Le elezioni rivelano una profonda spaccatura nella destra israeliana.

Meron Rapoport

19 settembre 2019 + 972

Il potere politico del movimento dei coloni, una volta un’élite in ascesa, è ora in declino.

Mentre gli analisti politici si chiedono se siamo arrivati alla fine dell’era Netanyahu, si presta poca attenzione a un altro importante risultato di queste elezioni, cioè il declino del potere politico del movimento nazionalista religioso. Un tempo questi “signori della terra”, come si autodefiniscono, pensavano di essere sulla strada giusta per diventare la nuova élite politica e culturale di Israele. Ma i dati dimostrano che il loro influsso politico sta calando.

Il Likud è sempre stato al centro del blocco di destra. Negli ultimi decenni ha assorbito i partiti che rappresentano tre grandi gruppi demografici: gli ultraortodossi, gli immigrati dall’ex Unione Sovietica e il movimento nazionalista religioso o dei coloni. Netanyahu ha creato un blocco politico coerente che, ad ogni elezione, ha garantito una maggioranza praticamente automatica alla destra.

Netanyahu ha fatto del consolidamento del blocco dell’ala destra lo scopo della sua vita politica, basandosi sulla convinzione che fosse il modo migliore per evitare uno Stato palestinese. Quindi ha rafforzato i legami del Likud con il campo nazionalista religioso, poiché la loro lealtà alla Terra di Israele era indiscussa, a differenza di quella della vecchia base del Likud, più interessata al libertarismo che all’espansionismo territoriale. Questo è uno dei motivi per cui Netanyahu si è circondato di gente che indossa lo yarmulke [tipico copricapo degli ebrei osservanti, ndtr.] all’uncinetto, preferito dai coloni nazionalisti religiosi.

Le elezioni di aprile hanno creato una spaccatura nel blocco di destra, che ha visto i partiti che rappresentano gli ultraortodossi e gli elettori dall’ex Unione Sovietica distanziarsi dagli ideologi nazionalisti religiosi, di cui non condividono la visione del mondo. Infatti non sono mai stati particolarmente interessati né all’idea di controllare la Grande Terra Biblica di Israele, né al progetto delle colonie.

Lieberman non ha dovuto faticare molto per convincere i falchi della sua base secolare proveniente dall’ex Unione Sovietica che gli ultraortodossi erano il loro più grande nemico. Gli ultraortodossi sono quelli che mettono in discussione la loro identità ebraica e che cercano di imporre il loro stile di vita religioso, con il rifiuto di permettere i trasporti pubblici di sabato e i tentativi di controllare la vendita di cibi non kosher.  Gli ultraortodossi hanno reagito.

Alle elezioni del 17 settembre, entrambi i gruppi sono cresciuti, Lieberman ha fatto crescere il suo partito da cinque a otto seggi e gli ultra-ortodossi sono saliti da 16 a 17. Ma ci sono poche possibilità che i partiti di destra si uniscano di nuovo per ricostruire un’alleanza forte come in passato.

Ancora più interessante è la sorte dei partiti nazionalisti religiosi, che hanno legato il proprio destino al Likud. Ad aprile avevano vinto 44 seggi (35 per il Likud, 4 per Kahlon [leader del partito di centro Kulanu, ndtr.] e 5 per l’Unione dei partiti di destra), più 4 dal partito New Right [Nuova Destra, partito dei coloni, ndtr] di Bennett e Shaked e altri 3 dal partito Jewish Leadership [Dirigenza Ebraica, partito sionista libertario, ndtr.] di Moshe Feiglin. Complessivamente, 51 seggi sono andati al blocco di destra.

Queste elezioni hanno visto affievolirsi il potere del movimento religioso nazionalista. Il Likud ha conquistato solo 31 seggi, un calo rispetto ai 35 di aprile. Netanyahu ha ottenuto solo 38 seggi per il suo blocco, nonostante quelli vinti con i voti dei sostenitori di Kahlon, Feiglin, Smotrich, Rafi Peretz, Shaked e Bennett. La lista kahanista di Otzma Yehudit (Jewish Power) non ha superato la soglia, ma anche se lo avesse fatto, avrebbe portato solo quattro seggi in più, arrivando a 41, mentre il minimo necessario per un governo di coalizione è di 61 seggi.

L’equilibrio di potere nella destra politica è ora scosso, con implicazioni cruciali. Se i partiti ultra-ortodossi vedranno che collaborare con il blocco dell’ala destra non garantisce loro un incarico nel governo, rivaluteranno la loro alleanza. Se gli elettori dell’ex Unione Sovietica vedranno che scontrarsi con gli ultraortodossi ne fa l’ago della bilancia nell’arena politica israeliana, non si affretteranno a rientrare nel blocco di Netanyahu.

Il movimento nazionalista religioso pagherà il prezzo politico più alto per una tale ridistribuzione dell’equilibrio del potere. Nonostante la loro percezione di sé come signori della terra, non sono mai riusciti ad entrare in politica come partito indipendente. Invece di diventare la “nuova élite”, il movimento dei coloni starebbe per diventare un peso politico, proprio come il movimento dei kibbutz, ormai quasi dimenticato, che divenne praticamente irrilevante nel 1977 quando Menachem Begin guidò il Likud alla vittoria. Non siamo ancora arrivati a quel punto, ma ci siamo più vicini di quanto chiunque avesse potuto pensare sei mesi fa.

(traduzione  di Mirella Alessio)




Gantz criminale di guerra e colonialista

Il capo dell’opposizione afferma che l’occupazione è un bene per i palestinesi

Ali Abunimah

10 settembre 2019 – Electronic Intifada

 

Benny Gantz, capo dell’esercito israeliano durante il massacro a Gaza nel 2014 da parte di Israele, sta prendendo in prestito argomentazioni dell’apartheid sudafricano per promuovere la sua campagna elettorale.

Gantz guida la coalizione di opposizione presuntamene di centro-sinistra che spera di spodestare Benjamin Netanyahu nelle elezioni israeliane di questo mese.

Lunedì, durante un attacco elettorale contro il primo ministro israeliano, Gantz ha dichiarato che, a differenza di Netanyahu, avrebbe consentito alle deputate USA Ilhan Omar e Rashida Tlaib di visitare Israele e i territori occupati.

Gantz ha sostenuto che, se l’avessero potuto fare, avrebbero visto “con i propri occhi” che “il miglior luogo in cui essere arabo in Medio Oriente è Israele… e il secondo miglior posto in cui essere arabo in Medio Oriente è la Cisgiordania.”

L’affermazione di Gantz secondo cui l’occupazione militare e la colonizzazione israeliane sono una benedizione per i palestinesi costituisce una diretta imitazione dei governanti dell’apartheid sudafricano, che insistevano sul fatto che il loro brutale regime suprematista bianco era un bene per la popolazione di colore.

Lo scrittore Ben White ha segnalato un’intervista del “New York Times” nel 1977 con John Vorster, che all’epoca era il primo ministro del regime razzista del Sud Africa.

“Il livello di vita dei neri in Sud Africa è da due a cinque volte più alto di quello di qualunque altro Paese africano,” sostenne Vorster.

Questa affermazione era un pilastro della propaganda del Sud Africa quando, durante gli anni ’80, il movimento globale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni si rafforzava.

Non è sorprendente, in quanto i colonialisti sostengono sempre che il loro dominio violento è un regalo per il popolo che sfruttano ed opprimono.

Nelle attuali iniziative di Israele gli echi della propaganda del Sud Africa sono forti.

E come i razzisti sudafricani che cercavano di lottare contro l’isolamento del loro regime, Gantz ha dichiarato che “chiunque collabori con il BDS sta agendo contro lo Stato di Israele.”

L’ex capo dell’esercito ha anche sostenuto che il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi – è una “forma di antisemitismo”.

Nei fatti è un movimento antirazzista radicato nelle leggi internazionali e nei diritti universali.

Le affermazioni di Gantz mostrano che, nonostante i tentativi di presentarlo come un’alternativa ripulendone l’immagine, egli non rappresenta niente di diverso rispetto a Netanyahu.

 

Gantz deve affrontare un processo per crimini di guerra

Le elezioni israeliane da rifare cadono il 17 settembre.

Quello stesso giorno in Olanda ci sarà un’udienza in tribunale del processo di Ismail Ziada contro Benny Gantz.

Zaida, un cittadino palestino-olandese, ha citato in giudizio Gantz e un altro comandante israeliano per l’attacco del 20 luglio 2014 contro la casa della sua famiglia nel campo di rifugiati di al-Bureij a Gaza.

Il bombardamento israeliano uccise sette persone – la madre settantenne di Ziada, Muftia Ziada, tre fratelli, una cognata, un nipote di 12 anni e un amico che era andato a trovarli.

L’assalto contro Gaza del 2014 diretto da Gantz uccise 2.200 palestinesi, compresi 550 minori.

Ben lungi dal vergognarsi dei suoi crimini, nelle elezioni israeliane di aprile – che non sono riuscite ad esprimere un chiaro vincitore, provocando quindi queste votazioni di settembre – Gantz ha anzi messo annunci pubblicitari in cui si vantava di quanti palestinesi aveva massacrato nel 2014.

 

Il “dialogo” dell’UE con un criminale di guerra

I sanguinari precedenti e la difesa del colonialismo da parte di Gantz forniscono anche un metro di giudizio con il quale misurare il presunto sostegno dell’Unione Europea ai diritti umani.

Invece di stare dalla parte delle vittime di Gantz e della loro campagna per la giustizia, l’UE sta promuovendo il responsabile.

Proprio lo scorso mese Emanuele Giaufret, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, e i suoi colleghi europei si sono incontrati con Gantz per un’amichevole chiacchierata.

“Abbiamo intenzione di continuare il dialogo,” ha twittato Giaufret.

Ciò dimostra che non c’è un livello di razzismo e di crimini che un leader israeliano possa commettere contro i palestinesi che lo escluda dal caldo abbraccio dell’UE.

Speriamo che i giudici olandesi abbiano il senso della giustizia, della decenza e del coraggio di cui molti diplomatici e politici europei sono privi in modo così spregevole.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 20 agosto- 2 settembre 2019

Il 31 agosto, un palestinese è morto per ferita d’arma da fuoco: era stato colpito dalle forze israeliane nel corso di una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR) tenutasi il giorno precedente [nella Striscia di Gaza], vicino alla recinzione che separa Israele dalla Striscia. Durante il periodo in esame, nel corso di proteste connesse alla GMR, sono stati feriti dalle forze israeliane 483 palestinesi; 236 (tra cui 96 minori) sono stati ricoverati in ospedale; 99 erano stati colpiti con armi da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono state lanciate bottiglie incendiarie e ordigni esplosivi. Un soldato israeliano è rimasto ferito.

 

Il 23 agosto, vicino all’insediamento israeliano di Dolev (Ramallah), una ragazza israeliana di 17 anni è stata uccisa e suo padre e suo fratello sono stati gravemente feriti da un ordigno artigianale esploso nei pressi di un fontanile. In conseguenza di tale avvenimento le forze israeliane hanno effettuato vaste operazioni di ricerca nei villaggi vicini, in particolare a Deir Ibzi’, hanno istituito checkpoint volanti nell’area ed hanno arrestato numerosi palestinesi.

 

Gruppi armati palestinesi hanno lanciato dieci missili e proiettili di mortaio dalla Striscia di Gaza verso Israele. Fonti israeliane hanno riferito che nella città di Sderot, nel sud di Israele, una casa in costruzione è stata danneggiata e due persone sono rimaste ferite. L’aeronautica israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, contro aree aperte e siti militari, senza provocare vittime. Inoltre, sempre in risposta al lancio di razzi, Israele ha dimezzato la quantità di carburante che Gaza può importare per il funzionamento della sua Centrale Elettrica [nota: Israele ha il controllo sulle merci in entrata/uscita da Gaza]; la normale fornitura di carburante è stata ripristinata il 1° settembre.

 

In almeno 23 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [alle aree della Striscia a loro interdette], le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale ed al largo della costa; è stato segnalato un ferito. Sempre vicino alla recinzione, le forze israeliane hanno fatto due incursioni all’interno della Striscia e compiuto operazioni di spianatura del terreno; hanno anche arrestato quattro palestinesi che, secondo quanto riferito, tentavano di forzare la recinzione.

 

Il 27 agosto, nella città di Gaza, a seguito di esplosioni verificatesi presso due posti di blocco della polizia, tre poliziotti palestinesi sono morti ed altre nove persone, tra cui due minori ed una donna, sono rimasti feriti. Secondo i media, le esplosioni sarebbero da attribuire ad attentatori suicidi; tuttavia, nessuna organizzazione ne ha rivendicato la responsabilità e sull’accaduto è in corso un’indagine della polizia.

 

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel corso di numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito 146 palestinesi. Quasi il 90% dei feriti sono stati trattati per inalazione di gas lacrimogeni; i rimanenti erano stati colpiti da proiettili di gomma o erano stati aggrediti fisicamente. La maggior parte dei feriti (120) sono stati registrati nell’area H2 della città di Hebron, controllata da Israele. In tale area, in due occasioni, in risposta al lancio di pietre da parte di palestinesi, le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni contro case palestinesi. Altri 11 [dei 146] palestinesi sono rimasti feriti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Al ‘Eizariya (governatorato di Gerusalemme), nel quartiere di Al’ Isawiya (Gerusalemme Est), nel Campo Profughi di Tulkarm e nel villaggio di Anabta (gli ultimi due si trovano in Tulkarm). I restanti ferimenti [15] si sono avuti nel corso di due proteste; una a Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti, e l’altra ad Abu Dis (Gerusalemme) a sostegno dei prigionieri [palestinesi nelle carceri israeliane].

 

Nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, le forze israeliane hanno svolto 166 operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte delle quali si sono svolte a Ramallah (46), Gerusalemme (33) ed Hebron (31). Durante tali operazioni sono stati arrestati circa 150 palestinesi.

 

Nel contesto di aggressioni compiute da coloni israeliani, o individui ritenuti tali, un palestinese è stato ferito e sono stati causati rilevanti danni a proprietà palestinesi. Il 30 agosto, un agricoltore palestinese, mentre stava lavorando la sua terra, è stato aggredito fisicamente e ferito da una guardia di sicurezza del vicino insediamento colonico di El’azar (Betlemme). In un altro caso, coloni dell’insediamento di Efrata (Betlemme) hanno abbattuto 70 viti appartenenti al villaggio palestinese di Khallet Sakariya. In seguito all’uccisione di una ragazza israeliana (vedi sopra), decine di coloni si sono radunati all’incrocio di Huwwara (Nablus) e hanno lanciato pietre contro auto palestinesi, danneggiandone almeno 20. In altri quattro episodi, 14 auto sono state vandalizzate nei villaggi di Rafat e Haris (Salfit ), Al Lubban ash Sharqiya e Sinjil (Ramallah). Sempre ad Haris, coloni sono stati ripresi da telecamere mentre spruzzavano scritte sui muri della sede del Consiglio del villaggio, della clinica sanitaria e di una moschea. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni hanno rioccupato una casa palestinese, dalla quale, per ordine del tribunale [israeliano], erano stati sfollati lo scorso anno.

 

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi rilasciati da Israele, sono state demolite otto strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 19 persone sono state sfollate, metà delle quali a causa della demolizione di un edificio residenziale del quartiere Beit Hanina di Gerusalemme Est. In Tubas, quasi 700 palestinesi sono stati colpiti dalla demolizione di un bacino idrico che riforniva cinque Comunità beduine palestinesi, una moschea ed una residenza in costruzione vicino alla città di Hebron.

 

In due occasioni, secondo fonti israeliane, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiano su strade della Cisgiordania vicino a Gerusalemme, causando danni a un’auto e un autobus.

 

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

ð  sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:  https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2:  Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

 

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 

 




Gaza sul punto di esplodere

“Sul punto di esplodere”: cosa c’è dietro gli attacchi alla frontiera di Gaza?

I recenti attacchi isolati di combattenti palestinesi indicano che la posizione di Hamas come partito al potere a Gaza è minacciata?

 

Di Motasem A Dalloul

GAZA, giovedì 29 agosto 2019 – Middle East Eye

 

Questo mese è stato letale nella Striscia di Gaza assediata. Dopo il primo agosto alcuni palestinesi hanno condotto una serie di attacchi contro le forze israeliane schierate lungo la barriera di separazione tra l’enclave palestinese e Israele.

Sono stati uccisi nove palestinesi apparentemente coinvolti in questi attacchi, mentre due soldati e un comandante israeliani sono rimasti feriti.

Giovedì scorso, come rappresaglia dopo lanci di razzi dal territorio palestinese durante la notte, aerei israeliani hanno colpito varie basi di Hamas nella Striscia di Gaza. Nessuno dei razzi o attacchi ha fatto vittime.

Questo picco di operazioni condotte da palestinesi che, anche se membri di fazioni della resistenza armata, avrebbero agito in modo indipendente, ha suscitato una serie di congetture, in particolare nei media israeliani, dove alcuni commentatori si sono chiesti se Hamas abbia perso il controllo della situazione a Gaza.

Anche se il portavoce di Hamas Hazem Qassim ha dichiarato a Middle East Eye che la situazione a Gaza è “sotto controllo”, egli ha avvertito che il piccolo territorio sotto assedio è “come un vulcano sul punto di esplodere di fronte all’occupazione israeliana.”

 

Congetture mediatiche

Almeno nove palestinesi uccisi nel corso di tre attacchi perpetrati questo mese erano affiliati a gruppi della resistenza palestinese, soprattutto al braccio armato di Hamas, le brigate Al-Qassam, ma hanno agito a titolo personale.

É sulla bocca di tutti La possibilità che Hamas perda il controllo di Gaza – dove è il principale attore politico e militare tredici anni dopo la sua vittoria alle elezioni legislative nel contesto della lotta per il potere con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) basata in Cisgiordania e di fronte a un devastante assedio diretto da Israele.

Per alcuni osservatori, vari scenari potrebbero vedere Hamas perdere la presa su Gaza: un’offensiva militare israeliana che porti a una nuova occupazione dell’enclave costiera con la presenza al suo interno di soldati israeliani; la presa del potere a Gaza da parte dell’ANP grazie a un intervento israeliano o a un progresso senza precedenti dei negoziati sull’unità palestinese,  in stallo da molto tempo; infine, una pressione simultanea della popolazione e delle fazioni contro Hamas, che potrebbe comportare un imprevedibile vuoto di potere a Gaza.

Per gli organi di stampa israeliani il fatto che a quanto pare le recenti operazioni siano avvenute all’insaputa di Hamas e senza la sua approvazione avrebbe messo il gruppo della resistenza di fronte a un “dilemma”, intrappolato tra le responsabilità in quanto partito al potere – che è in particolare l’interlocutore politico in ogni tentativo di tregua – e la sua missione di resistenza contro l’occupazione.

Il giornalista di “Maariv” [giornale israeliano indipendente, ndtr.] Jacky Hugi, per esempio, ha dichiarato alla radio dell’esercito che Hamas si è messo in una situazione delicata a causa di “promesse irrealistiche” riguardanti l’alleggerimento dell’assedio israeliano contro Gaza.

A maggio Israele e Hamas hanno concluso un accordo di tregua che stabiliva che Israele avrebbe ampliato la zona di pesca definita per Gaza a 15 miglia marine; avrebbe attivato i programmi “denaro contro lavoro” dell’ONU; avrebbe permesso ai farmaci e ad altri ausili civili di entrare nell’enclave assediata; avrebbe avviato discussioni indirette sulle questioni relative all’elettricità, al passaggio delle frontiere, alle cure mediche e ai finanziamenti del Qatar a Gaza.

In cambio Hamas ha accettato di controllare la “Grande Marcia del Ritorno” – un movimento di protesta popolare che dal marzo 2018 si presenta sotto forma di manifestazioni lungo la barriera di separazione tra Gaza e Israele per chiedere la fine dell’assedio e la messa in pratica del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro della tregua, Hamas ha accettato di sorvegliare le manifestazioni per garantire che i manifestanti restino all’interno della zona cuscinetto di 300 m. nei pressi della barriera, cessino di lanciare aquiloni incendiari e interrompano ogni manifestazione sul mare.

In Israele membri dell’esercito e dell’opposizione accusano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di aver perso la forza di dissuasione contro Gaza e chiedono una grande offensiva nella fascia costiera per interrompere gli intermittenti lanci di razzi e i tentativi di infiltrazione. Ma Netanyahu e il suo partito al potere, il Likud, sembrano in apparenza più esitanti a promuovere una guerra a poche settimane dalle elezioni legislative.

Jacky Hugi sostiene che i militanti del gruppo della resistenza palestinese non hanno constatato nessun miglioramento sul terreno dopo l’accordo di tregua e si starebbero quindi rivoltando contro Hamas.

Di fatto tra molti palestinesi di Gaza cresce il malcontento per la mancata applicazione dell’accordo da parte di Israele. La folta presenza durante i recenti funerali di tre combattenti palestinesi uccisi sembra confermare che Hamas ha perso in certa misura il sostegno popolare nel territorio assediato.

 

Guerra di propaganda

Invece per il portavoce di Hamas Hazem Qassim il discorso ripetuto dai media israeliani nel corso dello scorso mese relativo alla perdita di popolarità di Hamas a Gaza è grossolanamente esagerato.

Secondo lui, i media israeliani “sottolineano problemi che non sono reali o non hanno niente a che vedere con i problemi sul terreno per coprire i crimini israeliani commessi contro i luoghi santi palestinesi.”

Per l’esperto giornalista palestinese Mustafa al-Sawwaf le affermazioni secondo cui Hamas avrebbe perso il controllo della Striscia di Gaza sono inverosimili, dato il “forte coordinamento” delle diverse fazioni palestinesi.

“Il consenso e l’unità delle fazioni della resistenza palestinese attraverso la centrale operativa comune impedisce ogni scontro imprevisto con l’occupante israeliano,” ha dichiarato a MEE.

Di conseguenza secondo Sawwaf i gruppi della resistenza potrebbero aver “dato il proprio consenso” ai recenti attacchi realizzati da combattenti isolati per “inviare un vero messaggio all’occupazione israeliana sul fatto che il ritardo riguardante la messa in pratica dei termini della tregua potrebbe avere conseguenze pericolose”, compresa una guerra, suggerisce.

Mentre Qassim sottolinea che i recenti attacchi sono stati perpetrati da individui con mezzi propri, riconosce che la maggior parte dei combattenti uccisi durante questi attacchi facevano parte del braccio militare del suo movimento.

Anche Hussam al-Dajani, analista politico palestinese e professore associato all’università al-Ummah a Gaza, rifiuta l’idea secondo la quale Hamas avrebbe perso il controllo dell’enclave. Dice però a MEE che da molto tempo tra le ali militari delle fazioni palestinesi regna lo scontento riguardo agli “sforzi profusi a Gaza e in Cisgiordania dai settori politici.”

La sensazione che Hamas abbia fallito nel far terminare l’assedio israeliano e nel proteggere la popolazione dalle misure punitive adottate dall’ANP ha sicuramente deluso molti gazawi, tra cui alcuni si sono detti irritati dalla sua cattiva amministrazione.

“Siamo furiosi contro Israele a causa dell’assedio imposto a Gaza, ma anche Hamas e l’ANP sono da biasimare per questa divisione interna che permette ad Israele di rafforzare la sua aggressione contro di noi e al mondo di continuare ad ignorarci,” dichiara a MEE Said, un medico di 33 anni.

“Noi pensiamo che Hamas, che abbiamo eletto, salvaguardi i principi palestinesi, ma, al contempo, dovrebbe essere pragmatica e trattare con Israele (…) almeno per migliorare le condizioni di vita dei gazawi,” aggiunge.

“Se non riesce a farlo, allora dovrebbe farsi da parte.”

Dajani insiste sul fatto che la responsabilità di Israele di fronte alla situazione economica, sociale e umanitaria sul terreno a Gaza –dodici anni di blocco e tre guerre dalla sua messa in pratica – resta la causa principale della collera tra i civili palestinesi e le fazioni armate.

Le violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo da parte di Israele nei territori palestinesi occupati, aggiunge Dajani, hanno trasformato Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est in una “pentola che ribolle” e minaccia di traboccare in qualunque momento.

Anche Khalid, insegnante gazawi di 37 anni, è dello stesso parere.

“Siamo furiosi contro l’occupazione israeliana che impone un assedio a Gaza da più di 10 anni,” dichiara a MEE. “Hamas non è da condannare per questa situazione perché ha le mani legate dall’Autorità Nazionale Palestinese, dagli Stati arabi e dalla comunità internazionale.”

 

“Mediatori deboli”

In un contesto di persistenti tensioni e di minacce di conflitto aperto, Hazem Qassim ammette che l’Egitto e l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nikolai Mladenov hanno giocato un ruolo importante nel contribuire alla distensione della situazione a Gaza, soprattutto con l’ultimo accordo di tregua.

Sottolineando l’importanza di avere dei mediatori presso tutte le fazioni palestinesi, il portavoce di Hamas richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto alle altre fazioni palestinesi, il movimento “ha le proprie linee guida riguardo alla gestione della situazione e alla direzione della resistenza palestinese”.

Da parte sua Mustafa al-Sawwaf insiste sul fatto che tuttavia il ruolo importante della mediazione è “squilibrato” – sostenendo che, mentre sui palestinesi vengono esercitate pressioni, i mediatori “quando vanno a Tel Aviv stanno zitti.”

Anche Hussam al-Dajani imputa il peggioramento della situazione a Gaza e nelle altre regioni dei territori palestinesi all’inazione della comunità internazionale. Teme che Hamas perda realmente il controllo di Gaza a causa delle “continue violazioni israeliane” che provocano solo un “timido biasimo a livello internazionale”.

Egli esorta Israele a togliere l’assedio a Gaza e chiede alla comunità internazionale di giocare un “ruolo più positivo” per mantenere la calma – per esempio, adottando una posizione più ferma contro le violazioni israeliane a Gaza.

“Ciò migliorerebbe la posizione di Hamas riguardo alla sua stessa popolazione e le consentirebbe di avere più potere per mantenere la Striscia di Gaza sotto controllo,” ritiene l’analista.

 

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)

 




Israele non è un Paese democratico

Perché Israele non può essere definito uno Stato democratico

La ‘democrazia’ in Israele è stata instaurata per gli ebrei dopo che i sionisti hanno espulso il 90% dei palestinesi

 

Joseph Massad

23 agosto 2019 – Middle East Eye

 

 

Le elezioni israeliane della scorsa primavera sono state viste dalla stampa occidentale e  da alcuni politici occidentali come una conferma che Israele sta diventando meno democratico e più razzista e sciovinista.

Ci viene detto che questo sta compromettendo l’immagine di Israele come “Stato ebreo e democratico”. Il New York Times ha scritto: “Per la sinistra la democrazia israeliana è sulla difensiva. Per la destra etno-nazionalista, che l’anno scorso è riuscita a sancire con la legge fondamentale l’autodefinizione di Israele come lo Stato-Nazione degli ebrei, ha bisogno di un adeguamento.”

Il comune cliché celebrativo secondo cui Israele è stato in grado di bilanciare i suoi due importanti principi ideali e fondamentali – cioè essere “uno Stato ebreo e democratico” –  si è di recente modificato in quanto alcuni stanno lamentando che questo presunto equilibrio sia stato compromesso dalle “recenti” tendenze della destra.

Impegno nella pulizia etnica

Il fatto rilevante che questo quadro ignora deliberatamente è che la “democrazia” in Israele è stata instaurata per gli ebrei israeliani dopo che i sionisti hanno espulso il 90% della popolazione palestinese quando Israele è stato fondato nel 1948, diventando da un giorno all’altro maggioranza nel Paese etnicamente ‘ripulito’.

Hanno scelto un governo liberale democratico per la maggioranza ebrea di coloni, instaurando un sistema di apartheid legale per i palestinesi che non hanno potuto espellere, anche attraverso decine di leggi razziste.

Questo impegno ad attuare una pulizia etnica e un governo ebraico suprematista è stato un cardine  dell’ideologia del movimento sionista fin dal  suo esordio.

Theodor Herzl, il padre del sionismo, ha tracciato le linee su come comportarsi con i nativi palestinesi. Nel suo pamphlet fondativo  del 1896 ‘The State of the jews” [Lo Stato degli ebrei]  mise in guardia contro ogni impegno democratico e ammoniva che “un’infiltrazione (di ebrei in Palestina) è destinata a finire in un disastro. Proseguirà fino al momento inevitabile in cui la popolazione nativa si sentirà minacciata e costringerà il governo esistente ad arrestare un ulteriore afflusso di ebrei. Di conseguenza l’immigrazione è inutile se non si basa su una sicura supremazia.”

I coloni ebrei, ha scritto Herzl nel suo diario, dovrebbero “cercare di sospingere la poverissima popolazione [araba, ndtr.] al di là del confine, trovandole impiego nei Paesi di transito, negando loro qualunque impiego nel nostro Paese….

L’espulsione dei poveri deve essere condotta in modo discreto e prudente. Bisogna lasciar credere ai proprietari di immobili che stanno raggirandoci, vendendoci i beni a prezzo maggiore del loro valore. Ma noi non venderemo loro niente in cambio.”

Le colonie ebree si sono moltiplicate di pari passo con l’espulsione dei palestinesi. Nel 1920 l’agronomo e giornalista polacco Chaim Kalvarisky,  direttore della ‘Jewish Colonization Association’, affermava che, essendo stato uno di coloro che hanno spodestato i palestinesi fin dagli anni ’90 dell’800, “la questione degli arabi mi è apparsa per la prima volta in tutta la sua gravità subito dopo il primo acquisto di terra che ho fatto là. Ho dovuto espellere gli abitanti arabi dalla loro terra allo scopo di insediarvi i nostri fratelli.”

Kalvarisky si rammaricava che il “doloroso canto funebre” di coloro che stava cacciando “non ha smesso di risuonare alle mie orecchie per lungo tempo da allora.”

Opposizione categorica

La paura della democrazia universale da parte dei sionisti ed il loro impegno verso la pulizia etnica erano così forti che dopo la prima guerra mondiale, quando gli inglesi – preoccupati di impegnarsi su troppi fronti–  volevano chiedere agli USA di assumersi parte della responsabilità per la Palestina, loro si opposero categoricamente.

L’Organizzazione Mondiale Sionista (World Zionist Organization, WZO) contestò con veemenza il coinvolgimento statunitense: “La democrazia in America troppo frequentemente significa governo della maggioranza senza riguardo alla diversità di tipi o fasi di civilizzazione o alle differenze di qualità…La maggioranza numerica in Palestina oggi è araba, non ebrea. Qualitativamente, è un semplice fatto che gli ebrei oggi sono predominanti in Palestina, e date le opportune condizioni saranno quantitativamente predominanti anche nella prossima o nelle prossime due generazioni”, ha affermato la WZO.

“Ma se la mera concezione aritmetica di democrazia dovesse essere applicata adesso o tra breve tempo nelle condizioni palestinesi, la maggioranza che comanderebbe sarebbe la maggioranza araba, e il compito di creare e sviluppare una grande Palestina ebrea sarebbe infinitamente più difficile.”

Si noti che la WZO ignorava il fatto che gli indigeni americani e gli afroamericani, tra gli altri, non erano inclusi nella versione USA di “democrazia”.

Nello stesso anno Julius Kahn, un membro ebreo del Congresso USA, inviò una dichiarazione appoggiata da circa 300 personalità ebree – sia rabbini che laici –  all’allora presidente Woodrow Wilson, la cui amministrazione sosteneva i sionisti.

La dichiarazione denunciava che i sionisti cercavano di segregare gli ebrei e di invertire la storica tendenza verso l’emancipazione, e si opponeva alla creazione di uno specifico Stato ebraico in Palestina in quanto contrario “ai principi della democrazia.”

 ‘Trasferimento forzato’

Il radicato timore di Herzl per la democrazia si trasmise ai suoi seguaci sionisti. A destra, il fondatore del sionismo revisionista, Vladimir Jabotinsky, nel 1923 polemizzò contro la “sinistra” laburista sionista, che voleva espellere la popolazione palestinese con l’inganno, spiegando che non c’era altra strada se non la formula violenta secondo cui la colonizzazione ebrea e l’espulsione dei palestinesi erano un solo e unico processo.

“Qualunque popolo nativo….non accetterà volontariamente non solo un nuovo padrone, ma neanche un nuovo partner. Ed è così per gli arabi”, ha sottolineato Jabotinsky. “Coloro tra di noi che sono inclini al compromesso cercano di convincerci che gli arabi siano una specie di folli che possono essere ingannati… (e) che abbandoneranno il loro diritto di nascita in Palestina per ottenere vantaggi culturali ed economici. Io rigetto totalmente questa analisi degli arabi palestinesi.”

Negli anni ’20 e ’30 del  ‘900 i sionisti idearono piani strategici per la pulizia etnica (che chiamavano “trasferimento”) dei palestinesi. Concordando con Jabotinsky, David Ben-Gurion, il leader  aburista sionista dei coloni, dichiarò nel giugno 1938: “Sostengo il trasferimento forzato. Non vi vedo niente di immorale.”

La sua dichiarazione faceva seguito alla politica adottata dall’Agenzia Ebraica, che creò il suo primo “Comitato per il trasferimento della popolazione” nel novembre 1937 per pianificare l’espulsione forzata dei palestinesi. Due altri comitati furono creati nel 1941 e nel 1948.

Nemici dei palestinesi

Chaim Weizmann, capo della WZO, nel 1941 concepì dei piani per espellere un milione di palestinesi in Iraq e sostituirli con cinque milioni di polacchi ed altri coloni ebrei europei. Parlò dei suoi piani all’ambasciatore sovietico a Londra, Ivan Maisky, sperando di ottenere l’appoggio sovietico.

Quando Maisky si mostrò sorpreso, Weizmann replicò con un argomento razzista, non diverso da quello usato dai fascisti nei confronti degli ebrei europei nello stesso periodo: “l’indolenza e il primitivismo dei palestinesi trasforma un fiorente giardino in un deserto. Datemi la terra occupata da un milione di arabi e vi insedierò facilmente un numero di ebrei cinque volte maggiore.”

La cosiddetta formula di uno “Stato ebreo e democratico”, che tanti tra i difensori di Israele temono sia oggi in pericolo, si è sempre basata su un calcolo di supremazia ebrea e pulizia etnica – non diversamente dalle democrazie liberali suprematiste bianche instaurate dopo la pulizia etnica in USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Ma, mentre le altre colonie di insediamento sono state capaci, dopo secoli di pulizia etnica, di istituire la supremazia demografica bianca – anche se le attuali politiche contrarie all’immigrazione non bianca negli USA dimostrano quanto delicato sia diventato questo equilibrio – la popolazione ebrea coloniale di Israele è tornata ad essere una minoranza di fronte ad una maggioranza di nativi palestinesi.

Quella maggioranza continua a resistere alla pulizia etnica e al governo suprematista ebraico, che i sostenitori di Israele ed i nemici dei palestinesi vantano come “uno Stato ebreo e democratico.”

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

 

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desiderosi], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

 

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele attacca forze filo-iraniane

Attacchi contro forze sostenute dall’Iran: quello che c’è da sapere

Una serie di attacchi aerei contro milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano hanno accentuato le tensioni in Medio Oriente

 

26 agosto 2019 – Al Jazeera

 

 

Da sabato scorso una serie di attacchi ha preso di mira milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano, alimentando timori di un’escalation regionale.

Le milizie, che fungono da alleati dell’Iran, hanno accusato degli attacchi Israele, che ha intensificato i tentativi di contenere l’espansione dell’influenza iraniana in Medio Oriente.

Lunedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’Iran sta pianificando attacchi contro Israele ed ha sollecitato la comunità internazionale ad “agire immediatamente in modo che l’Iran interrompa la propria aggressione.”

Ecco quello che si deve sapere:

 

Siria

Quando: sabato notte

L’esercito israeliano afferma di aver attaccato obiettivi nella zona di Aqrabah, nei pressi della capitale Damasco, in quello che ha affermato essere stato un tentativo riuscito di sventare un imminente attacco iraniano con droni contro Israele.

L’esercito israeliano ha detto che la propria aviazione ha colpito “forze operative della milizia iraniana Quds e sciite”, che stavano preparando piani di attacco in fase avanzata per prendere di mira luoghi in Israele dalla Siria.

La forza d’elite Quds, guidata dal maggiore generale Qassem Soleimani, è il ramo dei Corpi delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran (IRGC) all’estero.

Un importante comandante delle guardie rivoluzionarie ha negato che siano stati colpiti obiettivi iraniani e ha detto che i “centri dei suoi consiglieri militari non sono stati danneggiati.”

 

Libano

Quando: domenica, lunedì

A Beirut sono stati avvistati due droni che volavano sul quartiere periferico di Dahyeh, dominato da Hezbollah [gruppo armato libanese sciita, ndtr.].

Domenica Hezbollah, appoggiato dall’Iran, ha affermato che il primo drone israeliano si è schiantato su un edificio che ospita l’ufficio stampa di Hezbollah, mentre un secondo drone è esploso in aria, spingendo il leader del movimento Hassan Nasrallah a descrivere l’incidente come una “missione suicida”.

Nasrallah ha anche detto che il suo movimento abbatterà qualunque drone israeliano sui cieli libanesi, e che “il tempo in cui l’aviazione israeliana arrivava e bombardava il Libano è finito.”

Il primo ministro libanese Saad Hariri ha detto che i due droni rappresentano un palese attacco contro la sovranità del Paese.

“La nuova aggressione…costituisce una minaccia alla stabilità regionale e un tentativo di spingere la situazione verso un’ulteriore tensione,” ha affermato domenica.

In riferimento all’attacco israeliano contro la Siria, Nasrallah ha detto, con una rara ammissione, che l’obiettivo non era una postazione della forza Quds, ma una casa in cui si trovavano combattenti di Hezbollah – due dei quali sono rimasti uccisi in conseguenza dell’attacco. Ha promesso una ritorsione contro l’attacco israeliano in Siria e ha detto che ci sarà un’imminente risposta da parte di Hezbollah contro l’esercito israeliano.

Il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric ha affermato in un comunicato che “è imperativo per tutti evitare un’escalation e rispettare importanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.

Le Nazioni Unite chiedono alle parti di esercitare la massima moderazione sia nelle azioni che nelle parole.” Lunedì le autorità libanesi hanno detto che Israele ha attaccato una base palestinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (PFLP-CG) [gruppo armato palestinese filo-siriano, ndtr.] al confine orientale del Libano con la Siria.

I tre attacchi, avvenuti a pochi minuti di distanza nei pressi del villaggio di Qusaya, nella Valle della Bekaa, hanno colpito la base del PFLP-CG, che è un alleato di Hezbollah.

Il presidente libanese Michel Aoun ha affermato: “Siamo un popolo pacifico e non vogliamo la guerra. Non accetteremo che chiunque ci minacci in alcun modo.”

Negli ultimi anni raid aerei di Israele contro le fazioni palestinesi in Libano sono stati rari.

Non ci sono state reazioni immediate da parte di Israele.

 

Iraq

Quando: domenica

Le Forze Popolari di Mobilitazione (PMF) appoggiate ed addestrate dall’Iran accusano per la prima volta Israele di un attacco contro un loro deposito di armi nella città irachena di Al-Qaim, nei pressi dei confini occidentali del Paese con la Siria.

“Nel contesto della serie di attacchi sionisti contro l’Iraq, i malvagi corvi israeliani sono tornati a colpire le Hash al-Shaabi, questa volta con due droni all’interno del territorio dell’Iraq,” sostiene un comunicato delle PMF. L’attacco, continua la dichiarazione, rappresenta una dichiarazione di guerra.

Le PMF, o Hash al-Shaabi, sono il braccio ufficiale delle forze di sicurezza irachene, che includono brigate che operano in modo semi-autonomo.

Il gruppo ha detto che nell’attacco di domenica un combattente delle PMF è stato ucciso e un altro gravemente ferito, aggiungendo che anche gli Stati Uniti sono complici.

Lunedì in un comunicato la presidenza irachena ha detto che gli attacchi sono stati una “flagrante azione ostile che ha preso di mira l’Iraq,” aggiungendo che “la sovranità irachena e il benessere del suo popolo sono una linea che non si può superare.”

Israele non ha commentato.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Palestina occupata. Passate la notte in una colonia!

Anna Mutelet e Annabelle Martella

14 agosto 2019 – Orient XXI

Accogliere il turista di passaggio è una pratica sempre più diffusa tra i coloni israeliani. Ma dietro all’ospitalità si nasconde un obiettivo politico: migliorare l’immagine delle colonie e dell’occupazione.

Montagna tranquilla, ancora un po’ selvaggia, coperta di verde e di fiori sbocciati al sole, il monte Gerizim ha tutto della meta sognata per un “couchsurfer” [letteralmente ‘surfista del divano’, termine inglese che indica un ospite che a titolo gratuito viene sistemato a dormire su un sofà, ndtr.], Ophir ne è convinto. “Guardate un po’ che vista!” Un “vero regalo” con il quale è fiero di poter sorprendere gli invitati fugaci che si succedono da circa un anno nel suo salotto di Har Brakha.

Riguardo all’atmosfera, il suo profilo sul sito di alloggi gratuiti couchsurfing. com sembra predisporre il contesto: Pink Floyd, spiritualità e natura. Ma quello che Ophir non specifica è che Har Brakha (in ebraico “monte della benedizione”) è una colonia israeliana situata in terra palestinese, nel nord della Cisgiordania. Un territorio illegale agli occhi del diritto internazionale.

Peraltro non è il caso di vedervi un tentativo di dissimulazione, perché come tutti i coloni della sua generazione Ophir ha fatto la scelta di vivere qui come risultato di un “sogno di bambino” e della ricerca di “questa terra di Samaria, promessa agli ebrei nella Bibbia”. Perché precisare una cosa che si giudica così naturale? Al contrario, è un progetto molto particolare che l’ha spinto ad iscriversi come ospite su “Couchsurfing”: “Ho un messaggio da trasmettere al mondo: mostrare che qui tutto va bene, viviamo in pace.”

Vacanze di sogno ai piedi delle vigne

A prima vista a Har Brakha, abbarbicata a 880 metri d’altezza dietro a una barriera di sicurezza, la vita è prospera. Nella colonia il tempo sembra fermarsi.

Sulle strade ci sono poche macchine, ma molti bambini che camminano soli all’uscita da scuola. Si è ben lontani dall’agitazione di Nablus, polverosa e caotica, situata a valle e bastione della Seconda Intifada palestinese (2000-2006). Ophir vaga per la montagna e le sue vigne che si estendono a perdita d’occhio. Una parte di esse viene coltivata dai cristiani evangelici che si sono aggiunti agli ebrei di Har Brakha.

Negli Stati Uniti mio padre coltivava patate. Un giorno ha scoperto che nella Bibbia non si coltivavano patate, ma semmai vigne. Ed è venuto ad abitare qui,” spiega Nate, che parla di qui come “Israele”.

Nelle strade della colonia e in mezzo ai tralci delle vigne è difficile capire che Har Brakha ha preso forma al di là della “Linea Verde” – i confini dello Stato ebraico suggellati nel 1949. Unico segno della storia, un posto di guardia militare che testimonia della presenza dell’esercito su queste terre nel 1982, prima di lasciar posto ai primi membri della comunità religiosa.

Circa 2.000 persone vivono oggi a Har Brakha. Nella Cisgiordania occupata dopo gli anni ’90 il numero dei coloni è triplicato, per raggiungere i 420.000 abitanti, senza considerare Gerusalemme est.

Ma non è questa storia profana che Ophir vuole raccontare ai suoi ospiti. Questa guida turistica professionista confida nel suo metodo e nella sua narrazione: “Le persone vengono, ci si diverte, si beve del vino, gli faccio incontrare degli abitanti della regione, e qui possono sperimentare la pace.”

Sì, è legale”

Se ci si basa sui commenti lasciati su couchsurfing.com, è una ricetta che funziona. “Ho imparato molto durante questo soggiorno, ci penserò sicuramente per molto tempo,” oppure: “Sono contento che tu faccia vedere cos’è la vita nelle colonie”. Cisco, che non aveva mai visitato una colonia, una volta tornato in Romania ne conclude: “Ciò consente di avere una vita semplice in famiglia. Onestamente, non si può chiedere di meglio.”

A un centinaio di chilometri a sud nella colonia di Kfar Adumim, Yonadav, 18 anni, quest’estate ha iscritto la sua famiglia su couchsurfing.com. Come Ophir, la sua abitazione seduce molti viaggiatori. Alle porte del deserto, vicino a Gerusalemme, anche questo luogo ha una dimensione biblica.

Più che la pace, sono le loro voci che Yonadav e la sua famiglia vogliono far sentire: “La maggior parte del tempo le persone non conoscono che una sola storia, e hanno una cattiva immagine di Israele.” Anche se non è la motivazione all’origine del fatto di mettere a disposizione la loro casa ai “couchsurfer”, “ciò ci permette di dare quest’altra versione, soprattutto a quelli che hanno viaggiato nei territori palestinesi”, riconosce il liceale, che non ha mai lasciato il suo Paese. Questa versione è lunga una riga, la prima della sua descrizione: “Vivo in una colonia, non è pericoloso, e sì, è legale”. Insomma, fedele alla dottrina del governo. Del resto Yonadav ha aggiornato il suo profilo poco più di un mese fa, dopo la visita di due ospiti che pensavano che abitasse in un villaggio arabo.

Un’esperienza buffa, che deriva dai riferimenti ambigui proposti dalla piattaforma “Couchsurfing”. Quando si digita “Cisgiordania” nella barra di ricerca, gli annunci che vengono visualizzati includono a casaccio ospiti palestinesi o coloni, senza specificazioni relative a chi risiede in una colonia. Stesso risultato se si cerca “Giudea e Samaria”, termini di origine biblica che corrispondono alla denominazione amministrativa utilizzata dalle autorità israeliane per definire le zone a maggioranza ebraica che si trovano in Cisgiordania, a parte Gerusalemme est. A causa di questi riferimenti schizofrenici e a meno di spulciare i 23.864 annunci, impossibile ottenere la cifra totale delle sistemazioni relative alle colonie.

Per avere un ordine di idee che si avvicini al massimo alla realtà, è possibile non far apparire altro che ospitanti che indichino di parlare ebraico, prendendo in considerazione delle zone geografiche sufficientemente lontane per evitare che i risultati si sommino. Così si trovano 47 persone ospitanti ad Ariel, 323 a Modin Illit, o ancora 518 a Alfei Menashe. Quanto alle Alture del Golan, che fanno parte dei territori occupati da Israele contemplati nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, se ne trovano 231.

Presi di mira da Amnesty International

Ma queste risoluzioni e altre critiche internazionali che fanno delle colonie uno degli ostacoli principali alla soluzione del conflitto israelo-palestinese non sembrano influenzare le esperienze dei viaggiatori. Sui profili di Ophir, di Yonadav e di molti altri, i commenti vantano il loro senso di ospitalità, le loro virtù culinarie, o la bellezza dei luoghi. Scoprire che nelle colonie si fa del “couchsurfing” come ovunque altrove. “Tutti se ne fregano! assicura Ophir. “Si beve del vino, il paesaggio è gradevole. È tutto quello che interessa. La sua unica esperienza negativa non è andata oltre lo stadio virtuale. “Non è mai venuta, perché quando ha capito che era qui, nella cosiddetta ‘Cisgiordania’, mi ha scritto che a Ginevra dicono ‘così e cosà’, e che quello che fate è male. Ride. “Le ho detto: va bene, a Ginevra dicono così, ma c’è dio. E io scelgo dio.

Peraltro il turismo nelle colonie può essere un turismo qualunque? Per Amnesty International e per molte altre Ong la risposta è no. In un rapporto al vetriolo pubblicato lo scorso gennaio l’organizzazione per la difesa dei diritti umani prende di mira le attività di Booking.com, Airbnb, Expedia e TripAdvisor per le loro offerte nelle colonie, accusate di contribuire “alla conservazione, allo sviluppo e all’estensione delle colonie di popolamento illegale, che costituiscono dei crimini di guerra in base al diritto penale internazionale, traendone profitto. In sostanza, queste compagnie sono accusate di normalizzare la situazione. In novembre Airbnb ha ritirato tutte le sue offerte di affitto nella Cisgiordania occupata, prima di cambiare idea in aprile e di riproporne circa 200, minacciata di denuncia in Israele come negli Stati Uniti. Ormai, garantisce la compagnia, “Airbnb non ricaverà nessun profitto dall’attività nella regione.”

La piattaforma “Couchsurfing”, che ha superato il livello di 4 milioni di utenti, fornisce un servizio gratuito, tranne che per i membri cosiddetti “verificati”, che pagano una cifra fissa al sito e di cui fanno parte un certo numero di coloni. Senza contare che nessun avvertimento compare sulle pagine delle sistemazioni in zona occupata.

Il turismo nelle colonie costituisce una questione strategica per Israele, che d’altronde nel 2018 ha raggiunto il suo record complessivo di visitatori con quasi 4 milioni di viaggiatori. A colpi di sovvenzioni, finanziamenti dei programmi o statuti speciali, negli ultimi anni il governo ha massicciamente investito in Cisgiordania. Ultimo aiutino a metà maggio: lo Stato promette fino al 20% di sovvenzioni agli imprenditori che vogliano costruire o ingrandire i propri hotel in “Giudea e Samaria”. Sul “Jerusalem Post” il sindaco di Efrat si è rallegrato di questa misura: “I turisti sono i migliori ambasciatori nella promozione del sionismo e nella lotta contro il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).” L’obiettivo: “Vedranno così che non c’è una guerra quotidiana e che non c’è apartheid.” Come su “Couchsurfing”?

Anna Mutelet

Giornalista.

Annabelle Martella

Giornalista.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La forza della legge versus la legge della forza: una recensione di ‘Justice for some’ di Noura Erakat

Richard Falk

16 luglio 2019 – Mondoweiss

JUSTICE FOR SOME Law and the Question of Palestine [GIUSTIZIA PER ALCUNI. Diritto e questione palestinese]

Di Noura Erakat Pag. 352, Stanford University Press, $30.00

Non pretendo di avvicinarmi a questo libro con mente aperta. Per dirla più chiaramente, riconosco con qualche orgoglio di aver sostenuto ‘Justice for some’ ancor prima della sua pubblicazione, e il mio commento compare in quarta di copertina. Inoltre due mesi fa ho partecipato ad una presentazione del libro all’università George Mason, dove Noura Erakat è docente.

Il mio intendimento in questa recensione non è di fare una serena valutazione dei punti di forza e di debolezza del libro, ma piuttosto di consacrarlo come contributo importante e dotto alla letteratura critica volta a risolvere il conflitto israelo-palestinese secondo i dettami della giustizia piuttosto che attraverso un continuo affidarsi alla forza muscolare dell’oppressione, come ribadito dalla geopolitica. E quindi cogliere questa opportunità per invitare ad una attenta lettura di ‘Justice for some’ da parte di tutti coloro che si interessano alla lotta palestinese e di chi è curioso di [sapere] come il diritto agisca pro e contro il benessere umano, come dimostrato dal suo utilizzo in una serie di circostanze storiche e sociali.

Erakat si concentra sulle storture del militarismo e della geopolitica che sono state inflitte al popolo palestinese nel suo complesso, portando i lettori a rendersi conto di come ‘diritto’ e ingiustizia abbiano troppo spesso agito insieme per decenni. Erakat offre ai lettori questa dissertazione giurisprudenziale critica e illuminante, ma non si ferma qui. ‘Justice for some’ fa anche ricorso a una metodologia costruttivista nel seguente senso: mentre Israele ha abilmente utilizzato le leggi per opprimere il popolo palestinese, il testo di Erakat spiega ai lettori anche come il diritto possa essere, e sia, utilizzato in nome della giustizia, servendo la causa dell’emancipazione dei palestinesi come parte integrante della continua lotta per l’emancipazione del popolo palestinese.

In un certo senso, la mia partigianeria a favore della lotta palestinese è simile a quella di Erakat, che chiarisce fin dalla prefazione che la sua intenzione è di descrivere l’oppressione territoriale e nazionale dei palestinesi nel modo più trasparente possibile attraverso l’ottica delle leggi e dei diritti umani e di condannare l’uso da parte di Israele di sistemi, procedure e tattiche giuridiche per portare avanti crudelmente il progetto sionista a spese dei palestinesi.

Justice for some’ rappresenta una importante tendenza negli studi [giuridici], che cerca di affiancare l’obbiettività accademica con l’esplicito impegno etico e politico. Questo accorpamento di obbiettivi potrebbe apparire adeguato quando si tratta di un conflitto così aspro come quello israelo-palestinese, ma non è stato molto adottato nell’insegnamento prevalente. Il canone accademico nei testi di studio continua a privilegiare una posizione neutrale o di presunta obbiettività riguardo alle implicazioni politiche, che non è altro che una maschera professionale indossata da accademici ingenui o cinici che non intendono assumersi la responsabilità delle proprie opinioni personali.

Ancor peggio, l’influenza sionista sul discorso accademico e mediatico su questo argomento è talmente forte che qualunque frase esplicita contenuta nel libro di Erakat è censurata, autocensurata e attaccata come ‘di parte’. Per il pensiero dominante l’originalità di Erakat e la sua convincente analisi nella migliore delle ipotesi vengono ignorate, oppure ridicolizzate. Autori come lei sono sovente attaccati in quanto rappresentanti del cosiddetto ‘nuovo anti-semitismo’, cioè una qualifica usata per screditare i testi e gli autori che criticano le politiche e le prassi di Israele, confondendo malignamente le critiche con l’odio verso gli ebrei. Questa distorta equazione ci offre una definizione dei discorsi d’odio che equivale a emettere una sentenza di morte contro la libertà di espressione. E’ una vergogna nazionale che le istituzioni legislative americane a livello statale e federale si bevano un simile veleno!

E’ difficile comunicare l’originalità giurisprudenziale di Erakat senza discuterne in modo ampio, ma ci proverò. Molto nasce dalla sua ardita asserzione: ‘Io sostengo che il diritto è politica.” (4) Con questo intende, per dirlo in termini grossolani, che ‘la forza delle leggi’ dipende dalla ‘legge della forza’, cioè i diritti giuridici senza la possibilità di applicare a un certo livello la legge restano senza effetto, oppure l’insidioso effetto è di dare copertura legale a comportamenti disumani. Oppure, come Erakat dice attraverso una metafora, la politica procura il vento di cui la vela ha bisogno perché la nave vada avanti.

Allo stesso tempo, quando discute dei diritti e delle strategie palestinesi, Erakat ribadisce che il richiamo alla ‘forza’ non implica affidarsi o invitare alla violenza. La sua affermazione strategica di nonviolenza diventa esplicita quando parla in termini di approvazione dell’importanza della campagna BDS, come anche nel suo sostegno ai vari tentativi di criticare Israele alle Nazioni Unite o altrove.

Soprattutto Erakat argomenta in modo persuasivo ch Israele è stato più abile dei palestinesi a fare uso efficace del diritto, in parte perché ha il vento in poppa per via dei suoi legami con la geopolitica, specialmente con gli Stati Uniti, ma anche perché gli esperti giuridici israeliani hanno svolto il loro ‘lavoro legale’ meglio dei palestinesi. Il libro di Erakat può essere letto come uno stimolo ai palestinesi perché facciano un miglior uso di ciò che lei chiama ‘opportunismo basato su principi giuridici’ (19)

In senso più ampio, Israele, per via degli appoggi geopolitici e del controllo sul dibattito è riuscito ad ottenere che i suoi più flagranti crimini internazionali, compreso l’uso eccessivo della forza, le punizioni collettive e il terrorismo di Stato, siano ‘legalizzati’ sotto la dicitura ‘sicurezza’ e ‘autodifesa’, prerogative a tempo indeterminato intrinseche alla nozione stessa di Stato sovrano. Al contrario, i palestinesi che esercitano un diritto di resistenza del tutto giustificabile, persino quando è diretto contro obbiettivi militari, sono criminalizzati a livello internazionale e il loro comportamento è stigmatizzato come ‘atti di terrorismo’. Il più sinistro imbroglio ‘legale’ di Israele è stato sfidare ripetutamente e in modo flagrante il diritto internazionale senza subire alcuna conseguenza negativa. Questa dinamica di sfidare le leggi può essere illustrata dal disconoscimento da parte di Israele del parere consultivo della Corte Internazionale del 2004, nonostante l’accordo di 14 giudici su 15 (qualcuno si sorprende che l’unico contrario fosse il giudice americano?) che la costruzione del muro di separazione sul territorio palestinese occupato viola le norme fondamentali del diritto umanitario internazionale, comprese le Convenzioni di Ginevra del 1977.

Inoltre Erakat merita apprezzamento perché mantiene uno stile accademico senza al contempo moderare le parole o lasciarsi intrappolare nel linguaggio giuridico spesso confuso. Il problema del linguaggio è cruciale nella sua interpretazione delle contraddizioni tra legge e giustizia che hanno privato il popolo palestinese, e la sua nazione, dei diritti fondamentali per oltre un secolo. Erakat è chiara come pochissimi docenti di diritto internazionale nel dire che le questioni in discussione possono essere correttamente valutate solo se pienamente contestualizzate storicamente e ideologicamente.

Secondo Anthony Anghie [professore di diritto all’università di Singapore, ndtr.] e diversi altri, Erakat ritiene essenziale mostrare che le radici del moderno diritto internazionale riflettono un quadro normativo che è servito a legittimare il colonialismo europeo e le sue pratiche. Estende provocatoriamente questa generalizzazione ad Israele, identificandolo come l’ultimo Stato “coloniale di insediamento” che è stato creato. Aggiungerei che Israele è stato fondato nonostante la potente tendenza anticolonialista che si è mossa in un’unica direzione a partire dal 1945.

Erakat è parimenti pronta a sostenere che la prolungata occupazione israeliana della Palestina dopo il 1967 è diventata ‘annessione’. Avanza anche l’opinione che il modo in cui Israele controlla il popolo palestinese attraverso la frammentazione politica e gli strumenti legislativi sia una forma di ‘apartheid’. Negli approcci critici e costruttivisti evitare gli eufemismi giuridici è di centrale importanza per la fondamentale impresa di liberare i meccanismi giuridici dalle macchinazioni degli Stati. Ciò che fa il linguaggio veritiero è guardare attraverso la finzione giuridica per illuminare le questioni morali in gioco. Questa chirurgia linguistica è un prerequisito per fare chiarezza sulla relazione tra la legge e la giustizia e l’ingiustizia, non solo relativamente alla Palestina, ma in rapporto a particolari questioni, sia che coinvolgano migranti internazionali, minoranze vittime di violenza o popoli a cui si nega l’autodeterminazione.

Justice for some’ mi ha aiutato a rendermi conto che questo significato fondamentale della legge come strumento inevitabilmente politicizzato di controllo e resistenza può essere in contrasto con l’idea che io ho precedentemente evidenziato nei miei scritti giuridici, che il vero significato delle norme giuridiche può essere colto soltanto attraverso la loro corretta interpretazione. Su questa base ho argomentato la contrarietà alla guerra in Vietnam, contestando che il ruolo dell’America implicasse l’uso della forza in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, che stabiliscono i criteri per l’uso della forza, e che questo argomento era giuridicamente superiore alle giustificazioni avanzate dal governo USA e dai suoi apologeti.

Questo paradigma normativo (o ermeneutico) riflette la retorica del diritto internazionale ed il modo in cui gli avvocati abitualmente affrontano una controversia, incluse le modalità del ragionamento giuridico usate dai giudici nei tribunali sia all’interno degli Stati che a livello internazionale per spiegare e giustificare le proprie decisioni. Si può applicare in particolar modo all’uso del diritto internazionale nell’arte di governare per approvare o meno un comportamento contestato, riflettendo indirettamente l’intensità dei venti politici che gonfiano le vele della nave dello Stato, ma anche la raffinatezza e le motivazioni di chiunque stia difendendo una causa, e per chi.

Sullo sfondo di questa interpretazione, ciò che Erekat cerca e riesce a fare, più che l’interpretazione emancipatoria delle norme giuridiche, riguarda il metterci in grado di afferrare il nesso manipolatorio sotteso al dibattito giuridico internazionale e che plasma i modelli politici di controllo e resistenza. Il paradigma normativo è complementare e di sottofondo, in quanto lo scopo principale di Erakat è sviluppare meglio di quanto facciano gli approcci tradizionali un esaustivo fondamento logico per un paradigma politico e normativo che corrisponda alla realtà della lotta palestinese, e di altre lotte simili, per i diritti fondamentali, in particolare quello dell’autodeterminazione. Questi paradigmi non si contraddicono necessariamente l’un l’altro, ma poggiano su differenti funzioni del diritto e e dei giuristi in vari contesti, e da un punto di vista giurisprudenziale possono essere considerati complementari. Il lavoro di Erakat si preoccupa non tanto di comprendere come sia il mondo, quanto di come dovrebbe essere governato e di come il diritto e la professione giuridica possano (o non possano) far sì che ciò accada. In questo senso lo spirito che caratterizza il libro di Noura Erakat richiama alla mente il famoso detto di Karl Marx: “I filosofi finora hanno interpretato il mondo in vari modi; la questione è cambiarlo.”

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’università di Princeton. È autore o co-autore di 20 libri e curatore editoriale di altri 20. Nel 2008 il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHRC) ha nominato Falk Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967” per un periodo di 6 anni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele isola università palestinesi

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2019 – Electronic Intifada

Israele sta isolando le università palestinesi per obbligare studiosi internazionali a lasciare i propri incarichi accademici nella Cisgiordania occupata.

Due gruppi palestinesi per i diritti umani, così come l’università di Birzeit, stanno chiedendo a Israele di togliere le restrizioni che impediscono ad accademici internazionali di lavorare in Cisgiordania e di rendere nota “una procedura chiara e legale per il rilascio di visti di ingresso e di lavoro.”

La politica di Israele di negare a stranieri l’ingresso in Cisgiordania, così come di negare e non trattare per tempo le richieste per l’estensione dei visti, ha colpito decine di studiosi che lavorano nelle università palestinesi.

Ranking a rischio

L’istituzione educativa e i gruppi per i diritti affermano che le restrizioni israeliane minacciano il ranking di Birzeit, inclusa nel 3% delle migliori università del mondo. La percentuale di docenti e studenti internazionali è un indicatore fondamentale per determinare il livello dell’università.

Impedendo a Birzeit di assumere corpo docente straniero, Israele sta ostacolando la sua possibilità di funzionare come un’università che risponda agli standard internazionali,” hanno affermato l’università e i gruppi per i diritti “Al-Haq” e “Adalah”.

Negli ultimi due anni quattro docenti a tempo pieno e tre a tempo parziale di Birzeit, la più antica università palestinese aperta in Cisgiordania, sono stati obbligati a lasciare il Paese e non hanno potuto continuare ad insegnare dopo che Israele ha rifiutato di rinnovare i loro visti.

Quest’anno Israele ha negato l’ingresso a due [docenti] stranieri con contratti a tempo pieno alla Birzeit. Sei membri del corpo docente sono attualmente senza visto valido e altri cinque, compreso un direttore di dipartimento, “sono all’estero senza chiare indicazioni se potranno tornare.”

Decine di membri del personale e docenti stranieri sono stati “colpiti durante gli ultimi due anni dalle restrizioni israeliane riguardo alle richieste di nuovi visti o di prolungamento del visto o dal rifiuto di consentire loro di entrare in Cisgiordania.”

Molti sono palestinesi con passaporto internazionale e la maggioranza proviene dagli USA e da Stati membri dell’Unione Europea.

La politica di Israele nei confronti degli accademici stranieri “viola la libertà delle università di espandere le aree di ricerca e di studio che offrono agli studenti sia palestinesi che stranieri. Di conseguenza Israele sta impedendo alla popolazione palestinese occupata di decidere da sé che tipo di educazione voglia avere.”

Un regolamento emanato dal COGAT, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, consente a “docenti ed esperti” stranieri di presentare domanda per un visto di soli tre mesi. Nel contempo le università israeliane “possono reclutare professori stranieri con una procedura separata che consente l’ingresso e il lavoro di stranieri per periodi fino a cinque anni.”

Regime dei permessi

Il regime dei permessi israeliani impedisce ai palestinesi di Gaza di studiare nelle università della Cisgiordania e viceversa.

Una volta gli studenti di Gaza rappresentavano il 35% degli iscritti nelle università della Cisgiordania. A causa del blocco israeliano che dura da più di 10 anni, lo scorso anno la disoccupazione tra i neolaureati ha raggiunto a Gaza circa l’80%.

Le associazioni internazionali di docenti, comprese l’“Associazione per gli Studi sul Medio Oriente”, con sede negli USA, “Docenti della California per la Libertà Accademica” e la “Società Britannica per gli Studi sul Medio Oriente”, hanno condannato le restrizioni israeliane sui docenti stranieri nelle università palestinesi. Nel contempo accademici e ricercatori europei hanno chiesto la fine dei finanziamenti dell’UE alle istituzioni accademiche israeliane con “stretti legami con l’industria militare israeliana.”

L’Unione Europea ha destinato più di 800 milioni di dollari ai ricercatori israeliani, soprattutto attraverso il suo programma di finanziamenti “Horizon 2020”.

Dal 2004 gruppi della società civile palestinese hanno chiesto un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane.

L’appello al boicottaggio afferma che tali istituzioni “hanno contribuito direttamente a mantenere, difendere o comunque giustificare” l’oppressione dello Stato di Israele o “con il loro silenzio” sono state complici.

In quella che si dice sia la prima volta, un’associazione di studiosi della salute mentale ha appena annullato il progetto di tenere la sua conferenza del 2021 a Gerusalemme.

ENMESH” avrebbe preso la decisione dopo la reazione fortemente negativa di alcuni membri della direzione che non vogliono che l’organizzazione passi i prossimi due anni sotto pressione da parte di attivisti solidali con i palestinesi.

Secondo il giornale israeliano Haaretz, “è la prima volta che un’organizzazione di questo genere fa marcia indietro su sulla decisione già approvata di tenere un convegno in Israele, dimostrando il fatto che la campagna di boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane forse sta prendendo piede.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)