione del cosiddetto status quo, a cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha falsamente detto che Israele si stava attenendo.

In base a queste regole, qualunque cambiamento dei luoghi sacri deve essere accettato sia dalle autorità giordane (che sono i custodi dei luoghi musulmani) che israeliane. Ma Israele ha messo in pratica questi cambiamenti senza alcuna consultazione.

Se i britannici reprimessero i cattolici

Il risultato è stato un prolungato boicottaggio musulmano al luogo sacro. Nei tre giorni successivi i fedeli hanno pregato appena fuori dai nuovi metal detector installati, rifiutando di sottoporsi a questo atto avvilente. I musulmani vedono questo come una dissacrazione dello status sacro del luogo e un insulto alla loro fede.

Immaginate se i britannici, che hanno quella anglicana come religione di Stato, decidessero che i fedeli cattolici rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale e imponessero metal detector, videocamere e una massiccia presenza della polizia fuori dalla principale cattedrale cattolica. Ci sarebbe sicuramente una rivolta di massa, non solo tra i cattolici ma probabilmente anche tra gli anglicani.

La classe politica israeliana tratta il problema palestinese in modo schizofrenico. Rifiutano di vedere gli interessi dei palestinesi come parte dei più complessivi interessi israeliani. Essi si dividono in due classi diverse: gli interessi degli ebrei israeliani che sono di primaria importanza e tutto il resto che è isolato e secondario.

E’ così che Netanyahu, di fronte a una gravissima crisi di fiducia tra la minoranza palestinese-israeliana, può ignorare la questione e iniziare un viaggio di cinque giorni nelle capitali centro-europee (tra cui Budapest e Varsavia), i cui governi appoggiano massicciamente il suo programma islamofobo e contro i rifugiati.

I media israeliani vedono il viaggio come un disperato tentativo di uscire dal peso di un crescente scandalo che coinvolge la corruzione legata all’acquisto di sottomarini nucleari tedeschi per 10 miliardi di dollari.

Nessuno suggerisce che Netanyahu dovrebbe posticipare il suo viaggio per affrontare la crisi di Gerusalemme. Non c’è neppure un ripensamento nelle sue valutazioni politiche, nonostante il primo ministro in difficoltà abbia appena annunciato che avrebbe ridotto di un giorno la sua visita.

– Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro appare su “Haaretz”, su “Forward”,” sul “Seattle Times” e sul “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006 “Tempo di denunciare apertamente” (Verso) e ha un altro saggio nella raccolta che sta per uscire: “Israele e Palestina: prospettive di statualità alternative” (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)