Fare tanto clamore per avere l’approvazione di Israele: le promesse elettorali di Trump lo perseguiteranno

Maan News Agency 31 gennaio 2017

 Ramzy Baroud

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump promette che sarà favorevole ad Israele sotto ogni aspetto.

Io sono la cosa migliore che potrebbe mai accadere ad Israele”, si era vantato al Forum Presidenziale della Coalizione Ebraica Repubblicana a Washington DC, nel dicembre 2015.

Quando nel maggio 2016 il candidato repubblicano alla presidenza si è impegnato alla ‘neutralità’ tra palestinesi ed israeliani,

per un momento è sembrato che Trump rivedesse il suo appoggio incondizionato ad Israele.

Vorrei essere un uomo un po’ neutrale”, ha detto durante un incontro nella sala municipale della MSNBC (canale televisivo statunitense, ndtr.).

Da allora, questa posizione è stata superata dalla retorica più reazionaria, a cominciare, il mese seguente, dal discorso tenuto alla conferenza della lobby israeliana (AIPAC).

Quanto a Israele, le sue aspettative riguardo al Presidente USA sono molto chiare: sostegno incondizionato sul piano finanziario e militare, carta bianca all’espansione delle colonie illegali a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania e la fine di ogni forma di ‘pressione’ politica intesa a risuscitare il cosiddetto ‘processo di pace’.

Non che Trump avesse alcun dubbio circa queste aspettative. La vera sfida era che la sua principale rivale, Hillary Clinton, era un’ardente sostenitrice di Israele come nessun altro prima.

Era assolutamente sfrontata nell’adulare la lobby filoisraeliana. Riflettendo sulla morte dell’ex Presidente di Israele Shimon Peres, ha detto ai leader ebrei: “Quando lui parlava, per me era come ascoltare un salmo e adoravo sedermi ad ascoltarlo, sia che parlasse di Israele, la nazione che amava ed aveva fatto tanto per difendere, o che parlasse della pace o semplicemente della vita stessa.”

Ha promesso loro di “proteggere Israele dalla delegittimazione”, come scrive il quotidiano israeliano Haaretz – intendendo con ‘delegittimazione’ i tentativi dei gruppi della società civile in tutto il mondo di boicottare Israele a causa del suo mancato rispetto delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi sotto occupazione.

Questo era il panorama politico in cui Trump, fondamentalmente un uomo d’affari e non un politico, doveva muoversi. In un impeto di mosse affrettate ha accettato di concedere ad Israele ciò che voleva, ma è andato anche al di là di quanto avesse fatto nessun altro presidente USA nella storia contemporanea, promettendo di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

In quel momento è stata una mossa intelligente, sufficiente a contrastare le profferte d’amore della Clinton a Israele ed a fare di Trump il beniamino della destra politica israeliana, che attualmente controlla il governo.

Le conseguenze di quella promessa, se realizzata, comunque si dimostreranno molto costose.

Se Trump proseguirà su questa strada, è probabile che scatenerà il caos in una regione già instabile.

La mossa, che ora a quanto pare è “allo stadio iniziale”, non è semplicemente simbolica, come riferito da qualcuno nei principali media occidentali.

Trump, noto per il suo carattere impulsivo, sta minacciando di eliminare anche il minimo senso comune che storicamente ha governato la politica estera americana in Medio Oriente.

Gerusalemme è stata occupata in due diverse fasi storiche, prima dalle milizie sioniste nel 1948, poi dall’esercito israeliano nel 1967.

Avendo compreso la centralità di Gerusalemme per l’intera regione, i colonialisti britannici, che avevano ricevuto un mandato sulla Palestina dalla Società delle Nazioni nel 1922, erano favorevoli a che Gerusalemme rimanesse sotto protezione internazionale.

Comunque Israele si è impadronito della città con la forza, appellandosi ad un’ interpretazione a proprio vantaggio del testo biblico, che designerebbe Gerusalemme capitale ‘eterna’ del popolo ebreo.

Per lo sgomento della comunità internazionale, che ha sempre rifiutato e condannato l’occupazione israeliana, nel 1980 Israele ha annesso ufficialmente Gerusalemme, in violazione delle leggi internazionali.

Anche i paesi considerati alleati di Israele – compresi gli Stati Uniti – sono contrari alla sovranità israeliana su Gerusalemme e respingono l’invito di Israele a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv alla città illegalmente occupata.

Inoltre, dal 1995, la posizione degli Stati Uniti ha oscillato tra quella storicamente filoisraeliana del Congresso e quella egualmente filoisraeliana, ma più pragmatica, della Casa Bianca.

Nell’ottobre 1995 il Congresso statunitense ha approvato il Jerusalem Embassy Act, con maggioranza schiacciante sia alla camera che al senato. Esso definiva Gerusalemme capitale indivisa di Israele e sollecitava il Dipartimento di Stato a spostare l’ambasciata a Gerusalemme.

Le amministrazioni USA dei Presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato una deroga presidenziale che ha rinviato di volta in volta di sei mesi la decisione del Congresso.

L’ultima volta la deroga è stata firmata dall’ex Presidente Obama il 1° dicembre 2016.

Adesso l’opportunista magnate del settore immobiliare fa il suo ingresso alla Casa Bianca con un allarmante programma che appare identico a quello dell’attuale governo israeliano di destra e ultranazionalista.

Siamo arrivati al punto che i rappresentanti dei due paesi potrebbero quasi scambiarsi il posto”, ha scritto sul New Yorker il professore palestinese Rashid Khalidi.

Questo avviene nel peggior momento possibile, in cui nel parlamento israeliano stanno saltando fuori nuove leggi per annettere anche le colonie ebree considerate illegali dagli stessi criteri israeliani e per eliminare ogni restrizione alla costruzione ed espansione di nuove colonie.

Nel corso di soli pochi giorni dall’insediamento di Trump, il governo israeliano ha ordinato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nella Gerusalemme occupata.

Persino i tradizionali alleati di Stati Uniti ed Israele sono allarmati dalle fosche prospettive aperte dalla nascente alleanza tra Trump ed Israele. Parlando alla conferenza di pace di Parigi il 15 gennaio, il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault ha avvertito Trump circa le “conseguenze molto gravi” che si prospettano nel caso che l’ambasciata USA venga effettivamente trasferita a Gerusalemme.

Palestinesi ed arabi capiscono che il trasferimento dell’ambasciata, lungi dall’essere una mossa simbolica, concede carta bianca per completare l’occupazione israeliana della città – inclusi i suoi luoghi santi – e portare a termine la pulizia etnica dei palestinesi musulmani e cristiani.

L’azzardo dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata USA probabilmente innescherà un incendio politico in Palestina e nel Medio Oriente con esiti terribili ed irreversibili.

Se si considera il significato che riveste Gerusalemme per i musulmani ed i cristiani palestinesi e per centinaia di milioni di fedeli in tutto il mondo, Trump potrebbe certamente accendere una polveriera che farebbe ulteriormente deragliare la sua presidenza già in difficoltà.

In una recente intervista a Fox News Trump ha ripetuto il frusto ritornello di come è stato trattato “male” Israele e che le relazioni tra Washington e Tel Aviv sono state “risanate”.

Ma poi si è rifiutato di parlare del trasferimento dell’ambasciata perché “è troppo presto”.

Potrebbe essere il suo modo di fare marcia indietro per evitare una crisi. E’ una posizione di profilo più basso rispetto a quella della sua principale consigliera, Kellyanne Conway, che aveva recentemente affermato che il trasferimento dell’ambasciata era “una priorità molto importante”.

Anche se il trasferimento dell’ambasciata venisse rinviato, il danno rimarrà, in quanto le colonie ebree stanno aumentando esponenzialmente, compromettendo in tal modo lo status della città.

Il fatto è che l’assenza di una chiara politica estera da parte di Trump che tenda a creare stabilità – non fatta di decisioni precipitose per ottenere il consenso della lobby – è una strategia politica pericolosa.

Vuole ribaltare l’eredità del suo predecessore, ma non ne ha una sua, il che è proprio la formula necessaria a fomentare nuova violenza ed a precipitare ancor più nel baratro una regione già instabile.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come Israele è passata dal sionismo ateo allo Stato ebraico

 Shlomo Sand 21 gennaio, 2017, Haaretz

La sintesi di sionismo e socialismo si è disintegrata, aprendo la strada ad una simbiosi vincente di religione ed etno-nazionalismo

E’ triste leggere le recenti denunce degli intellettuali israeliani circa il collasso dell’unica democrazia ebraica del Medio Oriente. La malinconia laica suscita probabilmente l’identificazione tra i lettori – ma, ahimè, non li illumina.

A volte sembra che le parole non siano altro che attrezzi di scena nelle mani di abili acrobati da circo. Ad esempio, c’è una profonda relazione tra i termini laicismo e ateismo, ma non sono affatto coincidenti o identici. Tra gli intellettuali israeliani, e non casualmente, le differenze tra i due termini sono molto più vaghe che in altri ambiti del discorso nazionale.

Ad esempio, una persona può essere laica nel senso politico del termine e credere in un potere superiore (come il prof. Yeshayahu Leibowitz [grande filosofo religioso israeliano, ndr.] dell’ultimo periodo) oppure un ateo può non essere davvero laico (come il Primo Ministro David Ben-Gurion nei suoi ultimi anni). Il laicismo è – non soltanto, ma principalmente – un punto di vista politico, mentre l’ateismo è prima di tutto un punto di vista filosofico.

Nello sviluppo storico della democrazia liberale – e, in effetti, anche nella crescita di alcune delle democrazie autoritarie – laicismo ha voluto dire la separazione tra religione e Stato. O, per essere più precisi, una rottura del tradizionale nodo gordiano tra la società politica e la Chiesa (o le chiese).

E’ pur vero che la secolarizzazione dello spazio pubblico-politico non è mai stata totale – si veda ad esempio le bandiere di Svezia e Norvegia [contenenti entrambe una croce, ndr.] – o il rapporto duraturo tra il Regno Unito e la Chiesa Anglicana. Ma la legislazione riguardo allo stato civile, alla neutralità su questioni di credo e rito, all’istruzione pubblica senza l’intervento del clero e alla definizione della cittadinanza e della nazionalità senza criteri religiosi, è diventata la norma nella maggioranza dei Paesi nel XX° secolo (fatta eccezione in quelli del Medio Oriente e del Nord Africa).

Il sionismo, come movimento nazionale che si ribellò all’ebraismo storico, fu principalmente ateo. La maggior parte dei suoi leader e attivisti smisero di credere nella redenzione attraverso l’arrivo del Messia, l’antica essenza del credo ebraico, e presero il proprio destino nelle loro stesse mani. Il potere del soggetto umano sostituì il potere del Dio onnipotente.

I rabbini lo sapevano, ed erano terrorizzati – e, pertanto, la maggior parte di loro divenne dichiaratamente anti-sionista. A partire dal rabbino chassidico [Chassidismo: movimento ebraico mistico diffuso a livello internazionale, ndr.] Sholom Dovber Schneersohn, l’Admor di Lubavitch, fino al rabbino Capo Riformista degli USA Isaac Mayer Wise, fondatore della Reform Central Conference, i Mitnagdim [movimento costituito da ebrei lituani ortodossi, rabbini e talmudisti, ndr.] gli Hasidim, gli Ortodossi, i Riformisti e i Conservatori, tutti videro nell’ascesa del sionismo la fine dell’ebraismo. A seguito della radicale opposizione dei rabbini tedeschi, Theodor Herzl fu costretto a trasferire il Primo Congresso Sionista da Monaco alla città svizzera di Basilea.

Ma a partire dai primi passi del consolidamento e della costituzione del movimento sionista, esso fu obbligato a selezionare meticolosamente e nazionalizzare accuratamente alcune delle credenze religiose, al fine di trasformarle in miti fondanti della nazione.

Per i sionisti atei, Dio era morto quindi la Terra Santa è divenuta la patria; tutte le feste tradizionali [religiose ndr.] sono diventate feste nazionali; Gerusalemme ha smesso di essere la città celeste per diventare la capitale del tutto terrena di un popolo eterno. Ma non sono state queste decisioni, o molte altre, che hanno impedito che il nazionalismo laico fungesse da fondamento per la realizzazione dello Stato di Israele.

La ragione principale dell’incapacità del sionismo di instaurare un’identità laica con una costituzione – in cui la religione sia separata dallo Stato – va ricercata altrove. La natura problematica della definizione di “ebreo” secondo criteri laici – culturali, linguistici, politici o “biologici” (nonostante tutti gli sforzi è ancora impossibile determinare chi è ebreo mediante il DNA) – fu ciò che escluse l’opzione di una identità laica. Ad esempio Ben-Gurion – il futuro fondatore dello Stato – era convinto, come molti altri, che la maggioranza della popolazione della Terra di Israele non fosse stata esiliata, bensì convertita all’Islam durante la conquista Araba, e quindi in origine fosse evidentemente ebraica.

Nel 1948 egli aveva già rinunciato a questa idea confusa e pericolosa, per affermare invece che il popolo ebraico era stato esiliato con la forza e aveva vagato in isolamento per 2000 anni. Poco prima egli aveva consegnato alla debole e impoverita corrente religiosa sionista un dono prezioso: nella famosa lettera dello “status quo”, tutte le leggi riguardanti il matrimonio, l’adozione e la sepoltura furono lasciate direttamente al Rabbino Capo. Il timore di assimilazione fu l’incubo condiviso sia dal Giudaismo sia dal Sionismo, e alla fine questo timore ebbe il sopravvento.

In breve tempo, il principio di adottare la definizione religiosa fu accettato nella politica identitaria: un “ebreo” è qualcuno che è nato da una madre ebrea o convertita e non è membro di un’altra religione. In altre parole, chi non risponde a questi requisiti non può essere parte del risveglio del “popolo ebraico”, nonostante adotti la cultura israeliana, parli in ebraico fluente e festeggi il Giorno dell’Indipendenza israeliana. Si tratta di un processo storico molto logico: poiché non esiste una cultura ebraica laica, è impossibile essere parte di qualcosa che non esiste attraverso strumenti laici.

E poi arrivò il 1967. Lo Stato di Israele si espanse in modo significativo, ma allo stesso tempo un’ampia quota di popolazione “non-ebrea” venne tenuta insieme sotto la muscolosa ala ebraica del paese. I vincoli ebraici dovettero essere rinsaldati di fronte ai confusi fraintendimenti che tendevano a prodursi come risultato del campo minato della questione territoriale – demografica.

Da quel momento in poi, più che mai, l’enfasi fu posta sul titolo di “ebraico” – in altre parole, l’appartenenza allo Stato riguardava chi è nato da madre ebrea o si è convertito secondo la legge ebraica, e, Dio ce ne scampi, non era il Paese di tutti i suoi cittadini. Le giustificazioni addotte alla bramosia nei confronti delle nuove colonie fecero affidamento infatti molto di più sull’idea biblica della Terra Promessa e molto meno sulla rivendicazione sionista di autodeterminazione. Ecco perché non è una coincidenza che, contestualmente, l’establishment religioso sia diventato sempre più invasivo.

Come è accaduto al socialismo e al nazionalismo liberale, la crisi delle ideologie laiche di fronte alla globalizzazione capitalistica ha anche prodotto un’atmosfera ideale per l’ascesa delle identità “premoderne”, principalmente etnico-religiose, ma anche etnico-biologiche. E se queste identità devono ancora ottenere la vittoria completa in tutto il mondo occidentale, in altri angoli del pianeta – dall’Europa dell’Est al Terzo Mondo – hanno conseguito considerevoli successi. In Israele, a seguito del precedente background etnocentrico, le nuove-vecchie identità sono diventate molto popolari. La sintesi di sionismo e socialismo si è completamente disintegrata, aprendo la strada alla simbiosi vincente di religione e forte nazionalismo etnico.

Per i sionisti pseudo-laici – e non soltanto per loro – questa nuova situazione è difficile ed opprimente. Ma poiché essi non hanno risposte ai problemi identitari e alle contraddizioni che sono state parte della società israeliana fin dalla sua nascita, a quanto pare possiamo prevedere ulteriori catastrofi.

Chi scrive è l’autore di “Twilight of History” (Ed. Verso 2017)

Traduzione Viviana Codemo




America uber Alles

Gideon Levy, 22 gennaio 2017,Haaretz

La voce di Trump si diffonderà in tutto il mondo e diventerà fonte di ispirazione e legittimazione per l’estrema destra, dall’Europa a Israele.

Provate a tradurre in tedesco il discorso di insediamento e avrete”Deutschland uber Alles”. Lo stesso spirito, le stesse intenzioni. “Germania, Germania prima di tutto”, proprio come vi sarà solo “America first, l’America prima di tutto”. “Donne tedesche, fedeltà tedesca/ vino tedesco e canzoni tedesche”, proprio come “braccia americane e lavoro americano”. “Lottiamo per questo/fraternamente con il cuore e le braccia!”, proprio come “Quando l’America è unita, l’America è assolutamente inarrestabile”.

L’America prima di tutto o la Germania prima di tutto, venerdì il presidente Donald Trump ha fatto un discorso inquietante. L’unica consolazione è la speranza che siano solo parole, ma certo è una magra consolazione. Se lui davvero mette in atto la sua affermazione che “E’ giunta l’ora dell’azione”, l’America è nei guai. Il mondo è nei guai. Israele è nei guai. Tutti sono in grossi guai.

Ogni sua considerazione grondava di populismo, ogni sua affermazione, di fascismo – senza violenza, per ora. Chiunque dica “un solo cuore, una sola casa ed un solo glorioso destino”, usa un linguaggio fascista. Chiunque parli del “rosso sangue dei patrioti” e della“grande bandiera americana” non può che evocare intollerabili ricordi. Chiunque prometta potere al popolo e nel contempo nomini alle più alte cariche soprattutto miliardari da esso lontanissimi e neanche una persona normale, è un pericoloso ipocrita. Il capo di Yesh Atid (partito politico israeliano di centro, ndtr.), Yair Lapid, ha molto da imparare da Trump, come anche il primo ministro Benjamin Netanyahu. E quei due giovani fascisti non hanno neanche il potere del presidente USA di mettere a repentaglio il benessere del mondo intero.

Ogni piccola speranza è sfumata immediatamente venerdì. Ripensate a quel giorno. Ripensate a ciò che stavate facendo, perché un giorno potrebbero chiedervi dove eravate. Il 20 gennaio 2017 qualcosa è cambiato. Il mondo è diventato nuovamente un luogo pericoloso. Ha un leader che intende minacciare la sua stessa esistenza, che potrebbe perdere il controllo delle proprie azioni.

Chiunque sia furibondo per le implicite critiche a Trump dell’attrice Meryl Streep potrebbe saltare in aria in seguito all’azione di uno Stato – Trump ha a disposizione armi di distruzione di massa. Chiunque prometta di “sradicare completamente dalla faccia della terra” il terrorismo radicale islamico potrebbe sradicare ogni cosa dalla faccia della terra. Se Dio è dalla sua parte – quanto Dio c’era nella cerimonia, quanti preti cristiani, quanti occhi chiusi ed anche un rabbino – e nauseanti dosi di megalomania (“da oggi in poi una nuova visione governerà la nostra terra”), allora il limite sta in cielo. E il cielo venerdì era più grigio di quanto non fosse da molto tempo.

Una nuova era, ha promesso. La sua voce si diffonderà in tutto il mondo e diverrà fonte d’ispirazione e legittimazione per l’estrema destra, da Marine Le Pen e Narendra Modi (presidente dell’India, ndtr.), fino ai Democratici svedesi e ai “partiti della Libertà” di Austria e Olanda e al nostro Bezalel Smotrich del partito Casa Ebraica (partito di estrema destra dei coloni, ndtr). Adesso diventeranno tutti più forti, spinti dal vento favorevole dell’America. Ultranazionalisti di tutto il mondo, unitevi. Tutti gli xenofobi, i razzisti, i contrari alle minoranze e gli antiarabi – come anche gli antisemiti – alzeranno la testa e diranno: guardate Washington, di là proviene la legge.

Questa sarà l’ora più difficile per i deboli della terra, perché l’amico dei potenti si è insediato alla Casa Bianca. Dai palestinesi all’orso polare, che si sta estinguendo a causa del riscaldamento globale, tutti saranno sue vittime. Le prime vittime ci sono state venerdì, i 18 milioni di americani che perderanno l’assicurazione sanitaria che hanno ottenuto grazie a Barak Obama, il presidente spregevolmente screditato venerdì dal suo successore.

Non hanno ragione di festeggiare né gli israeliani, né quelli della loro stessa specie. E’ vero che vedere gli Adelson (famiglia dell’ imprenditore statunitense, tra gli uomini più ricchi del mondo,sostenitore di Netanyahu e contrario alla soluzione dei due Stati, ndtr.) seduto in terza fila della sezione dei VIP non è di buon auspicio, né lo è la nomina di amici dei coloni in posizioni chiave dell’amministrazione. Però non si può ignorare l’affermazione di Trump secondo cui gli Stati Uniti hanno “finanziato gli armamenti di altre Nazioni….e speso miliardi e miliardi di dollari Oltreoceano….Ma questo è il passato.” Se questo non si riferisce ad Israele, allora a chi si riferisce?

Noi siamo protetti e lo saremo sempre. Saremo protetti dai valorosi uomini e donne delle nostre forze militari e dalla legge e soprattutto siamo protetti da Dio.”, ha detto il 45mo presidente. E chi proteggerà noi da chi parla in questo modo?

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Centinaia di persone in Israele e nei territori palestinesi occupati denunciano l’incursione mortale a Umm al-Hiran

19 gennaio 2017 Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – Mercoledì cittadini palestinesi con cittadinanza israeliana e loro sostenitori sono scesi in strada in Israele e nei territori palestinesi occupati per protestare contro un attacco per espellere una comunità beduina nel Negev, che si è trasformato in omicida ieri nelle prime ore del giorno, con la morte in circostanze controverse di un cittadino palestinese con cittadinanza israeliana e di un ufficiale di polizia israeliano.

Centinaia di dimostranti si sono riuniti a Umm al-Hiran, dove il residente beduino Yaqoub Moussa Abu al-Qian, di 47 anni, è stato colpito a morte da un poliziotto israeliano, che ha sostenuto che l’insegnante di matematica stava perpetrando un attacco con l’auto che ha ucciso l’ufficiale di polizia Erez Levi, di 34 anni.

Tuttavia numerosi testimoni e dirigenti palestinesi con cittadinanza israeliana hanno messo in dubbio la versione dei fatti delle forze di sicurezza israeliane, sostenendo che i poliziotti hanno aperto il fuoco su Abu al-Qian benché non rappresentasse un pericolo, causando il fatto che abbia perso il controllo del veicolo e abbia disgraziatamente investito Levi. Il parlamentare della Knesset Ayman Odeh, capo della Lista Unitaria, che rappresenta partiti guidati da palestinesi con cittadinanza israeliana, è stato ferito alla testa e alla schiena durante l’incursione, benché ci siano versioni contrastanti tra testimoni e poliziotti su come sia rimasto ferito e da chi.

In seguito all’attacco mortale l’Alto Comitato di Controllo per i cittadini arabi di Israele, una commissione del parlamento israeliano, la Knesset, ha dichiarato tre giorni di lutto nelle cittadine e nei villaggi israeliani a maggioranza palestinese.

Il comitato ha anche fatto appello ai cittadini palestinesi di Israele per lanciare uno sciopero generale giovedì [19 gennaio], ed agli insegnanti per discutere dei recenti fatti di Umm al-Hiran con gli studenti.

Si sono tenute manifestazioni in altre città israeliane a maggioranza di popolazione palestinese, come Yaffa, Qalanswane, Shifa Amr, Baqa al-Gharbiya, Sakhnin e Umm al-Fahm, in cui i dimostranti sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro quelle che denunciavano come politiche ‘razziste’ israeliane.

Il gruppo israeliano per i diritti umani Gush Shalom ha informato che ci sono state manifestazioni anche a Gerusalemme, Haifa e Acre, in cui risiedono folte comunità palestinesi, così come in numerose università.

Secondo Gush Shalom, durante un raduno a Tel Aviv il membro della Knesset e cittadino palestinese di Israele Issawi Freij ha condannato l’incremento di demolizioni di case e la violenza della polizia che prende di mira i cittadini palestinesi di Israele.

Freij ha sostenuto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incrementato queste politiche nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica israeliana dalle continue indagini a suo carico per corruzione.

“Il primo ministro vuole individuare un nemico su cui i suoi elettori possano sfogare la loro rabbia,” ha detto Freij a centinaia di dimostranti. “Questo nemico che il primo ministro ha preso di mira e stigmatizzato sono io, un cittadino arabo dello Stato di Israele e membro del parlamento israeliano, insieme a tutti i miei concittadini arabi, un totale del 20% dei cittadini di Israele. Dobbiamo essere i capri espiatori!”

Gush Shalom ha riferito che a Tel Aviv i manifestanti hanno gridato slogan come “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” e “Netanyahu è pericoloso, corrotto e razzista.”

La deputata della Knesset Aida Touma-Sleiman, citata dal “Times of Israel” [giornale israeliano senza indipendente online. Ndtr.], avrebbe detto che una protesta più ampia è stata organizzata davanti alla Knesset a Gerusalemme per lunedì [23 gennaio] mattina.

Nel contempo nella Striscia di Gaza assediata, il movimento Hamas ha organizzato un corteo nel campo di rifugiati di Jabaliya per condannare l’evacuazione forzata di Umm al-Hiran.

Il dirigente di Hamas Muhammad Abu Askar ha detto che il movimento solidarizza con tutto il popolo palestinese, compresi gli abitanti di Umm al-Hiran, nonostante tutti i problemi che attualmente sta affrontando la Striscia di Gaza. L’ agenzia di stampa Quds ha riferito che anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, i palestinesi sono scesi in strada per appoggiare Umm al-Hiran e per denunciare l’uccisione di Abu al-Qian.

Intanto giovedì i deputati della Lista Unitaria Ahmad Tibi e Usama Saadi hanno presentato alla Knesset un nuovo disegno di legge che propone il congelamento per dieci anni della demolizione di case costruite da palestinesi in Israele senza permessi rilasciati dal governo per organizzare un piano regolatore e di sviluppo complessivo.

“Non è un caso che ci siano decine di migliaia di case colpite da ordini di demolizione ” nelle comunità palestinesi di Israele, ha detto Tibi a Radio Israel. “Non è un fatto genetico. Non ci sono piani di sviluppo, né piani regolatori, nessuna crescita.”

Gruppi per i diritti hanno da lungo tempo sostenuto che le demolizioni nei villaggi beduini non riconosciuti da Israele sono una politica fondamentalmente tesa a togliere di mezzo la popolazione indigena palestinese dal Negev e a trasferirla in township [nome delle città per neri nel Sudafrica dell’apartheid. Ndtr.] definite dal governo per fare spazio all’espansione delle comunità di ebrei israeliani.

All’inizio del corrente mese, le forze israeliane hanno anche demolito 11 case di proprietà di cittadini palestinesi di Israele nella città di Qalansawe, nel centro di Israele, provocando scontri tra i palestinesi e la polizia israeliana, mentre Amnesty International Israele ha condannato possibili violazioni dei diritti umani ed ha accusato le forze israeliane di agire per “motivazioni politiche”.

Intanto mercoledì Netanyahu ha emesso un comunicato piangendo la morte del poliziotto israeliano, definendo l’incidente un “attacco con un veicolo” premeditato e parte di una “minaccia omicida”, in quanto la polizia israeliana ha affermato che Abu al-Qian era un sostenitore del cosiddetto Stato Islamico.

Il primo ministro ha scartato la possibilità di congelare le demolizioni nelle comunità palestinesi in Israele. “Lo Stato di Israele è, soprattutto, uno Stato di diritto, in cui ci sarà un’applicazione equa. Questo incidente non solo non ci fermerà, ma ci rafforzerà. Consoliderà la nostra determinazione ad applicare la legge ovunque,” ha affermato.

Con un’allusione appena velata ai parlamentari della Lista Unitaria, Netanyahu ha continuato esortando “chiunque, soprattutto se membro della Knesset, ad essere responsabile, a smetterla di alimentare l’animosità e di incitare alla violenza.”

Secondo il Jerusalem Post, mercoledì anche il ministro della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra “Casa Ebraica”. Ndtr.] ha accusato i deputati della Lista Unitaria di incitare alla violenza.

Tuttavia, gruppi per i diritti umani come “Coesistenza del Negev”, il “Forum per l’Uguaglianza Civile” e la “Coalizione delle Donne per la Pace”, che hanno contribuito ad organizzare le proteste di mercoledì in Israele, attribuiscono la responsabilità della violenza mortale direttamente al governo israeliano.

“La responsabilità diretta per l’odierna escalation pericolosa e per lo spargimento di sangue nel villaggio di Umm al-Hiran nel Negev ricade su coloro che hanno preso la decisione di distruggere un villaggio beduino esistito per decenni, raderlo totalmente al suolo e cancellarlo dalla faccia della terra, di espellere gli abitanti e creare una “comunità” ebraica al suo posto,” hanno affermato i gruppi, citati da Gush Shalom.

Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva del ramo per il Medio Oriente dell’ong Human Rights Watch (HRW) ha detto che gli avvenimenti di Umm al-Hiran hanno seguito “una modalità d’azione che prevede l’uso eccessivo della forza da parte della polizia israeliana.”

“Come in Cisgiordania, Israele discrimina i beduini e i palestinesi in generale all’interno dei propri confini nelle sue politiche di pianificazione, che intendono massimizzare il controllo della terra per le comunità ebraiche. Israele dovrebbe fare un’inchiesta sulle uccisioni, obbligare i responsabili a risponderne e rinunciare al progetto discriminatorio di radere al suolo Umm al-Hiran.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alla conferenza di Parigi Trump era il convitato di pietra

Barak Ravid, 16 gennaio 2017 Haaretz

In molti dei discorsi dei ministri degli esteri era evidente il timore per quanto accadrà dopo l’ insediamento del presidente eletto: la domanda che aleggiava nell’aria era se questa sarà l’ultima conferenza di pace per i prossimi quattro anni.

PARIGI. Decine di ministri degli esteri partecipanti alla conferenza di pace di Parigi si sono avvicinati al Segretario di Stato John Kerry. Alcuni gli hanno stretto la mano, altri lo hanno abbracciato, alcuni hanno addirittura voluto essere fotografati con lui. L’evento è stato l’addio della comunità internazionale all’amministrazione Obama ed ha avuto la funzione di terapia di gruppo alla vigilia dell’ insediamento alla Casa Bianca del presidente eletto Donald Trump, venerdì prossimo.

Nella sala della conferenza Trump era il convitato di pietra. La paura per ciò che avrebbe comportato il 20 gennaio era evidente negli interventi di molti ministri degli esteri, specialmente in quelli degli ospiti francesi.

C’è incertezza sulla politica estera di Trump verso gran parte del mondo, ma soprattutto relativamente alla questione israelo-palestinese. La domanda che non è mai stata esplicitata direttamente, ma aleggiava nell’aria, era se la riunione di Parigi sarà l’ultima conferenza di pace per i prossimi quattro anni.

Le dichiarazioni di Trump e dei suoi consiglieri sul trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme; la nomina di David Friedman, sostenitore delle colonie, come ambasciatore in Israele; le risposte di Trump del mese scorso sia alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu sulle colonie, sia al discorso di Kerry sul processo di pace; infine l’esultanza tra le fila dei politici di destra e degli attivisti delle colonie dopo la sua elezione – questi sono solo alcuni dei motivi per cui così tanti ministri degli esteri presenti alla conferenza erano preoccupati.

Sia il presidente francese Francois Hollande che il suo ministro degli esteri Jean-Marc Ayrault hanno sottolineato che la conferenza intendeva inviare a Trump un messaggio riguardo al consenso internazionale sulla necessità di promuovere la pace tra Israele e Palestina ed una soluzione di due stati.

E avevano ragione. I ministri degli esteri europei erano presenti in forza; tutti gli stati arabi sunniti con cui il primo ministro Benyamin Netanyahu spera di migliorare i rapporti hanno inviato i propri ministri degli esteri; ed anche molti degli stati africani che Netanyahu ha corteggiato hanno inviato rappresentanti per dimostrare il loro sostegno alla creazione di uno stato palestinese.

Ma c’era consenso anche ad un livello più puntuale: attraverso l’opposizione del consesso al trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e il timore che ciò infiammerebbe il Medio Oriente.

Trump costituiva un fattore importante anche nelle considerazioni dei paesi che si sono opposti alla conferenza, incluso Israele. “Questi sono gli spasmi mortali del mondo di ieri”, ha detto Netanyahu, dando inizio alla riunione di governo di domenica. “Il futuro sarà diverso”.

Netanyahu ha fantasticato per settimane sul suo primo incontro allo studio ovale con Trump, che pare avrà luogo nella prima settimana di febbraio. Ha atteso per otto lunghi anni questo incontro.

Ma Trump spiega anche perché la Russia ed il Regno Unito avessero riserve rispetto alla conferenza di Parigi ed hanno inviato solo rappresentanti di basso livello. I russi sperano di sfruttare l’era Trump per realizzare il loro sogno di ospitare una conferenza di pace a Mosca – o almeno un summit tra Netanyahu ed il presidente palestinese Mahmoud Abbas. I britannici, che adesso stanno programmando la loro uscita dall’Unione Europea, stanno facendo ogni sforzo per differenziarsi dalle politiche dell’amministrazione Obama ed allinearsi con ciò che immaginano sarà la politica di Trump.

Comunque, sia quelli che temono Trump sia quelli che lo attendono con impazienza potrebbero finire con l’essere in qualche modo delusi. Le audizioni di conferma [dei ministri nominati da Trump al Congresso americano per ottenerne l’approvazione, ndtr] del Segretario di Stato Rex Tillerson e del Segretario alla Difesa James Mattis designati hanno chiarito che le politiche dell’amministrazione Trump sono, nel migliore dei casi, non del tutto definite e nel caso peggiore inesistenti su quasi tutte le questioni, compresa quella israelo-palestinese. Quindi lo scoramento degli europei e dei palestinesi e la soddisfazione di Netanyahu e dei coloni potrebbero entrambi rivelarsi prematuri.

Nelle ultime settimane Trump ed il suo staff hanno sottolineato che il processo di pace tra Israele e Palestina sarà in cima alle loro priorità. Presto scopriremo come pensano di fare. Per ora, non è chiaro neppure se lo sanno loro stessi.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La conferenza di pace di Parigi senza la pace

Mariam Barghouti – 16 gennaio 2017 Middle East Eye

I discorsi celebrativi della conferenza di Parigi, in previsione di un cambiamento positivo, sono stati un’assoluta parodia della giustizia.

Permane la stanchezza riguardo a queste conferenze, in quanto ripetono gli sforzi dei Parametri di Clinton nel 2000 e il documento per la Roadmap verso la pace del 2003 – solo che in modo contorto e regressivo, soprattutto nel caso dei rifugiati, di Gerusalemme e dei confini.

La spinta per una conferenza a Parigi, come in precedenza simili tentativi internazionali, non ha inteso affrontare la realtà palestinese e le radici del problema, ma piuttosto arginare l’ennesima turbolenza del Medio Oriente.

E’ l’approccio di una comunità internazionale alle prese con un problema scomodo piuttosto che un tentativo di rimediare all’ingiustizia messa in atto contro i palestinesi come popolo indigeno.

Il fatto [è] che la conferenza di Parigi ha deliberatamente scelto di ignorare le voci reali di chi affronta le conseguenze dell’oppressione, a riprova della continua inadeguatezza della comunità internazionale nell’essere in sintonia con la realtà sul terreno.

E’ un atteggiamento paternalistico che gli esponenti ufficiali palestinesi vedono come un passo in avanti, mentre ciò semplicemente cospira per togliere l’iniziativa all’opinione pubblica palestinese, dando impulso ad una soluzione dei due Stati virtualmente morta.

La lotta palestinese è quindi ridotta a una visione definita dalle potenze, secondo cui spetta a loro, più che a noi, decidere del nostro destino

Condizione perpetuamente simbolica

Come una specie di estenuante metafora in un romanzo tragico, la Palestina si è trovata in un immutabile stallo.

La tomba di Yasser Arafat, con una luce che la sera punta in direzione di Gerusalemme, è l’emblema delle nostre accanite speranze, senza lavorare per raggiungere le nostre aspirazioni.

Contemporaneamente, la dirigenza palestinese lavora contro l’originaria visione della lotta per la completa liberazione, dignità e giustizia per tutti i palestinesi.

Il pericolo della conferenza di Parigi, come le precedenti iniziative occidentali, è che non scava dentro i vari livelli del contesto del colonialismo di insediamento.

Il quadro e le leggi per i diritti dei palestinesi sono stati già ripresi nelle risoluzioni ONU, nelle leggi internazionali e persino nelle dichiarazioni di vari Stati. Il problema in questione non è la legittimità dell’autodeterminazione dei palestinesi, ma le esitazioni della comunità internazionale nell’imporre quello che riconosce in termini di diritti umani e nel non considerare Israele responsabile [delle violazioni a questo proposito].

E’ difficile credere nell’onestà di queste conferenze dopo gli infiniti fallimenti dei colloqui di pace bilaterali degli USA e l’incapacità dell’ONU di dare seguito alle proprie decisioni. Ancora una volta, è tutto pronto per la disfatta pubblica nel far rispettare ad Israele le leggi e le norme internazionali. L’unico che realmente concorderà con la conferenza di Parigi sarà Israele, mettendo ancora una volta in evidenza i limiti del mondo di fronte alle pressioni ed alla corruzione.

In modo simile a precedenti tentativi di pace, che si sia trattato degli accordi di Camp David del 1978 fino al tentativo dell’amministrazione Obama nel 2010 o della Roadmap del Quartetto, il coordinamento non è fatto dai veri soggetti interessati.

Inoltre queste conferenze che si succedono sono sostanzialmente un’ applicazione retroattiva della struttura dell’accordo di Camp David del 1978. Pertanto, 39 anni dopo, stare ancora a discutere i termini che erano praticamente già stati concordati è una beffa alla giustizia ed alle reali aspirazione di risolvere la questione palestinese.

Quella che è inquietante è la fugace euforia che i rappresentanti mostrano nell’ingannare se stessi pensando che stanno cambiando le cose, mentre poi permettono l’incessante espropriazione e sottomissione dei palestinesi a un potere dell’apartheid.

Giocare a dadi con la questione palestinese

Mentre è positivo che la richiesta palestinese di liberazione non sia stata abbandonata, la nostra lotta è sempre stata monopolizzata da altri per varie ragioni che non sono legate alla nostra lotta per il riconoscimento e per la dignità.

Dobbiamo subito contestualizzare ulteriormente il tentativo francese in rapporto all’ambito politico negli Stati Uniti e in Israele. Con il presidente eletto Donald Trump che si prepara ad assumere il potere, c’è già la sensazione di disperazione e di rabbia rispetto alla prospettiva di quello sta per accadere al Medio Oriente.

Avere il controllo sul contesto politico in Palestina/Israele significa guadagnarsi una presa più forte sul Medio Oriente. La nostra causa è continuamente stata utilizzata da Stati, individui e organizzazioni come un catalizzatore per il potere. Per la Francia prendere un’iniziativa di primo piano nel tentativo di risolvere il problema significa tentare di indebolire ulteriormente il caposaldo USA nella regione.

Tuttavia, i risultati della conferenza rimangono allineati con i tentativi di Trump. Sebbene più implicito dell’appoggio verbale di Trump a Israele, quello che è stato delineato a Parigi non affronta il concetto di giustizia e favorisce ulteriormente la lontananza dei palestinesi dalla loro auto-proclamata dirigenza.

La vera base della conferenza di Parigi non è la denuncia della scomoda e terrificante verità dell’occupazione e dell’apartheid, ma il gioco dei dadi nella speranza di porre fine all’incessante urlo e rumore.

Quello che Parigi significa per i palestinesi

Non è sorprendente che l’Autorità Nazionale Palestinese abbia accolto positivamente la conferenza, nonostante il fatto che, in sostanza, si sia trattato di un atto di assoluzione sia di Israele che della comunità internazionale dal rendere conto delle proprie azioni.

E’ significativo ricordare che il 50% della popolazione palestinese è sparso al di fuori dei territori. La loro voce, così come la voce del milione e mezzo di palestinesi all’interno di Israele, è ignorata nelle discussioni della soluzione dei due Stati, che per loro è inutile.

Sul terreno, le voci palestinesi sono messe a tacere non solo da Israele, ma da organizzazioni politiche come l’Autorità Nazionale Palestinese ed Hamas, che eliminano anche loro i dissidenti palestinesi che non sono d’accordo con la loro visione della giustizia. C’è un enorme divario tra quelli che affermano di rappresentare i palestinesi e il resto delle masse.

In una sua parte il comunicato della conferenza afferma che “entrambe le parti” devono “ribadire il proprio impegno per la soluzione dei due Stati, dissociandosi quindi dalle voci che rifiutano questa soluzione.”

Quanto scritto ignora il fatto che molti palestinesi non chiedono la soluzione dei due Stati. Inoltre, con il continuo distacco dell’ANP dalle masse palestinesi, la promessa di destinarvi ancora più denaro è solo d’ostacolo per i palestinesi.

Anzi, si tratta di un effetto positivo per Israele, in quanto favorisce il solco tra l’ANP ed i palestinesi, garantendo che la lotta non proceda oltre. Di conseguenza, viene data la possibilità ad Israele di continuare a costruire colonie ed esercitare pressioni sulla comunità internazionale per ottenerne l’appoggio – soprattutto con l’arrivo al potere di Trump.

Insomma, i risultati della conferenza di Parigi sono destinati a riaffermare i limiti della comunità internazionale nel raggiungere una vera giustizia, in quanto sono slegati dalle aspirazioni dei palestinesi che soffrono le conseguenze quotidiane del colonialismo.

Questa riluttanza ad affrontare la questione palestinese come una situazione di colonialismo di insediamento in simili conferenze parla da sé, in quanto confonde insidiosamente l’oppressore con l’oppresso. Nessuna vera soluzione sarà raggiunta se dovesse essere mantenuta questa impostazione.

– Mariam Barghouti  è una scrittrice e commentatrice palestinese che vive a Ramallah. I suoi scritti sono apparsi sul New York Times, su Al-Jazeera in inglese, Huffington Post, Middle East Monitor, Mondoweiss, International Business Times e altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Comunicato conclusivo integrale della conferenza di pace di Parigi

Haaretz – 15 gennaio 2017

Il documento completo è stato approvato all’unanimità dopo intensi negoziati ed è considerato meno duro di quello inizialmente previsto

DICHIARAZIONE CONGIUNTA DELLA CONFERENZA DI PACE SUL MEDIO ORIENTE

I) Facendo seguito all’incontro ministeriale tenutosi a Parigi il 3 giugno 2016, i partecipanti si sono incontrati a Parigi il 15 gennaio 2017 per riaffermare il proprio appoggio ad una giusta, durevole e complessiva soluzione del conflitto israelo-palestinese. Riaffermano che una soluzione negoziata per due Stati, Israele e Palestina, che vivano vicini in pace ed in sicurezza, è l’unico modo per raggiungere una pace durevole.

Hanno sottolineato l’importanza per le parti di riconfermare il proprio impegno per questa soluzione, di fare passi urgenti per invertire l’attuale tendenza negativa sul terreno, comprese continue azioni di violenza e attività di colonizzazione, e di iniziare significativi negoziati diretti.

Hanno ripetuto che una soluzione negoziata per due Stati dovrebbe soddisfare le legittime aspirazioni delle due parti, compreso il diritto palestinese ad avere uno Stato e il potere sovrano, la fine completa dell’occupazione iniziata nel 1967, soddisfare le necessità di sicurezza di Israele e risolvere ogni questione relativa allo status permanente sulla base delle risoluzioni 242 (1967) e 338 (1973) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e anche altre risoluzioni importanti del Consiglio di Sicurezza citate.

Hanno sottolineato l’importanza dell’iniziativa di pace araba del 2002 come quadro complessivo per la soluzione del conflitto arabo-israeliano, contribuendo quindi alla pace ed alla sicurezza regionali.

Hanno apprezzato gli sforzi internazionali di promuovere la pace in Medio Oriente, compresa l’adozione della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016, che condanna chiaramente le attività di colonizzazione, l’istigazione ed ogni atto di violenza e terrorismo e fa appello ad entrambe le parti perché facciano dei passi per far avanzare sul terreno la soluzione dei due stati; le raccomandazioni del 1 luglio 2016 del Quartetto; i principi del segretario di Stato USA sulla soluzione dei due Stati del 28 dicembre 2016.

Hanno evidenziato l’importanza di affrontare la terribile situazione umanitaria e della sicurezza nella Striscia di Gaza e hanno auspicato rapidi passi per migliorare la situazione. Hanno sottolineato l’importanza per israeliani e palestinesi di rispettare il diritto internazionale, compreso quello umanitario e dei diritti umani.

II) I partecipanti hanno messo in evidenza il potenziale di sicurezza, stabilità e prosperità per entrambe le parti che potrebbe risultare da un accordo di pace. Hanno espresso la propria disponibilità a esercitare gli sforzi necessari per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e a contribuire in modo sostanziale ad accordi per garantire la sostenibilità di un accordo di pace negoziato, in particolare nel campo di incentivi politici ed economici, nel consolidamento delle risorse di uno Stato palestinese e nel dialogo della società civile. Tra le altre cose, ciò potrebbe includere: – un partenariato privilegiato europeo; altri incentivi politici ed economici e un maggiore intervento del settore privato; appoggio ad ulteriori sforzi delle parti per migliorare la cooperazione economica; continuo appoggio finanziario all’Autorità Palestinese nella costruzione di infrastrutture per un’economia palestinese sostenibile; appoggio e rafforzamento dei passi palestinesi per esercitare le proprie responsabilità come Stato consolidando le loro istituzioni e l’efficienza istituzionale, anche per la fornitura di servizi;

– la convocazione di incontri della società civile israeliana e palestinese, per migliorare il dialogo tra le parti, rilanciare la discussione pubblica e rafforzare il ruolo della società civile di entrambe le parti.

III) Guardando al futuro i partecipanti:

– chiedono ad entrambe le parti di riconfermare ufficialmente il proprio impegno per una soluzione dei due Stati, dissociandosi quindi dalle voci che rifiutano questa soluzione;

– chiedono ad entrambe le parti di dimostrare in modo autonomo, attraverso politiche ed azioni, un sincero impegno per la soluzione dei due Stati e di evitare passi unilaterali che pregiudichino il risultato di negoziati sulle questioni dello status finale, compresi, tra gli altri, Gerusalemme, le frontiere, la sicurezza, i rifugiati e che essi [i partecipanti alla conferenza] non riconosceranno;

– accolgono positivamente la prospettiva di una più stretta collaborazione tra il Quartetto e i membri della Lega Araba ed altri importanti attori per portare avanti gli obiettivi di questa dichiarazione.

Come prosieguo della conferenza, i partecipanti coinvolti, esprimendo la propria disponibilità a verificare progressi, hanno deciso di ritrovarsi prima della fine dell’anno per appoggiare entrambe le parti nel far avanzare la soluzione dei due Stati attraverso negoziati.

La Francia informerà le parti sull’appoggio collettivo della comunità internazionale e sul contributo concreto alla soluzione dei due Stati contenuta in questa dichiarazione congiunta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu mette in relazione l’attacco di Gerusalemme con l’ISIS. I media israeliani lo smascherano

Middle East Eye Redazione di MEE – 10 gennaio 2017

I giornalisti israeliani affermano che è l’occupazione della terra palestinese che sta guidando gli attacchi terroristici e che Israele non è la Francia o la Germania

Alcuni commentatori israeliani hanno condannato duramente Benjamin Netanyahu per aver messo in relazione con lo Stato Islamico un attacco a Gerusalemme, sostenendo che il primo ministro sta diffondendo una narrazione per inserire Israele nell’ondata di attacchi in Occidente e distogliendo l’attenzione dall’occupazione della terra palestinese.

Sabato un palestinese, Fadi al-Qunbar, ha lanciato un camion in mezzo a un gruppo di soldati israeliani nei pressi della Città Vecchia, uccidendone quattro. Subito dopo, Netanyahu ha affermato: “Conosciamo l’identità dell’aggressore, che, in base a tutti gli indizi, era un sostenitore dell’IS.”

Ma, scrivendo sul “Times of Israel” [giornale on line che si definisce “apolitico”. Ndtr.], l’esperto Avi Issacharoff afferma che non è “ancora chiaro cosa o chi lo abbia spinto a mettere in atto l’attacco” e che “non ci sono chiari indizi” che provino l’affermazione di Netanyahu.

“E’ possibile che la dichiarazione di Netanyahu possa spingere l’IS ha dichiarare la propria responsabilità per l’attacco, ma è dubbio se ci sia un qualche rapporto diretto tra il gruppo e Qunbar.”

“L’affermazione, comunque, è utile all’argomentazione di Netanyahu nei confronti dell’Occidente secondo cui “Lo Stato Islamico è qui”, e a quella del gruppo di avere una presenza nella “Palestina occupata”, sostiene.

Issacharoff avanza un’altra teoria: “Per il momento, pare che Qunbar abbia agito in base allo stesso modus operandi che abbiamo visto in precedenza a Gerusalemme: un terrorista senza un’affiliazione organizzativa, ispirato dai media informativi, da una moschea o dalle reti sociali, che ha condotto un attacco senza assistenza esterna.”

“In seguito, le organizzazioni terroristiche lo rivendicano come uno di loro per cavalcare l’onda del suo ‘successo’.”

Afferma che la “chiave della tensione” che guida questi attacchi non è la presunta presenza dell’IS, ma “la mancanza di qualunque prospettiva diplomatica, la costante frustrazione nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’odio verso Israele e i continui massicci incitamenti sulle reti sociali.”

“Tutto ciò crea un’atmosfera tesa, permeata di odio, che può portare in qualunque momento a ulteriori attacchi ‘spontanei'”, sostiene.

Su Haaretz, sotto il titolo “la teoria di un attacco dell’ISIS sta bene a Netanyahu, ma Gerusalemme non è Berlino”, l’editorialista Nir Hasson scrive: “Per quanto riguarda il primo ministro…la teoria dell’ISIS si addice al messaggio che cerca di diffondere – cioè che Gerusalemme, come Berlino e Nizza, è solo un’altra città occidentale che affronta un terrorismo brutale, irriducibile, messo in atto da membri dell’islamismo internazionale.”

“In base a questo messaggio, questa forza del male assoluto non ha motivazioni né ragioni e non ha niente a che vedere con l’occupazione o con qualunque altra politica israeliana.”

“Gerusalemme non è Nizza, Nizza non ha il 40% dei suoi abitanti che vivono senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti.”

“A Nizza il primo ministro non annuncia la chiusura di un quartiere che ospita decine di migliaia di persone solo perché uno di loro è un terrorista.”

“Anche se l’attacco di domenica fosse stato ispirato dall’ISIS, ha comunque avuto origine a Gerusalemme ed è parte di un’infinita serie di attacchi di cui la città ha sofferto negli ultimi due anni e mezzo.”

Aggiunge che ogni potenziale spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme potrebbe solo gettare benzina sul fuoco.

“Non lontano dalla scena dell’attacco mortale c’è il luogo candidato ad ospitare la nuova ambasciata USA a Gerusalemme. Mentre il 20 gennaio [data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ndtr.] si avvicina, lo stesso avviene con la possibilità che l’ambasciata venga spostata lì,” afferma.

“Una simile iniziativa potrebbe benissimo aggiungere benzina sul fuoco che sta bruciando in città da oltre due anni e mezzo.”

Dan Cohen, un altro giornalista ebreo, su Twitter critica i media occidentali che ripetono pappagallescamente la narrazione di Netanyahu e sostiene che il primo ministro sta cercando di utilizzare l’attacco per promuovere politiche repressive contro i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




State attenti, giardinieri e commesse di Gaza

Il calvario di un onesto appaltatore di un’agenzia delle Nazioni Unite dimostra il potere che Israele esercita su chiunque a Gaza. La colpa è solo di Hamas

Amira Hass, 11 gennaio 2017 Haaretz

Waheed al-Bursh, un appaltatore del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, tornerà a casa sua nella Striscia di Gaza giovedì, sette mesi dopo essere stato arrestato al checkpoint di Erez. E’ una sconfitta per il servizio di sicurezza dello Shin Bet, che ha tentato di incastrarlo con una serie di accuse di aver aiutato Hamas per anni.

E’ una situazione inbarazzante anche per l’accusa, che è uscita dall’immagine in cui lo Shin Bet l’ aveva dipinta ed ha raggiunto un patteggiamento con l’avvocato di Bursh, Lea Tsemel. Ed è un tacito ammonimento di come i media israeliani, che in agosto hanno tranquillamente pubblicato falsi rapporti basati su informazioni distorte, hanno condannato Bursh senza processo come terrorista o attivista di Hamas infiltrato nell’agenzia dell’ONU.

17 giorni di interrogatori da parte dello Shin Bet, interrogatori da parte della polizia, quattro o cinque giorni in una cella con degli informatori, collaboratori che si spacciavano per prigionieri per ragioni di sicurezza – nulla di tutto ciò ha potuto provare il giudizio emesso dallo Shin Bet e dai media.

Di tutte le accuse di “contatto con un agente straniero”, “aver fornito servizi ad un’organizzazione illegale” e “uso di materiale terroristico”, l’accusa ne ha mantenuta solo una: la seconda. Mercoledì scorso Bursh è stato condannato in base ad essa.

Il giudice Aharon Mishnayot della Corte distrettuale di Be’er Sheva ha detto che si trattava di un’accusa grave e lo stesso ha detto il rappresentante dell’accusa del distretto meridionale, Shuli Rothschild. Hanno dovuto dirlo per giustificare il clamore che ha preceduto il processo. Ma la sentenza, con pena già scontata, afferma il contrario: non è grave.

Allora di che cosa si trattava? Uno dei compiti del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite è di rimuovere e sistemare le macerie prodotte dai bombardamenti di Israele a Gaza nell’estate 2014 (un totale di circa 2 milioni di tonnellate). Bursh era responsabile del trasporto di questi detriti in luoghi predisposti dal Ministero dei Lavori Pubblici del governo di riconciliazione di Ramallah. All’inizio del 2015 gli venne richiesto da funzionari di quel ministero nella Striscia di trasportare parte delle macerie in un sito nel nord di Gaza.

Bursh spiegò che una tale richiesta doveva pervenire attraverso canali ufficiali e che lui non poteva decidere. Allora dal ministero di Ramallah arrivò una richiesta ufficiale al Programma di Sviluppo ONU di trasportare le macerie al porto peschiero a nord di Gaza, per evitare l’arretramento del litorale.

Bursh trasportò circa 300 tonnellate, che un anno dopo, appena prima del suo arresto nel luglio 2016, erano ancora ammassate lungo la strada. Lui non sapeva che Hamas intendeva chiudere quella parte della spiaggia.

Come molti funzionari nei ministeri del governo a Gaza, i due ufficiali del Ministero dei Lavori Pubblici che contattarono Bursh erano uomini di Hamas e noti membri della sua ala militare. Bursh è stato condannato per aver omesso di riferire ai suoi superiori che erano questi i due funzionari che lo avevano contattato, “chiudendo gli occhi sul favore che ciò costituiva per l’ala militare di Hamas”, come ha scritto Mishnayot.

Il giudice, un ex presidente della corte d’appello militare e residente della colonia di Efrat, avrebbe anche dovuto scrivere che il Programma di Sviluppo ed altre agenzie dell’ONU stanno fornendo un grande servizio ad Israele. Nelle impossibili condizioni di divieti e restrizioni imposte da Israele, queste agenzie evitano un disastro umanitario ancor peggiore a Gaza.

Israele ha definito Hamas un’organizzazione illegale. A Gaza Hamas è il governo de facto, che deve anche fornire servizi alla popolazione, e lo sta facendo. Attivisti delle componenti civile e militare di Hamas sono stati inseriti in diverse funzioni del settore pubblico.

Bursh aveva tutte le ragioni per credere che gli uomini che lo avevano contattato lo avevano fatto nel loro ruolo di funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Li ha considerati canali ufficiali – che Israele controlla. Questo gli è costato lo sconvolgimento della sua vita, sette mesi di prigione, duri interrogatori, danni alla sua salute, la separazione dalla sua famiglia e la preoccupazione per il suo futuro professionale e finanziario.

Quale è il messaggio? Quando vuole, Israele può condannare e distruggere la vita di qualunque giardiniere nel comune di Gaza, di ogni commessa di un negozio di abbigliamento o di qualunque venditore di falafel. La motivazione? “Fornire dei servizi ad un’organizzazione illegale.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le ragioni per cui l’attaccante palestinese a Gerusalemme non è stato scoraggiato.

Amira Hass | 9 gennaio, 2017 |Haaretz

Fadi al-Qanbar conosceva tutte le conseguenze della sua azione, le ha viste molte volte prima, ma i palestinesi considerano le ritorsioni israeliane come parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione.

Che Fadi-al-Qanbar abbia programmato l’attacco di domenica con il camion a Gerusalemme oppure che si sia trattato di una decisione presa d’impulso, sapeva benissimo quale punizione collettiva era in serbo per la sua famiglia.

Sapeva che il suo corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia per la sepoltura – un atto particolarmente umiliante e doloroso. Sapeva che i suoi parenti sarebbero stati immediatamente arrestati e picchiati durante la detenzione. Che alcuni avrebbero potuto essere cacciati dal lavoro che hanno a Gerusalemme Ovest .Che le parenti prive di una carta d’identità israeliana sposate a residenti di Gerusalemme si sarebbero trovate espulse dalle loro case e separate dai loro figli. La sua famiglia sarebbe stata perseguitata dalla polizia e dalle autorità dello Stato, sapeva queste cose da mesi, e forse da anni, che la casa della famiglia sarebbe stata demolita. Tutte queste cose sono successe ad altri aggressori palestinesi di Gerusalemme Est.

Nel solo quartiere di Jabal Mukkaber, negli ultimi sei mesi del 2015 Israele ha demolito tre case e sigillato altre due. Tutte appartenevano a famiglie di terroristi. “Sigillare” significa versare cemento nell’appartamento fino a pochi centimetri dal soffitto.

Secondo Hamoked – il Centro per la Difesa degli Individui –, tra il luglio del 2014 e la fine di dicembre del 2016 Israele ha demolito 35 case palestinesi e ne ha sigillate altre sette; di queste sei e quattro rispettivamente erano a Gerusalemme Est.

Il fatto che i genitori, i figli, i nonni, i nipoti e le nipoti che hanno perso le loro case e che non avevano niente a che fare con l’attacco è irrilevante. Israele e i giudici della Suprema Corte considerano le demolizioni come una punizione legittima e un efficace strumento di deterrenza nei confronti di coloro che pensano di compiere un attacco terroristico.

Inoltre, Qanbar sicuramente sapeva che i suoi figli non soltanto avrebbero sofferto della perdita del padre ma che sarebbero diventati o violenti o isolati, e che, se in età scolare, i loro risultati scolastici ne avrebbero sofferto come anche la loro salute. Ma non è stato scoraggiato.

Il fallimento della deterrenza

Gli analisti e i politici nel caso di Qanbar hanno trovato ogni genere di ragioni del fallimento della deterrenza: lo Stato islamico; un attacco dovuto all’emulazione; l’essere stato un ex detenuto ( un’ apparentemente falsa rivendicazione fatta da Hamas che Israele si è affrettata a fare propria) e un incitamento dell’Autorità palestinese riguardante il possibile spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Come al solito le interpretazioni sono fuorvianti e fuori luogo.

Un gruppo di soldati in divisa non è una visione neutrale per qualsiasi palestinese. Quelli sono l’aspetto e la divisa di chi irrompe a decine ogni notte nelle case dei palestinesi, di chi uccide donne e minori ai checkpoint, di chi viene mandato ad attaccare la Striscia di Gaza e di chi accompagna le forze della Amministrazione Civile per demolire le cisterne d’acqua, i gabinetti chimici, le baracche di lamiera e le tende. Il fatto che gli israeliani abbiano cancellato questi avvenimenti dalla loro agenda non significa che non esistano.

Senza dubbio gli israeliani ritengono che senza queste misure di deterrenza il numero degli aggressori palestinesi sarebbe più alto. O al contrario che vi sarebbe una maggiore repressione. I palestinesi, tuttavia, considerano le ritorsioni israeliane come una parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione. Quando Israele non demolisce come misura punitiva , sta demolendo non consentendo di costruire e di svilupparsi. Quando non arresta la gente per attacchi mortali o per averli presumibilmente progettati, Israele arresta bambini per cercare di reprimere la lotta popolare. Con o senza attacchi mortali espande le colonie, strangola l’economia palestinese e pianifica espulsioni forzate dai villaggi e dalle case di Gerusalemme.

Così il motivo per cui questi episodi non organizzati e individuali non si sono trasformati in una più ampia insurrezione non deve essere attribuito all’ intrinseca abilità israeliana di produrre sofferenze sempre maggiori. Per quanto Hamas cerchi di dare pubblicità a questo attacco quale prova che l’Intifada di Gerusalemme non è morta, è chiaro che la gente più in generale non è interessata a ciò. Nonostante la frammentazione sociale e geografica, una dirigenza debole e litigiosa, nel popolo palestinese c’è una maturità politica che è consapevole della inevitabilità dell’insurrezione, ma che si devono aspettare tempi migliori.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)