La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




Il Cile, terreno di sperimentazione per le armi israeliane

Ramona Wadi

2 dicembre 2019 – Orient XXI

I mapuche come i palestinesi. I governi cileni, di destra come di sinistra, non hanno rinunciato al retaggio militare e giudiziario della dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Israele contribuisce alla loro lotta contro le popolazioni autoctone mapuche e fornisce loro armi e formazione. La criminalizzazione della resistenza mapuche da parte del Cile può essere paragonata alla repressione della resistenza palestinese da parte di Israele.

Il Cile si è riunito per protestare in tutto il Paese contro il presidente di destra Sebastian Piñera e il suo programma neoliberista messo in atto dal vecchio dittatore Augusto Pinochet. I manifestanti chiedono le sue dimissioni ed esigono la redazione di una nuova costituzione per sbarazzarsi del retaggio della dittatura.

L’instaurazione da parte di Piñera dello stato d’assedio e del coprifuoco in tutto il Cile ricorda il periodo della dittatura di Augusto Pinochet. Come allora, le forze armate sono impegnate nell’escalation di violenze contro i cittadini con assassinii, pestaggi e torture a carattere sessuale. La repressione indiscriminata ha attirato l’attenzione, in quanto ricorda il passato. La militarizzazione e la criminalizzazione della resistenza cilena affondano le radici nelle leggi antiterrorismo adottate da Pinochet e dai governi che si sono succeduti dopo la transizione verso la democrazia per zittire le comunità di indios mapuche [popolazione nativa del sud del Cile, ndtr.].

Israele appoggia le violazioni dei diritti umani dell’attuale governo cileno con la vendita di tecnologie militari e di sorveglianza. Dall’epoca della dittatura di Pinochet, la CIA aveva previsto che il Cile avrebbe continuato ad acquistare armi da Israele “senza timore di irritare gli Stati arabi, a condizione che il Paese mantenga relazioni discrete con Tel-Aviv ed eviti di approvare pubblicamente le politiche israeliane.”

Alla ricerca di nuovi partner

Pinochet poté mantenere legami con Israele e con gli Stati arabi perché evitava di adottare “una posizione chiara sulle questioni controverse del Medio Oriente”. I governi successivi alla dittatura non hanno agito in modo diverso, oscillando con la stessa doppiezza, protetti dall’impegno per [la soluzione dei] due Stati da parte della comunità internazionale.

A partire dal 1973, all’indomani della guerra arabo-israeliana, gli Stati africani hanno iniziato a rompere le relazioni diplomatiche con Israele. Lo hanno così obbligato a cercare altri Paesi per stringere rapporti diplomatici e militari con lo scopo di compensare la perdita della collaborazione con l’Africa. Dato che gli Stati Uniti erano saldamente insediati in America latina grazie al loro sostegno alle dittature militari e alle operazioni nell’insieme della regione per eliminare qualunque influenza socialista o comunista, il Cile – che aveva riconosciuto Israele nel 1949 – era un obiettivo prioritario per il governo israeliano. Come reazione alle crescenti preoccupazioni della comunità internazionale riguardo alle violazioni dei diritti umani in Cile, nel 1976 gli Stati Uniti furono obbligati a imporre un embargo sulle armi, nonostante il fatto che avevano finanziato Pinochet per atrocità analoghe. Anche se è possibile che la CIA sia andata oltre le decisioni del Congresso, Israele era in prima fila per intrufolarsi nello spazio lasciato libero e fare del Cile uno dei suoi principali acquirenti di armi della regione.

Un documento declassificato della CIA fornisce importanti informazioni sugli acquisti di armamenti dal Cile a Israele. Dal 1975 al 1988 Israele ha venduto sistemi radar, missili aria-aria, materiale navale e sistemi aeronautici e antimissilistici. Una delle ragioni per le quali Pinochet aveva scelto Israele – oltre al fatto che si trattava di armamenti sofisticati e che ammirava l’esercito israeliano – dipendeva dal fatto che “Tel-Aviv non subordinava le sue vendite ad alcuna precondizione politica.” Ciò era tanto più importante per Pinochet in quanto Israele faceva dichiarazioni pubbliche di sostegno al ritorno della democrazia in Cile, fornendo al contempo alla dittatura delle armi utilizzate nel momento in cui l’Operazione Condor – un piano su scala regionale messo in atto nel 1975 dalle dittature di estrema destra latinoamericane per sterminare gli oppositori di sinistra – era in pieno svolgimento. Oltre alla vendita di armi al Cile, Israele ha dato la possibilità all’esercito di Pinochet di familiarizzarsi con la sua industria bellica e di far partecipare i piloti cileni e i loro ufficiali a esercitazioni di addestramento.

Leggi analoghe

Nel periodo che ha seguito la caduta delle dittature, i governi cileni hanno conservato la Costituzione di Pinochet. Le leggi antiterrorismo del 1984 che egli utilizzava per prolungare la detenzione senza processo sono state quasi sempre riutilizzate contro le comunità mapuche, sia dai governi di centro sinistra che da quelli di destra. Queste leggi sono simili alla detenzione amministrativa utilizzata da Israele contro i palestinesi, incarcerati senza accuse né processo e la cui detenzione viene periodicamente rinnovata. La criminalizzazione della resistenza mapuche contro lo sfruttamento neoliberista ricorda la repressione della resistenza palestinese da parte di Israele. Le due comunità autoctone devono affrontare le stesse lotte e la stessa repressione. La sorveglianza è una misura costantemente utilizzata contro i mapuche, una tattica altrettanto fondamentale nella colonizzazione israeliana della Palestina. Nella regione dell’Araucania i governi cileni hanno utilizzato le tecnologie di sorveglianza israeliane. La militarizzazione della regione è una conseguenza diretta dell’utilizzazione delle leggi antiterroristiche contro i mapuche.

Elbit [industria tecnologica che produce anche sistemi di sicurezza e bellici, ndtr.], IAI [compagnia israeliana del settore aereo e militare, ndtr.] e Rafael [impresa specializzata nei sistemi di difesa e antimissilistici, ndtr.] sono le principali fornitrici del governo cileno. Elbit e IAI sono ampiamente utilizzate contro la popolazione palestinese. Dopo i sistemi di sorveglianza, l’assistenza informatica, le bombe al fosforo bianco, la distruzione di tecnologie fino alla tecnologia aerea utilizzata da Israele per bombardare Gaza, l’industria militare israeliana è richiestissima in America latina, con il pretesto della lotta contro il traffico di droga e l’attraversamento delle frontiere. Ma è piuttosto alle popolazioni autoctone che i governi della regione riservano controllo e repressione.

Nel 2018 gli eserciti israeliano e cileno hanno firmato in Cile con il generale di divisione Yaacov Barak e il generale cileno Ricardo Martinez nuovi accordi di cooperazione in materia di formazione militare e di addestramento, di comando e di metodi di addestramento. Durante il suo soggiorno, Ehud Barak [ex generale e politico laburista israeliano, ndtr.] ha ispezionato la brigata Lautaro per le operazioni speciali. L’ex-comandante di questa brigata, Javier Iturriaga, è stato nominato da Piñera capo della difesa nazionale quando il governo ha imposto lo stato d’assedio per combattere le proteste in tutto il Cile.

Armi “testate sul campo”

Israele commercia le sue armi e tecnologie con il marchio “testate sul campo”. I palestinesi di Gaza rappresentano un terreno di sperimentazione umana per collaudare questa tecnologia bellica. Ogni governo che acquista armi da Israele si rende così complice dell’aggressione colonialista contro i palestinesi. In Cile questa aggressione si trasforma in qualcosa di ancora più sinistro. L’acquisto di equipaggiamento militare in Israele da parte del governo per perseguitare i mapuche riproduce la repressione della lotta anticolonialista dei palestinesi da parte di Israele.

Se i rapporti attuali tra Israele e il Cile non sono più nascosti all’attenzione dell’opinione pubblica, Israele mantiene il “segreto difesa” sui rapporti che vigevano tra i due Paesi durante il periodo della dittatura. Mentre gli Stati Uniti hanno declassificato numerosi documenti che evidenziano il loro ruolo nel sostegno alla dittatura di Pinochet, Israele al contrario conserva per sé più di 19.000 pagine di documenti secretati, anche se contengono informazioni su familiari ebrei di cittadini israeliani scomparsi nell’epoca di Pinochet.

Rifiuto di aprire gli archivi

L’esercito cileno mantiene un patto del silenzio che spiega quanto sia difficile ottenere informazioni, per non parlare dell’impossibilità di rendere giustizia alle migliaia di torturati, uccisi e desaparecidos durante la dittatura. In certi casi documenti declassificati contribuiscono a compensare la mancanza di informazioni. Il rifiuto di Israele di aprire i suoi archivi sul periodo della dittatura di Pinochet impedisce di rendere giustizia a suoi stessi cittadini, due dei quali nel 2016 hanno avviato un’azione giudiziaria perché vengano pubblicati documenti che svelino la collaborazione di Israele con Pinochet. Questi documenti fornirebbero probabilmente delle informazioni su due vittime sparite e giustiziate, Ernesto Traubman e David Silberman.

Il Cile ha mantenuto stretti rapporti con l’aviazione militare israeliana durante il periodo della dittatura, fatto che non manca di sollevare domande sul coinvolgimento israeliano nelle pratiche di Pinochet, che consistevano nel far sparire nell’oceano da un aereo detenuti giustiziati. Inoltre un gruppo d’élite della Direzione Nazionale di Informazione Cilena (DINA) è stato addestrato in Israele dal Mossad.

Oltre alla ricerca di informazioni sugli assassinii e le sparizioni dei loro genitori, Lily Traubman e Daniel Silberman hanno anche precisato che il loro obiettivo finale è di mostrare l’ampiezza del coinvolgimento di Israele con la dittatura di Pinochet: “La vendita di armi dovrebbe essere regolamentata dalla legge e dovrebbero esistere dei criteri chiari che stabiliscano il divieto di vendita di armi a Paesi o a regimi dittatoriali che violano costantemente i diritti umani.”

L’esistenza e la violenza del colonialismo israeliano hanno fatto di Gaza un terreno di sperimentazione militare permanente, dando ad Israele un vantaggio sicuro al momento di vendere la sua tecnologia a governi altrettanto determinati a reprimere i propri cittadini. “Testato sul campo” è un eufemismo utilizzato dal ministero della Difesa israeliano, ultima manifestazione della disumanizzazione dei cittadini palestinesi. In Cile, la situazione senza uscita in cui si trovano i mapuche è identica, tra la spoliazione e la violenza. Di fatto si può paragonare la lotta di liberazione dal colonialismo a quella contro lo sfruttamento liberista. Mapuche e palestinesi sono stati vittime di una pulizia etnica dal loro territorio da parte dei colonizzatori e i rapporti militari tra il Cile e Israele servono al miglioramento della militarizzazione. La normalizzazione del colonialismo e del neoliberismo su scala internazionale alimenta le violazioni dei diritti umani perpetrate contro le popolazioni autoctone senza che queste violazioni siano mai sanzionate.

È molto probabile che sia la determinazione dei governi cileni, di centro sinistra come di destra, a rafforzare la loro presenza militare nella regione dell’Araucania per perseguitare i mapuche che fa di Israele un partner sempre utile per il Cile. Durante la campagna elettorale Piñera ha promesso di cambiare le leggi antiterrorismo per combattere meglio i mapuche. Nella misura in cui le proteste non si arresteranno finché non verrà abrogata la Costituzione di Pinochet, Israele vedrà aprirsi davanti a sé ulteriori prospettive redditizie in Cile a danno di tutta la popolazione.

Ramona Wadi

Giornalista

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Come rispondere a questa domanda: “Riconosci ad Israele il diritto di esistere?”

Steven Salaita

10 dicembre 2019 – Mondoweiss

Quando gli antisionisti discutono di Medio Oriente, raramente si pone la questione dell’esistenza di Israele. È quasi esclusivamente un argomento dei filoisraeliani. Noi ci concentriamo sulla liberazione nazionale, su come sopravvivere alla repressione, sulle strategie della resistenza, sul recupero delle storie rimosse, sulle complesse (e a volte delicate) relazioni all’interno di una popolazione indigena disgregata da decenni di aggressione. Che uno Stato colonialista – o qualunque Stato, in realtà – non possieda alcun diritto ontologico è un assunto non esplicitato.

“Riconosci il diritto di Israele ad esistere?” simula un rispetto per gli oppressi, ma è un’asserzione del tutto differente, che trasforma complesse idee di liberazione in un grossolano test di correttezza politica. Dare priorità allo Stato come degno di rilievo, come qualcosa a cui automaticamente dobbiamo rispetto, riconduce la vita agli imperativi del capitale.

Lo scopo principale della domanda è attribuire una posizione bieca ai dissidenti. Essa raggiunge tale obbiettivo anche quando i dissidenti non ne hanno sostenuto la distruzione. La mera difesa della vita dei palestinesi è sufficiente ad evocare il timore dei coloni per la propria esistenza. Per gente cresciuta nel dogma ortodosso, Israele è sinonimo di progresso, tecnologia e produzione. Affermare la sua esistenza è un sostegno allo status quo; non importa quanto sia assurda come premessa morale, negli ambienti capitalisti è una domanda del tutto sensata.

Ci sono tantissime ragioni per evitare la domanda. La prima ragione è pratica: noi non promuoviamo la distruzione di comunità umane, ma di ideologie che portano al razzismo e all’ineguaglianza. Confondere il popolo ebraico (o di qualunque nazionalità) con l’esistenza di un regime violento e rapace è sia insidioso che immorale. Quel genere di confusione è un grave danno per gli attivisti e gli intellettuali che si impegnano per un mondo migliore – e per le comunità per le quali un mondo migliore è una necessità per sopravvivere. Nessuno mi ha mai chiesto di ribadire l’esistenza di un altro Stato-Nazione, una richiesta che avrei analogamente rifiutato. I sionisti pretendono continuamente per Israele un trattamento speciale.

Inoltre è una grave impudenza per gli alfieri di uno Stato fondato sulla distruzione della Palestina e che da 80 anni compie una pulizia etnica chiedere alle vittime della sua crudeltà di essere riconosciuto. Ancor peggio, il riconoscimento non è che la punta dell’iceberg della domanda. Ci viene chiesto anche di legittimare l’apartheid e di ignorare la costante perpetrazione di crimini di guerra. La conclusione è avallare Israele come una componente militarizzata dell’imperialismo occidentale – in altri termini, affermare l’esistenza di un’entità profondamente disumana.

Prendiamo in considerazione la domanda nel contesto del Nord America, dove viene posta più frequentemente. Quelli tra noi che operano in questa area geografica non hanno l’autorità di rinunciare a circa l’80% (e probabilmente al 100%) della Palestina storica. Non vi è alcun diritto per un occidentale di abbandonare la Palestina dietro pressione di un’insistenza falsamente umanitaria da parte dei sionisti, secondo cui la loro perfidia è giustificata perché ci renderà in qualche modo cittadini più responsabili.

Sono felice, anzi ansioso, di affermare il diritto del popolo ebraico di vivere in pace e sicurezza ovunque, un diritto che spetta ad ogni essere umano senza ordine di priorità. Ma non intendo ratificare la fondazione cruenta di Israele o il suo culto della supremazia razziale. In fin dei conti, quando i sionisti chiedono di affermare il diritto di Israele ad esistere, ciò che in realtà chiedono è l’affermazione della non esistenza dei palestinesi.

Al di là di questi fattori filosofici, politici e pratici, vi è una valida ragione psicologica per respingere la domanda. In questo presunto conflitto i sionisti sono gli oppressori e godono di un sostegno pressoché universale nei centri del potere politico ed economico. Hanno più finanziamenti, l’accesso ai principali media e l’appoggio dell’esercito USA. Tuttavia i palestinesi hanno un unico tipo di potere che non necessita di denaro, di piattaforme o di armamenti: la capacità di negare legittimità a Israele. È un piccolo potere, privo di strumenti concreti, ma è comunque potere, del tipo che solo un pazzo o un opportunista potrebbe cedere. Quando un oppressore fa della sottomissione la base della responsabilità civile, l’insolenza è l’unica risposta dignitosa.

Steven Salaita

Il più recente libro di Steven Salaita è ‘Inter/nationalism: decolonizing native America and Palestine’ [Inter/nazionalismo: decolonizzare l’America dei nativi e la Palestina].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Palestina. Colonialismo israeliano tra lavoro minorile e disastro ambientale

Francesca Merz

26 novembre Nena News

Nella Valle del Giordano bambini e adulti palestinesi lavorano per pochi dollari al giorno e senza contratto né sicurezza. Si infortunano e si ammalano, come i residenti vicino alle colonie israeliane che ospitano fabbriche chimiche, spiegano diversi rapporti internazionali

Abbiamo avuto modo in un precedente articolo di raccontare l’insostenibilità ambientale dello sviluppo delle colonie israeliane. Occorre fare un ulteriore passo per meglio comprendere che cosa sono le colonie e quale impatto abbiano sul territorio e sull’economia.

E’ necessario, oltre all’analisi molto problematica degli impatti ambientali delle colonie, sottolineare quali sono i motivi per i quali le monocolture delle colonie israeliane nella Valle del Giordano prosperino, spesso indipendentemente dall’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per cui Israele è noto in tutto il mondo: come sottolinea un recente rapporto di Human Rights Watch, la nota organizzazione internazionale impegnata per i diritti umani, le colonie prosperano grazie al lavoro sottopagato dei palestinesi e al lavoro minorile.

A questo si sommano ulteriori illegalità: le colonie israeliane sono costruite in Cisgiordania, occupata in violazione del diritto internazionale. In merito invece alla consuetudine di utilizzare lavoro minorile riportiamo un breve passaggio tratto dalle interviste di Hrw: la maggior parte dei bambini intervistati afferma di lavorare con i pesticidi. “Non sanno molto delle sostanze chimiche che trattano, ma degli effetti sì. Soffrono di giramenti di testa, nausea, irritazioni agli occhi ed eruzioni cutanee”.

I ragazzi che lavorano nei vigneti dove si usa il pesticida Alzodef, vietato in Europa dal 2008, si riconoscono dalle desquamazioni dell’epidermide. I bambini palestinesi lavorano 6-7 giorni alla settimana, per 8 ore al giorno, anche nelle serre a temperature che si avvicinano ai 50 gradi. Portano carichi pesanti e usano macchine pericolose. Secondo uno studio del 2014 sugli infortuni tra i minori palestinesi che lavorano il 79% aveva subito un infortunio sul lavoro nei precedenti 12 mesi. E tutto questo per una paga di meno della metà di quella minima garantita dalla legge israeliana e senza assicurazione sanitaria e altri benefit, assicurando così maggiori guadagni alle aziende agricole delle colonie.

E’ esattamente da queste colonie e da questi metodi produttivi che deriva la più ampia percentuale di avocado presenti sulle nostre tavole, a scanso di equivoci sull’eticità dell’utilizzo nelle nostre diete di questo tipo di prodotto. Il rapporto di Hrw si incentra sulla Valle del Giordano, noto come il granaio della Palestina, dove le grandi estensioni di piantagioni e coltivazioni delle colonie contrastano con i campi aridi dei palestinesi, evidenziando l’iniqua distribuzione delle risorse idriche.

I palestinesi che ci vivono, scesi da circa 300mila nel 1967 agli 80mila di oggi, hanno accesso solo al 6% dell’area, il restante 94% è riservato ai 9.500 coloni e alle loro piantagioni, oppure chiuso in zone militari. I palestinesi che ci vivono devono ottenere permessi dalle autorità militari israeliane per qualsiasi costruzione che siano case, stalle, strade, pozzi o cisterne, ma anche per coltivare la terra o pascolare il bestiame.

I permessi approvati sono una rarità. Guadagnarsi da vivere dall’agricoltura, senza terra e senza acqua e con una serie di check-point tra i campi e i mercati, diventa impossibile, i minori sono costretti a lavorare per aiutare le famiglie e non hanno altra scelta che l’agricoltura delle colonie. In alcuni casi, i bambini finiscono addirittura per lavorare le terre che sono state confiscate alle proprie famiglie.

Nell’ong israeliana Kav LaOved Hanna Zohar è incaricata della tutela di questi lavoratori. Questo quanto dichiara: “Il diritto del lavoro israeliano prevede tutele sociali per questi palestinesi, ma tali misure vengono poco applicate. Gli abusi attecchiscono sulla debolezza dei lavoratori che, ricordiamolo, vivono sotto occupazione: taluni temono di perdere il posto di lavoro se avanzano lamentele, altri hanno finito per convincersi che non meritano di ricevere più soldi”.

Fondata in Cisgiordania nel 1968 Argaman, secondo il diritto internazionale, è un insediamento illegale che nel 2017 contava 128 coloni. Per la fondazione della colonia le autorità israeliane confiscarono 120 ettari di terra dai villaggi palestinesi circostanti. Qui si coltivano datteri e altri prodotti, lo stipendio giornaliero dato ai palestinesi che lavorano in queste terre è di 60 shekel (17 dollari), infinitamente inferiore al salario minimo israeliano.

La frutta e la verdura raccolte da vengono esportati principalmente in Europa. Rashid Khardiri, project manager dell’ong Jordan Valley Solidarity, ha spiegato che il più grande settore economico della Valle del Giordano, l’agricoltura, impiega molti bambini. Le prospettive economiche e le infrastrutture di quest’area sono fortemente limitate, la costruzione di scuole o di strutture di base richiede un permesso da parte delle autorità israeliane; nel settembre 2018 furono richiesti 102 permessi di costruzione da parte dei palestinesi, di cui solo cinque furono approvati, rendendo le possibilità di ricevere un permesso di costruzione incredibilmente basse.

Queste limitazioni sull’economia dei villaggi creano una sostanziale dipendenza economica degli abitanti verso gli insediamenti di coloni, circa il 30 per cento della popolazione palestinese nella Valle del Giordano lavora nelle fattorie dei coloni. Lati Swafta ha trascorso cinque anni a raccogliere pomodori e cetrioli nell’insediamento di Mehola, nel nord della valle del Giordano. Questo palestinese dagli occhi chiari, oggi ha 23 anni e allora non cercava neppure di cambiare lavoro. “Sapevo che non ne avrei trovato un altro”, osserva. Poi un incontro casuale ha cambiato le carte in tavola: Rashid, un attivista dell’associazione Jordan Valley Solidarity, voleva mettere in scena un lavoro teatrale; vi si raccontava la vita nella Valle del Giordano: l’istruzione, la salute e, certamente, il lavoro nelle colonie.

Lafi è stato interpellato per partecipare a questo progetto e ha accettato. Ora recita il ruolo di un palestinese che procura lavoro ai suoi connazionali nelle colonie. “È un personaggio che conosco nella vita reale – sorride Lafi -, quindi è stato facile interpretarlo”. Da un anno a questa parte, la rappresentazione teatrale va in scena nella Valle del Giordano, ma anche nelle principali città di Palestina e Giordania. Lafi dedica otto ore al mese a questo progetto, per un compenso di 100 shekel (circa 23 euro) al giorno. Il resto del tempo, lavora nei campi di suo padre.

Gli insediamenti israeliani così costituiti, incombono sulla valle dei colli, un flusso di liquami scorre costantemente sotto. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore.

Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano il petrolio usato e i rifiuti elettronici pericolosi, rifiuti ritenuti troppo pericolosi per essere trattati all’interno di Israele ai sensi delle sue leggi sulla protezione ambientale e quindi trasferiti nel territorio palestinese occupato dove tali regolamenti israeliani non vengono applicati. Molte persone dei villaggi circostanti hanno accusato malori, e soprattutto sono state colpite da cancro, per Abdulrahman Tamimi, medico dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara. “Le persone di questi villaggi particolari [vicino agli insediamenti industriali] hanno le stesse caratteristiche, le stesse malattie”, ha spiegato.

“Puoi concludere che c’è qualche problema laggiù. Vediamo che molte persone arrivano di recente con il cancro che è davvero raro in giovane età, tra i 20 ei 25 anni”, ha continuato Tamimi. I casi che vede variano da cancro ai polmoni a quelli alle ossa, ma ogni caso è aggressivo. Per una varietà di fattori sociali ed economici, Tamimi vede spesso i suoi pazienti quando è troppo tardi. “Temiamo che la raccolta delle olive quest’anno non sarà commestibile perché anche le acque reflue contengono sostanze chimiche provenienti dagli insediamenti”, ha dichiarato Abdulrahman a Middle East Eye.

In una dichiarazione ufficiale a Meeil comune di Ariel ha negato che l’insediamento israeliano avesse alcuna responsabilità per la crisi ecologica e sanitaria nell’area di Salfit. “Tutte le acque reflue della città di Ariel passano attraverso un impianto di depurazione e tutto il deflusso che proviene da Ariel è acqua che è già stata trattata”, si legge nella nota. B’Tselem, tuttavia, ha dichiarato che l’impianto di trattamento delle acque reflue nell’insediamento di Ariel “ha smesso di funzionare del tutto nel 2008”.

Anche due progetti separati sostenuti da finanziamenti europei nel 2000 e nel 2009, atti al ripristino dell’impianto di depurazione, sono falliti perché le autorità israeliane hanno rifiutato di rilasciare permessi di costruzione per costruire la struttura sulla terra di Matwa, trovandosi nell’Area C della Cisgiordania sotto il completo controllo militare israeliano.

Il dottor Mazin Qumsiyeh, professore di genetica e biologia molecolare e cellulare all’Università di Betlemme e noto attivista, ha aperto la strada alla ricerca sugli effetti intergenerazionali a lungo termine dell’esposizione ai rifiuti tossici. Lo studio ha rilevato un numero significativo di rotture cromosomiche nelle cellule dei residenti vicino alle zone delle colonie israeliane industriali rispetto al gruppo di controllo. Le rotture cromosomiche o il danno al Dna aumentano la possibilità di infertilità, difetti congeniti alla nascita e cancro. Nena News




L’adolescente di Gaza  “arrestato” da Israele e riportato a casa in un sacco per cadaveri

Tareq Hajjaj (Gaza, territori palestinesi occupati)

5 dicembre 2019 Middle East Eye

La morte di Emad Khalil Ibrahim Shahin, arrestato per aver oltrepassato illegalmente la barriera israeliana, è avvolta dal mistero.

Dopo essersi intrufolati attraverso la barriera di sicurezza eretta da Israele lungo la Striscia di Gaza, Emad Khalil Ibrahim Shahin ed i suoi amici si sono infilati in una baracca abbandonata ed hanno acceso un fuoco. Temendo di essere scoperti, sono scappati.

“Abbiamo corso fino a quando abbiamo trovato una duna di sabbia dietro cui nasconderci, dall’altro lato della barriera, ma ci siamo accorti a quel punto che Emad non era con noi. Correva più lentamente perché aveva le stampelle”, racconta a Middle East Eye uno dei suoi compagni, che vuole restare anonimo.

“L’abbiamo visto a terra e gli abbiamo detto di trascinarsi. Ma è stato allora che è arrivato un veicolo militare a tutta velocità e un soldato gli ha sparato addosso, colpendolo alla gamba destra. Poco dopo è arrivato un elicottero e lo ha portato via.”

Emad Shahin è tornato a Gaza solo 355 giorni dopo. È arrivato il 23 ottobre dentro un sacco per cadaveri.

Oggi la sua famiglia e diverse Ong palestinesi ed israeliane chiedono perché l’esercito israeliano abbia trattenuto il corpo del ragazzo di 17 anni così a lungo e come sia apparentemente morto per la semplice ferita di una pallottola a una gamba.

Simbolo della contestazione

Emad Khalil Ibrahim Shahin era il minore di nove figli, il cui padre lavora come custode in una scuola, guadagnando un salario basso ma dignitoso.

Secondo la sorella Monira, il ragazzo partecipava con entusiasmo al movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno, come anche il resto della famiglia.

Le manifestazioni, che si svolgono tutti i venerdì dal marzo 2018, chiedono alle autorità israeliane di togliere l’assedio della Striscia di Gaza che dura da undici anni, e di permettere ai rifugiati palestinesi – circa il 70% degli abitanti di Gaza – di ritornare alle loro città e villaggi in quello che ormai è Israele.

Una volta alla settimana si possono vedere i palestinesi manifestare lungo la barriera che separa Israele dall’enclave costiera. Anche se le forze israeliane colpiscono soprattutto i manifestanti vicini alla barriera, sono stati presi di mira anche dei palestinesi ben più lontani.

Temendo i cecchini israeliani, Monira e gli altri parenti di Emad sono rimasti abbastanza lontani dalla barriera durante le manifestazioni. Invece il ragazzo vi si è avvicinato diverse volte, bruciando pneumatici per bloccare la visuale ai soldati che prendono di mira i manifestanti.

Non ci è voluto molto tempo prima che i cecchini sparassero a Shahin ad un piede, il 17 maggio 2018.

“Si è ripreso in fretta”, racconta Monira a Middle East Eye, aggiungendo che appena due settimane dopo era tornato alle manifestazioni con le stampelle.

“Quando sono state ampiamente condivise sulle reti sociali delle sue foto mentre partecipava alle manifestazioni nonostante la ferita, lui ne è andato fiero. Si considerava un simbolo della contestazione.”

Ventuno venerdì dopo, Emad è stato di nuovo ferito, allo stesso piede. Malgrado ciò è ritornato alla marcia.

Quando gli hanno sparato per la terza volta, all’altro piede, i chirurghi hanno dovuto amputargli tre dita.

“Nostra madre ha tentato di impedirgli di ritornare. Tutta la famiglia gli ha detto che aveva fatto il suo dovere per il suo Paese e che ormai doveva stare tranquillo”, racconta Monira.

“Ma lui ha ribattuto di non temere la morte, che la morte era ineluttabile e che preferiva morire per il suo Paese resistendo all’occupazione piuttosto che inutilmente.”

Oltrepassare la linea

Il primo novembre 2018 Emad – zoppicando sulle stampelle – e due amici hanno deciso di oltrepassare la barriera, per tentare di raggiungere una baracca lasciata vuota dall’esercito israeliano a circa 300 metri dall’altro lato della barriera, continua sua sorella.

Secondo lei il suo obbiettivo era sfidare l’assedio e riportare un ‘trofeo’, come la cintura di munizioni di un soldato o la targa di una jeep.

Anche se la zona è molto militarizzata e Emad non si muoveva certo liberamente, il giovane palestinese e i suoi amici hanno raggiunto il campo. Eccitato e senza fiato, ha chiamato sua sorella nel momento in cui si preparavano ad andare.

“Voleva condividere il suo momento di gloria. Ma io gli ho urlato contro imponendogli di andarsene immediatamente prima di farsi uccidere. Ero terrorizzata”, racconta Monira.

“Quando è tornato a casa, mia madre era in lacrime e gli ha chiesto di non farlo più.”

Il sabato seguente Emad si è svegliato presto ed ha annunciato a sua madre che dopo colazione sarebbe andato a fare una piccola commissione. Invece è tornato alla baracca, portandovi della benzina.

Alle 16,30 del 3 novembre 2018 Emad è stato colpito alla gamba vicino alla barriera ad est del campo di rifugiati di Maghazi, che si trova nella zona centrale di Gaza.

Secondo testimoni oculari è stato arrestato da un certo numero di soldati israeliani che lo hanno portato via in elicottero venti minuti dopo, a quanto pare verso il centro medico Soroka nel Negev.

Da quel momento la sorte di Shahin è misteriosa.

Subito dopo la scomparsa del ragazzo la sua famiglia ha contattato delle Ong palestinesi e israeliane, cercando disperatamente informazioni.

Inizialmente le autorità israeliane hanno detto che aveva riportato ferite ‘lievi’, ma il giorno seguente a quello in cui è stato ferito l’Ong ‘Medici per i Diritti Umani’ con sede a Tel Aviv ha comunicato la sua morte.

Nei giorni successivi ‘Medici per i Diritti Umani’ ha insistito per avere risposte ed ha chiesto il referto medico sulla morte del ragazzo.

L’11 novembre è stato comunicato all’Ong che le cartelle mediche di Emad Shahin non potevano essere rese pubbliche perché il suo corpo non era stato identificato. È stato consigliato di contattare l’Istituto medico-legale israeliano Abu Kabir.

“Ho contattato la dottoressa Maya Hoffmann di Abu Kabir, che ha cercato di localizzare il corpo, senza riuscirci. Sono stato indirizzato a un servizio d’archivio”, spiega a MEE Ran Yaron, di ‘Medici per i Diritti Umani.’

“Il servizio responsabile degli archivi ha dichiarato che nessun corpo non identificato era stato trasferito da Soroka, quindi abbiamo pensato che l’esercito trattenesse il corpo.”

Dopo di ciò HaMoked, un’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto all’esercito israeliano informazioni sul corpo di Shahin. Senza risultato.

“Non capisco ciò che Israele ha fatto del corpo di un ragazzo palestinese per un anno”, dice Yaron.

Interrogato sulla morte di Emad Shahin e sui motivi per cui il suo corpo è stato trattenuto per un anno, l’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye di rivolgersi al Ministero della Difesa.

Interpellato, il Ministero della Difesa ha dichiarato che si trattava di una questione su cui solo l’esercito poteva dare spiegazioni.

Morte senza spiegazioni

La famiglia di Emad Shahin è stata distrutta nell’apprendere della sua morte

“Sapevamo che sarebbe stato incarcerato, ma non ucciso”, commenta Monira. In assenza del corpo, alla famiglia rimaneva una flebile speranza che fosse vivo.

Quando la Croce Rossa internazionale ha informato i familiari che il corpo di Emad era arrivato all’ospedale al-Shifa di Gaza, si sono precipitati per vederlo.

Secondo il dr. Emad Shihada il corpo è stato conservato in azoto liquido per un lungo periodo.

Senza una strumentazione adeguata per scongelarlo, un’autopsia non avrebbe potuto essere eseguita prima di aver lasciato le spoglie al sole per due giorni.

La famiglia ha preferito seppellirlo piuttosto che aspettare, seguendo la tradizione islamica che raccomanda la sepoltura immediatamente dopo la morte.

Anche se non è stata eseguita un’autopsia completa, la famiglia di Emad ha riscontrato parecchi segni inquietanti sul suo corpo.

Dalla metà del torace fino all’addome vi era una cicatrice di 15 cm. che indicava punti di sutura. Lo stesso si riscontrava su 13 cm. che andavano dal lato sinistro del torace sui due lati.

Queste misteriose incisioni hanno fatto pensare ai familiari di Emad che fossero stati prelevati i suoi organi per traffico, una pratica nota che Israele tenta di eliminare dal 2008.

Secondo il dottor Shihada è tuttavia possibile che il corpo sia stato aperto dai medici per cercare di fermare un’emorragia interna.

Un esame esterno ha mostrato che a Shahin era stato sparato tre volte alla gamba destra. Se uno o più proiettili hanno trapassato l’arteria femorale, provocando un’emorragia che non è stata fermata entro 15 minuti, ciò avrebbe potuto provocare la sua morte, spiega a MEE il dottore.

“Emad era solo un ragazzo”, dice Monira. “Israele avrebbe potuto curarlo dopo averlo prelevato. Ma non lo hanno fatto. Lo hanno ucciso.”

Trattenimento dei corpi

Secondo il centro al-Mezan per i diritti umani, le autorità israeliane trattengono tuttora i corpi di quindici palestinesi della Striscia di Gaza uccisi dopo il 30 marzo 2018, tra cui due bambini.

Benché la famiglia di Emad Shahin abbia atteso circa un anno perché le fosse restituito il corpo del ragazzo, le altre famiglie palestinesi che vivono nell’incertezza potrebbero non recuperare mai i corpi dei loro cari.

La scorsa settimana il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha ordinato che nessun corpo dei palestinesi trattenuti da Israele venga restituito alle rispettive famiglie, ritenendo questo un “mezzo di dissuasione contro il terrorismo”

Israele è il solo Paese al mondo che applica una politica di sequestro delle spoglie, in base ad una legge che risale al 1945, durante il mandato britannico.

La morte di Emad Shahin e la minaccia di un arresto da parte di Israele non hanno però dissuaso Monira e la sua famiglia dal partecipare alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

“La resistenza è il solo mezzo per liberare la nostra terra”, afferma Monira. “E ormai noi ci andiamo anche per onorare Emad. D’ora in poi tutta la famiglia è pronta a morire per sconfiggere l’occupante.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Palestina. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi (2a parte)

Francesca Merz

20 novembre 2019 Nena News

Dal 1967 al 1993 Israele ha operato per trasformare i contadini e gli artigiani palestinesi in manodopera a basso costo. Dopo gli Accordi di Oslo la finta unione doganale tra Tel Aviv e Ramallah ha prodotto un annichilimento della capacità produttiva e di esportazione palestinese, separando ulteriormente Gaza e Cisgiordania

Israele ha ostacolato lo sviluppo di un’economia palestinese anche in diversi modi: la costruzione delle infrastrutture e il grande progresso magnificato dello Stato israeliano è avvenuta in gran parte su strutture ben precedenti alla stessa creazione dello Stato di Israele. Ma non solo.

In netto contrasto con il potere mandatario britannico – che aveva eseguito o permesso a soggetti privati di realizzare una serie di progetti di sviluppo, il porto marittimo di Haifa, l’aeroporto di Lydda (oggi Ben Gurion) e diverse linee ferroviarie, che svolsero un ruolo cruciale nella successiva crescita economica della Palestina, e poi di Israele – il regime militare instaurato da Israele come potenza colonizzatrice e occupante, non solo si astenne dall’investire i propri fondi nelle infrastrutture civili necessarie allo sviluppo economico nei Territori Occupati, ma impedì anche ad altri di farlo.

La decisione iniziale israeliana di consentire il libero passaggio delle frontiere a lavoratori non sindacalizzati, forza lavoro a basso costo e senza alcun diritto ma necessaria per la creazione dello Stato di Israele, e la costruzione delle sue case e infrastrutture, svolse una funzione di cui Israele era ben consapevole e che agevolò sotto le mentite spoglie di “aiuto alla popolazione palestinese e tentativo di convivenza” la totale erosione della capacità produttiva della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La domanda israeliana di manodopera non qualificata non solo condizionò i singoli lavoratori, ma ebbe anche effetti nocivi a lungo termine sull’economia palestinese, poiché la diffusione di lavoro non qualificato contribuì a far stagnare le condizioni economiche di sottosviluppo nei Territori Occupati e ostacolò il processo di professionalizzazione.

Il numero crescente di palestinesi che entravano in Israele per trovare lavoro portò anche a un calo notevole del numero di lavoratori che restarono nei territori a coltivare la terra palestinese. Il fatto di non coltivare più terra fu aggravato dalle quote fisse di acqua, stabilite nei primi anni Settanta e non cambiate per più di dieci anni, e dal fatto che gli agricoltori palestinesi pagavano per l’acqua quattro volte di più degli agricoltori israeliani.

Neve Gordon nel suo testo L’occupazione israeliana sottolinea quelli che vengono definiti errori di Israele nel tentativo di normalizzazione dell’occupazione: nel corso degli anni Settanta Israele permise ai palestinesi di aprire diverse Università nel tentativo di normalizzare l’occupazione. In un periodo relativamente breve queste università produssero una classe professionale piuttosto numerosa composta da laureati.

Tuttavia, a causa di una serie di restrizioni e di vincoli imposti all’economia palestinese, l’industria e il settore dei servizi non potevano svilupparsi e le opportunità di lavoro aperte ai professionisti palestinesi all’interno dei Territori Occupati erano molto limitate. Di conseguenza, molti dei laureati non riuscivano a trovare lavori che riflettevano o impiegavano le loro competenze. Questa frustrazione rappresentò una importante forza di opposizione allo scoppio della prima intifada.

“L’esperienza lavorativa in Israele unita alla realtà della loro vita quotidiana nei Territori Occupati, produsse tra i lavoratori la comune consapevolezza di essere sfruttati e di essere destinati a restare, secondo il sistema economico corrente, in fondo alla scala economica israeliana”. Come nota Neve Gordon, “la mancanza di posti di lavoro nei Territori Occupati era compensata dalle opportunità di occupazione in Israele e si può supporre che Israele abbia ostacolato intenzionalmente lo sviluppo di un’industria indipendente palestinese al fine di mantenere un’offerta costante di manodopera a basso costo”.

Alla vigilia degli Accordi di Oslo (1993), subito prima che la responsabilità delle infrastrutture passasse dalle mani di Israele all’Autorità Palestinese, il 5% dei residenti di Gaza e circa il 26% degli abitanti delle aree rurali in Cisgiordania non avevano accesso all’acqua corrente, a Gaza il 38% della popolazione non aveva accesso al sistema fognario e solo il 69% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso all’elettricità per ventiquattrore al giorno.

Dopo più di due decenni e mezzo di occupazione israeliana, dei territori palestinesi solo il 9% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso per ventiquattro ore al giorno all’elettricità, alla rete idrica, ai servizi di smaltimento dei rifiuti e alla rete di scarico fognario, considerati primari in Israele anche prima del 1967.

La mancanza di investimenti in infrastrutture serviva a sottolineare il loro stato di popolazione oppressa; invece di costruire nuove aule per affrontare i bisogni crescenti della popolazione, Israele impose un orario di lezione a doppio turno. Il 50% degli studenti di Gaza e della Cisgiordania abbandonava la scuola prima di aver raggiunto la nona classe e non è un caso che, di fatto, nel 1986 gli studenti che avevano abbandonato la scuola costituivano il 40% del totale degli operai palestinesi in Israele.

L’induzione sistematica a lasciare la scuola e la creazione di condizioni insostenibili per studenti ed insegnanti rientrò perfettamente nella strategia per garantire forza lavoro sempre giovane e disponibile e per impoverire culturalmente un popolo che, in assenza di possibilità di accedere all’istruzione, sarebbe certamente diventato più facilmente soggiogabile sia dal punto di vista politico che economico.

L’economia palestinese subì una drastica contrazione dopo il passaggio dell’autorità all’Anp. Negli anni di Oslo Israele impose una politica della chiusura, lo Stato israeliano era ormai forte e costruito, non aveva più così tanto bisogno della manodopera palestinese a basso costo, altra manodopera fu richiamata da paesi come l’Eritrea e le Filippine. Oltre agli effetti diretti sulla forza lavoro, la politica della chiusura ostacolò anche le esportazioni palestinesi in Israele e in altri paesi, infliggendo un colpo mortale alle esportazioni agricole più redditizie, come per esempio i fiori (presenti in abbondanza sul mercato palestinese ben prima della nascita della narrazione israeliana sui fiori nel deserto – vedi articolo I fiori del deserto), e alle nuove fabbriche create dopo il primo fatuo buon umore economico scaturito da Oslo, che producevano beni destinati ai mercati europei.

I nuovi industriali palestinesi non poterono impegnarsi a fornire le merci con puntualità e i contratti che avevano firmato con le aziende e i mercati esteri furono presto annullati. La politica della chiusura creò anche una separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, riducendo in misura notevole il commercio tra le due regioni e danneggiando l’agricoltura e l’industria impedendo ai palestinesi di sfruttare i rispettivi vantaggi di ogni area. Mentre prima dell’imposizione delle chiusure circa il 50% delle merci prodotte a Gaza era commercializzato in Cisgiordania, nel 1995 questa cifra ammontava al solo 8%. Israele inoltre continuò a controllare il flusso di cassa dell’Anp in modo diretto, bloccandone di fatto gli introiti doganali.

La coercizione e l’imbrigliamento di ogni possibilità di sviluppo economico per la Palestina furono spesso attuate a colpi di ordinanze militari: l’ordinanza militare 363 (dicembre 1969) impose rigide limitazioni all’uso agricolo e pascolativo della terra nelle zone qualificate come riserve naturali. Anche se dichiarare la terra riserva naturale era una misura apparentemente concepita per proteggere l’ambiente, fu ritenuta dalle autorità parte integrante del programma di confisca della terra ed è attualmente una delle principali strategie utilizzate dallo Stato israeliano, nel 1985 erano già stati dichiarati appartenenti a riserve naturali 250mila dunam, circa il 5% del territorio.

La scusa delle riserve naturali e di parchi pubblici, del verde cittadino, è tristemente usata anche attualmente per coprire ben altri intenti, e come sempre salutato dalla comunità internazionale come un segnale di riqualificazione degli spazi e delle periferie degradate.

Dall’occupazione del 1967 e fino alla firma degli Accordi di Oslo, il regime commerciale de facto tra palestinesi e israeliani era paragonabile all’unione doganale. In teoria, l’unione doganale è un accordo commerciale in cui i Paesi coinvolti permettono la libera circolazione delle merci tra loro e concordano una comune tariffa doganale per le importazioni da altri Paesi. Tuttavia, nella relazione di “unità doganale” tra Israele e l’Autorità Palestinese, entrambi applicano la politica commerciale di Israele, cioè le tariffe doganali e altri regolamenti di Israele tranne che per pochi, specifici beni. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha formalizzato un’unione doganale in cui la politica commerciale di Israele viene imposta a Cisgiordania e Gaza.

Il prodotto interno lordo dei Territori Occupati (in dollari) ammontava, nel 2016, a 13.397 miliardi, una percentuale minima, circa il 4,2%, di quello di Israele. Il fatto che il protocollo di Parigi non abbia tenuto conto del divario tra le due economie è un grosso problema, visto che la struttura tariffaria che sarebbe stata necessaria per tentare di ricostruire un’economia palestinese indebolita era molto diversa da quella adatta a un’economia industrializzata come quella di Israele. Quindi, anche se l’unione doganale fosse stata applicata alla perfezione, come stabilito dal protocollo, avrebbe avuto un impatto negativo sull’economia palestinese, dato che non risponde ai suoi bisogni.

L’applicazione contraddittoria e a senso unico dell’unione doganale da parte di Israele ha solo peggiorato le cose. Sulla carta, il Protocollo di Parigi ha consentito la circolazione di beni agricoli e industriali tra le due parti e ha permesso ai palestinesi di avere legami commerciali diretti con altri Paesi. Tuttavia, in violazione del Protocollo di Parigi, a partire dagli anni ‘90 Israele ha imposto restrizioni alla circolazione dei beni tra Israele e i Territori: i beni, cioè, potevano circolare liberamente da Israele verso i Territori, ma non viceversa.

Israele ha anche imposto restrizioni alla circolazione di beni all’interno dei Territori Occupati. Dal 1997 ha tentato di isolare la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e l’assedio israeliano decennale su Gaza ha ulteriormente ostacolato le relazioni commerciali tra le due aree. Le politiche israeliane di chiusura hanno distrutto anche le relazioni commerciali all’interno della Cisgiordania. La conseguente frammentazione del sistema economico dei Territori in piccoli mercati disconnessi tra loro ha incrementato i tempi e i costi di trasporto dei beni da una zona all’altra della Cisgiordania.

Inoltre, le politiche di chiusura imposte da Israele e alcuni ostacoli tariffari hanno pesantemente ridotto il commercio con l’estero. Alcuni esempi di tali misure: non riconoscimento da parte di Israele delle certificazioni palestinesi, tempi lunghi per le verifiche di conformità e lista dei “beni a duplice uso”, beni cioè che, secondo Israele, possono essere utilizzati sia per scopi militari che per scopi civili, e che sono quindi vietati o soggetti a interminabili procedure di sicurezza. Questi provvedimenti israeliani violano il Protocollo, che riconosce all’import/export palestinese un trattamento pari a quello dell’import/export israeliano.

Di conseguenza, i Territori Occupati sono diventati un mercato vincolato per le esportazioni da Israele. Secondo un report del 2016 della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), Israele ha recentemente beneficiato dell’85% dell’export palestinese e “rappresenta oltre il 70%” dell’import palestinese. I Territori Occupati rappresentano, invece, solo il 3% degli scambi commerciali israeliani”.




Come la questione israelo-palestinese è arrivata al cuore della politica USA

Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico, Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza – e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele, chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10 anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele. E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata, spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan, una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’ [organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre, come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi, l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’ [importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno boicottato il suo intervento.

Le critiche ad Israele all’epoca di Obama non si limitavano al Congresso. Erano persino più aspre nei movimenti sociali progressisti, che a loro volta rassicuravano i democratici riguardo al fatto che la loro posizione anti Netanyahu era appoggiata dalla loro base elettorale.

Nel periodo in cui si è svolto lo scontro tra Obama e Netanyahu sull’Iran, sempre più gruppi per i diritti dei palestinesi hanno destinato risorse a Washington. Nel 2015 ‘Jewish Voice for Peace’ [Voce Ebraica per la Pace] (JVP), l’associazione di [ebrei di] sinistra di solidarietà con la Palestina, ha assunto il suo primo dipendente focalizzato sul Congresso.

“C’è stato l’attacco a Gaza del 2014, e allora improvvisamente siamo diventati molto, molto più grandi”, ha detto Rebecca Vilkomerson, che ha appena lasciato la carica di capo di JVP dopo 10 anni in carica. “Abbiamo deciso che avevamo abbastanza membri con abbastanza sezioni locali per cui non sarebbe stato inutile andare a fare questo genere di incontri (al Congresso)”.

Inoltre alla fine del 2014 ‘Defense for Children International-Palestine’ [associazione internazionale per la difesa dei bambini con sede a Ginevra, ndtr.] e l’ ‘American Friends Service Committee’ [associazione di quaccheri che si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli, l’abolizione della pena di morte ed i diritti umani, ndtr.] hanno lanciato la campagna “Non è il modo di trattare un bambino”, un tentativo concentrato su Washington di spingere i parlamentari USA a esprimersi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti dei bambini palestinesi. Questo tentativo ha avuto successo, soprattutto presso la deputata Betty McCollum: con le sue proposte di legge e lettere che chiedevano attenzione per gli arresti israeliani di bambini palestinesi, è diventata il principale difensore dei diritti dei palestinesi al Campidoglio.

Tuttavia non tutti i gruppi della sinistra progressista lavoravano congiuntamente. ‘J Street’ [associazione di ebrei liberal moderatamente critici con Israele, ndtr.], per esempio, un gruppo fondato nel 2007, si è creato uno spazio a parte in Campidoglio: premere per uno Stato palestinese e per la fine dell’occupazione israeliana per consentire ad Israele di rimanere “ebreo e democratico”, secondo quanto afferma J Street. Ciò si opponeva a gruppi come JVP e ‘US Campaign for Palestinian Rights’ [coalizione di gruppi che lavorano per libertà, giustizia ed eguaglianza, ndtr.] (USCPR), i quali sostengono in pieno la strategia del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.] (BDS) – compreso il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – e il taglio degli aiuti militari statunitensi [ad Israele, ndtr.]. Eppure nel loro insieme, i gruppi da J Street a ‘US Campaign’ hanno introdotto una novità in un dibattito normalmente dominato soltanto dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele.

“Anche se la parte avversa ha molte più risorse e migliori relazioni, i gruppi per i diritti dei palestinesi hanno svolto un duro e diligente lavoro per rendere visibile la propria presenza in Campidoglio, chiarendo che c’è un’altra prospettiva che i membri del Congresso devono riconoscere, anche se non sentono ancora la necessità di votare in quel senso”, ha detto a +972 un autorevole assistente parlamentare. “Ecco come riesci a spostare il dibattito. Si inizia a rendere più complessa la questione per la gente, e per troppi membri del Congresso la questione è stata semplice. Ciò sta cambiando.”

Ma se il dibattito a Washington si è incentrato su Netanyahu, i movimenti sociali di sinistra non hanno focalizzato la principale attenzione sul leader israeliano. Al contrario, si sono concentrati su Israele stesso e hanno criticato l’intero regime che ha governato i palestinesi in modo simile ad uno Stato di apartheid, uno Stato che doveva essere boicottato – un messaggio diffuso dalle campagne BDS. I gruppi per i diritti dei palestinesi si sono alleati con i gruppi per i diritti dei migranti e per i diritti civili in campagne indirizzate a chi fa profitti con le carceri private, lanciando il messaggio che l’oppressione delle persone di colore nelle carceri è collegata all’oppressione dei palestinesi – soprattutto perché imprese come G4S [società privata britannica di servizi per la sicurezza, ndtr.] traggono profitto dall’incarcerazione di tutte quelle comunità. Sezioni di ‘Students for Justice in Palestine’ [organizzazione di attivisti studenteschi pro-palestinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda, ndtr.] hanno formato coalizioni con comunità di colore nei campus universitari per spingere i dirigenti studenteschi ad appoggiare il disinvestimento dalle imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Molto di questo lavoro degli studenti è stato guidato dagli stessi palestinesi, un’eco del lavoro che gruppi come la ‘General Union of Palestinian Students’ [organizzazione gestita da studenti palestinesi che esiste fin dai primi anni ’20, ndtr.] hanno fatto nei campus USA a cominciare dalla guerra del 1967. Dopo gli Accordi di Oslo [del 1993], l’attivismo guidato dai palestinesi negli USA è venuto meno, in quanto è stata dedicata maggiore attenzione alla creazione di uno Stato a casa loro piuttosto che a creare un movimento globale anticoloniale. Ma, una volta falliti gli Accordi di Oslo, i capi delle organizzazioni palestinesi si sono reinseriti nel più ampio movimento di solidarietà. Questa rinascita ha raggiunto il suo apice in seguito all’invasione israeliana di Gaza nel 2008-2009.

“I palestinesi hanno iniziato ad essere più autocentrati, il che ha anche significato che sono aumentati i militanti palestinesi”, ha detto Andrew Kadi, a lungo organizzatore palestinese-americano e membro del comitato direttivo della USCPR.

Uno dei momenti più importanti per il movimento per i diritti dei palestinesi è stato nell’agosto 2016, quando ‘A Vision for Black Lives’, una piattaforma politica resa pubblica da gruppi collegati con il movimento ‘Black Lives Matter’, ha appoggiato il disinvestimento dal “complesso militare-industriale” di Israele ed ha accusato Israele di apartheid e genocidio. Per i gruppi per i diritti dei palestinesi la piattaforma politica è stata un eccellente esempio di come la lotta per la libertà dei neri e la lotta palestinese dovrebbero essere collegate. È stata una brillante affermazione della loro strategia “intersezionale”, che garantiva che i palestinesi difendessero i diritti dei neri negli USA, e viceversa, come parte di una più vasta spinta a collegare le lotte per la giustizia dei palestinesi e dei neri.

“Vi è ora una situazione in cui i movimenti sociali sono profondamente interconnessi”, ha detto Nadia Ben Youssef, direttrice delle attività di sostegno del Center for Constitutional Rights [Centro per i diritti costituzionali, organizzazione di sinistra per il patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.]. “Stiamo creando una politica coerente di giustizia sociale, per cui se tu hai un’opinione sulla giustizia razziale, sulla detenzione, sulla disuguaglianza in senso più generale, hai un’opinione anche sulla Palestina.”

Nel periodo dello shock delle elezioni del 2016, l’ampio schieramento di sinistra era arrivato a riconoscere che i diritti dei palestinesi avrebbero dovuto essere parte integrante del programma progressista. Linda Sarsour, un’importante attivista palestinese-americana, è stata uno dei volti della storica Marcia delle Donne contro Trump del gennaio 2017. Ma l’integrazione dei diritti dei palestinesi nel movimento progressista non è avvenuto senza polemiche. Gruppi filoisraeliani hanno attaccato Sarsour e il Movimento per le Vite dei Neri. Li hanno accusati di dirottare il movimento progressista verso un programma del tutto differente. Tuttavia è diventato insostenibile per i progressisti ignorare la Palestina.

Ciò è diventato ancor più evidente quando dirigenti progressisti come Ilhan Omar, eletta nel 2016, ha sposato la lotta a favore di qualunque cosa, dall’assistenza sanitaria per tutti al Green New Deal fino all’eliminazione dell’occupazione israeliana. L’impostazione di politica estera di Omar si concentra sulla smilitarizzazione e sui diritti umani, senza fare eccezione riguardo al trattamento di Israele verso i palestinesi.

L’elezione di Trump ha esasperato la politica sulla Palestina negli USA. La sua stretta alleanza con Netanyahu ha allontanato i democratici da Israele. I regali di Trump alla destra israeliana – il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il silenzio dell’amministrazione sulle colonie israeliane e il riconoscimento delle alture del Golan come territorio israeliano – lo hanno ulteriormente legato a Netanyahu, un problema per coloro che credono nell’importanza di una relazione bipartisan con lo Stato ebraico.

Trump ha perseguito anche un’altra strategia che ha portato la questione israelo-palestinese al centro del dibattito americano: definendo “antisemiti” suoi accesi oppositori come Omar e Tlaib, parte di un tentativo di spaccare il partito democratico, fa perdere elettori ebrei ed eccita la sua base di destra.

“Avete visto il partito repubblicano cercare di trasformarlo in un’arma politica, una questione spinosa. Diventa una questione di guerra culturale, come l’aborto o l’immigrazione”, ha detto Logan Bayroff, il portavoce di J Street. “Questo provoca la loro base elettorale, che non sono ebrei americani ma sono tanti elettori evangelici, che stanno guidando il programma [di Trump].”

La decisione di Netanyahu nello scorso agosto di vietare a Omar e Tlaib di recarsi in Israele-Palestina con una delegazione del Congresso faceva parte della strategia di Trump di dipingerle come nemiche di Israele e dell’America. Facendo in modo di creare un contrasto internazionale da prima pagina, Trump ha portato avanti i suoi piani di fare di Omar e Tlaib i volti del partito democratico, una strategia che lui reputa vincente nei confronti delle persone preoccupate della corsa a sinistra dei democratici.

Ma quella decisione ha avuto anche un effetto boomerang. Omar e Tlaib hanno tenuto un’eccezionale conferenza stampa dopo che è stato comunicato il divieto, in cui hanno parlato ad un pubblico di tutta la Nazione dell’indecenza dell’occupazione e di come Israele fa del male ai palestinesi. È stata, in una sola settimana, una sintesi di come la Palestina sia passata dai margini al centro della politica americana. A destra viene usata come questione controversa, mentre a sinistra viene amplificata dai parlamentari progressisti che vedono la Palestina come parte del loro più vasto programma di giustizia sociale.

Per quei democratici che vogliono mantenere l’alleanza USA-Israele così com’è, la decisione di Netanyahu di bandire Tlaib e Omar è stata inquietante ed ha solo incrementato il loro desiderio di vedere Netanyahu lasciare l’incarico e vincere qualcuno come Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco [coalizione di centro-destra che ha vinto le ultime elezioni in Israele, ndtr.]. Ai loro occhi, ciò permetterebbe ai democratici di tornare alle loro consuete posizioni su Israele: appoggiare i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese senza la seccatura di un Netanyahu sfacciatamente di parte che danneggia il rapporto tra USA ed Israele.

Ma mentre un incarico di formare un nuovo governo a Gantz potrebbe dare un attimo di respiro a questi democratici dopo il caos dell’era Netanyahu-Trump, non porrà fine alla messa in discussione progressista del consenso di Washington a Israele.

“Moltissimi democratici si illudono che il problema sia solo Bibi (Netanyahu). Ma non dovremmo fare troppe personalizzazioni”, ha detto l’importante consigliere democratico al Congresso. “Sì, Bibi è particolarmente dannoso, sfacciato nel suo approccio di parte, ma, come Trump, Bibi è il prodotto di una reale tendenza politica in Israele. Rappresenta un elemento illiberale con cui i democratici devono fare i conti se prendono sul serio i valori che professano.”

Alex Kane è un giornalista che vive a New York, il cui lavoro su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA è stato pubblicato su VICE News, The Intercept, The Nation, In These Times ed altri giornali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gli articoli del “NY Times” sull’uccisione di una famiglia a Gaza sono parte della riduzione del danno per l’esercito israeliano

James North

16 novembre 2019 – Mondoweiss

Il taglio dell’odierno articolo del New York Times su come l’aviazione di Israele abbia ucciso civili a Gaza inizia direttamente dal titolo. Nell’edizione in rete recita: “In un attacco che ha ucciso 5 bambini, Israele ha affermato di aver tolto di mezzo un miliziano di Gaza. Ora non è sicuro.”

Trovai per la prima volta “togliere di mezzo” come eufemismo per “ucciso” quando ero inviato nell’Africa meridionale negli anni ’70. Il regime della minoranza bianca in Rhodesia lo utilizzava per minimizzare la repressione contro il movimento nero di guerriglia che alla fine conquistò l’indipendenza e ribattezzò il Paese Zimbabwe. Il New York Times vuole davvero condividere questa orribile storia?

L’articolo del Times inizia con un rapido reportage di prima mano di un testimone del terribile attacco aereo notturno israeliano contro Deir-El-Balah, a Gaza. Ismail al-Swarka vi ha perso otto dei suoi parenti, cinque dei quali bambini.

Ma poi il giornale fa una digressione e un’operazione di riduzione del danno in associazione con l’esercito israeliano. Il Times afferma che l’esercito spiega che “vittime civili sono inevitabili nei brulicanti quartieri di Gaza.” Aggiunge che “Israele accusa i miliziani di utilizzare civili, compresi i loro stessi parenti, come scudi umani…” E, insistendo sull’argomento propagandistico, il giornale dice che Israele “adotta numerose precauzioni per evitare vittime civili inutili.”

Il giornale confonde anche le notizie veritiere, insinuando che, nonostante la morte di civili, ci doveva effettivamente essere stata “un’infrastruttura militare della Jihad Islamica”, nella zona che Israele ha attaccato. Il lettore si sente confuso, con l’impressione che l’aviazione israeliana potrebbe aver fatto un errore, ma forse no, e che in ogni caso simili errori sono rari.

La versione degli avvenimenti del Times è profondamente disonesta. Molte ore prima che il Times mettesse sul sito il suo articolo, il quotidiano indipendente israeliano Haaretz aveva già affermato chiaramente, nella sua prima frase:

Giovedì l’esercito israeliano ha ammesso di aver commesso un errore nel colpire mercoledì notte a Gaza un edificio che ospitava una famiglia di otto persone, tutte morte nell’attacco.”

I giornalisti di Haaretz, Yaniv Kubovich e Jack Khoury, hanno continuato a scrivere articoli veritieri, invece di stenografare i portavoce ufficiali dell’esercito israeliano. Si è scoperto che “l’edificio dove la famiglia (gli 8 gazawi uccisi nell’attacco, compresi 5 bambini) viveva era su una lista di potenziali bersagli, ma ufficiali israeliani della Difesa hanno confermato ad Haaretz che nell’ultimo anno non era stata aggiornata o controllata prima dell’attacco… Fonti della Difesa hanno confermato che in nessuna fase l’area è stata controllata per [verificare] la presenza di civili.”

Con buona pace delle “numerose precauzioni” dell’esercito israeliano per evitare di colpire civili palestinesi.

C’è stata ulteriore disonestà da parte del Times. La seconda frase dell’articolo del Times informa che “il portavoce dell’esercito israeliano in lingua araba ha postato su twitter la foto del comandante della Jihad Islamica palestinese che sostiene sia stato ucciso nel raid…” Poi cita la Jihad Islamica che nega le affermazioni di Israele. A te, lettore, decidere.

Ma Haaretz ha continuato a fare vera informazione. In un articolo di poche ore dopo Kubovich e Khoury hanno rivelato che l’esercito israeliano ha ammesso che la dichiarazione relativa al “comandante della Jihad Islamica” era una menzogna. “Funzionari della difesa ora ammettono che si è trattato di una dichiarazione falsa,” hanno detto.

L’inviato del Times David Halbfinger è in Israele da più di 2 anni. Non sarebbe ora che si creasse qualche fonte all’interno dell’esercito israeliano?

Questo orribile crimine di guerra israeliano – perché di questo si tratta – ricorda una storia rivelatrice raccontata da Yonatan Shapira, l’ex-pilota dell’aviazione israeliana che ora è un refusnik [israeliani che si rifiutano di fare il soldato o di partecipare ad attività nei territori palestinesi occupati, ndtr.], uno dei sempre più numerosi israeliani che non continueranno a prestare servizio nell’esercito. Nel 2003 Shapira, ancora in servizio, si scontrò con il comandante dell’aviazione riguardo a quelli che vengono anche eufemisticamente chiamati “assassinii mirati” – aerei da guerra avevano sparato missili contro leader palestinesi a Gaza, uccidendo anche passanti innocenti, alcuni dei quali bambini.

Shapira chiese al comandante: “Cosa sarebbe successo se i dirigenti palestinesi si fossero trovati a Tel Aviv? Avresti ordinato ai tuoi piloti di sparare lì, mettendo a rischio passanti israeliani?” Il comandante rispose di no. “Quindi tu attribuisci maggior valore agli israeliani che ai palestinesi,” rispose Yonatan. “Cercati qualcun altro per pilotare il tuo aereo.”

James North è un redattore generale di Mondoweiss e per quarant’anni è stato un inviato in Africa, America latina e Asia. Vive a New York.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas non partecipa allo scontro

Menachem Klein

13 novembre 2019 – + 972

Perché Hamas si tiene fuori dallo scontro tra Israele e la Jihad Islamica

Il coordinamento politico e per la sicurezza di Israele con Hamas ha risposto ad interessi condivisi per molti anni. Ora Hamas spera di rimanere fuori dall’attuale scontro per estendere se possibile il suo potere politico in Cisgiordania

Nella nuova serie di scontri tra Israele e la Jihad Islamica a Gaza si ha l’impressione che ci sia un accordo non scritto tra Israele e Hamas. Ciò non è fuori dal comune nei rapporti tra nemici con interessi comuni. Siria e Israele, per esempio, una volta avevano un accordo riguardante i limiti invalicabili del coinvolgimento di quest’ultimo in Libano.

Per comprendere la delicata danza tra Israele e Hamas è necessario conoscere la storia recente. Nel 2007 Hamas cacciò Fatah, che allora governava Gaza con l’uomo forte Mohammed Dahlan. In risposta, Israele impose un blocco a Gaza, sperando che avrebbe fatto crollare il regime di Hamas attraverso pressioni esterne o provocando una rivolta interna palestinese. Quella strategia è fallita: fino ad oggi Hamas è rimasta al potere.

Verso il 2010 Israele cambiò la politica di cacciare Hamas, optando invece per una sorta di coesistenza. Il governo decise di istituzionalizzare la separazione tra Gaza e la Cisgiordania, annettendo gradualmente parti di quest’ultima e cercando nel contempo accordi concreti con Hamas. Israele rifiuta di consentire ad Hamas di avere una posizione forte in Cisgiordania, che è una delle ragioni principali della sua collaborazione per la sicurezza con Mahmoud Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese.

Quindi Israele rafforza il potere di Abbas incentivando sospetti e ostilità nei confronti di Hamas, ma si è prefissato la conservazione del potere di Hamas a Gaza. Utilizza la classica tattica del divide et impera per controllare entrambe le parti dei palestinesi, comprendendo che, se Hamas dovesse cadere, il vuoto potrebbe essere riempito da uno dei gruppi affiliati all’ISIS presenti nel Sinai. Israele ha bisogno di un rapporto stabile con Hamas per tenere l’ISIS fuori da Gaza.

Il coordinamento con Hamas è stato sospeso nel 2014, dopo che militanti palestinesi rapirono e uccisero tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. Israele accusò Hamas di essere responsabile, ignorando le sue smentite, e riarrestò prigionieri palestinesi che erano stati rilasciati come parte di un accordo per la liberazione di Gilad Shalit [soldato israeliano rapito da Hamas nel 2006, ndtr.]. Ciò mise in moto uno confronto militare che terminò nello stesso modo di precedenti scontri – con la conferma di precedenti accordi strategici, compreso il fatto di alleggerire il blocco, estendere la zona di pesca di Gaza e consentire che entrassero a Gaza finanziamenti del Qatar.

A settembre, quando la Jihad Islamica ha sparato razzi contro Ashdod mentre Netanyahu vi stava facendo un comizio elettorale, i media israeliani iniziarono a concentrarsi sul bellicoso comandante del gruppo, Baha Abu al-Ata, assassinato martedì mattina. Riunioni dell’intelligence hanno sottolineato che Abu al-Ata era probabilmente un comandante ribelle che non accettava l’autorità di Hamas.

Abu al-Ata era un obiettivo perché danneggiava gli accordi tra Israele ed Hamas. Assassinandolo Israele ha mandato il messaggio ad Hamas di essere interessato a mantenere questi accordi. Da quando i miliziani della Jihad Islamica hanno iniziato a lanciare razzi in risposta all’assassinio, Hamas ne è rimasta fuori, mentre Israele ha chiarito di agire solo contro la Jihad Islamica. Hamas, i cui principali dirigenti non hanno fatto commenti, non ha interesse a rafforzare la Jihad Islamica o ad essere trascinata in un conflitto armato con Israele. Tuttavia, se la risposta israeliana dovesse uccidere troppi civili palestinesi, Hamas probabilmente risponderà. In una situazione di crescenti tensioni, ciò potrebbe avvenire in conseguenza di errori operativi o di malintesi.

Politicamente Hamas è concentrata sulle elezioni palestinesi che Abbas ha annunciato all’inizio dell’anno. L’organizzazione intende accettare i parametri di Abbas: elezioni parlamentari seguite da quelle presidenziali. Hamas ha anche accettato che le elezioni avvengano con modalità diverse. Invece di elezioni regionali in 16 distretti dei territori occupati – in cui il partito che vince prende tutto – le elezioni saranno in tutto il Paese. Ciò significa che anche se Hamas non vincesse la maggioranza dei voti, avrebbe la possibilità di conquistarsi una solida posizione in Cisgiordania e presentare un proprio candidato alla presidenza. Abbas, un leader molto impopolare, si è impegnato a non presentarsi per un ulteriore mandato. Hamas spera di poter andare oltre il governo a Gaza e di partecipare alle elezioni nazionali.

Menachem Klein è docente di scienze politiche all’università [israeliana] di Bar Ilan. E’ stato consigliere della delegazione israeliana con l’OLP nel 2000 e uno dei leader della Geneva Initiative [Iniziativa di Ginevra, un gruppo di dirigenti politici e intellettuali israeliani e palestinesi che hanno stilato un piano di pace non accettato né da Israele né dai palestinesi, ndtr.]. Il suo nuovo libro “Arafat and Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed” [Afarat e Abbas: ritratti di dirigenti in uno Stato rinviato], è stato da poco pubblicato da Hurst London and Oxford University Press New York.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Dieci morti a Gaza

Dieci morti a Gaza mentre Israele provoca una nuova guerra

Maureen Clare Murphy

12 novembre 2019 – Electronic Intifada

 

Gli attacchi missilistici israeliani contro Gaza e il lancio di razzi dal territorio sono continuati fino al tardo pomeriggio di martedì [12 novembre 2019] dopo che l’assassinio di un dirigente della Jihad Islamica all’inizio della giornata ha innescato lo scontro militare più grave da mesi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza durante il giorno dieci palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Nel contempo Israele ha chiuso i punti di transito dal territorio assediato e ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Martedì sera il portavoce dell’ala militare della Jihad Islamica ha giurato che “le prossime ore segneranno una vittoria per il popolo palestinese. Israele ha iniziato questa campagna, ma sarà avvisato quando questa finirà.”

Baha Abu al-Ata, 42 anni, descritto dai media israeliani come il comandante militare della Jihad Islamica nella zona nord di Gaza, è stato ucciso da un attacco aereo contro la sua casa nel quartiere di Shujaiyeh a Gaza City.

Anche sua moglie, Asma Abu al-Ata, 38 anni, è stata uccisa nell’attacco israeliano. Altre sette persone, compresi quattro minorenni, sono rimasti feriti e alcune case vicine e una scuola sono state danneggiate.

Nel frattempo nella capitale siriana la casa di Akram al-Ajouri, il capo dell’ala militare della Jihad Islamica, è stata presa di mira da un attacco aereo. La Siria ha accusato Israele dell’attacco.

Nel raid sarebbero state uccise due persone, compreso uno dei figli di al-Ajouri.

Combattenti palestinesi a Gaza hanno risposto all’attacco con il lancio di razzi che sono arrivati fino a Tel Aviv.  Ziad al-Nakhala, segretario generale della Jihad Islamica, ha affermato che “siamo in guerra” e che il primo ministro israeliano “ha oltrepassato ogni limite” uccidendo Abu al-Ata.

A Sderot, città del sud di Israele, una fabbrica di giocattoli è stata tra i luoghi colpiti dai razzi sparati da Gaza, e le immagini di una telecamera di sicurezza hanno mostrato un razzo che ha raggiunto un’autostrada, quasi colpendo un motociclista.

Martedì non ci sono informazioni di vittime gravi israeliane.

Martedì mattina un missile ha colpito gli uffici della Commissione Palestinese Indipendente per i Diritti Umani a Gaza City, ferendo leggermente un membro del personale.

Amnesty International ha condannato l’attacco, affermando che “aggressioni che prendono di mira edifici civili (sono) una violazione delle leggi internazionali.”

Il quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale di centro sinistra, ndtr.] in seguito ha informato che il palazzo degli uffici a Gaza City era stato colpito da un razzo sparato da Gaza che è caduto troppo vicino, e non da un missile israeliano.

Israele ha sostenuto di aver sparato missili contro gruppi che lanciavano razzi in Israele e la Jihad Islamica avrebbe confermato la morte di uno dei suoi combattenti. L’esercito israeliano ha anche affermato di aver preso di mira fabbriche sotterranee e depositi di armi, così come campi di addestramento della Jihad Islamica.

In un discorso televisivo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’assassinio di Abu al-Ata è stato approvato 10 giorni fa.

“Questo terrorista ha lanciato centinaia di razzi e pianificava ulteriori attacchi,” ha detto Netanyahu. “Era una bomba a orologeria.”

“Non siamo interessati a un’escalation, ma se necessario risponderemo,” ha aggiunto Netanyahu.

Aviv Kohavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha affermato che Abu al-Ata “ha agito in ogni modo per sabotare i tentativi di una tregua con Hamas.”

“Ci stiamo preparando da terra, cielo e mare per un’escalation,” ha aggiunto Kohavi.

In Israele alcuni commentatori hanno sollevato sospetti sulla tempistica e sui motivi dell’assassinio di Abu al-Ata.

Scrivendo per il quotidiano israeliano “Haaretz”, Chemi Shalev ha suggerito che Netanyahu intenda sabotare le possibilità che la “Lista Unitaria”, una fazione parlamentare prevalentemente composta da cittadini palestinesi di Israele, stringa un accordo per sostenere un governo guidato da Benny Gantz.

Gantz, il leader della coalizione “Blu e Bianco”, sta al momento cercando di formare un governo dopo che Netanyahu non ci è riuscito in seguito alle inconcludenti elezioni israeliane di settembre. Mentre i colloqui per formare una coalizione di governo proseguono, Netanyahu rimane capo del governo israeliano ad interim.

Gantz ha negato che gli sviluppi possano influire sui negoziati per un governo di coalizione, e ha detto che l’esercito israeliano ha preso la “decisione giusta” nell’uccidere Abu al-Ata.

Martedì molti mezzi di informazione in ebraico hanno informato che Netanyahu ha voluto l’uccisione di Abu al-Ata dopo che razzi sparati da Gaza lo hanno obbligato a lasciare il palco durante un comizio la settimana prima che si tenessero le elezioni di settembre.

Secondo il “Times of Israel” [quotidiano israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] “Netanyahu era furioso e ha fatto subito pressioni su alti dirigenti della sicurezza perché approvassero l’assassinio di Abu al-Ata,” ma l’operazione è stata rimandata.

Ismail Haniyeh, il capo dell’ala politica di Hamas, ha accusato Israele del tentativo di impedire “il percorso per ristabilire la nostra unità nazionale” assassinando Abu al-Ata. Lo scorso mese Hamas ha indicato di essere pronta a tenere elezioni, che non ci sono più state dalla sorprendente vittoria del gruppo della resistenza alle elezioni legislative del 2006.

Nel contempo martedì Naftali Bennett, un acceso antiarabo, ha assunto il ruolo di ministro della Difesa israeliano. Netanyahu è stato titolare del portafoglio del ministero mentre i negoziati per la formazione del futuro governo israeliano sono in corso.

In precedenza Bennett si era vantato del suo sanguinoso passato. “Ho ucciso molti arabi nella mia vita, e non ho nessun problema al riguardo,” ha detto Bennett durante una riunione di governo nel 2013.

L’Unione Europea, la Germania, gli USA e il Regno Unito hanno condannato il lancio di razzi da Gaza, ma non l’esecuzione extragiudiziaria che l’ha determinato, appoggiando implicitamente l’attacco israeliano.

Il Comitato Nazionale del [movimento per il] Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni palestinese ha affermato che “la società civile internazionale deve agire per rendere Israele responsabile quando i governi non lo fanno.”

Amnesty International ha descritto gli sviluppi sui confini tra Gaza e Israele come “profondamente preoccupanti”, aggiungendo che “la successiva escalation della violenza tra Israele e i gruppi armati palestinesi suscita timori di un aumento dello spargimento di sangue tra i civili.”

L’associazione per i diritti umani ha affermato: “Israele ha precedenti nel perpetrare gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali a Gaza, compresi crimini di guerra, con impunità e dimostrando uno sconvolgente disprezzo per le vite dei palestinesi.”

L’uccisione di Abu al-Ata da parte di Israele martedì ricorda l’assassinio del comandante militare di Hamas Ahmed al-Jabari a Gaza sette anni fa in questo stesso mese.

Uccidendo al-Jabari Israele ruppe un cessate il fuoco con i gruppi armati di Gaza. Ciò scatenò alcuni giorni di duri combattimenti e un’invasione terrestre che uccise 170 palestinesi, tra cui più di 100 civili.

Durante quell’offensiva dieci membri della famiglia al-Dalu e due loro vicini vennero uccisi in un solo attacco israeliano contro un edificio residenziale a Gaza City.

Egitto e ONU starebbero cercando di riportare alla calma l’attuale situazione e di evitare uno scontro su vasta scala.

Questo articolo è stato aggiornato dalla sua pubblicazione iniziale per includere nuovi sviluppi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)