Israele dovrebbe essere giudicato per l’uccisione illegale di manifestanti a Gaza

Middle East Monitor

28 febbraio 2019

video proiettato durante le sedute della Commissione ONU

La Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] ha informato che giovedì membri di una commissione d’inchiesta ONU hanno affermato che lo scorso anno a Gaza le forze di sicurezza israeliane potrebbero aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità per l’uccisione di 189 palestinesi e il ferimento di più di altri 6.100 durante le proteste settimanali.

La commissione indipendente ha affermato di aver avuto informazioni confidenziali su coloro che ritiene essere responsabili di queste uccisioni illegali, compresi cecchini e comandanti dell’esercito israeliano. Ha chiesto ad Israele di incriminarli.

Quando hanno sparato le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso e menomato manifestanti palestinesi che non rappresentavano una minaccia immediata di morte o di gravi ferite ad altri, né stavano partecipando direttamente agli scontri,” si afferma, aggiungendo che le proteste sono state “di carattere civile”.

Le vittime includono minori, giornalisti e una persona amputata ad entrambe le gambe che era su una sedia a rotelle.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto il rapporto ed ha accusato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, che ha promosso l’inchiesta, di ipocrisia e di menzogne alimentate da “un odio ossessivo verso Israele.”

Israele ha affermato di aver aperto il fuoco per difendere il confine da incursioni e attacchi da parte di miliziani armati.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato che i risultati dell’indagine confermano che “Israele ha commesso crimini di guerra contro il nostro popolo a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme.”

In un comunicato ha detto che la Corte Penale Internazionale dovrebbe agire immediatamente e aprire un’inchiesta in merito.

Le proteste sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza sono iniziate nel marzo dello scorso anno, con i gazawi che chiedevano che Israele alleggerisse il blocco dell’enclave e il riconoscimento del loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie fuggirono o che vennero obbligate a lasciare quando Israele venne fondato nel 1948.

La commissione ha scoperto che 183 dei 189 manifestanti sono stati uccisi con proiettili veri. Ha espresso una grande preoccupazione per le regole d’ingaggio segrete stilate dai dirigenti civili e militari israeliani che “a quanto pare consentono di sparare proiettili veri contro dimostranti come ultima risorsa… e di sparare alle gambe dei ‘principali agitatori’.”

Sostiene che il concetto israeliano di ‘principali agitatori’ non esiste nelle leggi internazionali.

Dice che circa 122 feriti, tra cui 20 minori, hanno avuto un arto amputato.

La commissione afferma che nessun soldato israeliano è stato ucciso durante le proteste, tranne uno durante un giorno di manifestazioni ma non in un luogo in cui stavano avvenendo proteste, mentre quattro sono stati feriti.

Una portavoce militare israeliana lo ha contestato, sostenendo che il soldato sia stato colpito a morte durante disordini nelle vicinanze che erano “stati provocati per attirare soldati e poterli attaccare.”

Il rapporto, che riguarda il periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018, si basa su centinaia di interviste con vittime e testimoni, così come su reperti medici, video, riprese da droni e fotografie.

Il rapporto dice che il 14 maggio le forze israeliane hanno ucciso 60 dimostranti, il più alto numero di vittime in un solo giorno a Gaza dall’attacco militare del 2014 [l’operazione “Margine Protettivo”, ndt.].

In un comunicato Amnesty International ha affermato: “I responsabili da questi crimini deprecabili non devono rimanere impuniti. I risultati di questo rapporto devono portare a fare giustizia per le vittime di crimini di guerra.”

Corte Penale Internazionale

I membri della commissione d’indagine dicono che l’alta commissaria ONU per i diritti umani Michelle Bachelet dovrebbe condividere i risultati con la CPI.

Israele non fa parte della CPI né ne riconosce la giurisdizione, ma la corte con sede all’Aia nel 2015 ha aperto un’indagine preliminare riguardo alle denunce di violazioni dei diritti umani da parte di Israele sul territorio palestinese.

La Striscia di Gaza, l’enclave costiera controllata dal gruppo islamista Hamas, ospita 2 milioni di palestinesi. Nel 2005 Israele ritirò le sue truppe e i suoi coloni da Gaza, ma conserva un rigido controllo sui suoi confini terrestri e marittimi. Anche l’Egitto limita il movimento dentro e fuori Gaza.

Il presidente della commissione Santiago Cantón, un giurista argentino, ha detto: “Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o contro l’umanità e devono essere immediatamente indagate da Israele.”

Durante una conferenza stampa ha affermato: “La nostra inchiesta ha scoperto che i manifestanti erano nella stragrande maggioranza disarmati, anche se non sempre pacifici.”

Trentacinque minori, due giornalisti e tre paramedici “chiaramente individuabili” sono stati tra le vittime delle forze israeliane, in violazione delle leggi umanitarie internazionali, afferma il rapporto.

Sara Hossain, membro della commissione e avvocatessa presso la Corte Suprema del Bangladesh, ha sostenuto: “Stiamo affermando che hanno sparato intenzionalmente a minori. Hanno sparato intenzionalmente a persone disabili, hanno sparato intenzionalmente a giornalisti.” E ha aggiunto: “Abbiamo scoperto che una persona con entrambe le gambe amputate è stata colpita ed uccisa mentre era seduta sulla sua sedia a rotelle. In due giorni diversi due persone visibilmente con le stampelle sono state colpite alla testa. Sono state uccise.”

Israele afferma che le sue forze sono state a volte vittime di attacchi da armi da fuoco o granate durante le proteste.

Betty Murungi, che ha fatto parte della commissione, ha anche detto che le autorità di Gaza dovrebbero interrompere l’uso di aquiloni e palloni incendiari, congegni che hanno distrutto coltivazioni israeliane.

Il funzionario di Hamas Ismail Rudwan ha detto alla Reuter a Gaza: “La richiesta della commissione ONU di mettere sotto processo i dirigenti dell’occupazione israeliana è una prova che le forze di occupazione hanno commesso crimini contro l’umanità nella Striscia di Gaza.”

Nell’ultimo decennio Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Vittoria del BDS: un gruppo musicale britannico boicotta l’Eurovisione perché si tiene in Israele

Palestine Chronicle

25 gennaio 2019

Un promettente gruppo britannico ha rifiutato di partecipare alla competizione musicale “Eurovisione” perché quest’anno verrà ospitata in Israele.

Confermando la sua decisione su Twitter, “The Tuts”, gruppo composto da tre ragazze, ha provocato una reazione da parte dei sostenitori di Israele.

Alcuni hanno persino cercato di insinuare che la scelta della band sia un esempio di antisemitismo, benché il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele abbia chiaramente affermato che la sua campagna intende protestare contro la continua occupazione militare della Palestina.

Ma il gruppo è stato anche elogiato in quanto consapevole delle violazioni dei diritti umani commesse da Israele e conscio dell’impatto che la sua partecipazione avrebbe sulla normalizzazione dell’occupazione.

Qualcuno ha invitato anche altri Paesi, compresa l’Irlanda, che ha esplicitamente sostenuto il BDS, a boicottare l’evento.

Da quando è stato annunciato che Israele avrebbe ospitato l’annuale evento transnazionale, gruppi culturali e giornalisti palestinesi stanno esortando a boicottare la competizione “Eurovisione” di quest’anno.

Una dichiarazione firmata dal Sindacato dei Giornalisti e da una rete di organizzazioni culturali palestinesi lo scorso anno ha chiesto:

“‘Eurovisione avrebbe’ tenuto la gara nel Sudafrica dell’apartheid?”

A settembre l’“European Broadcasting Union” [l’Unione Europea di Radiodiffusione”, ndtr.] (EBU) ha annunciato che la competizione si terrà a Tel Aviv e non a Gerusalemme, in seguito alle critiche internazionali e al timore del boicottaggio.

In Irlanda una campagna che chiede ai musicisti di boicottare “Eurovisione 2019” ha ottenuto anche l’appoggio di più di 60 personalità pubbliche, che considerano la partecipazione all’evento come un tradimento del popolo palestinese.

Israele, con il sostegno degli USA, ha a lungo accusato quanti appoggiano il BDS di essere antisemiti ed ha fatto pressione su governi e organismi stranieri perché si oppongano al movimento.

Nel 2017 Tel Aviv ha minacciato azioni contro Amnesty International dopo che quest’ultima ha lanciato una nuova campagna che chiede di mettere al bando i prodotti delle colonie.

Israele ha anche pubblicato una lista nera, che include Ong di Europa, Stati Uniti, Sud America e Africa, i cui dipendenti o membri hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del loro presunto appoggio alla campagna del BDS.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La presa in giro morale di Israele che chiede soldi agli arabi e agli iraniani per la propria ‘Nakba’

Ramzy Baroud

16 gennaio 2019, Palestine Chronicle

La partita è in corso. Israele, che ci si creda o no, sta chiedendo che sette Paesi arabi e l’Iran paghino 250 miliardi di dollari come risarcimento per ciò che sostiene essere stata l’espulsione forzata di ebrei dai Paesi arabi alla fine degli anni ’40. Gli eventi citati da Israele sarebbero avvenuti nel periodo in cui le milizie ebree sioniste stavano espellendo attivamente circa un milione di arabi palestinesi e distruggendo sistematicamente le loro case, villaggi e città in tutta la Palestina.

L’annuncio di Israele, che avrebbe fatto seguito a “18 mesi di indagini segrete” condotte dal ministro per l’Uguaglianza Sociale, non deve essere registrato nel dossier in continua espansione delle vergognose falsificazioni israeliane della storia. In realtà fa parte di un calcolato tentativo da parte del governo israeliano, in particolare della ministra (per l’Uguaglianza Sociale) Gila Gamliel, di creare una narrazione alternativa alla legittima richiesta di applicazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che subirono una pulizia etnica da parte delle milizie ebraiche tra il 1947 e il 1948.

C’è una ragione dietro l’urgenza di Israele di rivelare una simile discutibile indagine: l’incessante tentativo di Stati Uniti ed Israele negli ultimi due anni di liquidare i diritti dei rifugiati palestinesi, di mettere in discussione il loro numero ridefinendo chi essi siano o meno e di rendere marginali le loro denunce. Fa tutto parte del pacchetto del disegno in atto camuffato da “Accordo del secolo”, col chiaro scopo di rimuovere tutte le importanti questioni che sono al centro della lotta palestinese per la libertà.

È venuto il momento di correggere la storica ingiustizia dei pogrom (contro gli ebrei) in sette Paesi arabi e in Iran, e di restituire alle centinaia di migliaia di ebrei che persero le loro proprietà ciò che legittimamente gli appartiene”, ha detto Gamliel.

La frase “…correggere la storica ingiustizia” non è diversa da quella usata dai palestinesi che da oltre 70 anni chiedono la restituzione dei loro diritti in base alla Risoluzione 194 dell’ONU. La voluta sovrapposizione della narrazione palestinese e di quella sionista ha lo scopo di creare paralleli, nella speranza che un futuro accordo politico si concluda con rivendicazioni che si annullino a vicenda.

Tuttavia, contrariamente a quanto vogliono farci credere gli storici israeliani, non vi fu un esodo di massa forzato di ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Ciò che avvenne fu una massiccia campagna organizzata all’epoca dai capi sionisti per sostituire la popolazione araba indigena in Palestina con immigrati ebrei da tutto il mondo. Le modalità con cui venne portata a termine questa operazione spesso implicarono azioni violente dei sionisti, soprattutto in Iraq.

Di fatto, l’appello agli ebrei a confluire in Israele da tutti gli angoli del mondo resta il grido di battaglia dei leader israeliani e dei loro sostenitori cristiano-evangelici. I primi vogliono assicurare una maggioranza ebraica nello Stato, mentre i secondi cercano di adempiere ad un requisito biblico per le loro a lungo attese Apocalisse e Ascensione in cielo. Attribuire ad arabi e iraniani la responsabilità di questo strano ed irresponsabile comportamento è una violazione della vera narrazione storica alla quale né Gamliel né il suo ministero sono interessati.

Dall’altro lato, e diversamente da quanto gli storici militari israeliani spesso sostengono, l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina nel 1947-48 (e le successive epurazioni della popolazione nativa che seguirono alla guerra del 1967) fu un’azione premeditata di pulizia etnica e genocidio. Fu (ed è ancora) parte di una annosa e attentamente progettata campagna che, fin dal suo inizio, ha costituito la principale strategia al centro della “visione” del movimento sionista riguardo al popolo palestinese.

Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”, scrisse il fondatore di Israele, comandante militare e primo capo del governo, David Ben Gurion, in una lettera a suo figlio Amos nell’ottobre del 1937. Era più di 10 anni prima che fosse messo in atto il Piano D (per Dalet) – che ha visto la distruzione della patria palestinese per mano delle milizie di Ben Gurion e dei gruppi terroristi sionisti.

La Palestina ha un grande potenziale per la colonizzazione”, scrisse inoltre Ben Gurion, “di cui gli arabi non hanno bisogno né sono in grado di sfruttare.” Questa esplicita dichiarazione di un progetto coloniale in Palestina, espressa con lo stesso tipo di inconfondibile linguaggio e insinuazioni razziste che hanno accompagnato tutte le altre esperienze coloniali occidentali per molti secoli, non apparteneva solo a Ben Gurion. Era una mera parafrasi di ciò che allora si percepiva essere la sostanza dell’impresa sionista in Palestina in quel momento.

Come ha concluso il professore palestinese Nur Masalha nel suo libro, Expulsion of the Palestinians [‘Espulsione dei palestinesi’], l’idea del “trasferimento” – il termine sionista per pulizia etnica – del popolo palestinese era e resta fondamentale per la realizzazione delle ambizioni sioniste in Palestina. “I villaggi arabi palestinesi all’interno dello Stato ebraico che resistono ‘devono essere distrutti…e i loro abitanti espulsi al di là dei confini dello Stato ebraico’”, ha scritto Masalha, citando la “History of the Haganah”  [‘Storia dell’Haganah’] di Yehuda Slutsky. L’Haganah era la principale milizia sionista che sarebbe diventata l’esercito israeliano (IDF, Israel Defence Force), insieme a ciò che rimaneva dei gruppi terroristici Irgun e Banda Stern.

Ciò che questo significava nella pratica, come descritto dallo storico palestinese Walid Khalidi, fu che le varie milizie ebraiche presero congiuntamente di mira tutti i centri abitati in Palestina, in modo sistematico e senza eccezioni. “Alla fine di aprile del 1948 l’offensiva congiunta di Haganah e Irgun aveva circondato completamente la città palestinese di Giaffa, costringendo la maggior parte dei civili rimasti alla fuga per mare verso Gaza o l’Egitto; molti annegarono nel tragitto”, ha scritto Khalidi in “Before Their Diaspora” [Prima della loro diaspora’].

Questa tragedia arrivò a colpire tutti i palestinesi dovunque all’interno dei confini della loro patria storica. Decine di migliaia di rifugiati si unirono ad altre centinaia di migliaia in tanti sentieri polverosi in tutto il Paese, crescendo di numero man mano che procedevano, prima di piantare finalmente le loro tende in zone che dovevano essere provvisori campi per rifugiati. Ahimè, rimangono campi per rifugiati palestinesi ancor oggi, disseminati nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Nulla di ciò fu accidentale. La determinazione dei primi sionisti a stabilire un “focolare nazionale” per gli ebrei a spese della popolazione araba palestinese del Paese fu comunicata apertamente, chiaramente e ripetutamente attraverso la formazione del primo pensiero sionista e la trasformazione di quelle ben articolate idee in realtà.

Sono passati 70 anni dalla Nakba – la catastrofe del 1948 – e Israele non si è mai assunto la responsabilità delle proprie azioni né i rifugiati palestinesi hanno ricevuto alcuna misura di giustizia, per quanto piccola o simbolica. Perciò, per Israele chiedere delle compensazioni dai Paesi arabi e dall’Iran è una parodia morale, specialmente dato che i rifugiati palestinesi continuano a sopravvivere in campi profughi in tutta la Palestina e il Medio Oriente.

Sì, certamente “è arrivato il momento di correggere l’ingiustizia storica”, ma non per quelli che Israele ora sostiene essere stati “pogrom” condotti da arabi e iraniani. La vera ingiustizia storica è la continua e terribile distruzione della Palestina e del suo popolo.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Risolta la crisi sugli addetti alla sicurezza italiani a Gaza

Middle East Monitor

17 gennaio 2019

Si è conclusa una crisi riguardante tre addetti alla sicurezza italiani che si pensava fossero forze israeliane in incognito che stavano agendo nella Striscia di Gaza.

In un comunicato diffuso ieri il portavoce del ministero dell’Interno palestinese a Gaza, Iyad Al-Bozm, ha affermato che “nelle scorse ore è stata effettuata un’inchiesta su un veicolo sospetto su cui stavano viaggiando tre italiani, che casualmente si trovavano nella stessa zona in cui il 14 gennaio 2019 ha avuto luogo una sparatoria nella Striscia di Gaza.”

In seguito all’incidente, la macchina è arrivata al quartier generale dell’UNSCO (Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente)” continua, aggiungendo: “Durante l’indagine l’identità dei tre italiani e il loro ingresso regolare a Gaza sono stati confermati. Si è anche chiarito che la vettura non era legata alla sparatoria.”

Il ministero ha ringraziato tutte le parti per aver agevolato l’inchiesta sull’incidente, soprattutto l’inviato speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nicholay Mladenov, il consulente ONU per la Sicurezza nei Territori Palestinesi, il direttore dell’UNSCO a Gaza, l’ambasciata italiana e l’ambasciatore del Qatar, Mohamed Al-Imadi.

Informazioni affermano che l’ambasciatore italiano ha avuto un colloquio telefonico con il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, in merito al problema.

L’agenzia di notizie cinese Xinhau ha informato che gli italiani erano addetti alla sicurezza che si trovavano nella Striscia di Gaza assediata per preparare una visita dell’ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, che sarebbe dovuta avvenire ieri.

Lunedì le guardie della sicurezza palestinese avevano sospettato che i tre uomini fossero forze israeliane in incognito, in quanto il trio trasportava fucili automatici e aveva rifiutato di fermarsi a un posto di controllo nella zona centrale di Gaza.

Le forze palestinesi hanno inseguito i tre sospetti, che allora si sono rifugiati nel quartier generale dell’UNSCO a Gaza. Le forze di sicurezza hanno seguito le regole internazionalmente riconosciute e non sono entrate nell’ufficio per seguirli, chiedendo invece il permesso ufficiale di verificare chi fossero i tre uomini.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mass media in uniforme, carabinieri in borghese e il perfido Hamas

Patrizia Cecconi

16 gennaio 2019, Pressenza

Un giallo si è svolto ieri a Gaza e ha visto coinvolta l’Italia. Non sappiamo con certezza se anche gli italiani, ma l’Italia sì.

Secondo i nostri media di sicuro sono stati coinvolti anche gli italiani, infatti basta vedere i titoli dei quotidiani, cioè “il” titolo, perché il Corriere come la Repubblica, il Messaggero come il Giornale o il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa hanno tutti in sostanza lo stesso titolo, una specie di uniforme da elegante valletto al servizio dallo stesso signore.  Tutti hanno parlato di “carabinieri italiani rifugiati nella sede dell’ONU e assediati da Hamas”. Il perfido Hamas, cioè il partito che governa la Striscia di Gaza e che –  come ci ricorda Vincenzo Nigro su La Repubblica –  “l’Italia considera un movimento terroristico con cui i rapporti politici sono congelati.

Noi ne prendiamo atto chiedendoci, però, come mai, se i rapporti sono congelati l’Italia manda i suoi carabinieri, non turisti o operatori umanitari, ma rappresentanti dell’Arma, dentro la Striscia? E come li manda? Clandestini?

Bene, corre l’obbligo di spiegare ai quattro lettori che ci seguiranno, che Gaza è sotto assedio israeliano, illegittimo e illegale ovviamente, ma sotto assedio e non si può entrare se non con un permesso speciale di Israele. E fin qui certo niente di strano, visto che il governo italiano è amico del governo israeliano. Ma poi serve anche il permesso di Hamas e per avere il permesso di Hamas qualcuno dall’interno della Striscia deve aver fatto la richiesta e questa richiesta deve essere accolta dalle autorità locali, cioè Hamas e presentata alla frontiera.

Lo conoscono  tutto questo iter i bravi valletti che hanno scritto i loro articoli titolandoli tutti “carabinieri italiani assediati da Hamas”?  Forse lo sanno, ma nella velina  c’era l’indicazione di saltare questo passaggio. Forse invece proprio non lo sanno e sono andati tutti dietro la stessa onda senza accorgersi che stavano dando un’informazione non parziale, ma totalmente deformata, il che è più grave che dire parziale o inesatta.

Allora ricostruiamo i fatti.

Dopo l’attentato di due mesi fa contro Nour Barake, uno dei leader della resistenza, commesso da un commando terrorista israeliano entrato presumibilmente di notte da un varco creato ad hoc nella rete dell’assedio, gli addetti alla sicurezza – detti sempre security di Hamas perché fa più effetto – avendo scoperto che il commando mascherato aveva documenti falsi e che a Gaza erano entrati, sempre con documenti falsi, una quindicina di agenti dei servizi segreti israeliani con scopi ovviamente non di tipo caritatevole o umanitario, ha ristretto molto il già esiguo numero di  permessi e ha punteggiato la Striscia, soprattutto nelle due strade principali che uniscono il nord al sud per circa 40 km, con un fitto numero di posti di blocco. In alcune parti addirittura si possono trovare ogni 500 metri.

I posti di blocco, quelli che in Israele si chiamano comunemente check point e che sono tristemente famosi per il numero di omicidi dovuti al grilletto facile dei soldati dell’IDF, i posti di blocco gazawi, che al contrario di quelli israeliani finora non si sono mai macchiati di sangue, consistono solitamente in due blocchi di cemento e una sbarra, lasciando lo spazio perché una vettura passi senza rimuovere la sbarra stessa, ma costringendola a rallentare per entrare nello spazio lasciato libero. Lì ci sono di solito tre o quattro militari che guardano il conducente e i passeggeri, qualche volta chiedono i documenti, ma il più delle volte si affidano al loro intuito e salutano con un sorriso. Una security che contrasta un po’ con l’idea  che la fantasia, con l’aiuto dei media, costruisce di questi militari immaginati sempre come feroci terroristi.

Ad uno di questi posti di blocco la sera del 14 gennaio non si sarebbe fermata una vettura con dentro tre o forse quattro uomini. Al tentativo di fermare la vettura i passeggeri, tutti in borghese, avrebbero estratto delle armi automatiche e sarebbero scappati forzando il blocco. Iniziava un breve inseguimento, breve perché la vettura clandestina andava a ripararsi dentro lo stabile delle Nazioni Unite a poche centinaia di metri e qui la vettura dei militari palestinesi non veniva fatta entrare.

Se lo stesso fatto fosse avvenuto in Israele i tre (o quattro) occupanti della vettura fuggitiva sarebbero stati tre (o quattro) cadaveri crivellati di colpi, ma i feroci terroristi con i quali l’Italia non comunica sono stati dei gentlemen e i fuggiaschi sono ancora vivi.

Una domanda che nessuno dei nostri media mainstream si è posta  pubblicamente è “perché questi signori non hanno mostrato i documenti? Allora erano clandestini? E a servizio di chi?” No, questo non appare nel pezzo della Repubblica, né su quello del Corriere, su nessuno. Forse non era nell’indice della velina.

Dunque i tre (o quattro) giovani uomini, capello corto o cortissimo, aria qualunque, anche palestinese volendo, o comunque mediterranea, potevano essere e probabilmente lo erano spie israeliane, come i quindici precedentemente scoperti.

Le autorità governative, dette dai media minacciosamente “Hamas”, a questo punto fanno circondare il palazzo dell’Onu dai militari, chiedendo che venga fornita l’identità di quei delinquenti che hanno sfondato il posto di blocco e sparato contro la polizia locale.

Per la verità, in qualunque altro paese, Italia compresa, sarebbero stati già arrestati, magari solo per due giorni, ma sarebbero stati arrestati subito per i due reati commessi.

I nostri quotidiani, la nostra Lilli Gruber, i nostri cronisti televisivi e compagnia servente, si sono tutti affannati a dire che Hamas assediava l’Onu, dimenticando di dire che avevano il diritto di  identificare i tre trasgressori e dimenticando anche di dire che Gaza è sotto assedio e che strani personaggi si erano infiltrati sparando contro la polizia locale o, comunque, forzando un posto di blocco.  Si sono anche dimenticati di dire che tutte le forze politiche di Gaza, compresa Fatah, avversario numero uno di Hamas, erano concordi in questa azione.

E’ lecito chiedersi se i personaggi della vettura in questione fossero ubriachi, cosa molto difficile dato il divieto  imposto da Hamas di far entrare alcolici, o se fossero dei provocatori  che hanno agito ad hoc per creare un incidente e poi sviluppare un piano che al momento non ci è dato conoscere.

Da dove sono entrati? Perché Hamas, che rilascia i permessi ai pochissimi internazionali che possono accedere alla Striscia, non li conosceva?

Alla fine, ma solo dopo un giorno e mezzo che deve essere stato abbastanza lungo, è venuto fuori che questi signori erano dei carabinieri italiani in borghese. Carabinieri italiani? E perché non hanno mostrato i documenti? E perché l’Italia, che non comunica con Gaza in quanto governata dal movimento dichiarato terrorista di Hamas, ha mandato i suoi carabinieri? Dalla Farnesina, attraverso il consolato a Gerusalemme rispondono, come ci comunica sollecitamente Davide Frattini, inviato del Corriere della Sera, che si trattava di “personale della sicurezza italiana, entrato a Gaza per una missione ufficiale”.  Una missione ufficiale? Ma allora la Farnesina tratta con Hamas? Ma no, che missione ufficiale poteva essere se i cosiddetti carabinieri erano in clandestinità?  C’è del giallo in tutta questa storia.

Frattini aggiunge e il Corriere lo evidenzia in neretto che “I carabinieri stavano verificando le condizioni di sicurezza… per una visita ufficiale al monastero di Sant’Ilarione”.

C’è del giallo sì, e non c’è neanche conoscenza dei luoghi; infatti i giornalisti, al pari dei lettori che dovrebbero informare,  non sanno che il monastero di Sant’Ilarione si trova a Nusseirat, quindi abbastanza a sud di Gaza city, e in realtà lì c’è un mosaico cristiano di circa 1700 anni fa sopravvissuto miracolosamente ai criminali bombardamenti del 2014. Ma le visite ai siti archeologici non si fanno di notte, e tornare da Nusseirat a Gaza city comporta solo una mezz’ora,  quindi come mai si trovavano a tarda sera a Gaza city? E dove avrebbero alloggiato, visto che il valico di sera è chiuso e non avrebbero potuto far ritorno alla loro sede a Gerusalemme? E su tutte, ancora la stessa domanda: perché fuggire al posto di blocco invece di fermarsi? E poi quanti posti di blocco hanno passato da Nusseirat a Gaza city, ammesso che venissero dal sito archeologico, senza essere fermati? Tutto stranissimo e, per chi conosce Gaza, più che strano  INCREDIBILE.

Intanto le voci che l’ambasciatore o il console italiano si sarebbero incontrati con Ismail Hanyeh per risolvere la questione vengono smentite, così come l’UNRWA smentisce che ci sia stato un assedio nella propria sede. Alla fine, dopo circa 48 ore, le autorità della perfida Hamas rompono il cordone di sicurezza, ovvero il cosiddetto “assedio dei nostri carabinieri”, accettando la versione che si tratti di tre italiani e non di tre sabotatori dei servizi segreti israeliani.

Questo viene raccontato ai lettori, ma noi vogliamo aggiungere una chicca che i nostri media mainstrem non conoscono e che i feroci capi di Hamas non hanno preso in considerazione. Si tratta della proposta fatta da un docente dell’Università Islamica di Gaza, il prof. Khalid El Khalidi il quale ha trovato che nella sua magnificenza e misericordia Dio, detto anche Allah, ha offerto a Gaza la possibilità di liberarsi dall’assedio e di ottenere un risarcimento monetario per le privazioni sofferte in questi anni. Il prof. El Khalidi chiedeva infatti che i tre (o quattro) violatori della legge venissero arrestati. Trattati ovviamente con tutte le cure, ma arrestati e se si scopriva che si trattava di ufficiali dei servizi segreti, cosa di cui lui era convinto,  proporre uno scambio tra la loro liberazione e la fine dell’assedio, chiedendo inoltre di risarcire  Gaza e il suo popolo per l’assedio e la distruzione derivata dalle  tre massicce aggressioni con  20 miliardi di dollari, da consegnare alla resistenza prima dell’estradizione dei tre ufficiali.

Il prof. El Khalidi, come molti altri, seguita a non credere infatti alla versione data dopo 48 ore e aggiunge che “Il nemico ha la capacità di mobilitare per salvare i suoi soldati tutti gli ambasciatori e i presidenti dell’Occidente.” Il suo pensiero è il pensiero di molti gazawi e per questo lo riportiamo, e noi stessi abbiamo il diritto di dubitare che l’Italia si sia prestata a questo gioco potendo contare su un’informazione mediatica telecomandata e giocando sul fatto che la gente non sa che a Gaza non si può entrare in anonimato come turisti qualsiasi.

In conclusione il giallo non è risolto e resta da chiedersi perché il perfido  Hamas si sia così addolcito, fino ad accettare di credere che i tre giovanotti fossero carabinieri italiani in borghese venuti a fare un’indagine su un sito archeologico di Gaza senza le autorizzazioni del ministero di Gaza e senza il permesso di entrata. C’è forse dietro un ricatto? E perché erano armati? I carabinieri in borghese non possono essere armati, soprattutto non possono esserlo a Gaza! E seppure fossero  italiani possono sempre avere la doppia cittadinanza ed essere a servizio dello Stato ebraico, come ad esempio l’ ex-deputata di Forza Italia e colona ebrea Nirenstein, che ha la cittadinanza israeliana poiché, in quanto ebrea, le spetta di diritto. Diritto interno a Israele ovviamente.

A fronte dell’abito borghese dei cosiddetti carabinieri, abbiamo l’uniforme dei valletti mediatici e le due cose insieme spengono le domande di chi invece avrebbe diritto a un’informazione onesta. Perciò seguitiamo a chiederci non solo perché Hamas non ha arrestato o non ha potuto arrestare i tre che hanno violato un bel po’ di norme a partire dalla più banale: l’aver forzato il  posto di blocco, cosa che a un gazawo qualunque sarebbe costata l’arresto e una forte multa., ma ci chiediamo anche perché è stata tirata in mezzo l’Italia e perché l’Italia ha acconsentito. Un ricatto anche qui? O forse una promessa? O semplicemente un ossequio verso un paese amico? Potremmo eliminare, almeno in parte, i dubbi se i tre ex rifugiati, ora liberi, apparissero in televisione a dare la loro versione facendoci conoscere anche i loro nomi.

In assenza di ciò noi facciamo il nostro lavoro di giornale libero, realmente libero, senza diktat né veline e senza uniformi e diciamo che questo è un giallo in cui l’Italia, insieme ai media mainstream fa la parte del servitore che fornisce l’alibi all’assassino.




La lotta palestinese si sta trasformando in movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio

Ramy Younis

11 gennaio 2019, +972

Secondo lo studioso Tareq Baconi la Grande Marcia del Ritorno segnala un cambiamento per il popolo palestinese. I palestinesi non stanno più lottando per uno Stato e stanno rivendicando sempre più i loro pieni diritti – in primo luogo il diritto al ritorno.

I dirigenti della Grande Marcia del Ritorno hanno sorpreso il mondo quando hanno organizzato la prima manifestazione lungo la barriera tra Israele e Gaza il 30 marzo 2018. Decine di migliaia di palestinesi vi hanno partecipato. Già nella prima protesta i cecchini israeliani hanno aperto il fuoco e hanno ucciso 14 palestinesi e ne hanno feriti più di 1.200.

Le proteste sono diventate dimostrazioni settimanali, in quanto ogni venerdì decine di migliaia di gazawi hanno manifestato lungo la barriera. L’esercito israeliano ha continuato a sparare contro di loro. I dirigenti delle marce, un gruppo di circa 20 attivisti, per lo più laici e di sinistra, hanno cercato di evitare per quanto possibile che la gente arrivasse troppo vicino alla barriera. Hamas, che all’inizio ha fornitol’ appoggio logistico che ha contribuito al successo delle proteste (ovvero, gli spostamenti e la propaganda), ha lentamente iniziato a giocare un ruolo più significativo nelle manifestazioni.

Hamas è entrato a forza nella Grande Marcia del Ritorno e potrebbe aver preso il controllo delle proteste, ma comunque senza Hamas Gaza non avrebbe potuto alleggerire il blocco. Hamas è una forza politica che può affrontare Israele come non sono capaci di fare né Fatah né l’Autorità Nazionale Palestinese.

Questo è il giudizio secondo Tareq Baconi, un giovane intellettuale e ricercatore palestinese, in precedenza membro dell’European Council for Foreign Relations [gruppo di studio inter-europeo su questioni di politica estera, ndtr.] e attualmente analista dell’International Crisis Group [ong europea che si occupa della gestione di conflitti, ndtr.]. È uno degli esperti su Hamas più apprezzati. Il nuovo libro di Baconi, “Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance” [Hamas sotto controllo: la nascita e la pacificazione della resistenza palestinese”, Stanford Univ Pr, 2018], analizza la transizione di Hamas dalla lotta armata alla resistenza popolare.

Ho parlato con Baconi di una delle storie più significative del 2018 – le marce del ritorno a Gaza. Si è detto molto sul coinvolgimento, se non sulla presa di controllo, del movimento, iniziato come protesta popolare, da parte di Hamas.

I palestinesi di Gaza sono critici nei confronti delle imposizioni religiose di Hamas, della sua intrusione nella vita quotidiana degli abitanti e della sua ostilità con Fatah. I media israeliani amano mostrare persone di Gaza che accusano Hamas dell’assedio, della povertà e delle vittime in seguito agli attacchi israeliani, ma non è così.

Baconi, figlio di rifugiati palestinesi di Haifa e di Gerusalemme, è cresciuto ad Amman e attualmente vive a Ramallah. Nella nostra conversazione non risparmia critiche a Fatah, ad Hamas e alla dirigenza palestinese in Israele, ma sottolinea ripetutamente che alla base della sua analisi ci sono Israele e gli enormi crimini che sta commettendo: l’occupazione e il blocco di Gaza.

Innanzitutto, cosa pensi della Grande Marcia del Ritorno?

Le marce sono una fonte di speranza. Indicano che le politiche di Hamas e di Fatah hanno fallito, che anche la via del negoziato promossa dagli americani ha fallito, ma che il popolo palestinese rimane saldo e continua a rivendicare i propri diritti dal ’48, non dal ’67, in primo luogo il diritto al ritorno. Le fazioni politiche possono aver fallito, ma il popolo è ancora legato ai propri valori e chiede gli stessi diritti per cui ha lottato fin dall’inizio.

Il popolo palestinese è arrivato a un punto di transizione, passando dalla richiesta di uno Stato alla rivendicazione dei propri diritti. È il passaggio a un movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio. Benché ci siano state proteste nella diaspora palestinese, in Siria e in Libano e all’interno [dei confini] del ’48 [cioè in Israele, ndtr.], ad Haifa, il modo in cui le marce sono iniziate a Gaza mette in luce un percorso da seguire e indica un nuovo sviluppo. Per quanto mi riguarda è una fonte di speranza. Ma mostra anche le sfide che stiamo per affrontare, nel modo in cui le marce si sono sviluppate, nel modo in cui Hamas ha affrontato le proteste e, ovviamente, nel modo in cui Israele ha risposto ad esse.”

Lo scorso anno qualcosa è cambiato nelle piazze palestinesi

Certo, non ho dubbi. E non è solo l’anno passato, è negli ultimi due anni, fin dall’”Intifada della preghiera” ad Al-Aqsa [si riferisce alle vittoriose proteste palestinesi contro l’installazione di sistemi di sorveglianza per l’accesso alla Spianata delle Moschee da parte di Israele, ndtr.]. Ma lo si può vedere anche all’interno [dei confini] del ’48, nel modo in cui i politici [palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] stanno parlando dell’uguaglianza – benché debbano affrontare i loro problemi come cittadini [di Israele], questo linguaggio ha avuto un impatto sul popolo palestinese. Ciò gli ha consentito di vedere politici diversi da Abbas e da Hamas. Gli ha fornito approcci differenti alla lotta e un modo per affrontare le sfide sulla base dei diritti.

Questo periodo di transizione in cui ci troviamo va avanti da più di un anno, forse da due o tre. Quest’anno ha portato il cambiamento più rilevante a causa della politica USA. Quando abbiamo visto quello che è successo a Gerusalemme [il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento in città dell’ambasciata USA, ndtr.] e all’UNRWA [la drastica riduzione dei finanziamenti USA all’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], questo ha portato a una frattura. I politici sono abituati a ripetere le stesse dichiarazioni e stanno ancora riponendo le loro speranze nella politica americana. La gente capisce che è finita, che non possiamo continuare allo stesso modo. Perciò, anche se non sta sorgendo un nuovo movimento politico, possiamo notare un grande cambiamento tra la gente. Sia nei termini di un’ambivalenza in merito a dove stiamo andando, sia anche in termini di speranza. Che possiamo organizzare la lotta per i nostri pieni diritti, basati sul ’48 [data della nascita di Israele e della contemporanea espulsione dei palestinesi, ndtr.], piuttosto che accettare una semi-uguaglianza solo per tirare avanti con le nostre vite.”

Ho detto a Baconi che la distanza tra il popolo palestinese e l’ANP è stata palpabile lo scorso giugno a Ramallah durante la protesta, a cui ho partecipato, contro le sanzioni che l’ANP ha imposto a Gaza. Ho assistito in diretta alla violenza che le forze palestinesi hanno messo in atto contro i manifestanti. Percepisco che c’è rabbia nei confronti dell’ANP.

C’è molta rabbia e l’ANP non può più negare quello che sta succedendo. Quando lo scorso novembre sono scoppiate proteste ad al-Khalil (Hebron), abbiamo visto foto delle forze palestinesi affrontare i manifestanti come avrebbero potuto fare le forze di occupazione.

Inoltre, non c’è più una giustificazione economica per l’ANP. La gente è stanca della durissima situazione economica. Avrebbe potuto essere altrimenti se l’ANP fosse stata in grado di offrire un adeguato livello di vita – che è il principio su cui si basa l’ANP: ignorare l’occupazione e dare l’impressione che si tratti dell’unica entità che governa le vite dei palestinesi –, se fosse stata in grado di garantire una vita economicamente agiata. Ma non esiste neppure questo. Non c’è un processo di riconciliazione guidato dagli americani, le condizioni di vita sono insopportabili e si possono vedere scene in cui l’occupazione e l’ANP lavorano insieme.

D’altra parte la gente vede il modo in cui Hamas affronta le marce, e capisce che Hamas almeno è in grado di trovare delle falle nell’occupazione. È capace di rafforzare la sua posizione politica come l’ANP non è in grado di fare. Perciò ovviamente c’è rabbia.”

Ti pare che la gente sia arrabbiata anche con Hamas per il modo in cui è intervenuta nelle marce?

Penso assolutamente che Hamas intervenga in tutto. Ma Hamas ha fornito al movimento per il ritorno le infrastrutture per [consentire di] dare più risonanza al modo in cui l’ha fatto. Perciò c’è tensione. Da una parte ci sono proteste che si fondano sul diritto al ritorno, iniziate dalla società civile, a cui hanno partecipato centinaia [di migliaia] di persone a Gaza. Hanno introdotto una nuova politica e ci consentono di osservare il futuro della lotta palestinese. Non ho dubbi che ciò sia quello su cui sono fondate le marce.

Dall’altra Hamas ha giocato un notevole ruolo nel fornire risorse, nel consentire al movimento di crescere e nel portare Israele ad accettare di fare delle concessioni. Sono riusciti a obbligare Israele ad alleggerire il blocco. Se Hamas non si fosse impegnato nelle marce del ritorno pensi che il movimento sarebbe stato in grado di ottenere le stesse concessioni da Israele?”

Buona domanda. Non ho una risposta.

In termini di allentamento del blocco, nei termini di consentire l’ingresso di merci a Gaza – se Hamas non fosse intervenuta nelle proteste nel modo in cui l’ha fatto, non penso che Israele avrebbe fatto queste concessioni a Gaza.

È difficile per me da ammettere, perché avrei preferito che queste proteste non avessero avuto niente a che vedere con Hamas. Allo stesso tempo ho visto Hamas diventare una forza politica che può trattare con Israele in un modo in cui Fatah e l’ANP non sono in grado di fare. Attraverso le proteste sono stati capaci di migliorare la loro posizione negoziale.

Sono sempre critico nei confronti di Hamas. Ma per me è importante che l’opinione pubblica israeliana capisca che, a differenza di quello che gli viene detto dai medi israeliani, anche se Hamas ha fornito le infrastrutture e alla fine si è impadronito delle proteste, le marce non sono una minaccia per la sicurezza. Nessun soldato israeliano ha il diritto di sparare contro i manifestanti a Gaza, perché le proteste non rappresentano alcun pericolo per gli israeliani.”

Il 14 maggio 2018, il giorno prima della commemorazione della Nakba e giorno in cui gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, Israele ha superato qualunque limite quando i suoi soldati hanno ucciso 68 dimostranti durante una marcia a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di palestinesi. Nel complesso, in base alle stime più caute, dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno fino al dicembre 2018 sono stati uccisi 235 palestinesi (comprese 60 vittime uccise in attacchi aerei durante l’anno). Dopo sei mesi dall’inizio delle proteste settimanali, sono rimaste ferite più di 25.000 persone, molte delle quali hanno avuto amputata una gamba in conseguenza delle insolitamente vaste e distruttive ferite dovute a proiettili. Tutti pensano che le manifestazioni continueranno. Rimangono l’argomento di cui più si parla nelle strade di Gaza.

Cosa pensi succederà con le proteste a Gaza nel 2019? Continueranno?

Penso che le marce continueranno. Nell’ultima hudna (accordo di cessate il fuoco), Hamas ha accettato di ridurre il numero di manifestanti in modo che Israele non colpisca Gaza. Non è chiaro quanto durerà questo equilibrio. In base alle mie ricerche su Hamas, so che se Israele non alleggerisce l’assedio e se non consente il movimento di persone attraverso i valichi, Hamas sarà obbligata a far pressione su Israele perché prenda atto della fine dell’accordo.

Considerando ogni guerra e attacco israeliano contro Gaza dal 2007 ad oggi, è Israele che ha violato i termini degli accordi e ciò ha obbligato Hamas a rispondere di nuovo con la violenza. Non c’è modo di sapere come questi negoziati incideranno sulle marce in futuro, ma credo che, indipendentemente da quello che è destinato a succedere tra Israele ed Hamas, le marce continueranno. Anche se non continueranno con la stessa intensità, non c’è una soluzione politica all’orizzonte. Credo che stiamo per assistere a più movimenti popolari e rivolte, non solo a Gaza ma ovunque, anche nella diaspora e nel [territorio del] ’48.”

E come pensi che ciò inciderà sull’ANP?

È una bella domanda. Sfortunatamente l’ANP continuerà a utilizzare la forza militare contro i manifestanti. Continuerà a reprimere le proteste. Il grande cambiamento avverrà una volta che capiremo il destino dell’Autorità Nazionale Palestinese dopo Abbas. Voglio credere che ci sarà un cambiamento positivo, ma è molto probabile che le politiche dell’ANP e il coordinamento per la sicurezza con Israele rimarranno.

Non so per quanto tempo ancora l’ANP potrà continuare a controllare il popolo palestinese. Le cose sono peggiorate dal punto di vista sociale e politico, soprattutto se non c’è una soluzione politica con gli israeliani. Con i palestinesi sottoposti all’oppressione sia dell’occupazione che dell’ANP, qualcosa accadrà. Il cambiamento non è ancora noto, ma non penso che la situazione in Cisgiordania sia sostenibile.”

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




JNF Canada sottoposto a controllo per aver utilizzato donazioni per finanziare progetti dell’esercito israeliano: un rapporto

Redazione di MEE

4 gennaio 2019, Middle East Eye

CBC News informa che il Jewish National Fund del Canada è stato sottoposto a un’indagine per aver utilizzato donazioni in beneficienza per finanziare progetti dell’esercito israeliano

La Canadian Broadcasting Corporation [l’Ente televisivo canadese] ha riferito che il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] del Canada è stato sottoposto a un’indagine da parte dell’ufficio federale delle imposte del Paese perché avrebbe destinato donazioni in beneficienza al finanziamento di progetti dell’esercito israeliano.

Venerdì [4 gennaio] CBS News ha detto che JNF Canada, una delle principali associazioni di beneficienza del Canada, ha finanziato progetti infrastrutturali dell’esercito israeliano, basi aeree e navali.

CBC ha informato che lo scorso anno l’organizzazione ha comunicato ai suoi donatori di essere sottoposta a un’inchiesta da parte della Canada Revenue Agency [Agenzia delle entrate canadese, ndtr.].

Mentre nessuna legge impedisce a un cittadino canadese di intestare un assegno direttamente al ministero della Difesa israeliano, le norme vietano a enti di beneficienza esenti da tasse di destinare entrate fiscali per tali donazioni e proibisce anche ai donatori di chiedere riduzioni fiscali per questo,” ha affermato la televisione nazionale.

CBC ha informato che JNF Canada ha aiutato a finanziare, tra i vari progetti, una zona di fitness all’aria aperta nella base militare di Gadna a Sde Boker, nella regione desertica del Negev nel sud di Israele.

Citando documenti prodotti da Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), la società madre in Israele dell’organizzazione JNF Canada, CBC News ha detto che la sezione canadese di JNF ha anche contribuito a finanziare “la nuova cittadella di addestramento dell’IDF [esercito israeliano] nel Negev.”

Le donazioni del JNF Canada sono state destinate anche ad appoggiare lo sviluppo di un complesso di addestramento e un auditorium nella base navale di Bat Galim, come anche addestramento e conferenze nella stessa base e una “specie di refettorio” per reparti nelle basi dell’aviazione di Palmachim e di Nevatim.

Nel reportage di CBC News figura anche il coinvolgimento di JNF Canada in progetti nei territori palestinesi occupati

Il mezzo di informazione ha affermato che le missioni dell’organizzazione hanno contribuito direttamente alla costruzione almeno di un avamposto di coloni su una collina, Givat Oz VeGaon, che è illegale in base alle leggi internazionali ed israeliane.

JNF Canada afferma di aver smesso di finanziare progetti dell’esercito nel 2016

In una mail, l’amministratore delegato di JNF Canada Lance Davis ha detto alla CBC che l’organizzazione ha smesso di finanziare progetti legati all’esercito israeliano nel 2016, dopo essere stata informata delle linee guida della CRA.

Per essere chiari, non abbiamo più finanziato progetti su terreni dell’IDF e JNF Canada ha agito in accordo con le norme della CRA che definiscono il suo status di organizzazione caritativa,” ha scritto Davis.

Comunque le sezioni sia israeliana che canadese del JNF sono state accusate per decenni di essere complici dell’espulsione forzata di palestinesi dalle loro case da parte di Israele, così come di politiche discriminatorie nella destinazione delle terre.

JNF Canada finanziò la creazione del Canada Park, un’estesa riserva naturale a circa 25 km da Gerusalemme, costruita sulle rovine di 3 villaggi palestinesi che vennero spopolati con la forza dall’esercito israeliano nella guerra del 1967.

Gli originari abitanti palestinesi di quei villaggi – Yalu, Imwas and Beit Nuba – vennero espulsi con la forza dalla zona e a molti, se non a tutti, venne impedito di tornarvi.

Independent Jewish Voices Canada” [Voci ebraiche indipendenti del Canada], un gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi, ha guidato una campagna “Stop al JNF”, con l’intenzione di togliere all’organizzazione lo status di ente benefico in Canada.

Nel 2017 il gruppo ha aiutato quattro canadesi a presentare un ricorso presso la CRA e il ministero delle Finanze canadese in cui si chiedeva che a JNF Canada non venisse più consentito di operare come associazione di beneficienza.

“Solo negli ultimi anni JNF Canada ha finanziato ben più di una decina di progetti di appoggio all’IDF ed è partner ufficiale dell’IDF e del ministero della Difesa israeliano,” afferma il gruppo nel suo sito web.

IJV-Canada ha anche affermato che il JNF ha piantato alberi nei territori palestinesi occupati, contribuendo quindi al fatto che Israele rafforzasse il proprio controllo su quelle aree, in violazione delle leggi internazionali.

Prendendo il controllo di terre nei (territori palestinesi occupati), questi progetti rafforzano la cinquantennale occupazione militare di Israele, rendendo molto più difficile da raggiungere una giusta pace,” sostiene il gruppo.

Nessuna organizzazione canadese, per non parlare di un’associazione con lo status di ente benefico, dovrebbe sponsorizzare progetti che creano fatti sul terreno in favore di una potenza occupante e che – in violazione delle leggi internazionali – modifica le caratteristiche fisiche del territorio occupato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Com’è cresciuta la campagna per il boicottaggio di Israele nel 2018?

Nora Barrows-Friedman

31 dicembre 2018, Electronic Intifada

Il 2018 è stato un anno di vittorie degli attivisti per i diritti umani nonostante pesanti pressioni, attacchi e tentativi propagandistici da parte di Israele e dei suoi gruppi lobbistici di ripulire la sua immagine.

All’inizio dell’anno si è appreso che l’alleanza del presidente USA Donald Trump con gruppi suprematisti bianchi e personaggi antisemiti ha spinto verso il basso l’appoggio nei confronti di Israele, soprattutto tra i giovani ebrei americani.

In ottobre un altro sondaggio ha confermato che il sostegno a favore di Israele viene soprattutto dalla base di Trump, un ricettacolo di opinioni di estrema destra, di nazionalisti bianchi e di cristiani sionisti, mentre quello da parte di altri americani continua a ridursi.

All’inizio dell’anno l’AIPAC, il più potente gruppo della lobby israeliana al Congresso [USA], ha dovuto ammettere di dover affrontare crescenti difficoltà nei suoi tentativi di consolidare l’appoggio a Israele tra i dirigenti progressisti americani.

Tuttavia l’AIPAC, insieme all’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, ndtr.] e gruppi di pressione simili, hanno continuato a insistere a favore di una legge federale – l’“Israel Anti-Boycott Act” [Legge contro il Boicottaggio di Israele, ndtr.] – che intende criminalizzare i sostenitori del movimento per il boicottaggio, anche se a porte chiuse l’ADL è giunto alla conclusione che tali leggi sono inefficaci e incostituzionali.

Ma ci sono segnali che persino i sostenitori più accaniti di Israele al Congresso hanno iniziato a tirarsi indietro.

Proprio nelle scorse settimane i senatori Bernie Sanders del Vermont e Dianne Feinstein della California hanno esortato i principali leader del Congresso a togliere l’Israel Anti-Boycott Act da un pacchetto di norme di bilancio, facendo riferimento a palesi violazioni del Primo Emendamento [primo articolo della Costituzione USA, ndtr.].

Ali Abunimah, di “The Electronic Intifada”, ha sottolineato che , dopo il premeditato massacro di palestinesi a Gaza del 30 marzo da parte di Israele, nessun democratico di entrambe le Camere del Congresso USA ha parlato in difesa delle azioni di Israele, una notevole differenza nella politica di parlamentari che nel passato lo hanno immediatamente fatto.

Ciò riflette il riconoscimento della sempre più negativa immagine di Israele, soprattutto tra la base democratica.

Gli attacchi di Israele contro gli attivisti del BDS sono stati a volte assurdi – come quando alla fine del 2017 un gruppo israeliano sostenuto dal Mossad per la lotta giudiziaria ha denunciato due attivisti neozelandesi per aver spinto con successo la pop star Lorde ad annullare la sua esibizione a Tel Aviv.

Gli attivisti citati in quell’azione legale – che secondo esperti di diritto non potrebbe essere applicata – hanno sfruttato la pubblicità derivante dal caso per raccogliere fondi a sostegno di un centro per l’assistenza psichiatrica a Gaza e per suscitare maggiore attenzione sulla crisi umanitaria in tutta la Palestina.

La diffusione da parte di “The Electronic Intifada” di un documentario censurato prodotto da Al Jazeera sulle strategie della lobby israeliana negli USA ha contribuito a svelare i tentativi di Israele e dei suoi lobbisti di spiare, calunniare e intimidire i cittadini USA che appoggiano i diritti umani dei palestinesi, soprattutto del movimento BDS.

Nonostante attacchi, calunnie e minacce da parte di Israele, gli attivisti a favore del boicottaggio continuano a ottenere notevoli risultati – con sommo sgomento dei dirigenti israeliani.

Stiamo evidenziando i crimini e le politiche di apartheid di Israele e facendo pressione per porvi fine,” hanno rilevato importanti attivisti del movimento BDS nella loro riunione annuale sui risultati più importanti del boicottaggio.

Ecco alcune delle principali vittorie del BDS su cui “The Electronic Intifada” ha informato nel corso dell’anno.

Israele continua ad avere un’immagine negativa

Nel 2018 alcuni artisti hanno continuato a rinunciare ad esibirsi in Israele, in seguito a insistenti appelli da parte di attivisti per i diritti umani in Palestina e in tutto il mondo.

Shakira e Gilberto Gil hanno guidato una lista di importanti cancellazioni, mentre decine di DJ e produttori musicali si sono pubblicamente impegnati a non esibirsi nello Stato dell’apartheid.

Durante l’estate il festival israeliano “Meteor” si è chiuso senza la sua artista più importante, Lana del Rey, che ha rinunciato al suo spettacolo pochi giorni prima che il festival iniziasse, affermando di voler “trattare tutti i suoi fan allo stesso modo.”

Altre sedici esibizioni del festival “Meteor”, compreso quello di “Of Montreal” [gruppo musicale USA, ndtr.] sono state annullate dal festival in seguito a pressanti appelli da parte di attivisti palestinesi e internazionali a rispettare la richiesta di boicottaggio.

In aprile l’attrice israelo-americana Natalie Portman si è rifiutata di ricevere un premio a Gerusalemme, a quanto pare in seguito ai massacri di palestinesi da parte di Israele, con grande sdegno e sconcerto dei dirigenti israeliani.

In giugno 11 registi LGBTQ si sono rifiutati di consentire a Israele di utilizzarli per occultare i suoi crimini, unendosi al boicottaggio del TLVFest – il festival internazionale LGBT di Tel Aviv.

Alcuni artisti hanno boicottato anche il Film Festival di Istanbul, dopo che si è saputo che Israele lo stava sponsorizzando.

Il boicottaggio culturale ha ottenuto successi anche nel mondo dello sport, in quanto in giugno la nazionale di calcio argentina ha annullato una partita molto importante con Israele dopo un’intensa campagna internazionale iniziata in Argentina e che ha travolto l’America latina e la Spagna. Tifosi e attivisti hanno sollecitato l’Argentina e la stella della squadra, Lionel Messi, a non aiutare Israele a nascondere i massacri di civili disarmati a Gaza.

All’inizio dell’anno una corsa motociclistica sponsorizzata dalla Honda in Israele è stata annullata in seguito a pressioni di attivisti BDS.

In autunno altri tentativi propagandistici di Israele sono falliti e grandi cuochi a livello internazionale hanno rinunciato al festival “Tavole Rotonde”, mentre una fonte diplomatica israeliana ha ammesso che centinaia di eventi culturali inclusi nella “Saison France-Israël” [Stagione Francia-Israele], “non hanno avuto nessun successo riguardo all’immagine di Israele in Francia, o a quella della Francia qui [in Israele, ndtr.].”

Nel contempo in tutta Europa gli attivisti continuano a fare pressione sulle emittenti televisive per non consentire a Israele di ospitare la competizione canora “Eurovision” come parte della sua campagna di riverniciatura della sua immagine.

Manifestanti hanno tenuto regolarmente proteste fuori dalle esibizioni di Netta Barzilai, la vincitrice israeliana dell’Eurovisione 2018 che è stata utilizzata come parte dei tentativi di propaganda a livello internazionale sostenuti ufficialmente dal Paese.

Chiese, imprese e sindacati lasciano Israele

A dicembre il gigante bancario HSBC [primo istituto di credito europeo, con sede a Londra, ndtr.] ha confermato di aver disinvestito dall’impresa bellica israeliana Elbit Systems in seguito a una campagna dal basso.

L’impresa [israeliana, ndtr] è già stata esclusa da fondi pensione e di investimento in tutto il mondo per il suo coinvolgimento nella fornitura di sistemi di sorveglianza e altre tecnologie al muro di Israele e alle colonie nella Cisgiordania occupata.

Affermando di essere la prima chiesa britannica a prendere una simile iniziativa, in novembre la chiesa dei quaccheri ha annunciato che non avrebbe investito alcun fondo posseduto a livello centrale che tragga profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Unendosi ad altre congregazioni religiose cristiane degli USA, la chiesa episcopale ha votato per l’adozione di un controllo sugli investimenti per evitare di trarre profitto da violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Ha anche deciso di tutelare i diritti dei minori palestinesi e dei palestinesi di Gaza, di appoggiare l’autodeterminazione dei palestinesi e di chiedere la prosecuzione dell’aiuto USA ai rifugiati palestinesi.

Un’altra risoluzione chiede un giusto accesso a Gerusalemme e si oppone allo spostamento dell’ambasciata USA in città da parte dell’amministrazione Trump.

In agosto lavoratori del sindacato e attivisti del boicottaggio nel mondo arabo hanno obbligato la compagnia di navigazione israeliana “Zim” a interrompere a tempo indefinito i suoi viaggi verso la Tunisia.

La principale federazione sindacale tunisina, la UGTT, ha chiesto ai propri membri di impedire alla nave “Cornelius A”, legata ad Israele, di fare scalo in Tunisia ed ha appoggiato le richieste di un’inchiesta ufficiale sul commercio clandestino con Israele.

Lavoratori giordani hanno rifiutato di fornire materiale per il gasdotto Giordania-Israele, mentre l’impresa francese Systra si è impegnata a ritirarsi dai piani di espansione del progetto della metropolitana leggera di Israele [a Gerusalemme, ndtr.].

E a novembre il gigante dell’affitto per turisti Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo elenco di offerte proprietà in colonie israeliane nella Cisgiordania occupata. In base alle leggi internazionali ogni colonia israeliana nei territori occupati è illegale.

Benché a questo proposito chi sia stata una certa confusione riguardo a se – e quando – questo cambiamento di politica aziendale verrà messo in pratica o se l’impresa, sotto pressione di Israele, farà marcia indietro rispetto al suo annuncio, ciò è servito a mettere in luce la complicità dell’impresa rispetto ai crimini di guerra israeliani.

Amministrazioni locali sostengono il boicottaggio

Nonostante i tentativi della lobby israeliana di interferire sulle politiche locali e nazionali, consigli comunali in Europa e in America Latina hanno approvato dure risoluzioni di appoggio alla campagna BDS, con una crescente ondata di resistenza ai crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In giugno Monaghan è diventato il quinto consiglio provinciale o comunale irlandese a dichiarare il proprio sostegno al BDS. Ha fatto seguito al voto in aprile di Dublino, diventata la prima capitale europea a farlo, che ha aderito a un boicottaggio contro Israele e di conseguenza ha interrotto un contratto con HP, una ditta di computer da lungo tempo complice dell’occupazione militare di Israele.

Più o meno nello stesso periodo il consiglio comunale di Valdivia, in Cile, ha approvato una mozione che sostiene la campagna BDS e ha dichiarato la città “zona libera dall’apartheid”.

Una serie di iniziative di “zona libera dall’apartheid” simili è stata approvata da più di 30 città spagnole.

A maggio anche Bologna, la settima città d’Italia per numero di abitanti, ha chiesto un embargo militare contro Israele [sulla scia di Bologna anche i consigli comunali di Torino e Napoli hanno approvato la stessa richiesta. ndtr]

A giugno la Norvegia ha approvato una mozione che appoggia il diritto di singole città di boicottare colonie israeliane, assestando un duro colpo a politici di destra che avevano cercato di opporsi ai boicottaggi approvati nelle città di Trondheim and Tromsø.

Nel Regno Unito membri del partito Laburista hanno votato a larga maggioranza l’appoggio al congelamento della vendita di armi contro Israele.

Leggi contro il BDS sono state bloccate o contestate

Nel 2018 nelgi USA sono state bloccate leggi che cercavano di zittire il diritto al boicottaggio.

Tribunali federali hanno sentenziato contro leggi anti-BDS in Arizona e nel Kansas, mentre ricorsi legali sono stati presentati a tribunali del Texas e dell’Arkansas contro l’imposizione del giuramento di lealtà verso Israele.

In febbraio attivisti dei diritti umani nella città di Maplewood, in New Jersey, hanno contribuito a sconfiggere una decisione locale che avrebbe condannato il movimento BDS. La risoluzione era stata presentata al consiglio comunale da rappresentanti di gruppi di sostegno a Israele che hanno fatto pressione su altre città vicine perché adottassero risoluzioni simili.

E attivisti in Missouri e in Massachusetts hanno fatto con successo una campagna per bloccare misure contro il BDS a livello statale.

In Germania – che è stata ostile all’attivismo BDS e ha stabilito di equiparare il sostegno ai diritti della Palestina con l’antisemitismo – a settembre attivisti locali del boicottaggio hanno ottenuto una significativa vittoria che potrebbe costituire un precedente legale in tutto il Paese.

Il tribunale municipale di Oldenburg ha sentenziato che una precedente decisione del consiglio comunale di annullare un evento del BDS nel 2016 era illegale e violava la libertà di espressione e di riunione. È stata la prima volta che un tribunale amministrativo tedesco ha dichiarato illegale vietare un evento del BDS.

Studenti approvano risoluzioni radicali che proteggono i diritti dei palestinesi.

Resistendo a pressioni della lobby israeliana, di siti web che in modo oscuro stilano liste di proscrizione e di campagne di vessazioni mirate, attivisti studenteschi in tutti gli USA, in Canada e in Europa si sono mantenuti fermi nel sostenere i diritti dei palestinesi e hanno chiesto ad amministrazioni universitarie di disinvestire dai crimini israeliani di occupazione e apartheid.

In maggio studenti dell’università statale della California, East Bay, hanno votato all’unanimità a favore di una mozione che chiede il disinvestimento da imprese che siano state riconosciute complici delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi, comprese Caterpillar, HP, la G4S e Motorola.

E rappresentanti degli studenti nel senato accademico dell’università dell’Oregon hanno approvato una mozione per accertarsi che i fondi degli studenti vengano disinvestiti da 10 imprese che traggono profitto dalle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Un referendum in favore del disinvestimento è stato approvato al Barnard College [storico college femminile, ndtr.] di New York. La misura è stata approvata nonostante tentativi recenti e passati da parte dell’amministrazione e dei gruppi della lobby israeliana di intimidire e calunniare studentesse e docenti che appoggiano i diritti dei palestinesi presso il Barnard e il suo partner, la Columbia University.

All’inizio di dicembre anche studenti dell’università di New York hanno votato in massa a favore del disinvestimento con più di 60 gruppi nei campus e 35 membri del corpo docente che hanno appoggiato l’iniziativa.

All’università del Minnesota gli studenti hanno approvato un referendum che invita l’amministrazione a prendere iniziative riguardo alla sua politica di investimenti socialmente responsabili e di disinvestire da imprese che traggano profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come anche da prigioni, centri di detenzione per immigrati e imprese che violino la sovranità di comunità indigene.

La Federazione Canadese degli Studenti, la maggiore organizzazione studentesca del Canada, a novembre ha votato l’adesione al movimento BDS, la condanna della continua occupazione e delle atrocità israeliane a Gaza e l’elargizione di donazioni finanziarie a varie organizzazioni palestinesi di solidarietà.

La federazione, che rappresenta più di 500.000 studenti in tutto il Canada, ha affermato anche che avrebbe appoggiato le sezioni locali per iniziare campagne di disinvestimento dalle armi nelle singole amministrazioni universitarie.

In Irlanda l’Unione degli Studenti, che rappresenta 374.000 studenti dell’educazione superiore, ha votato l’adesione al movimento BDS ed ha condannato la “brutale” occupazione militare e la violazione dei diritti umani da parte di Israele.

L’Unione ha deciso di boicottare le istituzioni israeliane che sono “complici nel normalizzare, fornire copertura dal punto di vista intellettuale e sostenere il colonialismo di insediamento” e di fare pressione sulle università irlandesi perché disinvestano da imprese che traggono profitto dalla violazione dei diritti da parte di Israele. Hanno anche ribadito il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi da Israele.

Il voto ha fatto seguito al provvedimento votato in marzo dagli studenti del Trinity College di Dublino in appoggio alla campagna BDS.

In primavera anche dirigenti studenteschi dell’università di Pisa, in Italia, hanno adottato una mozione con un voto quasi unanime che chiede l’attenzione da parte della comunità accademica verso le politiche di apartheid di Israele e il sostegno alla campagna di boicottaggio accademico.

A novembre quella di Leeds è diventata la prima università del Regno Unito a disinvestire da imprese coinvolte nella vendita di armi ad Israele, dopo una campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni da parte di attivisti in solidarietà con la Palestina.

Nel 2018 anche alcuni professori hanno continuato a dimostrare il proprio appoggio ai diritti dei palestinesi.

In marzo un sindacato che rappresenta il corpo docente della “Los Rios College Federation” [Federazione dei college del distretto di Los Rios] in California ha votato quasi all’unanimità il sostegno al disinvestimento dei fondi pensione da imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Due insegnanti dell’università del Michigan hanno resistito agli attacchi della lobby israeliana ed hanno difeso la loro decisione di non scrivere lettere di presentazione per studenti che desideravano frequentare programmi di studio discriminatori all’estero in Israele.

E in California i docenti dell’università Pitzer [un’università privata. ndtr] hanno chiesto la sospensione dei programmi di studio all’estero in Israele con l’università di Haifa, facendo riferimento alle politiche discriminatorie di Israele in base all’origine e alle opinioni politiche. Il corpo docente ha anche appoggiato il diritto degli studenti ad aderire alla campagna del BDS.

Brindiamo alle vittorie del 2018, mentre gli attivisti si organizzano per quelle che arriveranno nel 2019.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esportare la tecnologia dell’occupazione

Antony Loewenstein

4 gennaio 2019 The New York Review of Books

Parlando recentemente via satellite da Mosca ad un pubblico di Tel Aviv poco dopo l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita ad Istanbul, l’informatore della National Security Agency [ente governativo USA che si occupa di sicurezza nazionale, ndtr.] Edward Snowden ha sostenuto che l’Arabia Saudita ha utilizzato un software-spia prodotto in Israele per tracciare i movimenti di Khashoggi prima della sua morte. Snowden ha detto che l’agenzia israeliana di intelligence informatica ‘NSO Group Technologies’ ha sviluppato un software noto come Pegasus che è stato venduto ai sauditi ed ha consentito che Khashoggi fosse monitorato infettando lo smartphone di uno dei suoi contatti, un altro oppositore del regime saudita, che vive in Canada.

Questo dissidente, Omar Abdulaziz, alla fine del 2018 ha promosso un’azione legale in Israele sostenendo che il gruppo NSO ha violato le leggi internazionali vendendo la propria tecnologia a regimi oppressivi. “NSO dovrebbe rispondere riguardo alla protezione delle vite di dissidenti politici, giornalisti ed attivisti per i diritti umani”, ha detto il suo avvocato di Gerusalemme, Alaa Mahajna. Il gruppo NSO risulta di proprietà di un’impresa americana, la Francisco Partners, e sia Goldman Sachs che Blackstone vi investono. Il giornalista di The Washington Post David Ignatius, da tempo sostenitore dei sauditi, ha confermato le affermazioni di Snowden circa gli affari dell’impresa israeliana con il Regno [saudita].

Questo è solo uno dei tanti sinistri esempi di un lucroso affare. Secondo il Jerusalem Post, Israele recentemente ha venduto all’Arabia Saudita sofisticati impianti di spionaggio per un valore di 250 milioni di dollari, e Haaretz ha anche riferito che al Regno è stato offerto un software per intercettazioni telefoniche del gruppo NSO poco prima che il principe ereditario Mohammed Bin Salman iniziasse le purghe contro gli oppositori nel 2017. Sia Israele che l’Arabia Saudita considerano l’Iran come un’eccezionale minaccia che giustifica la loro cooperazione.

Oltre a software di spionaggio e strumenti informatici, Israele ha sviluppato una crescente industria nell’ambito della sorveglianza, inclusi spionaggio, operazioni psicologiche e disinformazione. Una di queste imprese, Black Cube, un’agenzia di intelligence privata con legami con il governo israeliano (due ex capi del Mossad hanno fatto parte del suo comitato consultivo internazionale), di recente ha acquisito notorietà – soprattutto per aver spiato donne che avevano accusato il magnate di Hollywood Harvey Weinstein di violenza sessuale. Alcuni reportage hanno anche rivelato l’attività dell’impresa per il governo autoritario ungherese, così come una presunta campagna di ‘operazioni sporche’ contro funzionari dell’amministrazione Obama legati all’accordo nucleare iraniano e contro un ricercatore anti-corruzione in Romania. Black Cube ed altre agenzie simili hanno stretti legami con lo Stato di Israele in quanto impiegano molti dipendenti che hanno fatto parte dell’intelligence.

In più di mezzo secolo di occupazione Israele ha perfezionato l’arte di monitorare e sorvegliare milioni di palestinesi in Cisgiordania, Gaza e nello stesso Israele. Adesso confeziona e vende queste conoscenze a governi che ammirano la capacità del Paese di reprimere e gestire la resistenza. Così l’occupazione israeliana è diventata globale. Le esportazioni del Paese per la difesa hanno raggiunto un record di 9,2 miliardi di dollari nel 2017, il 40% in più del 2016 (in un mercato di armamenti globale che ha registrato le vendite più alte di sempre nel 2017, con la cifra di 398,2 miliardi di dollari). La maggioranza di queste vendite sono avvenute in Asia e nella regione del Pacifico. I sistemi militari, come missili e difesa aerea, sono stati il settore principale con il 31%, mentre i sistemi di intelligence, informatici e di spionaggio hanno rappresentato il 5%. L’industria di Israele è sostenuta da un’abbondante spesa interna: nel 2016 la spesa per la difesa ha rappresentato il 5,8% del PIL del Paese. A titolo di confronto, nel 2017 il settore della difesa americano ha assorbito il 3,6% del PIL degli USA. 

Nonostante i loro occasionali gesti diplomatici di opposizione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, molte Nazioni sono diventate acquirenti bendisposti di armamenti informatici israeliani e di know-how per lo spionaggio. Secondo il New York Times, anche il governo messicano ha utilizzato, almeno in un caso, strumenti del gruppo NSO, verosimilmente per spiare un giornalista d’inchiesta che è stato in seguito ucciso; sono stati presi di mira anche avvocati per i diritti umani ed attivisti anti-corruzione. Amnesty International ha accusato il gruppo NSO di aver cercato di spiare uno dei suoi dipendenti. Un gruppo di ricerca canadese, ‘The Citizen Lab’, ha scoperto che sono comparsi apparecchi telefonici infettati in Bahrein, Brasile, Egitto, Palestina, Turchia, Emirati Arabi, Regno Unito, USA e altrove.

Durante le recenti proteste a Gaza un ex amministratore delegato dell’impresa che ha costruito la barriera che circonda parte della Striscia di Gaza, Saar Korush della ‘Magal Security Systems’, ha detto all’agenzia Bloomberg che Gaza era una vetrina per la sua “recinzione intelligente”, perché i clienti apprezzavano che fosse stata sperimentata sul campo di battaglia e si fosse dimostrata in grado di tenere i palestinesi fuori da Israele. La Magal (insieme ad un’altra impresa israeliana) è tra le imprese candidate a costruire il muro di confine col Messico del presidente Trump ed ha creato un business internazionale sulla base della sua capacità di bloccare gli “infiltrati”, un termine comunemente usato in Israele per definire i rifugiati. Un’altra nuova arma utilizzata lungo la barriera tra Israele e Gaza è il “Mare di Lacrime”, un drone che sgancia candelotti lacrimogeni sui dimostranti. Secondo il sito israeliano Ynet il suo produttore ha presto ricevuto centinaia di ordini per questi droni. La Germania sta già noleggiando droni israeliani, mentre l’agenzia europea Frontex sta testando droni simili per sorvegliare i confini europei nel tentativo di impedire l’ingresso di migranti e rifugiati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso dei suoi quasi dieci anni al potere, ha favorito la trasformazione del suo Paese in una potenza tecnologica che promuove orgogliosamente i suoi strumenti di occupazione sul mercato mondiale e interno. Parlando a novembre ai suoi colleghi parlamentari in Israele, Netanyahu ha detto che “il potere è la componente più importante della politica estera. ‘L’occupazione’ è una cavolata. Ci sono Paesi che hanno conquistato e deportato intere popolazioni ed il mondo resta in silenzio. La chiave è la forza, fa la differenza nella nostra politica verso il mondo arabo.” Ha concluso che ogni accordo di pace con i palestinesi potrebbe avvenire solamente con “interessi comuni basati sulla potenza tecnologica.”

Nel 2017 Israele ha ammorbidito le sue regole per concedere licenze di esportazione ad una serie di produttori di strumenti di spionaggio, sorveglianza e armamenti, benché sostenga di farlo tenendo conto delle implicazioni per i diritti umani. Ma questo non è credibile, dato che proprio negli scorsi anni Israele ha venduto armi a Paesi che commettono gravi violazioni, come Filippine, Sud Sudan e Myanmar. Netanyahu ha stretto amicizia con il dittatore del Ciad Idriss Déby, e i prossimi della lista potrebbero essere il regime del Bahrein e il dittatore sudanese Omar al-Bashir, che è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.

Il ministero della Difesa israeliano rilascia difficilmente informazioni su come o perché le sue esportazioni vengano concesse. Haaretz ha recentemente scoperto che sono stati venduti sistemi di spionaggio a parecchi regimi non democratici, compresi Bangladesh, Angola, Bahrein, Nigeria, Emirati Arabi, Vietnam ed altri. In alcuni casi, questi governi ed altri hanno usato i sistemi per prendere di mira dissidenti e cittadini LGBTQ e anche per fabbricare false accuse di blasfemia. All’inizio del 2019 Haaretz ha anche rivelato l’esistenza di un’altra azienda israeliana di sicurezza informatica, di nome Candiru, che commercializza strumenti di hackeraggio e si basa ampiamente sul reclutamento di veterani dell’esercito del reparto d’elite dello spionaggio Unit 8200.

Da quando è scoppiata la bolla tecnologica nel 2000, il governo israeliano ha spinto imprese locali ad investire nelle industrie di sicurezza e di intelligence. Secondo un rapporto di “Privacy International” [organizzazione inglese che si occupa delle garanzie della privacy in tutto il mondo, ndtr.] del 2016, il risultato è stato che, su 528 imprese attive nel mondo in questo settore, 27 hanno sede in Israele –facendo del Paese quello con il tasso di imprese di sorveglianza e di intelligence pro capite di gran lunga più alto al mondo. E nel 2016, riferisce Haaretz, il 20% degli investimenti mondiali nel settore sono stati in start-up israeliane.

In quello stesso anno l’avvocato per i diritti umani Eitay Mack, uno dei pochi israeliani famosi che sfidi pubblicamente la politica di esportazione di armi di Israele, e Tamar Zandberg, presidentessa del partito di sinistra Meretz, si sono rivolti all’Alta Corte di Giustizia israeliana nel tentativo di ottenere una sospensione della licenza all’esportazione del gruppo NSO. Il governo ha chiesto che il processo si tenesse a porte chiuse e la sentenza della corte non è stata resa pubblica. La giudice che presiede la Corte Suprema Esther Hayut ha spiegato che “la nostra economia, guarda caso, si basa non poco su quelle esportazioni.”

Infatti nel 2017 Israele è stato secondo solo agli USA, raggiungendo quasi 1 miliardo di dollari in capitale di rischio e azioni private per imprese di sicurezza informatica. Informazioni diffuse l’anno scorso dall’impresa di dati di New York “CB Insights” mostrano che Israele è stato il secondo maggior firmatario di accordi di sicurezza informatica al mondo dopo gli USA. Benché gli USA siano i primi con largo margine, con il 69% del mercato globale, il 7% di Israele lo piazza davanti al Regno Unito.

L’occupazione ha quindi alimentato la politica israeliana dell’industria e della difesa attraverso un boom economico che ha beneficiato le imprese che costruiscono, conducono e gestiscono l’impresa coloniale. Ma per Shir Hever, autore di ‘The privatization of israeli security’ [La privatizzazione della sicurezza israeliana] (2017) ed esperto mondiale del commercio di armi israeliano, l’occupazione sta diventando meno un’opportunità che un peso. Molti venditori di armi israeliani, mi ha detto, “stanno esprimendo la loro frustrazione per il fatto che i clienti non sono entusiasti dei prodotti israeliani perché non riescono a fermare la resistenza palestinese. La Russia ha sviluppato un sistema di vendita equa di armi ‘collaudate in battaglia’ nella guerra in Siria ed è riuscita ad aumentare le vendite in Turchia e India, entrambi mercati molto importanti per le imprese israeliane. Quindi perché gli importatori di armi dovrebbero considerare speciali gli armamenti israeliani?”

Hever riconosce che “i regimi autoritari vogliono sicuramente ancora imparare come Israele gestisce e controlla i palestinesi, ma più imparano, più si rendono conto che Israele in realtà non controlla i palestinesi molto efficacemente. Il sostegno ad Israele da parte dei gruppi e dei politici di destra nel mondo è ancora forte – il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ne è un esempio particolarmente deprimente – ma io penso che vi sia più attenzione al razzismo, alla discriminazione razziale e al nazionalismo, e meno attenzione e ammirazione per ‘l’esercito più forte del mondo.”” Egli mette anche in discussione la narrazione del governo israeliano riguardo al successo del settore degli armamenti e dell’intelligence e sostiene che l’industria sia in declino perché è troppo dipendente da alleanze di breve termine e ad hoc.

Il Sudafrica dell’apartheid e il suo declino sono un avvertimento della storia che Israele sarebbe incauto ad ignorare. Al suo apice, il Sudafrica è stato uno dei maggiori mercanti di armi al mondo, dopo il Brasile e Israele, e questo è stato ottenuto attraverso ingenti sussidi statali. Nonostante un embargo ONU sulle armi, secondo un recente volume, ‘Apartheid guns and money: a tale of profit’ (Fucili e denaro dell’apartheid: una storia di profitto), di Hennie van Vuuren, direttore dell’organizzazione di controllo sudafricana non profit ‘Open Secrets’, il regime sudafricano alla fine degli anni ’80 ha speso il 28% del bilancio statale nella sua industria della difesa. Un’economia costruita sul know-how militare e sulla competenza nelle tecniche di repressione interna può sembrare una fonte di invincibile potenza, ma l’apartheid è finita meno di cinque anni dopo.

Oggi un crescente numero di ebrei americani sta prendendo le distanze da Israele, rifiutando l’adesione del governo al nazionalismo etnico e sostenendo invece una soluzione di uno Stato unico. Per il momento Israele appare nella posizione di restare un importante soggetto mondiale nella produzione e vendita di sistemi di armi e di dispositivi e competenze di sorveglianza – che è ora uno dei modi principali in cui il Paese si autodefinisce sul piano internazionale. Ma l’opposizione internazionale sta crescendo, grazie soprattutto agli appelli del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per un embargo militare contro Israele e la sua industria della difesa. Una delle imprese del settore della difesa più grandi del Paese, Elbit Systems, ha già subito boicottaggi alle sue attività nel mondo. Pochi giorni fa il colosso bancario HSBC ha annunciato il proprio disinvestimento da Elbit Systems. Campagne di alto profilo come questa inizieranno sicuramente a modificare i calcoli sui costi economici e morali dell’occupazione – ancor di più se Israele proseguirà il suo attuale percorso politico verso l’annessione de facto della Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)