Israele assassina a Gaza l’importante leader della Jihad Islamica Bahaa abul-Ata

Moatasim Dalloul da Gaza

12 Novembre 2019 – Middle East Eye

La Jihad Islamica ha anche annunciato che Akram al-Ajjouri, membro del suo ufficio politico, è sopravvissuto a un attacco israeliano contro la sua casa a Damasco.

All’alba di martedì [12 novembre 2019] l’esercito israeliano ha annunciato di aver assassinato

In un comunicato congiunto l’esercito israeliano e l’Agenzia per la Sicurezza Generale (Shin Bet), hanno affermato di aver effettuato un attacco aereo alle 4 del mattino prendendo di mira l’edificio in cui si trovavano abul-Ata e sua moglie.

Il comunicato afferma che al-Ata era il “capo supremo della Jihad Islamica” e che l’assassinio è stato approvato una settimana fa dal primo ministro israeliano e ministro per la Sicurezza, Benjamin Netanyahu.

In una dichiarazione la Jihad Islamica ha confermato la morte di abul-Ata, il comandante del gruppo nel nord della Striscia di Gaza, e di sua moglie Asmaa durante un attacco israeliano contro la loro casa a est di Gaza City. Il ministero della Salute palestinese ha affermato che nello stesso attacco aereo i fratelli e la sorella della coppia, Salim, Mohammed Layan e Fatima, insieme alla loro vicina Hanan Hellis, sono rimasti feriti e sono in condizioni stabili.

La Jihad Islamica ha anche annunciato che Akram al-Ajjouri, membro del suo ufficio politico, è sopravvissuto a un attacco israeliano nella sua casa di Damasco e che suo figlio e un certo numero di guardie del corpo sono stati uccisi.

Circa un’ora dopo le uccisioni a Gaza, parecchi allarmi per il lancio di razzi sono risuonati nella parte meridionale di Israele, comprese Ashdod, Beit Elazari, Ashkelon, Zikim, Karmia, e a nord fino a Holon e Rishon le Zion, alla periferia di Tel Aviv, segnalando che erano in corso rappresaglie della Jihad Islamica.

Secondo le informazioni della polizia, ad Ashdod non sono state riportate vittime, ma sono stati danneggiati alcuni veicoli.

Il quotidiano israeliano Haaretz [di centro sinistra, ndtr.] ha affermato che sono in corso preparativi per un’ulteriore escalation, con scuole e ogni attività non essenziale chiuse nella zona presa di mira, e le autorità locali stanno predisponendo rifugi.

In seguito alle ultime uccisioni a Gaza, Benny Gantz, il leader di “Blu e Bianco” [partito di centro destra di opposizione che ha vinto le ultime elezioni, ndtr.] attualmente incaricato di formare il futuro governo israeliano, ha detto su Twitter: “Stanotte i dirigenti politici e l’IDF (esercito israeliano) hanno preso la giusta decisione per la sicurezza dei cittadini di Israele e della gente del sud [di Israele]

Blu e Bianco’ sosterrà ogni giusta attività per la sicurezza di Israele e mette la sicurezza del popolo al di sopra della politica.”

Nuova guerra israeliana”

Parlando con Middle East Eye, Khalid al-Batch, membro dell’ufficio politico della Jihad Islamica, ha affermato: “Questi crimini sono l’annuncio di una nuova guerra israeliana contro il popolo palestinese e l’occupazione israeliana ne è responsabile.”

Riguardo al tempismo dell’assassinio, Batch ha detto: “L’occupazione israeliana sta scaricando le sue crisi interne sui palestinesi e sui loro gruppi della resistenza.”

A proposito del tentativo di assassinio di Ajjouri, ha affermato: “L’occupazione israeliana ha oltrepassato i confini per aggredire i palestinesi.

Ci deve essere una risposta massiccia che sia all’altezza dei crimini.”

Batch ha detto che il suo movimento e la sua ala militare sono pronti alla rappresaglia e a difendere il popolo palestinese a Gaza e ovunque.

Tutte le altre fazioni palestinesi, compresi Hamas, Fatah, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico hanno condannato l’“aggressione” israeliana e hanno anche dato la colpa all’occupazione israeliana per ogni possibile escalation.

Il portavoce di Hamas Hazim Qasim ha detto a MEE: “L’occupazione sionista ha la colpa delle conseguenze di questo assassinio e di questa pericolosa escalation.

La resistenza contro l’occupazione israeliana continuerà e si accentuerà. Il criminale assassinio del dirigente della Jihad Islamica non rimarrà impunito.”

Qasim ha detto che i comandi congiunti delle ali militari delle fazioni palestinesi decideranno quanto grande e quanto lunga sarà la rappresaglia.

Ha detto che Hamas non prenderà mai da sola una decisione su qualunque problema palestinese, e che ogni misura deve essere discussa con altre fazioni palestinesi e una decisione collettiva verrà presa insieme a loro.

Netanyahu si prende il merito

Parlando con MEE l’analista politico Adnan abu-Amer ha detto che l’uccisione di abul-Ata è stato il primo assassinio di un importante leader della resistenza palestinese dal 2012, quando Israele uccise l’importante dirigente delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, Ahmed al-Jaabari.

Egli non esclude che l’uccisione possa portare a una più ampia escalation di violenza in quanto la Jihad Islamica sicuramente vendicherà l’uccisione dei suoi dirigenti.

Altre fazioni non rimarranno in silenzio, sopratutto Hamas, afferma, sostenendo che l’esercito israeliano ha detto di essere pronto per una serie di scontri che dureranno per un paio di giorni.

Abu-Amer afferma che il tempismo dell’assassinio di abul-Ata è legato alle conseguenze delle elezioni israeliane, in quanto Netanyahu ne ricaverà parecchi vantaggi.

Sostiene che Netanyahu sarebbe capace di rinviare la formazione di un governo di coalizione e spingere i politici israeliani ad accettare una coalizione d’emergenza guidata da lui.

Il primo ministro israeliano sarebbe anche in grado di rivendicare il risultato dell’uccisione di abul-Ata, in quanto ha intenzionalmente approvato l’operazione qualche ora prima di incaricare Naftali Bennett [leader del partito dei coloni “Nuova Destra”, ndtr.] alla guida del ministero della Difesa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte Suprema sentenzia che Israele può espellere il direttore di Human Rights Watch

Henriette Chacar

5 novembre 2019 – +972

 

Il massimo tribunale di Israele sancisce che Omar Shakir può essere espulso, ratificando gli sforzi del governo per mettere a tacere chi critica le sue politiche. Il suo caso è stato descritto come uno spartiacque per la difesa dei diritti umani e per la libertà di espressione in Israele.

Martedì, dopo una lunga battaglia legale per consentirgli di rimanere nel Paese, la Corte Suprema di Israele ha approvato l’espulsione del direttore di Human Rights Watch di Israele e Palestina, Omar Shakir.

I giudici Neal Hendel, Noam Sohlberg e Yael Willner hanno accolto l’accusa dello Stato in base alla quale Shakir, cittadino statunitense, appoggia il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ed hanno respinto l’appello di Shakir e di Human Rights Watch contro la sua espulsione.

Shakir dice che ora ha 20 giorni di tempo per andarsene o subire l’espulsione.

Il caso di Shakir è stato descritto come uno spartiacque per la difesa della libertà di espressione e dei diritti umani in Israele. Ordinando la sua espulsione, Israele si affianca a Paesi come la Corea del Nord, l’Iran, Cuba e il Venezuela, che hanno anch’essi vietato l’ingresso ai membri dello staff dell’organizzazione.

La sentenza si basa sull’emendamento del 2017 alla Legge di divieto di ingresso in Israele, che autorizza il Ministro dell’Interno a rifiutare i visti temporanei o la residenza a qualunque cittadino non israeliano che abbia pubblicamente invitato o si sia impegnato a partecipare al boicottaggio di Israele. In agosto Israele ha fatto ricorso a questa legge per impedire alle deputate del Congresso [USA] Ilhan Omar e Rashida Tlaib di entrare nel Paese.

L’anno scorso il Ministero dell’Interno israeliano ha revocato il permesso di lavoro di Shakir ed ha ordinato la sua espulsione entro due settimane. È stata la prima volta che il governo israeliano ha utilizzato l’emendamento del 2017 alla Legge sull’ingresso per espellere qualcuno che era già presente nel Paese.

La decisione di Israele si è basata in larga parte su un dossier dell’ intelligence che il Ministero degli Affari Strategici ha elaborato riguardo all’attivismo di Shakir in favore dei diritti dei palestinesi prima di entrare a far parte di HRW. In quanto co-presidente degli ‘Studenti per equi diritti per i palestinesi’ a Stanford, Shakir aveva richiesto all’università di disinvestire dalle aziende che traggono profitti dall’occupazione.

HRW, rappresentata dagli avvocati israeliani per i diritti umani Michael Sfard, Sophia Brodsky e Emily Schaeffer Omer-Man, ha quindi presentato ricorso contro l’ordine di espulsione del governo.

Israele sostiene di avere il diritto di difendersi e di proteggere i propri cittadini da “un boicottaggio politico-diplomatico da parte di soggetti non statali che intendono minare le fondamenta dell’esistenza dello Stato in questione.” Tuttavia la legge anti-boicottaggio non fa distinzione tra gli inviti al boicottaggio della colonizzazione da parte di Israele, che viola il diritto internazionale, e le dichiarazioni e le azioni dirette contro lo Stato.

Lo Stato ha inoltre dichiarato che la questione non si pone rispetto a HRW come organizzazione, bensì rispetto a Shakir come singolo individuo. Nella sentenza di martedì il giudice Hendel ha detto che “Human Rights Watch non è classificata come organizzazione che boicotta – e può richiedere di incaricare un altro rappresentante che non sia coinvolto fino al collo nelle attività del BDS.” Tuttavia, secondo HRW, Shakir ha seguito e messo in atto le politiche dell’organizzazione.

HRW, organizzazione statunitense non profit indipendente fondata nel 1978 ed oggi presente in 90 Paesi, “non prende posizione sul boicottaggio di Israele. Non si tratta di una politica specifica riguardo a Israele, fa parte del nostro modo di lavorare dovunque nel mondo”, ha detto Shakir nel Podcast di +972 a maggio.

Oggi la cartina di tornasole politica per entrare in Israele sembra essere l’appoggio al boicottaggio. Potrebbe domani essere la richiesta alla Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta, oppure l’invito a eliminare le colonie, o affermare che la Cisgiordania è occupata? Oggi queste limitazioni vengono usate per impedire a qualcuno di entrare nel Paese. Potrebbe domani essere questa la base per limitare le attività dei difensori dei diritti israeliani e palestinesi?” ha aggiunto.

Secondo Shakir, il suo caso non riguarda il BDS, come sostiene Israele, ma “costringere al silenzio la difesa dei diritti umani”. Decine di associazioni israeliane e palestinesi per i diritti umani hanno criticato l’ordine di espulsione, come anche il Segretario Generale dell’ONU, 27 Stati europei e 17 deputati del Congresso (USA), descrivendo l’impatto agghiacciante che questo avrà su coloro che sfidano le politiche di Israele.

Alla fine di ottobre Israele ha vietato all’attivista palestinese di Amnesty International Laith Abu Zeyad di recarsi in Giordania per il funerale di sua zia, a causa di ciò che le autorità israeliane hanno definito “considerazioni di sicurezza”. Amnesty, da parte sua, ha scritto che questa è stata “una sinistra iniziativa imposta come punizione per il suo lavoro in difesa dei diritti umani in Palestina”. Nel 2017 Israele ha vietato l’ingresso al direttore per la sensibilizzazione dell’organizzazione per il Medio Oriente e Nordafrica, Raed Jarrar, in occasione di una sua visita personale nei territori occupati in seguito alla morte di suo padre.

L’anno scorso Israele ha vietato l’ingresso a quattro dirigenti statunitensi di associazioni per i diritti umani che stavano visitando Israele e la Cisgiordania per comprendere meglio la situazione sul terreno. I membri che sono stati espulsi includono Vincent Warren, direttore esecutivo del Centro per i Diritti Costituzionali (CCR) e Katherine Franke, presidente del Consiglio del CCR e docente di diritto, gender e studi sulla sessualità alla Columbia University. I due sono stati interrogati relativamente alla loro affiliazione politica a gruppi critici verso Israele e Franke è stata accusata di essere membro del movimento BDS.

Henriette Chacar è redattrice della rivista +972 che si occupa delle notizie arabo-palestinesi. È cittadina palestinese di Israele, nata e cresciuta a Jaffa. Si è laureata alla Scuola di Giornalismo della Columbia ed ha lavorato per ‘Mount Desert Islander’, ‘PBS Frontline’ e ‘The Intercept’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Avete sentito parlare delle violenze in Cile. Probabilmente non avete sentito dire che il suo esercito ha imparato le sue tattiche in Israele

Benjamin Zinevich
 New York

22 ottobre 2019 – The Indipendent

Negli ultimi anni pare che l’IDF abbia utilizzato un metodo per rendere invalidi i manifestanti palestinesi invece di sparare per ucciderli – e ciò lo abbiamo visto riprodotto in Cile questa settimana.

Quello che è iniziato come un atto di disobbedienza civile degli studenti contro l’aumento dei biglietti della metropolitana di Santiago ora si è esteso fuori dalla capitale cilena. Con un’improvvisa rivolta contro l’austerità e la persistente diseguaglianza economica, la proposta di un aumento delle tariffe (per una cifra equivalente a 2 centesimi di euro) è stata semplicemente sale versato su una ferita aperta per i poveri e i lavoratori del Cile. Quando sono state disperse con la forza dalla polizia nazionale, le proteste pacifiche, sono diventate violente. Il governo, guidato da un miliardario di destra, il presidente Sebastián Piñera, ha risposto decretando lo stato d’emergenza e chiedendo all’esercito di sedare le proteste, dichiarando che lo Stato era “in guerra”.

Mentre l’esercito metteva in atto azioni brutali nei confronti di civili che non si vedevano più dai tempi della dittatura, terminata all’inizio degli anni ’90, è importante evidenziare i legami internazionali di tale brutalità. Dovrebbe essere particolarmente messo in rilievo il sostegno militare in termini di tecniche e di risorse dello Stato di Israele al Cile nel passato e nel presente.

Durante il regime di Augusto Pinochet, appoggiato dagli USA, il Cile ha assistito all’incarcerazione, all’uccisione o alla sparizione di decine di migliaia di oppositori politici. Durante quegli anni, Israele e il Cile hanno avuto un rapporto di collaborazione, in quanto Israele era uno dei principali fornitori di armamenti alla giunta militare.

Il periodo oscuro del governo di Pinochet ha significativi rapporti con il presente. Il presidente Piñera, che ha nominato nel suo governo personaggi che hanno fatto commenti a favore di Pinochet, ha anche lavorato per perfezionare leggi cosiddette “antiterrorismo” dell’epoca della giunta. Queste leggi hanno a loro volta aumentato la sorveglianza e l’oppressione dei mapuche [principale popolazione indigena del Cile, ndtr.] e dei gruppi di sinistra.

Oggi le forze armate di Cile e Israele non tentano neppure di nascondere la loro alleanza, citando sul sito web dell’ambasciata cilena in Israele l’intenzione di “incrementare i legami con…Israele per rendere possibile lo scambio di competenze, addestramento ed esperienze.” Nel 2018, durante la visita di quell’anno in Cile del generale israeliano Yaacov Barak, Cile e Israele hanno firmato un accordo in cui si parla di promuovere ulteriore “cooperazione nella formazione, nell’addestramento e nella dottrina militare”

Mentre in entrambi i Paesi questa alleanza notoriamente favorisce il potere dell’esercito, quelli che ne risentono in modo più negativo sono la classe operaia e i popoli indigeni delle due regioni. In Israele i palestinesi sono sottoposti a un sistema di occupazione e di apartheid, e in Cile i lavoratori e i gruppi indigeni, come i mapuche, hanno vissuto per secoli l’oppressione su base coloniale.

Negli ultimi anni l’Israeli Defence Force [Forza di Difesa Israeliana, l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) pare abbia utilizzato la prassi di rendere invalidi i manifestanti palestinesi invece di colpirli mortalmente. Ormai da più di un anno civili palestinesi manifestano nei pressi del muro di Gaza per protestare contro l’occupazione israeliana e l’IDF ha sparato a circa il 60% di questi 10.511 civili agli arti inferiori, con più del 90% delle vittime provocate da proiettili veri.

Durante la settimana scorsa questo metodo israeliano è stato utilizzato contro civili cileni in varie occasioni su cui si hanno informazioni. Una donna è stata colpita a una coscia e si troverebbe in condizioni critiche a causa della perdita di sangue. In un’altra circostanza un giovane di 23 anni è stato colpito a una gamba prima che un veicolo militare lo schiacciasse uccidendolo.

Queste tecniche simili non sono casuali e sono considerate a livello internazionale parte di quello che gruppi di attivisti come “Jewish Voice for Peace” [gruppo di ebrei statunitensi antisionisti, ndtr.] hanno denominato “lo scambio mortale”. Negli Stati Uniti la polizia municipale, agenti dell’ICE [Immigration and Costumer Enforcement, la polizia USA anti-immigrazione, ndtr.] e altri funzionari della sicurezza fanno addestramento insieme all’IDF, condividendo metodi e armamenti che possono incoraggiare l’identificazione in base alla razza, le uccisioni extragiudiziarie e un crescente controllo contro i gruppi più emarginati di entrambi i Paesi.

Emilio Dabed, un avvocato cileno-palestinese, aveva già delineato i collegamenti, scrivendo: “In entrambi i casi i palestinesi e la popolazione indigena del Cile vivono in una condizione di eccezione imposta loro dai colonizzatori e in base alla quale il popolo colonizzato è (visto come) né titolare di diritti di cittadinanza né soggetto politico, ma piuttosto come una minaccia – corpi da governare con una violenza normata nelle leggi.”

Le armi israeliane, che hanno mantenuto al potere Pinochet con la forza, sono state usate in modo sproporzionato contro i mapuche, che hanno appoggiato i tentativi della sinistra, come l’elezione del socialista Salvador Allende nel 1970. Oggi molti indigeni partecipano alle manifestazioni e costituiscono molte delle vittime provocate dall’esercito.

Fuori dal Cile e da Israele è importante denunciare la collaborazione militare che perpetua l’oppressione di popolazioni indigene emarginate. Questi legami tra l’IDF e le forze armate di altri Paesi dovrebbero essere indagati e messi in discussione. Un’ulteriore militarizzazione delle comunità non produce la pace, ma ulteriore brutalità e ingiustizia – ed è tempo di parlare del perché ignoriamo questo fatto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le proteste contro la violenza armata provocano un risveglio politico nei palestinesi residenti in Israele

Henriette Chacar

23 ottobre 2019 – +972

Secondo la nota attivista Fida Tabony, un’ondata di manifestazioni contro la violenza armata e la negligenza della polizia ha suscitato un rinnovato senso di solidarietà tra i cittadini palestinesi residenti in Israele. Dopo anni di divisioni, afferma, “ci stiamo comportando come un popolo”.

Fida Tabony ricorda che un giorno, circa due mesi fa, intorno alle 14, mentre lasciava il suo ufficio a Nazareth, una motocicletta le è sfrecciata davanti. Non ci sarebbe stato nulla di insolito in quel consueto viaggio verso casa se quello stesso motociclista non si fosse poi fermato soltanto due auto più avanti e non avesse aperto il fuoco.

Tabony ricorda al telefono che l’incidente è avvenuto in pieno giorno mentre i bambini stavano tornando a casa dalla scuola. “Ci sono i primi cinque secondi – dice – in cui ti chiedi come poter reagire, non sapendo cosa fare. Ricordo di essermi sentita spaventata e nervosa, ma anche arrabbiata.”

Tabony accenna ad un altro fatto, lo scorso maggio, quando Tufiq Zaher è stato ucciso a colpi di arma da fuoco semplicemente per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Cittadino rispettoso della legge, Zaher stava camminando a Nazaret con sua nipote quando è stato colpito da un proiettile vagante.

All’epoca ero via e le mie figlie dovevano prendere l’autobus da casa a scuola. L’autobus attraversa quella stessa area in cui [Zaher] è stato ucciso. Sono entrata nel panico – dice Tabony – e ho pensato: “Questo potrebbe accadere a chiunque di noi”.

Almeno 74 cittadini palestinesi cittadini di Israele sono stati uccisi dall’inizio dell’anno a causa della violenza armata o di attività criminali all’interno della comunità palestinese. Nel 2018 il numero di vittime nel corso dell’anno è stato di 71. Queste cifre sono solo la punta dell’iceberg, poiché non tengono conto del ripetersi quotidiano di sparatorie o del crimine organizzato che sono arrivati a caratterizzare la realtà giornaliera di così tanti cittadini palestinesi.

Nel corso delle ultime settimane, decine di migliaia di palestinesi cittadini di Israele sono scesi in piazza per protestare contro la violenza armata e l’insufficiente controllo da parte della polizia nelle loro comunità. Sembra che le manifestazioni siano state scatenate dall’uccisione di due fratelli nella città di Majd al-Krum, nella Galilea settentrionale, con le autorità locali che dopo l’episodio hanno abbastanza rapidamente mobilitato la gente, in coordinamento con l’ Higher Arab Monitoring Committee (Comitato superiore arabo per il monitoraggio) – un’organizzazione ombrello che rappresenta 1.9 milioni di cittadini palestinesi cittadini del Paese.

Tabony, co-direttrice della fondazione Mahpach-Taghir e membro del Comitato per la Lotta contro la Violenza di Nazareth, è una nota attivista sociale e politica che è stata coinvolta nell’organizzazione della recente ondata di proteste. Le ho posto domande sulle dimostrazioni, su cosa rivelano dei rapporti della comunità palestinese con le autorità israeliane e su cosa gli organizzatori sperano di ottenere.

Questa intervista è stata riveduta e ridotta per [ragioni di] chiarezza.

Perché queste proteste avvengono ora? Cosa c’è di diverso in questo momento?

Questo è il segno di quanto insopportabile sia diventato il dolore. È così, abbiamo esaurito la pazienza. Le persone non lo accetteranno più. A mio avviso, il fatto che noi, come comunità, decidiamo di nuovo di organizzarci è un segnale positivo. Ci stiamo comportando come un popolo, il che è positivo dopo un lungo periodo di divisioni “.

Che cosa vuoi dire con questo?

Come comunità palestinese che vive all’interno di Israele – afferma Tabony – sappiamo che dal 1948 fino ad oggi lo Stato ha cercato in tanti modi di indebolirci, di distruggere la nostra identità di palestinesi e la nostra unità come popolo. Penso che non siano riusciti a farlo, ma negli ultimi 20 anni, specialmente dall’ottobre 2000 e, ancora di più, nell’ultimo decennio, sotto il governo di Netanyahu, è stato intrapreso un cammino verso leggi estremamente razziste. Stiamo subendo tanto razzismo “.

Nell’ottobre 2000, poco dopo l’inizio della Seconda Intifada, la polizia israeliana ha ucciso 13 palestinesi, di cui 12 civili, mentre protestavano in solidarietà con i manifestanti in Cisgiordania e Gaza. Alla fine il governo ha nominato una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni, ma non è stato incriminato un solo ufficiale. La violenza ha segnato una svolta per i cittadini palestinesi di Israele, erodendo ulteriormente la scarsa fiducia che avevano nelle istituzioni statali e nelle forze dell’ordine.

Questa grave violazione della fiducia, tuttavia, è stata accompagnata da politiche economiche che hanno integrato meglio i cittadini palestinesi nella forza lavoro israeliana, spiega Tabony, creando un singolare equilibrio: “Da un lato, il razzismo è costante”, dice, e dall’altro , “ci vengono presentate nuove opportunità di lavoro”, come la risoluzione 922, con la quale il governo nel dicembre 2015 ha promesso 3,3 – 3,8 miliardi di euro per la promozione dello sviluppo economico nella società araba nei successivi cinque anni. Ciò ha dato origine all’individualismo, spronato dalla frenetica competitività della vita moderna, “che spesso ci allontana dal nostro senso di identità e dalla nostra principale battaglia – rivolta a porre fine all’occupazione.

“A tal proposito – aggiunge Tabony – le donne hanno assunto un ruolo chiaramente centrale in questa lotta”.

In che modo?

“Quando abbiamo bloccato la strada n°6 [una delle autostrade a pagamento nel centro di Israele], era notevole il numero di donne che guidavano le auto da sole. C’era un gruppo impressionante di donne che protestavano anche in testa [al corteo], dirigendo gli slogan e assumendo un ruolo attivo. Il numero di donne e ragazze alla protesta di Majd al-Krum è stato sorprendente. In entrambe le proteste di Nazareth che ho contribuito a organizzare, le donne hanno fatto parte della pianificazione e hanno costituito una parte significativa dei partecipanti. Ciò dimostra una partnership più autentica nella nostra comunità – afferma Tabony. – Lo spazio per le donne si è ampliato.”

Secondo Tabony, un altro motivo per cui queste manifestazioni stanno prendendo piede ora è la sensazione tra i cittadini palestinesi di essere uniti sotto un’unica guida “di fronte a un governo e a un regime fortemente razzisti” – in particolare con il ritorno, alle elezioni nazionali di settembre, della Lista Unita, che riunisce candidati palestinesi ed ebrei non sionisti. “In occasione di ogni protesta partecipano sempre più persone e spero che i nostri numeri continueranno a crescere”, afferma.

Ma sono le stesse persone, la leadership non è cambiata. Cosa c’è di diverso ora?

Sono tutti stufi. Da quando io ricordi ho sempre partecipato alle proteste. Ora vedo in queste dimostrazioni persone che non avrei mai immaginato di vedere. C’è una ventata di entusiasmo, unito a una maggiore consapevolezza sociale e politica – spiega Tabony. – C’è un più forte senso di responsabilità tra le persone”.

Tabony ritiene che la sparatoria di Majd al-Krum sia ciò che ha scatenato le proteste in parte a causa del classismo nella società palestinese. “Quando la violenza si manifestava nell’area del “Triangolo ” [una concentrazione di città e villaggi arabi israeliani adiacenti alla Linea Verde, situata nella pianura orientale di Sharon tra le colline del Samarian, n.d.tr.] o a Ramleh, Lyd e Yaffa, quante persone abbiamo mobilitato? Ci siamo davvero comportati come un solo popolo? No.”

Intendi a causa della disuguaglianza socio-economica?

C’è sicuramente del classismo nella nostra comunità. – afferma Tabony – Il nord è diverso dal sud”.

La maggior parte dei cittadini palestinesi israeliani vive nelle regioni “periferiche”, lontano dal centro economico e culturale del paese. Circa il 57% degli arabi vive nel nord, tra cui Haifa e la Galilea. Il “Triangolo” si riferisce a un gruppo di città e cittadine palestinesi più vicine al centro geografico di Israele, dove, insieme alle “città miste” [tra ebrei e arabi, n.d.tr.] di Jaffa, Ramleh e Lyd, vive circa il 10,7% della popolazione palestinese israeliana.

I palestinesi [che vivono] nei piccoli comuni e nelle città esclusivamente arabe del nord sono orgogliosi del loro parziale senso di autonomia dallo Stato, irraggiungibile per i palestinesi delle “città miste”. Mentre il governo esercita ancora un controllo significativo sulle località esclusivamente arabe in termini di stanziamenti di bilancio e pianificazione, ad esempio, c’è un senso condiviso dell’agire politico che ispira l’azione collettiva.

La povertà svolge un ruolo significativo nel perpetuare la violenza. Voglio dire, questi due ragazzi che mi sono passati davanti in moto, sono sicari; sono pagati per uccidere. Con la prospettiva di guadagnare grandi somme di denaro in breve tempo, quando non si riesce a trovare lavoro altrove – hanno intravisto questo lavoro “.

In base alle statistiche del 2014, il tasso di povertà tra i palestinesi cittadini di Israele è circa tre volte quello degli ebrei. Secondo i dati del 2011, una media del 47% dei diplomati presso le scuole superiori delle località arabe ha accesso all’iscrizione universitaria, rispetto al 61% delle aree ebraiche.

Ci sono molti altri mali da cui i cittadini palestinesi sono affetti in quanto comunità emarginata e con pochi servizi a disposizione, tra cui le disparità nello stanziamento di fondi pubblici, la segregazione e la confisca delle terre. Perché le proteste si concentrano sulla violenza armata?

“È collegato alla nostra gerarchia dei bisogni. Dopo la garanzia del cibo e di un riparo, viene la necessità del sentirsi al sicuro. La sicurezza personale è un’esigenza fondamentale “.

Secondo Tabony, si ha la sensazione che le autorità abbiano “perso il controllo”. La polizia israeliana e le istituzioni statali, afferma, sono arrivate alla conclusione che questa situazione non sia più sostenibile.

Il rapporto tra la comunità palestinese e le forze dell’ordine israeliane è stato storicamente difficile e complicato. Da un lato, al fine di sentirci più sicuri, chiediamo alla polizia di recarsi nelle città arabe e di svolgere correttamente il proprio lavoro. Dall’altro, non ci fidiamo di loro.

Tabony cita i risultati di un sondaggio del 2019 dell’Abraham Fund [organizzazione che intende promuovere la coesistenza in Palestina tra i tre popoli abramitici: ebrei, cristiani e musulmani, n.d.tr.], secondo il quale solo il 26,1% degli intervistati palestinesi dichiara di fidarsi della polizia israeliana e il 24% esprime soddisfazione per il funzionamento della polizia. Tuttavia, in base a quello stesso rapporto, il 58% di questi intervistati ha affermato che si rivolgerebbe alla polizia se essi stessi o qualcuno nella loro famiglia subisse una violenza.

“Questo dimostra che vogliamo che la polizia faccia il suo lavoro” – afferma Tabony. – “Ma quando non lo fa, ognuno perde fiducia in quell’istituzione.

La polizia stessa – l’intero sistema – è razzista nei nostri confronti e si comporta con noi alla stregua di una minaccia nazionale, non come cittadini con diritto agli stessi diritti e servizi che ottengono i cittadini ebrei. Il punto di partenza per la polizia è che noi siamo dei nemici dello Stato col proposito di uccidere. Solo dopo aver dimostrato che non rappresentiamo alcuna minaccia, iniziano ad aiutarci.”

Ma l’altro lato di tale equazione è che, poiché non ci fidiamo della polizia, non ci relazioniamo con loro in quanto organo legittimo.

Quando un giovane sparò dei colpi di arma da fuoco nel mezzo di Tel Aviv, il Paese si fermò fino a quando non venne trovato e non furono confiscate le sue armi da fuoco. Quando i colpi vengono sparati in una città araba e la polizia non fa nulla, cosa significa? Che la polizia approva [il fatto] che gli arabi si uccidano a vicenda. Approva la diffusione delle armi. Quello che vogliamo è che la polizia faccia effettivamente il proprio lavoro, e non che si rechi nei nostri villaggi e città solo per comminare più sanzioni o mostrarci chi è che comanda durante le proteste politiche”.

L’occupazione salta fuori durante queste proteste? Ne discutete come organizzatori?

Innanzitutto, facciamo sventolare la bandiera palestinese in quasi tutte le nostre manifestazioni, e questo è essenziale. Anche gli slogan; alcuni riguardano i nostri prigionieri, altri riguardano la fine dell’occupazione. Ci sono state persone che lo hanno criticato, che hanno detto: ‘Che cosa c’entra la bandiera palestinese con questo? La violenza armata è un problema interno’. Ma ovviamente sono [problemi] interconnessi.”

Come spiegheresti questo a qualcuno che non vede alcun legame tra il modo in cui le autorità israeliane trattano i cittadini palestinesi e il modo in cui controllano i palestinesi sotto occupazione?

In primo luogo, [farei presente] che la maggior parte delle armi da fuoco proviene dalla polizia e che l’esercito è la prova più chiara del fatto che [le autorità] sono coinvolte in questo, che è loro interesse sostenere questa violenza. Perché sono interessati a perpetuare questa situazione? Dovremmo chiedercelo. La violenza ci rende più deboli. Perché? Perché ci allontana dalle questioni centrali mentre siamo impantanati a causa delle minacce quotidiane alla nostra esistenza, cercando di sopravvivere.

Anche la modernizzazione e il capitalismo, qual è il loro obiettivo, alla fine? Darci la sensazione di possedere il controllo sulla nostra vita, [del fatto] che possiamo uscire e prendere un caffè in un bel locale, che la vita è bella. Le persone possono incontrare difficoltà ai posti di blocco, ma succede lì, qui va tutto bene. [Credere] che tutto ciò per cui dobbiamo impegnarci è il nostro benessere personale ci fa sentire padroni del nostro destino.

“Sai quante persone sulla mia pagina Facebook dicono cose come ‘la soluzione per noi è partire?’ Non è strettamente connesso? Sai quanti [cittadini palestinesi] sono già emigrati a causa di questa realtà?”

Intendi dire che questo è un altro modo attraverso cui Israele sta buttando fuori i palestinesi?

Indirettamente, sì. Spingendoci ad emigrare, interrompendo il nostro legame con questa terra, facendoci sentire come se dovessimo esistere solo come individui e prendere le distanze dagli altri. Questo ci rende più deboli. Riduce il nostro senso di solidarietà, la nostra identità di gruppo.

Questo è l’ideale per lo Stato, non solo perché siamo arabi, ma perché è così che impedisce a tutti i gruppi emarginati di formare alleanze. Se durante la protesta etiope [in Israele, nel luglio 2019, da parte degli ebrei etiopi, n.d.tr.], dopo l’uccisione del giovane, ci fossimo ritrovati tutti insieme, immagina le proteste che avremmo potuto organizzare. È la chiara strategia del ‘divide et impera’.

“Ma dico anche che abbiamo una responsabilità in quanto comunità. Supponiamo che il 70% della soluzione del problema spetti al governo: infondere un senso di sicurezza, sequestrare tutte le armi e elaborare un chiaro piano economico che offra opportunità alla comunità araba, compreso un coerente piano sociale per i nostri giovani. Dell’altro 30% del problema è responsabile la nostra comunità. Dobbiamo riconoscervi anche la nostra parte.”

Ultimamente, i cittadini palestinesi hanno anche organizzato importanti manifestazioni sulla violenza contro le donne e le molestie verso i LGBTQ. Queste questioni si sovrappongono nell’attuale ondata di proteste?

“Più del 50% delle donne uccise in Israele sono palestinesi e noi rappresentiamo solo il 20% della popolazione israeliana. Lo stesso vale per le uccisioni in generale: circa il 60% delle vittime di omicidio in Israele sono arabi. Questo in parte perché stiamo passando da una società tradizionale alla modernizzazione. Gli altri aspetti riguardano la consapevolezza riguardo il genere e i diritti delle donne.

La violenza domestica è [un tema] importante da discutere, ma differisce dalla più estesa ondata di violenza nella nostra comunità. Dobbiamo parlare dei diritti delle donne e dei diritti LGBTQ sempre all’interno della nostra più ampia lotta nazionale.

Le minacce che le persone affrontano a causa del loro genere sono un segno del dominio patriarcale e del controllo su di noi come donne. Il crimine dilagante nella nostra comunità, tuttavia, è una conseguenza di fattori economici e politici, oltre che patriarcali. Ciò significa che le donne vengono uccise a causa del desiderio della società di controllare le nostre decisioni e i nostri corpi, semplicemente per [il fatto di] essere donne. Quando si tratta di violenza ed episodi criminali, tuttavia, i soggetti che si scontrano tra di loro hanno lo stesso potere. Quindi, le dinamiche di potere sono diverse.”

Ci sono degli obiettivi specifici che state cercando di raggiungere con queste proteste?

Chiediamo un piano globale per combattere la violenza e il crimine nella società araba. Sembra che i ministeri si stiano finalmente svegliando rispetto a questa realtà. Il ministero dell’Interno ha inviato una lettera ai vari comuni affermando di avere l’interesse a procedere con dei progetti su questo tema. È chiaro che questo non è un problema che possiamo risolvere da soli e le autorità devono fare la loro parte.

“Stiamo presentando questi piani al governo, tenendo presente che non esiste ancora un governo e che potremmo avvicinarci alle terze elezioni politiche [in meno di un anno, n.d.tr]. Ma le nostre richieste sono chiare: innanzitutto, porre fine alla violenza arrestando gli autori e sequestrando tutte le armi da fuoco. Questo è essenziale. Tuttavia, ciò non avrà successo senza un programma più esteso che affronti anche i fattori sociali ed economici in gioco”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La nuova Gerusalemme, terra promessa o città mummificata?

Francesca Merz

23 ottobre 2019, Nena News

Il settore turistico non è visto dalle autorità israeliane solo come motore di sviluppo economico. Porta con sé la possibilità di controllare la narrazione e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno solo come “città ebraica” e non più di città di tante civiltà

La città di Gerusalemme è meta da millenni di pellegrinaggi; crogiolo di culture e di religioni, per questa stupenda città sono passate culture millenarie, e qui i popoli si sono incontrati e scontrati per secoli. Sembra una storia antica, ma quanto mai attuale.

E’ proprio questa storia, o meglio, una parte di questa storia, al centro delle nuove politiche dello stato di Israele, politiche che, negli ultimi anni, hanno visto l’apertura al turismo come una delle principali azioni e strategie. La comunicazione nell’ultimo anno è stata, come sempre accade quando c’è Israele di mezzo, del tutto vincente, un video colorato e con persone di ogni carnagione è il marchio comunicativo della campagna “Visit Israel”, con immagini mozzafiato e vedute aeree dal drone. Apertura, interculturalità, capacità di essere internazionali e aprirsi al mondo, al turismo l’immagine che Israele mostra al mondo. Ma dietro questa promozione si celano alcuni retroscena. Tentiamo di analizzarli. Il piano di sviluppo turistico dello Stato ha in sé molte motivazioni.

Uno dei piani strategici presentati dallo Stato israeliano, il piano Marom, punta a sviluppare Gerusalemme come città turistica. Solo nel 2014, il Jerusalem Institute of Israeli Studies ha condotto 14 delle sue 18 ricerche di quell’anno nel settore turistico e le ha sottoposte al Comune di Gerusalemme, al Ministero di Gerusalemme e a quello degli Affari della Diaspora e all’Autorità di Sviluppo di Gerusalemme. Legato a questo, il governo israeliano ha stanziato 42 milioni di dollari per sostenere Gerusalemme come meta turistica internazionale, mentre il Ministero del Turismo dovrebbe allocare circa 21.5 milioni di dollari per la costruzione di hotel e ricettività. L’Autorità ha anche offerto specifici incentivi agli imprenditori e alle compagnie che costruiscono o ampliano alberghi a Gerusalemme e organizzano eventi culturali per attirare visitatori, come il Jerusalem Opera Festival, o eventi per l’industria del turismo, come il Jerusalem Convention for International Tourism. Promuovere il settore turistico è anche alla base del Jerusalem 5800 Master Plan che immagina Gerusalemme come “città globale, importante centro turistico, ecologico, spirituale e culturale mondiale” che attiri 12 milioni di turisti (10 milioni di stranieri e 2 di locali) e oltre 4 milioni di residenti.

foto di Michele Giorgio

Il quartiere palestinese di Silwan (foto di Michele Giorgio)

Per rendere Gerusalemme “l’attrazione turistica del Medio Oriente”, il piano punta a aumentare gli investimenti privati e la costruzione di hotel, la costruzione di giardini-terrazza e parchi e la trasformazione di aree che circondano la Città Vecchia con la costruzione di alberghi, e vietando la circolazione delle auto. Il piano prevede la costruzione di un aeroporto nella valle di Horkania, tra Gerusalemme e il Mar Morto, per servire 35 milioni di passeggeri all’anno. L’aeroporto sarà collegato con strade e ferrovie a Gerusalemme, all’aeroporto Ben Gurion e altre città. Il Jerusalem 5800 tenta di presentarsi come piano che promuove “la pace attraverso la prosperità economica” ma ha obiettivi demografici che dimostrano il contrario. Prevede infatti che i 120 miliardi di dollari di valore aggiunto dall’attuazione del piano, insieme ai 75-85mila impiegati negli alberghi e i 300mila nelle industrie dell’indotto, attireranno più israeliani ebrei a Gerusalemme, aumentandone il numero e facendo pendere la bilancia demografica ebrei-arabi a favore dei primi. Tuttavia il settore turistico non è visto solo come motore di sviluppo economico per attrarre ebrei in città. Lo sviluppo turistico porta con sé la possibilità di controllare la narrazione e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno come “città ebraica” (vedi la mappa ufficiale della Città Vecchia del Ministero del Turismo). Israele ha per tale ragione irrigidito le misure per chi lavora come guida turistica: le guide non assumono come unica la narrazione israeliana e che tentano di dare un’analisi alternativa e critica della situazione possono perdere la licenza. Questi piani per promuovere l’industria del turismo israeliana vanno di pari passo con le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo della stessa industria palestinese a Gerusalemme Est.

Tra gli ostacoli posti: l’isolamento di Gerusalemme Est dal resto dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente dopo la costruzione del Muro, e la conseguente fortissima contrazione del turismo arabo, le alte tasse; le restrizioni nel rilascio dei permessi per la costruzione di hotel a non ebrei, o la conversione di edifici in alberghi; e le difficili procedure per ottenere licenze per gli uomini d’affari palestinesi. Questi ostacoli, insieme ai milioni di dollari che vengono versati nel mercato turistico israeliano, fanno sì che l’industria turistica palestinese non abbia speranza di competervi.

Ma lo sviluppo del settore turistico, e di un particolare tipo di turismo, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, con il conseguente fenomeno della gentrificazione della città, o meglio della sua mummificazione, risultano essere un ulteriore strumento di apartheid. Il boom turistico di Israele negli ultimi anni, culminato con i recenti accordi con molteplici scali internazionali e con le compagnie low coast, come la RyanAir, pare rientrare alla perfezione in quel meccanismo di controllo dei flussi turistici e soprattutto nella necessità di controllare la narrazione data ai turisti. L’ormai fortissimo Stato Israeliano, dopo anni di chiusura e controlli serrati verso l’esterno, ha così aperto i flussi incentivando un turismo di massa, gestito dalle grandi compagnie e organizzazioni israeliane, facilmente controllabile nei suoi percorsi cittadini, molto facilmente indottrinabile, e con usi e consumi tendenzialmente occidentali (i nuovi scali prevedono l’intensificazione delle partenze dall’Europa), e quindi pronti a riversarsi nei centri commerciali e nei locali USA style. Un significativo dibattito sul fenomeno della mummificazione o desertificazione di Gerusalemme sta quindi prendendo piede; il fenomeno, va detto, è quanto mai noto nelle nostre città, spesso si affronta il tema per luoghi come Firenze o Venezia, ma Gerusalemme non è un luogo come un altro, e non solo per la sua storia millenaria, ma perché terreno di uno dei conflitti sociali, economici e culturali più noti ma meno conosciuti del mondo.

LA “MUMMIFICAZIONE” DELLA CITTA’

Il dibattito internazionale su flussi turistici e desertificazione dei centri è molto ben esplicitato in un termine assai appropriato, ossia la “mummificazione” delle città , ovvero la capacità del turismo di massa di uccidere la città, nella loro essenza, memoria, capacità di rigenerazione sociale, svuotandole di vita, privandole dell’interiore, facendole diventare un immenso parco a tema,  in una sorta di tassidermia urbana. Molta buona politica internazionale sta cercando di porsi il problema e di porre le basi per un suo potenziale superamento, non è questa la sede per ricapitolare le esperienze e i metodi utilizzati da città come Amburgo, Barcellona, Londra, Bruges per tentare di sovvertire questo meccanismo, ma è la sede per ricordare che questo meccanismo è ben noto.  In Israele il meccanismo non solo non si sovverte, ma anzi, proprio questo processo risulta utilissimo per svuotare le città occupate, Gerusalemme su tutte (ma anche città come Nazareth e Betlemme) della propria memoria storica, del proprio commercio, delle attività culturali, degli spazi pubblici, di gioco, di vita, insomma degli spazi della comunità, per fare spazio a “servizi per il turista”; tutto ciò, ovvero la memoria storica, gli spazi della comunità, gli antichi esercizi commerciali coincidono in questa parte di mondo alla memoria del popolo palestinese. Con un’unica grande operazione di richiamo turistico Israele è riuscita dunque a aumentare notevolmente gli introiti in relazione al settore ricettivo, e distruggere una storia non più utile a fini propagandistici. Gerusalemme è una città di pellegrinaggi, abituata da secoli a ricevere l’arrivo di persone di ogni religione, ed è esattamente esaltando questo processo che Israele ha basato la sua narrazione di “accoglienza turistica” ratificando accordi con compagnie low cost che consentono l’arrivo a Tel Aviv con prezzi assolutamente competitivi, dagli 80 ai 100 euro andata e ritorno dai maggiori aeroporti italiani, ad esempio. La creazione di un turismo di massa consente di esercitare una pratica ben nota allo Stato israeliano, ovvero il controllo di gruppi su vasta scala, gruppi che hanno le caratteristiche del turismo inconsapevole: necessità di una guida che li porti in percorsi specifici ben conosciuti alle autorità e precedentemente “ripuliti” dalla presenza della cultura non utile a fini propagandistici, necessità di viaggi organizzati da tour operator, totale interdipendenza dei partecipanti che si muovono in gruppi praticamente privi di autonomia di movimento, incanalati in percorsi di facilissimo controllo.

Il boom turistico di Gerusalemme ha in qualche modo giustificato, come avviene in molte città del mondo, la creazione di servizi specifici per questa tipologia di turismo organizzato. Il processo ha ingenerato risultati scontati: in nome del decoro, del combattimento del degrado, della necessità di creare parcheggi per i grandi bus turistici, e della creazione di direttrici adatte al turismo di massa, Gerusalemme si è trasformata in una zona rossa permanente, il principio è quello di eliminare tutto ciò che è legato alla storia comunitaria, alla cittadinanza attiva, ai servizi per il cittadino, alle pratiche dell’abitare, per trasformare con più velocità possibile Gerusalemme da città di vita dei suoi abitanti e della sua storica comunità, a “città museo” a cielo aperto, con la peculiarità che quel museo sarà esclusivamente gestito dagli israeliani, così come da loro è gestita la totalità dell’incoming turistico, anche solo perché detengono il controllo dell’unico scalo aereo. Al meccanismo di controllo si somma il fatto che, controllando le masse di turismo in entrata, il governo israeliano può controllare nel dettaglio anche la narrazione sulla città, sulla storia, sui siti archeologici, ampliando così in maniera velocissima la propria “pubblicità” e raccontando la propria versione della storia, ad una sempre crescente quantità di persone. I percorsi turistici concepiti nel nuovo piano della Gerusalemme occupata raccontano una storia parziale, per usare un eufemismo, riesumando “prove” archeologiche che non tengono conto della stratificazione delle civiltà ma solo quelle che risultano utili per la narrazione imposta.

La prima e più banale delle modifiche, è stata una vera e propria modifica del giro della città, e della sua storica entrata. I grandi bus turistici si fermano ora nel grande parcheggio organizzato vicino alla porta di Jaffa, a sua volta porta di riferimento della Gerusalemme sotto il controllo israeliano, mentre la porta da cui tutti i pellegrini nei secoli sono entrati e hanno considerato come principale, ovvero la Porta di Damasco, unica porta che porta direttamente all’antico suq (o meglio a quel poco che ne sta rimanendo), sta diventando una porta secondaria, quasi un passaggio “esotico” per turisti che amano il brivido, con orde di turisti totalmente inconsapevoli che passano per quelle vie, quasi che quei piccoli brandelli di vita reale fossero attori, comparse dai tratti orientali in una terra ormai fatta di centri commerciali a sei piani. L’intento, da qui a qualche anno, così come sta già avvenendo, è di non far più passare i turisti per locali e luoghi frequentati e gestiti da palestinesi, questo ovviamente ha un duplice riscontro in termini economici: le tipologie di commercio storiche, gestite dai palestinesi, erano servizi per la cittadinanza, si tratta di panifici, piccoli fruttivendoli, negozi che riparano scarpe, artigiani; Israele, lavorando attivamente per incentivare il turismo di massa, cambia la toponomastica della città in modo da indirizzare i flussi per nascondere del tutto l’esistenza dei palestinesi, e aumentare esponenzialmente il fenomeno di mummificazione della città, ottemperando, in questo meccanismo, nel medesimo momento a più obiettivi, da un lato quello di arricchire esponenzialmente i centri commerciali e i nuovi negozi che nascono ad uso e consumo dei turisti a Gerusalemme, dove i turisti si sentono coccolati da forme e marche che conoscono, da fast food internazionali, marchi vegan, locali fusion, uguali in tutto il mondo, dall’altra parte distruggere una parte sostanziale della memoria di una città millenaria, legata, chiaramente, al popolo palestinese. Jaffa street, con i suoi Mall e le sue catene di fast food ci fa sentire coccolati da ciò che conosciamo, molto più che la visita alla porta di Damasco e al suq. In questa parte di città, tra le viuzze dimenticate, vedreste negozi chiusi, anziani sarti palestinesi che resistono all’ondata di affaristi e speculatori, passando le proprie giornate in negozi vuoti, senza più clienti, senza più una comunità, senza più una vita, per il solo dovere della resilienza, quel “sumud” che riempie gli occhi di lacrime a quegli uomini e quelle donne che Gerusalemme se la ricordano come il luogo magico che doveva essere settanta anni fa, con l’oro delle sue mura, i suoi vicoli riparati dal sole, il senso incombente di eternità, il silenzio delle tre di pomeriggio interrotto solo dalle urla dei bimbi che escono dalla scuola, scene che possono essere viste solo uscendo dai percorsi turistici, scene che potrete ancora vedere in alcuni vicoli stretti e dimenticati della Gerusalemme  Est,  nelle pochissime scuole palestinesi rimaste, scuole i cui muri sono coperti dal filo spinato, perché costantemente bersaglio delle rappresaglie di coloni.

La mummificazione della città, il suo svuotarla della vita, è un meccanismo fisiologico di ogni massiccia turisticizzazione cittadina, un fenomeno studiato nel dettaglio dall’autorità Israeliana, e utilizzato esattamente alla stregua di quei meccanismi di controllo di cui parla diffusamente Neve Gordon nel testo dedicato all’ occupazione israeliana, un controllo non solo sulle masse palestinesi, ma, ora, anche sulle masse provenienti da fuori, per un indottrinamento subito in maniera del tutto inconsapevole dai turisti che percorrono le vie di Gerusalemme.

Il progetto ovviamente non si limita a Gerusalemme, ma va ben oltre, sono inserite all’interno dei tour anche cittadine quali Nazareth, Betlemme o Gerico, che si trovano in Palestina. Il refrain con il quale vengono promossi tutti questi luoghi è sotto l’egemonia del marchio “Visit Israel”, in quel processo di appropriazione di terre, culture e spazi vitali, che vede ora nel turismo di massa una delle armi più subdole e vincenti.  Nena News




Per proteggere i suoi alleati curdi, Israele deve scendere in campo contro la Turchia

Eitay Mack

15 ottobre 2019 – +972

Israele ha ripetutamente contribuito a genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra vendendo armi, addestramento e competenze tecniche a regimi omicidi. Questo rende difficile credere che farà la cosa giusta per quanto riguarda i curdi.

Il mondo sta guardando con allarme l’esercito turco che inizia l’invasione militare della roccaforte curda nel nord-est della Siria; molti osservatori paventano imminenti crimini di guerra, crimini contro l’umanità e persino genocidio contro i curdi. Non c’è assolutamente alcun dubbio che il successo della Turchia nell’impedire il riconoscimento internazionale del genocidio armeno tra il 1915 e il 1923 abbia incoraggiato Erdoğan a commettere orribili crimini contro il popolo curdo nel 2019.

È probabile che l’invasione rafforzi anche l’ISIS e porti al ristabilimento del cosiddetto Stato islamico, dopo che tanti curdi hanno sacrificato le loro vite per distruggerlo.

Il governo israeliano si trova ora nella difficile posizione di dover scegliere tra due alleati storici. La storica alleanza di Israele con i curdi risale agli anni ’50, quando David Ben Gurion stabilì la sua dottrina regionale, secondo la quale il ministero degli Esteri perseguì alleanze strategiche con attori non arabi in Medio Oriente. Con gli auspici di questa dottrina, Israele ha fornito supporto militare, politico e morale ai curdi. Nel 2017 Netanyahu è arrivato al punto di annunciare che Israele appoggia l’istituzione di uno Stato curdo indipendente.

Allo stesso tempo, e sempre con l’etichetta di dottrina regionale, Israele ha stretto un’alleanza diplomatica e di sicurezza con la Turchia. Tale rapporto si è approfondito dopo la firma degli Accordi di Oslo. Nel 1996 i due Paesi hanno firmato un accordo di cooperazione militare, e la Turchia negli anni successivi ha acquistato miliardi di dollari di armamenti e tecnologia di difesa da Israele. Secondo vari rapporti, Israele ha aggiornato i velivoli e i carri armati turchi e ha venduto al Paese sistemi radar, missili, droni e munizioni. Inoltre l’esercito israeliano ha inviato del personale per addestrare ufficiali e soldati dell’esercito turco.

Nel 1950, Israele ha approvato una legge sulla prevenzione e la punizione del genocidio. Ha anche ratificato la Convenzione sul Genocidio, che ha stabilito il dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per prevenire un genocidio.

Al di là delle implicazioni legali e morali, lo Stato di Israele non ha mai abbandonato un alleato. Se ignorasse il genocidio dei curdi nella Siria nord-orientale, Israele stabilirebbe un pericoloso precedente storico con conseguenze di vasta portata per la sua politica estera e la sicurezza nazionale.

I successivi governi israeliani e i ministri della Difesa hanno sfidato la fiducia dell’opinione pubblica aiutando ripetutamente genocidi, crimini contro l’umanità e crimini guerra in tutto il mondo vendendo armi, addestramento e competenza tecnica a regimi omicidi. Questi precedenti rendono difficile credere che faranno la cosa giusta per quanto riguarda i curdi.

L’apoteosi di questo cinismo è stata la decisione di Israele di sostenere la Turchia nel negare il genocidio armeno. Secondo gli stessi dati del ministero, nel 1987 i funzionari del ministero degli Esteri israeliano hanno aiutato la Turchia a fare pressioni affinché il Congresso degli Stati Uniti abolisse il voto per istituire il 24 aprile come giorno commemorativo del genocidio armeno.

In un telegramma del 7 giugno 1987 Yitzhak Laor, vicedirettore del settore del Medio Oriente presso il Ministero degli Esteri, scrisse che gli israeliani hanno agito in modo molto discreto in questa faccenda perché sapevano che se fossero stati associati al tentativo di negare il genocidio armeno “anche indirettamente”, Israele avrebbe “dovuto affrontare un grande scandalo”, sia a livello nazionale che internazionale.

Oded Eran, allora vice capo dell’ambasciata israeliana a Washington, il 12 agosto 1987 scrisse di sentirsi “molto a disagio” per essere intervenuto a bloccare la decisione di stabilire un giorno di commemorazione del genocidio armeno. “Non è opportuno che un rappresentante dello Stato ebraico sia coinvolto in questo argomento,” riassunse.

In un altro inquietante incidente, il ministero degli Esteri israeliano collaborò con la Turchia per esercitare forti pressioni sul Museo per la Memoria dell’Olocausto degli Stati Uniti per annullare il progetto di una mostra sul genocidio armeno. Un documento del ministero degli Esteri del marzo 1988 riporta che Abe Foxman, allora direttore dell’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, importante associazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] si unì a Israele nel tentativo di bloccare una mostra sul genocidio armeno, arrivando al punto di minacciare di dimettersi dal consiglio di amministrazione del museo. Diciotto anni dopo, sotto il successore di Foxman, Jonathan Greenblatt, l’Anti-Defamation League modificò completamente la propria posizione e riconobbe ufficialmente il genocidio armeno.

I testimoni di un imminente massacro non hanno il diritto di stare in silenzio. L’assicurazione di Netanyahu secondo cui Israele fornirà aiuto umanitario ai curdi non è sufficiente. Ricorda una situazione simile nel luglio 1994, quando Israele inviò aiuti umanitari alla frontiera del Rwanda per aiutare i sopravvissuti al genocidio perpetrato dagli hutu armati con armi israeliane.

L’opinione pubblica israeliana deve immediatamente chiedere che i suoi parlamentari prendano le seguenti iniziative:

  1. Inviare un messaggio inequivocabile a Erdoğan: la Turchia non deve perpetrare crimini contro il popolo curdo con armi israeliane;

  2. Annunciare che Israele congelerà i propri rapporti commerciali con la Turchia (nel 2017 ammontavano a 1,4 miliardi di dollari);

  3. Israele deve espellere l’ambasciatore turco in Israele e richiamare l’ambasciatore israeliano in Turchia;

  4. Israele deve riconoscere il genocidio armeno.

Eitay Mack è un giurista israeliano dei diritti umani che lavora per interrompere l’aiuto militare israeliano a regimi che commettano crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano )




Israele guarda con nervosismo come Trump abbandoni i suoi alleati siriani

Lily Galili – Tel Aviv, Israele

 10 ottobre 2019 – Middle East Eye

Negli ultimi giorni la leadership israeliana ha imparato due cose: a non credere di sapere cosa farà il presidente USA e a non fidarsi di lui come alleato.

Durante il Capodanno ebraico è successa una cosa incredibile: per la prima volta il presidente Trump è stato paragonato, nei media israeliani, al suo predecessore, Barack Obama.

Non è cosa di poco conto. Per la maggioranza degli israeliani, che si colloca fra il centro e l’estrema destra, Trump è un idolo americano, il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.

Barack Hussein Obama era, per quegli stessi israeliani, l’epitome di tutti i mali.

Secondo il Pew, un centro di ricerca con sede a Washington, uno studio recente ha rilevato che solo 2 Paesi su 37 preferiscono Trump a Obama: Russia e Israele.

E probabilmente è ancora così. Ma il senso di preoccupazione e di tradimento incombente, innescato dal ritiro improvviso delle truppe americane dal nord della Siria e dall’abbandono senza scrupoli dei curdi, alleati sia dell’America che di Israele, ora cancella l’iniziale adorazione.

Né i militari né i politici israeliani considerano la riduzione delle truppe Usa e l’offensiva militare turca che ne è seguita come un pericolo imminente per Israele.

Finora ‘i disordini’, come le fonti ufficiali tendono a descrivere la situazione, sono confinati a una regione lontana dal confine tra Israele e la Siria.

Ci sono comunque due elementi che preoccupano notevolmente Israele.

Uno è il fatto che questa mossa drammatica ha sorpreso persino i più alti livelli decisionali in Israele. Un altro è che Trump si è rivelato una delusione, in pratica un alleato inaffidabile.

Il giorno prima del drammatico annuncio di Trump, il governo israeliano aveva tenuto un lungo incontro di emergenza per discutere dell’Iran.

Fonti del governo ammettono che la decisione di Trump non era neanche stata menzionata, probabilmente perché neppure gli ufficiali più alti in grado ne erano a conoscenza.

È stata una totale sorpresa, cosa che l’ex direttore del dipartimento della sicurezza e diplomazia presso il Ministero della Difesa, il generale maggiore Amos Gilad, ha definito come “un errore nella valutazione e nella politica ai più alti livelli fra Israele e gli USA”.

Secondo Gilad, la politica estera di Trump ha impattato Israele in senso negativo più che positivo.

La sua politica di non reagire, quando l’Iran ha attaccato le installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita o quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, ha rivelato la sua debolezza. Questo è un male per Israele dato che il deterrente americano è anche un deterrente israeliano” ha detto il militare.

D’altro lato Trump è ancora un punto di forza quando abbiamo bisogno di lui nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Così la lezione per Israele ora è l’autosufficienza.”

Paura e tradimento

Sebbene “tradimento” non sia la parola ufficialmente pronunciata nel gergo politico, il sentimento è profondamente diffuso, insieme alla paura di quello che succederà.

Non c’è spazio per le sorprese”, ha detto a MEE il generale maggiore Amiram Levin, ex comandante militare del comando nord.

Per due anni ho denunciato che la politica di Israele è basata sulla falsa convinzione che Trump sia un grande amico. È ora che Israele capisca che, fino a quando Trump è al potere, Israele non ha nessuno su cui contare.”

Levin dice che gli israeliani devono abbandonare l’idea che Israele e gli USA siano un’unica cosa. Aggiunge inoltre che è stato “un grande errore” credere che Israele avrebbe diretto la lotta comune contro l’Iran.

È ora di limitarsi a obiettivi più realistici e limitati, e di focalizzarsi su situazioni che pongono un vero pericolo per Israele. L’Iran, così com’è ora, non lo è” ha detto Levin.

In sostanza il nocciolo della questione è non andare oltre il necessario solo perché possiamo, e certamente non vantarsene e non darsi delle arie.”

La reazione a livello popolare è non meno significativa di quella ufficiale e i commenti sui social hanno insinuato che, per Israele, Trump sia persino peggio di Obama.

Nel frattempo un articolo su “Mida”, un sito di destra molto vicino a Netanyahu ha insinuato che, dopo tutto, non c’è molta differenza fra i due presidenti USA.

Trump, come Obama, vuole far uscire l’America dal Medio Oriente, una regione che ha perso la sua importanza strategica. La differenza è che Trump lo fa con la sua inimitabile retorica” ha scritto Alex Greenberg sul sito.

Siamo ben lontani dai giorni, solo pochi mesi fa, quando Trump ha fatto un regalo a Netanyahu riconoscendo formalmente la sovranità israeliana sulle alture di Golan occupate.

L’atto fu suggellato da un bacio, un bacio vero, gesto non molto comune nella diplomazia occidentale.

Netanyahu ha ricambiato non solo con un bacio. Ha annunciato la fondazione di un nuovo insediamento nel Golan che prenderà il nome di Trump.

Questa potrebbe essere la parte divertente di una storia d’amore politica. Più seriamente, Netanyahu è stato il primo premier israeliano a giocare esclusivamente la carta repubblicana, a differenza dei decenni di politiche bipartisan adottate dal suo Paese in precedenza.

Si presumeva che quella love story sarebbe durata per sempre, sopravvivendo agli avvertimenti dell’opposizione israeliana e degli esperti, che ricordavano a Netanyahu che la sua relazione con Trump era basata su interessi che tendevano a cambiare.

Ma i loro consigli si sono rivelati preveggenti a settembre, quando Netanyahu non è riuscito a vincere nelle seconde elezioni parlamentari dell’anno.

Trump, l’uomo di “grande e incomparabile saggezza”, come lui stesso si è descritto in un tweet di pochi giorni fa, ama i vincitori. E Netanyahu improvvisamente non era più uno di loro.

A poche ore dagli exit poll, il presidente USA è diventato gelido con Netanyahu, nonostante il suo alleato fosse afflitto dalla crisi politica e dalle incombenti accuse di corruzione.

E tutto ciò proprio prima che Trump rendesse noto il suo piano di pace a lungo atteso fra Israele e la Palestina e siglasse un trattato di difesa che sarebbe stato una manna per Netanyahu.

Ora arriva il ritiro, l’abbandono dei curdi e la licenza di uccidere data ai turchi.

Confusi? È solo l’inizio, prima che le politiche internazionali siano tradotte in politiche interne da un primo ministro che sta ancora faticando a formare un governo.

(Traduzione di Mirella Alessio)




I costruttori dei muri dell’apartheid israeliana speculano sulla militarizzazione dei confini statunitensi

Nora Barrows-Friedman

8 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Una grande azienda di armamenti israeliana è stata scelta come uno delle principali beneficiari della speculazione sulla militarizzazione dei confini statunitensi.

Secondo la ricerca del giornalista Todd Miller, Elbit Systems ha ottenuto dal governo degli Stati Uniti contratti per la protezione della frontiera per un valore di 187 milioni di dollari.

Il più importante, assegnato durante l’amministrazione Obama, è quello relativo alla costruzione di più di 50 torri di sorveglianza a ridosso del confine tra Stati Uniti e Messico per la Customs and Border Protection [Agenzia delle Dogane e della Frontiera] (CBP) del governo degli Stati Uniti.

Dieci di quelle torri si troveranno su terreni appartenenti alla Nazione Indigena dei Tohono O’odham in Arizona.

Un’ analisi di Bloomberg del 2014 ha previsto che i profitti iniziali di Elbit potrebbero moltiplicarsi se il Congresso autorizzasse maggiori stanziamenti per la militarizzazione del confine.

Il rapporto di Miller – “Più di un muro: speculazione aziendale e militarizzazione dei confini statunitensi” – è stato recentemente pubblicato dal Transnational Institute [Istituto Transnazionale], un gruppo di ricerca sui diritti umani, in collaborazione con No More Deaths [Non Più Morti], un’organizzazione umanitaria che protegge i migranti lungo il confine meridionale degli Stati Uniti.

Il rapporto traccia un profilo delle 14 principali società che traggono profitto dalla militarizzazione delle frontiere statunitensi, inclusa Elbit.

Nel 2004, Elbit ha vinto un contratto con il governo degli Stati Uniti per la fornitura di droni Hermes da utilizzare lungo il confine.

L’organizzazione benefica britannica War on Want [Lotta contro la Povertà n.d.tr.] nel 2013 ha dichiarato che Israele “ha ‘testato sul campo’, nel corso degli attacchi a Gaza, quei droni che hanno causato la morte di molti palestinesi, compresi bambini”.

In particolare, afferma il nuovo rapporto, Elbit “vende un’esperienza maturata attraverso la costruzione dei muri in Cisgiordania e a Gaza”.

Da quando nel 2002 Israele ha iniziato a costruire il suo muro intorno a Gerusalemme e altrove, all’interno della Cisgiordania occupata, Elbit e le sue filiali hanno incassato contratti per l’installazione di tecnologie di sorveglianza elettronica “progettate per mantenere operativi i centri di comando e controllo [dell’esercito israeliano]”.

Il muro della Cisgiordania è illegale ai sensi del diritto internazionale e, sulla base di una sentenza del 2004 della Corte di giustizia internazionale, deve essere smantellato.

Nel 2013 Elbit ha installato sistemi simili nelle alture del Golan siriane occupate, grazie ad un contratto del valore di 55 milioni di euro.

Il rapporto afferma che due anni dopo Elbit ha iniziato a sviluppare una “tecnologia di rilevazione dei tunnel” da utilizzare attorno alla Striscia di Gaza assediata. Tale tecnologia sarebbe diventata parte di un muro sotterraneo profondo circa 40 metri che Israele ha iniziato a costruire nel 2017.

In occasione della gara per il contratto sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, Elbit ha presentato come caratteristica auto-promozionale l’impegno ultra-decennale nel “proteggere i confini più difficili del mondo” e il possesso di una “comprovata esperienza”.

Una manna

Insieme a Elbit, società del settore bellico tra cui Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, G4S, IBM e Northrop Grumman hanno incassato quello che il rapporto descrive come una “manna [proveniente dalla politica] di protezione delle frontiere”.

Tra il 2006 e il 2018, i contratti per la militarizzazione delle frontiere statunitensi con tali società hanno totalizzato almeno 80,5 miliardi di dollari.

Ma, secondo le stime del rapporto, questa somma è “certamente inferiore a quella reale” poiché le agenzie che emettono i contratti non sono state sempre trasparenti.

Secondo il rapporto, gli stanziamenti annuali per la militarizzazione delle frontiere statunitensi sono più che raddoppiati negli ultimi 15 anni e sono aumentati di oltre il 6.000% dal 1980.

Alcune società incaricate dalla CBP hanno commesso significative violazioni etiche.

Ma, afferma il rapporto, i ripetuti scandali che coinvolgono alcune delle più grandi società [impegnate nel campo] della sicurezza delle frontiere “hanno fatto poco per ridurre il flusso dei guadagni”.

G4S, la più grande compagnia al mondo nell’ambito della sicurezza e importante appaltatore statunitense, ha dovuto affrontare procedimenti legali per abuso e morte di detenuti negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Gli attivisti hanno esercitato con successo pressioni su istituzioni e governi perché interrompessero i contratti con G4S a causa delle violazioni dei diritti umani.

Questi abusi includono il ruolo nelle prigioni israeliane in cui i palestinesi vengono regolarmente torturati.

Lobbismo verso i parlamentari

Le aziende hanno fatto pressioni su esponenti politici statunitensi e hanno contribuito alle [loro] campagne elettorali nel tentativo di espandere i contratti con la CBP.

Elbit, ad esempio, ha finanziato le deputate repubblicane del Congresso Martha McSally dell’Arizona e Kay Granger del Texas.

McSally ha usato la retorica per demonizzare gli immigrati o i richiedenti asilo.

È una convinta sostenitrice delle brutali politiche sulle frontiere dell’amministrazione Trump.

E Granger è un membro di rango del Comitato per gli stanziamenti della Camera che assegna i finanziamenti per la militarizzazione delle frontiere.

Il rapporto afferma che è tempo di rivelare come le aziende che traggono profitto dalla crudeltà e dalla militarizzazione alle frontiere influenzino i parlamentari.

“La costante spinta verso [la costruzione] di ulteriori barriere di confine, verso maggiori tecnologie, più incarcerazioni, maggiore criminalizzazione, fa parte – sostiene – di un modello aziendale che aderisce alle dinamiche imprenditoriali legate alla dottrina della crescita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La corte israeliana approva l’uso di corpi palestinesi come moneta di scambio

Maureen Clare Murphy

19 settembre 2019 Electronic Intifada

Una famiglia palestinese del villaggio di al-Eizariya, dalle parti di Gerusalemme, non ha potuto seppellire il figlio quattordicenne, che è stato ucciso dalla polizia israeliana il mese scorso.

La famiglia di Nassim Abu Rumi ha presentato una istanza all’alta corte israeliana perché venga disposta la restituzione delle sue spoglie che, secondo quanto riferito, verranno trasferite venerdì. Israele restituirà anche i resti di Omar Younis, morto in un ospedale israeliano ad aprile dopo essere stato ucciso dalle forze di occupazione ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Israele detiene i resti di oltre una decina di palestinesi recentemente uccisi durante presunti ed effettivi attacchi contro le forze di occupazione e contro civili.

Questo mese, in seguito ad una petizione da parte di diverse famiglie dei cui congiunti Israele è ancora in possesso delle spoglie mortali, la corte suprema del Paese ha decretato la sua decisione politica.

Come ha riportato The Times of Israel, la corte ha stabilito che l’esercito israeliano ha “il diritto legale di trattenere i corpi dei terroristi uccisi per usarli come leva in futuri negoziati con i palestinesi”.

Nel dicembre 2017, la corte ha dichiarato che Israele non ha l’autorità legale di detenere i corpi “fino a quando non venga dato il consenso a determinate disposizioni funebri” da parte della famiglia della vittima palestinese.

Israele, hanno dichiarato i giudici all’epoca, “non può trarre vantaggio dai cadaveri ai fini di negoziati dal momento che non esiste una legge specifica e chiara che gli consenta di farlo”.

L’anno successivo il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una legge che consente alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi nella circostanza in cui presumibilmente stiano compiendo un attacco contro israeliani.

Secondo The Times of Israel la legge autorizza i comandanti di polizia a trattenere un corpo se viene stabilito che il funerale della persona uccisa “potrebbe essere utilizzato per compiere un attacco o per fornire una occasione per esaltare il terrorismo”.

“Non ne abbiamo bisogno”

Il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, che sovrintende alla polizia israeliana, ha dichiarato al momento dell’approvazione della legge che “il governo non vuole avvantaggiarsi di questi corpi. Per quanto ci riguarda, i cadaveri di questi maledetti terroristi marciranno. Non ne abbiamo bisogno.”

La sentenza della corte suprema israeliana di questo mese, tuttavia, mostra che lo Stato intende utilizzare i corpi come moneta di scambio per proteggere i soldati israeliani ancora trattenuti dai palestinesi.

Le organizzazioni per i diritti umani confutano l’affermazione dell’alta corte secondo cui il rifiuto di restituire i corpi dei palestinesi sia consentito dal diritto internazionale umanitario, che regola i conflitti armati.

Adalah, una organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, ha affermato che la sentenza è stata tra le “più eccessive” mai emesse dalla corte, “in quanto mina i principi più elementari dell’umanità universale”.

L’organizzazione per i diritti ha aggiunto che la sentenza del tribunale è la prima al mondo che consente alle autorità statali di detenere corpi in modo che possano essere utilizzati come moneta di scambio.

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “La pratica di trattenere i cadaveri equivale a una politica di punizione collettiva”, che è proibita dal diritto internazionale.

Trattenere i corpi, ha aggiunto Al-Haq, è anche “contrario al divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.

Le famiglie che hanno presentato la petizione alla corte hanno dichiarato che “prevedono di ricorrere ai tribunali internazionali nel tentativo di fare tutto il possibile per recuperare i corpi dei loro cari”.

Lasciato morire dissanguato

Un video mostra Nassim Abu Rumi mentre viene ucciso pochi istanti dopo che lui e un altro minore palestinese, il 15 agosto, si sono lanciati con in mano dei coltelli da cucina contro gli agenti di polizia israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Gli agenti hanno deciso di aprire il fuoco contro i ragazzi come prima istanza, senza usare mezzi meno letali per bloccarli.

L’altro ragazzo è stato gravemente ferito ed è stato accusato di tentato omicidio. Uno spettatore palestinese è stato ferito durante l’incidente e un agente è stato leggermente ferito dai giovani.

I video dell’episodio non mostrano alcun tentativo di prestare un soccorso immediato a nessuno dei ragazzi, una volta colpiti dalla polizia. Un video mostra un agente mentre riceve delle cure.

Una organizzazione per i diritti umani sta richiedendo un’indagine da parte del ministero della Sanità israeliano su un altro caso in cui un sospetto aggressore palestinese è stato lasciato morire dissanguato, anche se un medico della polizia era sul posto.

Yaqoub Abu al-Qiyan è stato ucciso dalla polizia durante quello che ritenevano fosse un tentativo di attentato con l’auto tramite speronamento, durante un raid contro Umm al-Hiran, un villaggio beduino nel sud di Israele non riconosciuto dallo Stato.

L’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca britannico Forensic Architecture indica che, contrariamente a quanto affermato dai leader israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, Abu al-Qiyan quando, nel gennaio 2017, la polizia ha aperto il fuoco sul suo veicolo, non stava tentando nessun attacco.

I risultati di Forensic Architecture indicano che Abu al-Qiyan, un cittadino israeliano-palestinese, stava guidando lentamente e il suo veicolo ha solo accelerato dopo essere stato colpito dalla polizia, il che suggerisce che egli abbia perso il controllo della sua auto.

Un’indagine interna della polizia, conclusa di recente, ha assolto il medico della polizia [dall’accusa] di negligenza.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che l’incapacità del medico della polizia di prestare le prime cure ad Abu al-Qiyan “non è una carenza specifica, ma un problema sistemico”.

I Physicians for Human Rights-Israel (I Medici per i diritti umani – Israele, n.d.tr.) hanno dichiarato che “Le procedure imprecise sulla presa in cura delle persone ferite in episodi interpretati come attacco terroristico consentono situazioni in cui le persone ferite, ritenute responsabili, non ricevano assistenza”.

“I medici non possono agire in qualità di giudici e di giurie”, ha aggiunto l’associazione. “I medici e l’altro personale sanitario devono trattare tutti i feriti secondo le regole del triage”.

Nella sua indagine su una serie di uccisioni illegali di palestinesi da parte delle forze israeliane, Amnesty International ha dichiarato che le inadempienze nella prestazione delle prime cure – “in particolare l’omissione intenzionale – violano il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, disumani e degradanti”.

L’organizzazione per i diritti umani ha aggiunto che “In quanto tale, la mancata prestazione di assistenza medica dovrebbe essere indagata come crimine”.

Mercoledì scorso, una donna palestinese è stata colpita dalle forze israeliane ad un posto di blocco in Cisgiordania e lasciata sanguinare a morte per strada.

Testimoni oculari hanno affermato che alla donna è stato negato il soccorso immediato. La Palestine Red Crescent Society ha affermato che le forze israeliane hanno impedito ai paramedici di raggiungerla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)