La comunità ebraica degli USA spinge Israele verso la soluzione dei due Stati

di Yivonne Ridley – Middle East Monitor

31 maggio 2016

I palestinesi sono continuamente accusati di essere il vero ostacolo alla pace nel Medio Oriente, ma questa settimana una nuova iniziativa da parte di un gruppo di ebrei molto influenti potrebbe dimostrare il contrario.

Per decenni molti politici occidentali hanno discusso della soluzione dei due Stati. Questa è stata citata praticamente da tutti al di fuori di Israele, ma non è mai stata presa realmente sul serio all’interno dello Stato di Israele. Ora, improvvisamente, sembra che Tel Aviv voglia adottarla ed ha inviato istruzioni alle proprie ambasciate, amici nei campus universitari e all’interno di altre istituzioni in ogni dove perché promuovano lidea che Israele vuole parlare di una pace sulla base dei due Stati.

Yiftah Curiel, il capo delle operazioni mediatiche presso l’ambasciata israeliana a Londra, per esempio, è stato inviato a Oxford la scorsa settimana per discutere del valore e della realizzazione della soluzione dei due Stati durante il prestigioso dibattito dell’università in merito alla sua praticabilità. ” Chutzpah” è una parola yiddish estremamente espressiva, che deriva dall’ebraico “ḥutspâ”; non credo che ne esista una simile in lingua inglese che possa esprimere pienamente la sfrontatezza del governo israeliano. Pertanto in questo caso dovremo attenerci alla parola “chutzpah”, in quanto è ciò che meglio descrive l’esibizione di Curiel.

Il pungente editorialista e giornalista israeliano Gideon Levy, che ha seguito da vicino il dibattito, ha osservato ironicamente: “Avete capito? Israele sostiene di appoggiare la soluzione dei due Stati, forse perché ha capito che la soluzione dei due Stati non è più realizzabile.” Che cosa, ha chiesto, ha impedito a Israele di mettere in atto questa soluzione negli ultimi circa 50 anni di occupazione? “E come può il rappresentante ufficiale dello Stato, che non ha mai cessato di costruire sempre più colonie, il cui unico scopo era di vanificare la soluzione dei due Stati, avere il coraggio di dire che Israele è favorevole alla divisione del territorio?”

Scrivendo su Haaretz, Levy ha ammesso: “Ma né la “chutzpah” israeliana né la temerarietà dei suoi propagandisti hanno limiti.”

Perciò, cosa sta dietro a questo nuovo entusiasmo del governo israeliano per la soluzione dei due Stati? La risposta, forse, si trova a migliaia di chilometri, in America, dove due diversi documenti di lavoro stanno per essere pubblicati in un tentativo di preparare il terreno per una soluzione dei due Stati che possa rispondere alle aspirazioni palestinesi e alle richieste israeliane di sicurezza.

Le proposte includeranno la RICOLLOCAZIONE dei coloni; il CONGELAMENTO degli insediamenti illegali; la SOVRANITÀ palestinese; un RADICALE allontanamento dalle politiche del governo di destra israeliano; PREPARARE il nuovo presidente USA ad insistere sui colloqui di pace.

Le notizie sugli audaci progetti devono aver colpito duramente Benjamin Netanyahu, perché egli ha messo decisamente in chiaro all’amministrazione Obama – così come alle altre parti interessate, come le Nazioni Unite, Gran Bretagna e Francia – che non avrebbe tollerato interferenze esterne. Mentre finora respingere le iniziative di Washington è stato relativamente facile, persino Netanyahu sembra aver capito che né Donald Trump né Hillary Clinton presumibilmente tollereranno lo stesso irritante trattamento. Entrambi i candidati alla presidenza hanno messo in chiaro che hanno l’intenzione di portare la pace nella regione ponendo fine al conflitto israelo-palestinese, benché Netanyahu ed i suoi predecessori abbiano, con grande facilità, fatto in modo da portare molti presidenti USA a lasciarlo nel dimenticatoio durante i loro mandati.

L’ultima fase della vicenda, tuttavia, è diversa. Quello che dovrebbe aver scosso il primo ministro israeliano è che quest’ultima iniziativa è stata guidata da una serie di influenti organizzazioni indipendenti che fino ad ora hanno sempre garantito di essere dalla stessa parte di Tel Aviv. Con una mossa imprevista sembra che il molto influente “Israel Policy Forum” [organizzazione ebraica statunitense impegnata per la soluzione dei due Stati. Ndtr.] abbia preso il controllo del progetto sionista, lasciando isolato Netanyahu o obbligandolo a rincorrerlo. Dopo il discorso di Curiel alla “Oxford Union” [un luogo di dibattito indipendente dell’università di Oxford. Ndtr.] lo scorso giovedì, sembra che Tel Aviv, presa dal panico, stia mettendo in atto la seconda ipotesi.

L’IPF, di cui si dice sia allarmato degli sviluppi e dell’imprevedibilità del governo di destra di Netanyahu, sta ora lavorando insieme a un certo numero di ex militari e ufficiali dell’intelligence altrettanto preoccupati, così come con un gruppo di studio di Washington. Il fondatore dell’IPF Alan Solow, alcuni comandanti della sicurezza israeliana e il Centro per la Nuova Sicurezza Americana, un gruppo di lavoro sulla politica internazionale appoggiato da molti pesi massimi della politica, compreso l’ex senatore Joe Lieberman [democratico, poi passato ai repubblicani e sostenitore della guerra in Iraq. Ndtr.], questa settimana sveleranno i loro progetti per i due Stati.

Mentre il destrorso American Israel Public Affairs Committee (AIPAC — probabilmente il principale gruppo lobbistico filo-israeliano negli USA) appoggia anchesso l’idea di colloqui di pace, ma non darà mai impulso a nessuna iniziativa senza l’assenso di Tel Aviv, né pubblicherebbe progetti che mostrino come sarebbero i due Stati senza consultare prima Israele, questo è esattamente quello che faranno questi altri gruppi statunitensi tra pochi giorni.

“Il dibattito sul futuro di Israele non si sta svolgendo in Israele,” ha commentato Gideon Levy dopo l’incontro di Oxford. “Sta avvenendo ovunque meno che in Israele. Israele non sta pensando al suo futuro, si sta occupando del suo presente e, soprattutto, del suo passato. Qui la gente non parla del futuro.”

Questa nuova iniziativa a Washington, che una volta era considerata come occupata politicamente da Israele mentre i palestinesi soffrono sotto la sua occupazione militare, potrebbe cambiare il narcisismo di Tel Aviv. Tuttavia, se gli israeliani e il loro primo ministro di destra Netanyahu tornano alla loro posizione predefinita, allora lo Stato sionista apparirà come il vero ostacolo alla pace, che è una cosa che i palestinesi ed i loro sostenitori sanno da lungo tempo. Ci vorrà molto più dell’usuale chutzpah sionista per uscire da questo particolare impiccio.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Un popolo, una nazione”: una rappresentazione visiva dell’ignoranza .

Se una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia israeliana.

di Asher Schechter, 13 maggio 2016

Haaretz

Mercoledì sono iniziati i festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.

Mentre i soldati passavano da una formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza della storia: “un popolo, una nazione.”

E’ una frase che, se la pronunciate in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le parole “un Fuhrer”.

Per essere chiari, Israele non è affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.

Tuttavia, è difficile immaginare una raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.

Nel respingere risolutamente ogni similitudine tra la frase e lo slogan nazista, la ministra della Cultura Miri Regev (che era la responsabile della cerimonia) in qualche modo è riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere semplicemente il proprio errore.

Anche in assenza di scomodi riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini? Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?

La frase “un popolo, una nazione” è l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che, come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica dei primi dieci).

Il mese scorso un sondaggio condotto dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.

“Un popolo, una nazione”, dunque, può essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.) stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”, che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è passato in prima lettura a marzo.

L’esclusione e la persecuzione degli arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il calendario a sette bracci e la colomba della pace.

Ma neanche il riferimento storico, pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver “ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come “intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo che probabilmente voleva parlare.

Non è la prima volta che la foga antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana, quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.

Benjamin Netanyahu è un appassionato studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne sapevano di più.

E proprio questa può essere la cosa peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata dall’ignoranza della storia.

Gli israeliani imparano molte cose a scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”

Come recita il vecchio adagio, coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele potrebbe essere in procinto di intraprendere i primi passi per diventare uno Stato teocratico

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione prenda in considerazione un disegno di legge che inserirebbe nella legislazione israeliana precetti religiosi ebraici.

Haaretz Editoriale

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione analizzi domenica [18 ott.] un disegno di legge che potrebbe preannunciare il primo passo verso la trasformazione di Israele in un Paese regolato dalla legge ebraica (Halakha), inserendo precetti della religione ebraica nella legislazione israeliana.

Le origini della legislazione israeliana sono state codificate Legge Fondamentale [una sorta di Costituzione, ndt], approvata nel 1980.

In base a questa Legge Fondamentale, quando un giudice deve decidere su una questione legale che non trova risposta né nelle leggi né nelle sentenze precedenti, oppure nell’interpretazione, dovrebbe rivolgersi come fonte supplementare ai “principi di libertà, di giustizia, di integrità e pace della tradizione di Israele ( intendendo la tradizione ebraica)”.

Nel corso degli anni, la corte ha interpretato questo come un riferimento ai principi generali della tradizione ebraica e la maggior parte dei giudici non ha accettato il parere secondo cui ciò metterebbe in pratica i principi della legge ebraica come sono formulati. Inoltre, poiché è stato anche possibile trovare risposte a questioni legali mediante ragionamenti deduttivi, i tribunali non hanno fatto ricorso spesso alla Legge del 1980.

I promotori del nuovo disegno di legge, guidati da Nissan Slomiansky membro alla Knesset del gruppo Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, un partito politico sionista religioso di estrema destra, il cui leader è Naftali Bennet, ndt] sono in disaccordo con il fatto che la legge in vigore non obblighi i giudici ad applicare i principi religiosi della legge ebraica, per cui cercano di emendarla. Il disegno di legge proposto imporrebbe ai giudici di considerare i precetti della religione ebraica (e ciò viene affermato esplicitamente, al contrario di quanto fa l’attuale legge), come anche i principi di giustizia, di onestà, di pace, ecc., prima di cercare risposte attraverso l’interpretazione delle norme di legge.

Nella procedura , il disegno di legge renderebbe la legge ebraica , in cui sono incluse le regole del Mishna [insieme della Torah orale e del suo studio, ndt], del Talmud[raccolta di discussioni sulla legge mosaica, ndt] e dell’ halakha é la pratica religiosa ebraica, ndt], parte integrante della legge israeliana senza il filtro dell’attuale legge. La [nuova] legislazione obbligherebbe i magistrati ad applicare una simile legge senza avere la possibilità di trovare risposte con le regole della deduzione.

È difficile capire perché i promotori del disegno di legge lo considerino corretto per un paese democratico introdurre i precetti di un’antica religione. Perché l’intera popolazione israeliana, una larga parte della quale non è religiosa e alcuni non sono neanche ebrei, dovrebbe essere soggetta a una legge religiosa ebraica? E questo in relazione con un diritto religioso  che discrimina sistematicamente gruppi di popolazione quali le donne e coloro che non sono ebrei. I magistrati laici e quelli non ebrei saranno obbligati, in base alla proposta di legge, a promulgare sentenze secondo i precetti della legge religiosa. Per “facilitare di più le cose” per loro, il disegno di legge prevede che un istituto ufficiale ”traduca” la legge ebraica in un linguaggio moderno  e lo renda accessibile a tutti i giudici.

Al di là del messaggio estremistico e coercitivo che il disegno di legge trasmette, esso rafforzerebbe i dubbi sulla legittimità di Israele quale Stato democratico. L’argomentazione che Israele è un Paese che rispetta i diritti dei suoi cittadini risulta sostanzialmente indebolito, evidenziandone maggiormente gli aspetti di Stato ebraico religioso, in particolare quelli che impongono leggi religiose a abitanti che non sono religiosi o che non sono ebrei.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La Lista Unitaria nelle elezioni israeliane: i palestinesi sono di nuovo in gioco?

Di Diana ButtuAs’ad GhanemNijmeh AliAl-Shabaka

11 marzo 2015

Sintesi

La Lista Unitaria lanciata il 14 febbraio 2015 da quattro partiti politici largamente rappresentativi dei cittadini palestinesi di Israele dovrebbe ottenere un numero di seggi sufficiente a rappresentare il terzo maggiore partito della Knesset [il parlamento israeliano]. Ma ciò potrà mettere in discussione lo status di cittadini di serie B dei palestinesi- israeliani?

Potrà impedire la rapida erosione dei diritti che ancora gli rimangono, se il razzismo apertamente dichiarato dall’attuale coalizione di destra al potere continuerà ad essere stabilito per legge? Ciò rappresenta la rinascita di un senso collettivo d’identità e d’azione? E’ tutto da valutare. Gli analisti di Al-Shabaka Diana Buttu, As’ad Ghanem e Nijmeh Ali, essi stessi cittadini palestinesi di Israele, sostengono diverse prospettive analizzando le sottostanti linee di faglia così come i problemi e le potenzialità della Lista Unitaria, indipendentemente da quelli che saranno i suoi risultati.

Diana Buttu: i partiti palestinesi si disintegreranno?

I palestinesi in Israele hanno a lungo parlato della necessità di una Lista Unitaria per rivendicare i loro diritti. Nonostante le differenze politiche tra i partiti socialista, nazionalista e islamico, essi non presentano divergenze riguardo ai diritti dei palestinesi in Israele: vogliono porre fine alle leggi razziste e all’occupazione militare dei territori palestinesi, e storicamente hanno votato allo stesso modo alla Knesset.

Tuttavia la coalizione non è stata formata per rispondere a una visione condivisa riguardo ai problemi che i palestinesi devono affrontare o alle richieste dell’opinione pubblica [palestinese]. Al contrario, la Lista Unitaria è stata creata come risposta ad altri due fattori. In primo luogo, la Knesset, con una mossa in seguito approvata dalla corte di giustizia, ha alzato la soglia di sbarramento dal 2% al 3,25%. Posti di fronte alla prospettiva di scomparire, era interesse di ogni partito formare una lista unica. In secondo luogo, c’è stato un calo nell’appoggio ai partiti politici palestinesi, non solo nell’affluenza alle urne per le elezioni nazionali: nemmeno uno dei partiti politici palestinesi è riuscito ad ottenere una vittoria nelle elezioni municipali benché a livello locale il tasso di votanti sia ancora alto.

Il calo nell’appoggio alla rappresentanza al parlamento israeliano è probabilmente il risultato della crescente convinzione che la presenza di partiti politici palestinesi legittimi le azioni della Knesset. Oltretutto si avanza la critica secondo cui i partiti politici non stanno promuovendo i diritti dei palestinesi in Israele né lottando contro il crescente razzismo nel Paese.

Anche se la Lista Unitaria dovesse imporsi come terzo o quarto partito alla Knesset, in base ai sondaggi, l’efficacia della lista rimarrebbe in dubbio. E’ opinione diffusa che avere più seggi alla Knesset implichi un maggior potere politico, sia partecipando ad una coalizione di governo che facendo parte di un’opposizione efficace. Tuttavia né il Campo Sionista [alleanza tra il Partito Laburista ed il partito centrista di Tzipi Livni, ex ministro di Netanyahu. N.d.tr.] – che ha appoggiato la revoca dei privilegi parlamentari [ Libertà di spostamento dal paese, passaporto diplomatico, sostegno finanziario per spese giudiziarie.  N.d.tr.] della dirigente politica palestinese Haneen Zoabi [parlamentare arabo-israeliana che ha partecipato alla Freeedom Flottilla. N.d.tr.]- né il Likud hanno alcun interesse nel formare una coalizione con la Lista Unitaria.

Allo stesso tempo non è nell’interesse della Lista Unitaria entrare a far parte di una coalizione con qualunque partito sionista, in quanto sostenitore della supremazia del sionismo e dei diritti degli ebrei al di là della nozione di uguaglianza e democrazia. Certo sarebbe impossibile per la lista far parte di una coalizione con partiti che appoggino leggi razziste, la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio e gli attacchi a Gaza, mentre dovrebbero supportare queste politiche come ministri di un governo o come alleati in una coalizione. Quindi i partiti che hanno formato la Lista Unitaria rischiano di rimanere quello che sono stati prima di unirsi: piccoli partiti che lottano contro il razzismo nel ventre della balena.

Inoltre i partiti politici palestinesi dovranno continuare a respingere l’ondata di disillusione nei confronti del sistema politico israeliano e la sensazione che esso serva semplicemente a legittimare il razzismo di Israele. Anche se la Lista Unitaria riuscisse ad portare ad un aumento dell’affluenza [dei cittadini arabo-israeliani] al voto in queste elezioni, dovrebbe anche lottare contro l’eventuale disintegrazione dei partiti che la compongono, se non potessero soddisfare le aspettative dei loro elettori nello sfidare le politiche dell’apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi che vivono in Israele e sotto l’occupazione militare [in Cisgiordania].

As’ad Ghanem: un’uscita dalla marginalità?

L’attivismo politico dei cittadini palestinesi in Israele è sempre stato inteso come sinonimo di soluzione del conflitto israelo-palestinese, di fine dell’occupazione dei territori palestinesi e di risoluzione della questione dei rifugiati. Questa convinzione è stata rafforzata dopo che sono stati firmati gli accordi di Oslo nel 1993 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata fondata come nucleo politico per la transizione dall’occupazione alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Da allora gli sviluppi – compresa la frattura all’interno del movimento nazionale palestinese, la fine di fatto della soluzione dei due Stati e il crescere dell’estremismo israeliano – sono stati accolti passivamente dagli gruppi politici palestinesi in Israele, che rimangono legati all’illusione di una soluzione politica per alleviare le loro difficoltà in quanto vittime del conflitto. In breve, accettano lo status subordinato di “giocatori di riserva” – nella migliore delle ipotesi – nel movimento nazionale palestinese.

Infatti la maggioranza dei dirigenti politici crede che le loro questioni interne [in Israele] siano secondarie nel contesto di una più ampia lotta palestinese. Accettano le palesi interferenze dei leader del movimento nazionale palestinese – persino su come utilizzare i loro voti in quanto cittadini israeliani per influire sui governanti israeliani. Un altro esempio della loro subordinazione riguarda l’accettazione dei finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo. Cosa ancora più importante, accogliendo la soluzione dei due Stati – uno ebreo e l’altro arabo – come stabilito nel 1947 dal piano di ripartizione delle Nazioni Unite, hanno accettato di essere cittadini di serie B nello Stato ebraico.

L’accettazione della loro condizione di marginalità ha trovato la sua espressione nel programma elettorale della Lista Unitaria. Invece di fare uno sforzo per stilare un vero programma d’azione per lottare contro le attuali sfide che la comunità palestinese in Israele deve affrontare, la lista ha semplicemente fatto un copia-e- incolla delle posizioni dei partiti che ne fanno parte nelle scorse elezioni. In particolare il programma della Lista Unitaria appoggia la fine dell’occupazione e la formazione di uno Stato palestinese. Il preambolo dichiara che la lista “è stata formata per consolidare l’unità contro il razzismo e per potenziare il peso e l’influenza delle masse arabe e di tutte le forze contrarie all’occupazione ed al razzismo.” Non c’è una sola parola a proposito del ruolo dei palestinesi in Israele in quanto palestinesi. Al contrario, ci si focalizza sul loro ruolo in quanto israeliani. Ciò dimostra chiaramente che i partiti politici palestinesi accettano di essere i giocatori di riserva nel movimento nazionale palestinese.

Invece i successivi governi israeliani, soprattutto i due governi del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno aiutato a spingere verso l’unità palestinese ponendo fine all’illusione della soluzione dei due Stati e promovendo l’ebraicità dello Stato. Infatti le posizioni di Netanyahu hanno fatto in modo di ricordarci che la nostra causa è radicata nelle conseguenze della guerra del 1948 che ha creato Israele sulla Palestina e non nell’occupazione iniziata nel 1967 come i dirigenti e l’elite palestinesi hanno voluto farci credere. Infatti il programma colonialista e fondamentalista dei vari governi israeliani evidenzia la necessità di trasformare l’azione nazionale palestinese in modo da affrontare le radici del problema piuttosto che le sue conseguenze, come viene fatto nel programma della Lista Unitaria.

Abbiamo bisogno di un cambiamento reale sia nella nostra comprensione del conflitto che nel ruolo dei palestinesi in Israele nel dare forma alla futura soluzione del conflitto. Un miglioramento delle condizioni dei palestinesi in Israele non sarà ottenuto dall’illusoria soluzione dei due Stati. La soluzione della questione palestinese dipende piuttosto dall’abilità dei palestinesi in Israele nell’articolare il loro progetto come hanno fatto una volta nel 2007 con il Future Vision document [documento della “Visione del Futuro”, un rapporto pubblicato dal Comitato dei Sindaci Arabi in Israele, a cui hanno partecipato 40 noti studiosi ed attivisti e che chiedeva ad Israele di riconoscere i cittadini arabi come gruppo nativo con diritti collettivi, sostenendo che invece Israele discrimina i non ebrei in vario modo. N.d.tr.].

Questo documento ha riscosso un ampio consenso nazionale tra i palestinesi in Israele riguardo ai principali problemi politici che essi stessi devono affrontare, così come il loro ruolo nel forgiare una soluzione complessiva della questione palestinese. Solo facendo così i palestinesi in Israele possono passare da un ruolo politico marginale a uno centrale. Un tale ruolo potrebbe aiutare a portare Israele e il movimento nazionale palestinese ad un giusto accordo che affronti le conseguenze della Nakba (catastrofe) del 1948 invece di quelle dell’occupazione del 1967, senza lasciare eternamente i palestinesi in Israele ai margini dello “Stato ebraico”.

La Lista Unitaria avrebbe potuto essere coinvolta in questo progetto se [i suoi dirigenti] avessero lavorato seriamente come leader piuttosto che come politicanti che competono per un seggio alla Knesset. Ancora una volta abbiamo perso un’occasione per fare la nostra parte non solo come palestinesi, ma come punto di riferimento del popolo palestinese, confliggendo, senza questa assunzione di responsabilità, con il nostro ruolo nelle elezioni israeliane. Forse potremo cogliere questa opportunità nel futuro se saremo in grado di produrre leader che ci vedano come attori principali piuttosto che subordinati a Israele, all’ANP o a qualche altro regime arabo che ci fornisce denaro o avvalla slogan nazionalistici.

 

Nijmeh Ali: gli inizi di una svolta storica

I palestinesi in Israele discutono ancora animatamente sull’utilità di partecipare alle elezioni israeliane. Alcuni chiedono ancora il boicottaggio perché credono che partecipare [alle elezioni] legittimi e rafforzi la colonizzazione e l’occupazione israeliane. Altri hanno semplicemente perso la fiducia nella capacità del sistema politico di portare avanti un qualunque cambiamento: nel 2013 solo circa il 56% dei palestinesi in Israele ha partecipato alle elezioni.

Inoltre, il fatto che i palestinesi in Israele abbiano il diritto di partecipare alle elezioni non significa che riescano ad incidere sulle decisioni politiche israeliane. Il sistema politico israeliano esclude i partiti arabi. In altre parole, sono all’interno del gioco politico ma ancora fuori dal processo politico.

Quelli che sostengono la partecipazione sottolineano l’importanza di difendere i diritti dei palestinesi anche se comprendono la difficoltà di creare un reale cambiamento. Considerano la Knesset un mezzo non solo per ottenere diritti individuali ma anche per cercare il riconoscimento dei diritti collettivi dei palestinesi in quanto minoranza nazionale e popolo indigeno. Oltretutto vogliono sfidare la tendenza israeliana dominante “agitando le acque”.

Allo stesso tempo, molti palestinesi in Israele sono frustrati dalle lotte interne del passato. Sanno che, indipendentemente dalle loro convinzioni ideologiche – socialiste, nazionaliste o religiose – sono discriminati per il fatto di essere palestinesi. Questa sensazione è aumentata durante gli attacchi israeliani contro Gaza dell’estate 2014, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sentiti più minacciati che in qualunque altro momento, persino per strade, sugli autobus, all’università o sul posto di lavoro.

Contro questo contesto la Lista Unitaria è una diretta risposta alla destra israeliana, che intendeva spingere i partiti [palestinesi] fuori dell’arena politica alzanzo il quorum elettorale. Questa manovra può essere vista come un attacco contro un “trasferimento politico”, come effettivamente era, forse come preludio a un’espulsione fisica dei palestinesi. Sostituendo i partiti esistenti con “Arabi Buoni”, che siano membri dei partiti sionisti, la destra israeliana sarebbe stata in grado di presentare la “democrazia” di Israele senza sfidare l’egemonia sionista.

Avendo fallito in questo tentativo, la Destra israeliana sta ora cercando di screditare la Lista Unitaria mettendo in guardia contro la “minaccia araba” in Israele e insistendo nel definirla come una Lista Unitaria “araba”, come fa la maggior parte dei media, presentandola quindi come arabi contro ebrei. E’ importante sottolineare continuamente che la lista è ufficialmente unitaria e non araba e include ebrei non sionisti. Anche se la maggioranza dei votanti per questa lista saranno palestinesi in Israele, la lista vuole anche attirare elettori ebrei: ha lanciato la propria campagna sia in arabo che in ebraico.

La Lista Unitaria non cancellerà le differenze tra i partiti che la compongono né metterà fine all’aspro e incandescente dibattito tra i palestinesi in Israele su come la società palestinese si debba posizionare e presentare. Tuttavia evidenzia la lotta comune contro la discriminazione come contro l’occupazione, comune tra gli arabi palestinesi e le forze democratiche ebraiche. Insieme costituiscono un’alternativa democratica al campo ultranazionalista guidato da Netanyahu e al Campo Sionista di Isaac Herzog e Tzipi Livni.

La fiducia in una lotta collettiva è evidente nel programma politico della lista, che è basata su otto principi: contro l’occupazione e per una pace giusta; per l’uguaglianza nazionale e civile; contro il razzismo e il fascismo e per la democrazia; per la giustizia sociale ed ecologica e per i diritti dei lavoratori; contro l’oppressione delle donne e per il loro diritto a partecipare; per lo sviluppo della cultura, del linguaggio, dell’identità e dell’appartenenza a una nazione; contro il colonialismo; per l’eliminazione delle armi nucleari dal Medio Oriente.

La lista affronta due grandi sfide: l’incremento della percentuale di arabi che votano e avere successo nell’attrarre votanti ebrei. L’imperativo di lavorare insieme implica molti compromessi, ma è una potente tattica politica che ridefinirà il comportamento politico dei palestinesi in Israele, non solo durante queste elezioni ma anche in futuro.

La Lista Unitaria fornirà l’esperienza necessaria per la collaborazione in un ampio spettro di questioni a livello sia interno che esterno alla Knesset. Riporta il termine “collettivo” nel lessico politico dei palestinesi in Israele, una cosa contro cui i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, hanno lottato fin dalla Nakba del 1948. In breve, è un avvenimento storico che ha la possibilità di realizzare cambiamenti sia nella politica interna dei palestinesi in Israele che in Israele stesso.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerre per l’energia in Medio Oriente

Michael SchwartzMEE

Giovedì 26 febbraio 2015

In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas, con le distruzioni che probabilmente comporteranno.

 

Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche

Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di catastrofiche crisi ambientali.

Tra i vari conflitti legati alle fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire persino gli israeliani.

Le guerre per le risorse, ovviamente, non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni ’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la Russia.

 

La storia avvelenata del gas naturale di Gaza

Nel lontano1993, quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano, nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì. Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.

BG promise di finanziare e gestire il loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas sufficiente a coprire le loro necessità.

Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi fossero usati per “finanziare il terrorismo.”

Con questo, gli accordi di Oslo erano ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.

Il veto israeliano portò all’intervento del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi contro Israele.

Questo accordo non aveva ancora soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”

Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).

Quando i palestinesi rifiutarono di nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza, nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso del partito radicale islamista.”

In base a questa logica, nell’inverno del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant, il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era “rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da cui vengono sparati razzi contro Israele.”

L’operazione “Piombo fuso” ha effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400 palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo, lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui giacimenti di gas a Israele.”

 

Più fonti di gas uguale più fonti di guerra

Nel 2009 il neoeletto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da decenni.

Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano, Siria, Cipro e dei palestinesi.

In altre parole, questo immenso giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni violente.”

Nei tre anni che hanno fatto seguito alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del 2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe “permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro” di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.

Il ministro israeliano delle Risorse ha accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma anche il diritto marittimo internazionale.”

Terzian, giornalista esperto nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello scontro:

In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”

Sufficientemente sicuro, Israele ha continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi, schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal 2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah.

Tuttavia Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa territoriale di lunga durata con Israele.”

Dall’inizio del 2015 è sembrato che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione, nessuna attività è iniziata.

Nel frattempo in Siria, dove la violenza si è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti, è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria. Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.

Mentre la presenza russa ha apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato, come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza militare israeliana sulle Alture del Golan.

E poi c’è Cipro, l’unico Paese che rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti.

Di conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in modo incommensurabile le tensioni.

 

Gaza, ancora e ancora

Ricordate il sistema “Iron Dome”, sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque “capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele.”

L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e infiammabili.

Il fallimento dell’operazione “Eco di ritorno” per mettere tutto posto ha dato il via a un’altra serie di negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale. Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di Israele.

Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47% nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione. Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.

Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato (forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia, è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture energetiche previste.

 

Senza fine

Dopo 25 anni e cinque tentativi militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni che probabilmente porteranno.

-Michael Schwartz, un eminente docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare l’Iraq.

Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

(traduzione di Amedeo Rossi)