Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Betlemme dell’immaginario cristiano occidentale contrasta fortemente con la realtà dell’occupazione

Ghada Karmi

26 dicembre 2018, Middle East Eye

Presunto luogo di nascita di Gesù Cristo, Betlemme occupa un posto centrale nella fede cristiana. Eppure sono molti i fedeli che ignorano che questa città si trova in Palestina e che è soggetta alla spietata occupazione di Israele

O little town of Bethlehem/How still we see thee lie/Above thy deep and dreamless sleep/The silent stars go by” (“Oh, piccola città di Betlemme/Dormi tranquillamente/Al di sopra del tuo sonno profondo e senza sogni/ passano le stelle silenziose”), intona il celebre canto natalizio anglosassone. La vigilia di Natale, la messa di mezzanotte ha risuonato nella chiesa della Natività a Betlemme, secondo la leggenda luogo di nascita di Gesù Cristo, che proclamò che avrebbe portato “la pace agli uomini sulla Terra”.

La vera Betlemme

Niente è più lontano dalla verità dell’immagine di una Betlemme calma e tranquilla trasmessa da questo canto di Natale scaturito dalla pia immaginazione di un cristiano occidentale dell’epoca vittoriana. Generazioni di bambini cristiani l’hanno imparata e il suo potere mitico è tale per cui pochi tra loro sanno dove si trovi Betlemme e quale sia la vera situazione.

Recentemente un’amica inglese molto colta che conosco da anni è rimasta sorpresa di sapere che Betlemme si trova in Palestina. Nella sua mente la città era più una leggenda che un luogo reale e, se avesse dovuto associarla a una comunità, sarebbe stato a quella ebraica.

Ora, la città che ho visto durante una visita in Palestina all’inizio dell’anno era un simulacro del luogo evocato da questo canto di Natale e una messa in discussione senza appello del cristianesimo occidentale per avere vilmente fallito nel sostenere uno dei suoi santuari più sacri. Nella Betlemme di oggi, il sonno “senza sogni” sembra piuttosto un incubo, e la città non potrà essere “calma” che quando finirà l’occupazione israeliana.

Il vandalismo brutale di Israele

Betlemme ed i villaggi che la circondano, Beit Jala e Beit Sahour, figurano tradizionalmente tra i luoghi più cristiani della Palestina, anche se oggi Betlemme è abitata da una maggioranza di musulmani.

Prima dell’occupazione israeliana del 1967 la città era un importante centro sociale, culturale ed economico, così come uno dei luoghi più antichi della Palestina. Il suo nome, Beit Lahem (Casa di Lahem) risale all’epoca cananea [dalla popolazione che visse in Palestina prima degli ebrei, ndtr.], quando ospitava il santuario del dio cananeo Lahem.

L’architettura di Betlemme testimonia della sua ricca storia. Al periodo romano e poi bizantino, al quale risale la costruzione nel 327 della chiesa della Natività da parte dell’imperatrice Elena sopra la grotta dove sarebbe nato Gesù, fecero seguito le conquiste musulmane nel 637, l’occupazione dei crociati nel 1099 fino alla riconquista della Palestina da parte del Saladino nel 1187, poi all’inizio del XVI secolo la dominazione degli ottomani, che costruirono i bastioni della città, fino al Mandato britannico dal 1922 al 1948.

Nel 1967 Israele occupò Betlemme e il resto della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni e nel 1995, in seguito agli accordi di Oslo, la città venne trasferita all’Autorità Nazionale Palestinese, anche se rimase sotto il complessivo controllo di Israele. Nessuno dei periodi storici che hanno preceduto l’occupazione israeliana ha avuto un livello di vandalismo e di distruzioni simile a quello che avviene attualmente.

Mentre percorrevo in auto i 9 km che separano Gerusalemme da Betlemme ho sbagliato strada e mi sono ritrovata su un’autostrada moderna dove non si vedeva nessun automobilista palestinese. Ero finita per caso su una circonvallazione riservata agli ebrei, una delle due che circondano Betlemme per servire le colonie dei dintorni.

Ho subito capito lo scopo dell’operazione: affermare che nella regione vivono solo gli ebrei.

Un luogo triste

Ventidue colonie israeliane circondano Betlemme, tagliando le sue uscite e confiscando le sue terre agricole. Dominando le colline attorno, queste colonie ospitano più abitanti di tutta Betlemme e dei suoi dintorni. A nord si trova Har Homa, una colonia costruita nel 2000 su una collina una volta densamente ricoperta di boschi, Jabal Abu Ghneim.

Israele ha sradicato gli alberi di Jabal Abu Ghneim e li ha sostituiti con delle case monotone, tutte identiche, minacciando inoltre di trasformare il luogo in una copia di Betlemme per turisti. Nokidim, a est, è l’attuale luogo di residenza dell’ex-ministro della Difesa israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Dal 2015 Israele ha chiuso l’accesso alla fertile valle di Betlemme, Cremisan, ai suoi proprietari palestinesi, e lo scorso giugno ha annunciato uno sviluppo massiccio delle colonie situate lungo la strada che unisce Gerusalemme a Betlemme.

La tomba di Rachele, monumento storico di Betlemme sulla strada principale che porta a Gerusalemme e zona tradizionalmente animata da negozi e ristoranti, ora è riservata esclusivamente agli ebrei e il suo acceso è impedito ai palestinesi dal muro di separazione.

I fedeli musulmani che venerano la tomba (e che l’hanno costruita) non possono più andarci. È un luogo triste, deserto, senza vita. All’ombra del muro la maggior parte dei negozi ha chiuso le porte e, man mano che il cerchio di stringe attorno a Betlemme, presto non ne resterà più nessuno.

L’implacabile penetrazione di Israele nel cuore di Betlemme è senza appello. La città è deliberatamente isolata dietro l’impressionante barriera di separazione, circondata da posti di controllo, e la sua economia è strangolata. Una volta la sua principale risorsa era il turismo, che richiamava due milioni di visitatori all’anno e vantava un prospero mercato di souvenir, soprattutto di sculture di legno d’ulivo e di madreperla fatte a mano.

Era anche una ricca regione agricola, dotata di una prospera industria vinicola. Oggi la maggior parte delle sue terre è stata confiscata da Israele e le restrizioni draconiane imposte dalle autorità israeliane agli spostamenti verso e da Betlemme hanno notevolmente ridotto il numero di turisti e di pellegrini.

Attualmente, con una popolazione di 220.000 abitanti, di cui 20.000 rifugiati, Betlemme ha il tasso di disoccupazione più alto dei territori palestinesi occupati, subito dopo Gaza.

Salvare Betlemme

Durante il mio ultimo soggiorno a Betlemme sono andata all’hotel Walled Off, all’entrata di Betlemme. Lì ho vissuto un’esperienza impressionante dell’occupazione israeliana. L’hotel in effetti è un’installazione creata dall’artista britannico Banksy per mettere in luce la tragica sorte di Betlemme.

L’unica vista che si possa contemplare dalle finestre dell’hotel è quella dell’orrendo muro costruito da Israele, le cui immense lastre grigie non sono che a qualche metro. Sporgendosi in avanti si possono quasi toccare. Mi ricordo di come le sue sinistre torri di guardia e le sue telecamere di sorveglianza mi abbiano oppressa. Era una scena uscita direttamente da un film dell’orrore.

Per ora, e nonostante le delegazioni della Chiesa, le visite papali e le pubbliche espressioni di preoccupazione, niente di quanto hanno fatto i cristiani ha frenato o arrestato la distruzione da parte di Israele di una città particolarmente sacra per la cristianità. E allora, se non possono fare niente per salvare Betlemme, smettano almeno di intonare un canto che si prende gioco della triste realtà della città.

– Ghada Karmi è medico, docente universitaria e scrittrice palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




C’è un complotto per spopolare i campi di rifugiati palestinesi in Libano?

Ramzy Baroud

19 dicembre 2018, Foreing Policy Journal

Ai rifugiati palestinesi in Libano vengono negati i diritti umani fondamentali e molti avrebbero perso le speranze di tornare nella terra d’origine come via di scampo

Ogni tanto su Facebook spunta fuori un inquietante video composto dall’audio di una preghiera registrata e dalla foto di un tal ‘Hajj Jamal Ghalaini’. La voce è quella di un presunto sceicco religioso, che prega per il benessere dell’uomo nella foto perché salvi la gioventù palestinese nei campi di rifugiati in Libano, agevolando la loro partenza per l’Europa.

Il video sarebbe solo l’ennesimo strano post sui social media, se non fosse per il fatto che Ghalaini è una persona reale, il cui nome ricorre nella continua tragedia dei rifugiati palestinesi in Libano. Molti hanno attribuito il successo della propria “fuga” dal Libano citando questa persona che, gentilmente, dicono, ha reso il loro viaggio verso l’Europa molto più economico di qualunque altro trafficante di esseri umani.

Sappiamo poco di Ghalaini, salvo che sembra operare impunemente, senza gravi conseguenze legali da parte delle autorità libanesi o dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si suppone abbia la responsabilità dei rifugiati palestinesi in Libano.

Sta succedendo qualcosa di strano.

Subito dopo che l’amministrazione USA di Donald Trump ha iniziato a promuovere il proprio “accordo del secolo”, i rifugiati palestinesi – un problema fondamentale della lotta nazionale palestinese che è stato messo da parte anni fa – sono tornati al centro dell’attenzione.

Benché il progetto di Trump debba essere ancora pienamente reso noto, le prime indicazioni suggeriscono che esso porti a escludere totalmente Gerusalemme da qualunque futuro accordo tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e la stessa affermazione di Trump che “Gerusalemme è fuori dalle trattative”, sono sufficienti a confermare questa supposizione.

Un’altra componente dell’”accordo” di Trump è risolvere la questione dei rifugiati senza il loro rimpatrio e senza rispettare le leggi internazionali, soprattutto la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che chiede il diritto al ritorno per i profughi palestinesi che nel 1948 furono cacciati dalle proprie case nella Palestina storica, e per i loro discendenti.

Molte notizie di stampa hanno menzionato un elaborato piano americano per declassare lo status dei rifugiati, per mettere in discussione i dati ONU che indicano il loro attuale numero e per bloccare i finanziamenti indispensabili all’UNRWA, l’organizzazione dell’ONU responsabile dei servizi ai rifugiati.

Il Libano è stato una piattaforma importantissima per la continua campagna che riguarda i rifugiati palestinesi, soprattutto perché la popolazione di profughi in quel Paese è significativa in termini di numeri e la loro difficile situazione ha urgente bisogno di aiuto.

Sembra esserci un programma operativo, che coinvolge molte parti in causa, per privare la popolazione palestinese del Libano dello status di rifugiati ed eludere così il loro “diritto al ritorno”. A qualcuno questa potrebbe sembrare una pia illusione, dato che il “diritto al ritorno” è “inalienabile”, quindi non negoziabile.

Eppure, ovviamente, senza rifugiati che chiedano collettivamente questo diritto, il problema da richiesta urgente e tangibile potrebbe trasformarsi in aspirazione sentimentale, impossibile da raggiungere. È per questo che lo spopolamento dei campi di rifugiati libanesi, che sta avvenendo a una velocità allarmante, dovrebbe preoccupare i palestinesi più di ogni altro problema del momento.

Ho parlato con Samaa Abu Sharar, attivista palestinese in Libano e direttrice della Majed Abu Sharar Media Foundation [Fondazione per i Media Majed Abu Sharar, centro di formazione per giornalisti rivolto ai rifugiati palestinesi in Libano, ndtr.]. Mi ha raccontato che negli ultimi anni la natura delle conversazioni tra i rifugiati è cambiata. In passato “praticamente tutti, dai giovani agli anziani, parlavano del loro desiderio di tornare un giorno in Palestina; ora la maggioranza, soprattutto tra i giovani, esprime solo un desiderio: andarsene in qualunque altro Paese li voglia accogliere.”

È risaputo che i rifugiati palestinesi in Libano sono emarginati e angariati, soprattutto se confrontati con altre popolazioni di rifugiati in Medio Oriente. Vengono loro negati i più fondamentali diritti umani di cui godono gruppi libanesi o stranieri, o persino diritti garantiti ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali. Ciò include il diritto al lavoro, in quanto viene loro negato l’accesso a 72 diverse professioni.

Lasciati senza speranza, con una vita di abbandono e di totale miseria in 12 campi di rifugiati e in altri “campi di raccolta” in tutto il Libano, i rifugiati palestinesi hanno resistito per molti anni, guidati dalla speranza di tornare un giorno alla loro terra natale, la Palestina.

Ma i rifugiati e il loro “diritto al ritorno” non sono più una priorità per la dirigenza palestinese. Di fatto è stato così per quasi due decenni.

La situazione è peggiorata. Con la guerra in Siria, altre decine di migliaia di rifugiati hanno inondato i campi, che mancano dei servizi più essenziali. Questa miseria si è ulteriormente accentuata quando l’UNRWA, su pesanti pressioni USA, è stata obbligata a cancellare o ridurre molti dei suoi servizi essenziali.

Un censimento dalla tempistica sospetta, il primo di questo genere, dall’Amministrazione Centrale di Statistica libanese, condotto lo scorso dicembre insieme all’Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ha stabilito che il numero di rifugiati palestinesi in Libano è di soli 175.000.

La tempistica della sua realizzazione è interessante perché la ricerca è stata condotta nel momento in cui l’amministrazione USA si dava da fare per ridurre il numero di rifugiati palestinesi, in previsione di un accordo tra l’ANP e Israele.

Secondo le statistiche dell’UNRWA ci sono più di 450.000 rifugiati palestinesi registrati dall’ONU.

Non c’è dubbio che ci sia un’ondata di rifugiati palestinesi che vogliono andarsene dal Libano. Alcuni ci sono riusciti solo per trovarsi alle prese con un altro miserabile status di rifugiato in Europa. Com’era prevedibile, alcuni sono tornati.

Chiaramente c’è chi non vede l’ora di liberare il Libano dalla sua popolazione palestinese, da cui il disinteresse nei confronti di Ghalaini e di analoghe reti di trafficanti di uomini.

C’è più di una rete organizzata che contribuisce all’emigrazione di palestinesi a prezzi che recentemente sono scesi per essere accessibili a un più vasto numero di persone,” mi ha detto Abu Sharar. La conclusione che molti di questi giovani uomini e donne ora traggono è che “non c’è nessun futuro per loro in Libano.”

Non è questo il felice, trionfante finale che generazioni di rifugiati palestinesi in Libano hanno sperato e per cui hanno lottato durante gli anni.

Ignorare la miseria dei rifugiati palestinesi del Libano comporta un costo pesante. Procrastinare la loro problematica situazione fino ai “negoziati per lo status finale”, una chimera che non si è mai realizzata, sta ora portando a una duplice crisi: il peggioramento delle sofferenze di centinaia di migliaia di persone e la sistematica distruzione di uno dei principali pilastri del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi.

SULL’AUTORE

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I ricercatori sostengono che l’esercito israeliano ha modificato il filmato del mortale attacco missilistico a Gaza

Oren Ziv

20 dicembre 2018, +972 Magazine

L’esercito israeliano ha reso pubblici i filmati, fatti dai droni, dell’aviazione che bombarda un edificio apparentemente vuoto a Gaza. Inquirenti indipendenti hanno scoperto che è stata tagliata la parte in cui uno dei missili uccide due adolescenti seduti sul tetto.

Secondo un’inchiesta dell’istituto britannico Forensic Architecture [Architettura forense] e del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, pubblicato questa settimana, l’esercito israeliano avrebbe eliminato alcune riprese chiave di un attacco missilistico che all’inizio di quest’anno ha ammazzato due adolescenti palestinesi seduti su un tetto a Gaza.

Nel tardo pomeriggio del 14 giugno 2018, due adolescenti palestinesi, Luai Kahil e Amir al-Nimra, si sono arrampicarti sul tetto dell’edificio al-Katiba a Gaza City. Il selfie scattato quel giorno sul tetto sarebbe stata la loro ultima foto.

L’aviazione israeliana ha lanciato quattro “missili di avvertimento” verso l’edificio, che diceva essere una struttura di addestramento di Hamas. Secondo l’esercito i missili d’avvertimento, missili a bassa esplosività che nell’esercito israeliano chiamano “bussare al tetto”, hanno lo scopo di avvertire i civili di lasciare l’edificio nel mirino prima che vengano lanciate bombe più grosse.

Dopo i “missili d’avvertimento”, quattro missili più grossi hanno raso al suolo l’edificio. Kahil e al-Nimra, però, erano stati uccisi dal primo dei missili d’avvertimento. Altri ventitre palestinesi sono stati feriti dai missili più grossi.

Il giorno del raid, l’esercito israeliano ha diffuso su Twitter i filmati dei diversi attacchi, che sembrano mostrare quattro diversi “colpi di avvertimento” prima dei missili più potenti. Secondo l’indagine di B’Tselem e Forensic Architecture, tuttavia, sembra che il video pubblicato non corrisponda a come si sono effettivamente svolti i fatti.

Le riprese del primo attacco, in cui i ragazzi furono ammazzati, sono stati omessi dal montaggio diffuso dall’esercito. Quello che l’esercito presenta come primo attacco (il video dell’ufficio stampa dell’esercito non afferma specificamente che siano sequenziali) è in realtà il terzo missile di avvertimento mostrato da una diversa telecamera e un’altra angolazione.

Secondo B’Tselem e Forensic Architecture, l’omissione delle riprese del primo attacco pone la questione se i militari israeliani sapessero che c’erano due ragazzi seduti sul tetto dell’edificio quando hanno lanciato il primo missile, e se stiano tentando di coprire questo fatto. (Comunicazione: ho partecipato a una precedente indagine di Forensic Architecture.)

“Gli attacchi aerei a Gaza sono venduti al pubblico dall’esercito israeliano come azioni chirurgiche, progettate per proteggere i civili, basate su intelligence di precisione, munizioni regolari, sorveglianza delle circostanze reali e grande attenzione al diritto internazionale,” ha dichiarato in un comunicato stampa Haggai El- Ad, il direttore esecutivo di B’Tselem.

“In realtà, questo è per lo più solo propaganda. La verità, invece, è una quantità devastante di vittime civili, una sorveglianza che non è in grado di distinguere i combattenti dagli adolescenti, un’intelligence inetta e la riduzione dei principi legali intesi a proteggere i civili a una sbrigativa lista di controllo, che viene poi usata per mascherare le violazioni dei diritti umani e stabilire l’impunità “, ha aggiunto.

Forensic Architecture ha utilizzato nelle sue indagini una serie di immagini, tra cui le riprese aeree rilasciate dall’esercito israeliano, i filmati presi da vicine telecamere a circuito chiuso e video pubblicati sui social media in quel momento.

Gli investigatori hanno quindi sincronizzato e messo a confronto i materiali per ricostruire una simulazione dell’evento. Sincronizzando i due video, si può vedere che le esplosioni del terzo attacco e di quello che l’esercito sostiene essere il primo attacco sono identiche.

“Questa indagine mostra come una lettura approfondita delle immagini fornite dall’esercito israeliano, apparentemente intese a legittimare gli “avvertimenti” sull’edificio di al-Katibah, possa essere riletta e rivelare una storia diversa,” ha detto in un comunicato stampa Nicholas Masterton, ricercatore e coordinatore di progetto presso Forensic Architecture.

“In questo caso la ricchezza di immagini e video ci ha permesso di condurre una rigorosa indagine indipendente e di contestare le affermazioni dell’esercito israeliano. Non potremo solo dimostrare che Kahil e a-Nimrah sono stati uccisi da un missile mortale, ma anche mostrare il modo subdolo in cui le forze armate israeliane hanno presentato al pubblico i particolari degli attacchi”, ha aggiunto.

Il portavoce dell’esercito israeliano non ha risposto alle specifiche domande sull’eventualità o il perché il video del primo attacco missilistico fosse stato tagliato, intenzionalmente o meno, dal filmato diffuso dall’esercito.

“L’esercito israeliano ha attaccato un edificio di cinque piani nella Striscia di Gaza, utilizzato dalle brigate di Hamas come struttura per l’addestramento al combattimento nelle aree urbane. Dopo l’attacco, è stato detto che avesse causato la morte di due adolescenti. E’ stata aperta un’inchiesta e, in base alle indagini, si è stabilito che al momento in cui sono iniziati i bombardamenti aerei, nessuna persona è stata identificata sul tetto dell’edificio. I risultati dell’indagine sono attualmente all’esame dell’ufficio dell’avvocato generale militare. Sottolineiamo che prima dell’attacco sono stati presi vari provvedimenti cautelativi per minimizzare il più possibile le vittime civili. Alcuni missili con munizioni ridotte sono stati sparati sul tetto dell’edificio, quel che si dice “bussare al tetto”.


Oren Zin è fotoreporter e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills. Dal 2003 documenta una vasta serie di problemi sociali e politici in Israele e nei territori palestinesi occupati.

(traduzione di Luciana Galliano)

 




Il dibattito fra destra e sinistra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come concluderla

Jonathan Ofir

13 dicembre 2018 Mondoweiss

Bibi, è tempo di divorziare dai palestinesi” dice uno striscione dell’organizzazione dei sionisti liberali Comandanti per la Sicurezza di Israele, ora anche nella loro home page sul web, dopo essere stato sui manifesti di tutta Israele.

L’organizzazione, sostenuta dall’ex primo ministro Ehud Barak, ha promosso una campagna simile l’anno scorso, con cartelloni pubblicitari in arabo con i colori palestinesi e con dei palestinesi che dicono “saremo presto la maggioranza”.

Manifestano un gusto davvero particolare, o piuttosto la mancanza di esso, per essere gli espedienti che dovrebbero avere presa sui cervelli nazionalisti israeliani – ed è molto importante sottolineare che questo non è il sionismo di destra, questi sono la sinistra e il centro.

L’organizzazione, che sostiene la “separazione” unilaterale dai palestinesi, ha iniziato la recente campagna la scorsa settimana con video trasmessi da un canale Youtube, “Israele israeliano”, presumibilmente un’etichetta privata, intesa a sottolineare una tendenza sionista ultra-nazionalista. Il logo presenta la parodia di una foto di matrimonio, strappata a metà. La serie di video contiene clip (ebraiche) di mezzo minuto di persone che si suppone parlino delle loro vite private. Ad esempio uno recente (di ieri), riprende un uomo intorno ai 30 anni, che dice:

“Sto cercando di ricordare quando è stata l’ultima volta che siamo stati bene insieme. Cerco, cerco, cerco e non ci riesco. Penso al nostro futuro e vedo solo nero, e sono stanco di tutto questo … stanco! Questa non è la vita che voglio. Non voglio la mediazione, non voglio consulenze, non c’è nessuno a cui parlare! Voglio la libertà, voglio vivere, e non voglio più aspettare – voglio divorziare “.

Poi appare una diapositiva che dice “è ora di divorziare e separarsi da milioni di palestinesi”, rivelando il nome dell’organizzazione (Comandanti per la Sicurezza di Israele) e invitando a visitare il sito web.

Tutti i video seguono fondamentalmente questo schema, con l’ultima frase “Voglio divorziare” e la promozione della campagna.

La visione – Bantustan, con un appaltatore

In una recente intervista con il conduttore televisivo Avri Gilad, uno dei leader dell’organizzazione, Uzi Arad, ex capo dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, ha esposto la visione del gruppo e ha detto che sperano che la campagna possa “risvegliare la consapevolezza” delle persone. L’idea è che il concetto di uno Stato “ebraico e democratico” sia minacciato – una minaccia demografica. L’intera discussione è centrata sull’ipotesi di annessione dell’area C della Cisgiordania, che comprende oltre il 60% dell’area e circonda 165 enclave palestinesi in un arcipelago bantustanizzato. La zona C sotto pieno controllo israeliano è un progetto degli accordi di Oslo della metà degli anni ’90. I sostenitori principali della sua immediata annessione sono persone come il ministro della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett (entrambi ebrei), a destra di Netanyahu. Queste aree ospitavano circa 300.000 palestinesi in un conteggio ONU del 2014, probabilmente oggi vicini a 350.000. Shaked dice che Israele può permettersi di “assorbire” questa popolazione.

Nell’intervista con Gilad, Arad afferma che l’annessione dell’area C avrà implicazioni disastrose. Fa menzione di diverse questioni che ritiene centrali in questo “divorzio”, e del perché l’annessione danneggerebbe Israele:

1) Il “tasso di natalità” dei palestinesi (2:58).

2) Le “tensioni continue”, perché “la parte palestinese ‘si agiterà’ in seguito all’annessione”.

Gilad risolve l’ultimo argomento suggerendo che forse, quando quei palestinesi avranno la cittadinanza israeliana, si “calmeranno”. Arad risponde che “allora Israele sarà meno ebreo”.

Questo è ciò che circola. È una preoccupazione centrale dei sionisti: il massimo di territorio, ma con il minimo di palestinesi – proprio come dice Yair Lapid, un parlamentare “liberale di centro”.

Quindi Gilad presenta scenari spaventosi, confutando la presunta “soluzione a due Stati”:

“Qual è l’opzione? Dare loro uno Stato in quella zona, nelle loro zone, e allora le masse vi si precipitano, tutti i possibili profughi palestinesi e simili, Hamas prende il sopravvento, i razzi sull’aeroporto – questa è più o meno la sceneggiatura, no?”

Contro simili teorie da giorno del giudizio, a cui sono molto inclini Gilad e i sionisti in generale, Arad sembra disperatamente in cerca di un confortante messaggio di “sicurezza”. Così assicura:

“È chiaro che Israele ha bisogno di mantenere un controllo di sicurezza su tutta l’area, e una situazione come quella che suggerite non si può realizzare”.

Arad sta suggerendo che a causa di questa “separazione”, l’Autorità Nazionale Palestinese “fiorirà e prospererà”. In altre parole, la Bantustanizzazione continuerà, con un appaltatore.

“Separare il bianco dal tuorlo”

“Separazione” è ora una parola chiave per i sionisti liberali. Recentemente, il leader dell’opposizione centrista Tzipi Livni ha paragonato la separazione tra israeliani e palestinesi alla “separazione tra il tuorlo e il bianco” di un uovo, per fare “una buona torta”.

Le persone che fanno parte del cartello di Comandanti per la Sicurezza di Israele hanno sostenuto questa “separazione” anche per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Due anni fa, in un video islamofobico e spaventosamente razzista, il Movimento per la Salvezza di Gerusalemme Ebraica ha suggerito uno scenario in cui i residenti palestinesi di Gerusalemme est vanno a votare in massa ed eleggono un sindaco palestinese. Questo è essenzialmente lo stesso allarme di Netanyahu, “gli arabi stanno andando a votare in massa”, alla vigilia delle ultime elezioni, però è pronunciato da persone che generalmente si identificano come il “campo della pace”. Il concetto della clip è che i terroristi arabi useranno la democrazia israeliana come un’arma. La soluzione è quindi di isolare i 28 villaggi palestinesi della Cisgiordania che Israele ha annesso come parte di Gerusalemme est (espandendo i confini municipali di dieci volte dal 1967), mantenendo però tutti gli insediamenti ebraici nell’area, al fine di migliorare la “giudaizzazione” della Grande Gerusalemme. Il gruppo comprende Shaul Arieli, uno dei principali negoziatori dei Colloqui di Ginevra, e Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet [servizi segreti israeliani, ndtr.] e parlamentare del Partito Laburista che con Sari Nusseibeh ha lanciato nel 2003 un’iniziativa di pace a due stati. Entrambi sono stati importanti nella costituzione di Comandanti per la Sicurezza di Israele.

In altre parole, più o meno tutto ciò che viene dai sionisti, di destra e di sinistra, riguarda sempre l’apartheid, ed è sempre spaventosamente razzista.

Il “campo della pace” sionista non può catturare l’attenzione di coloro che stanno nel loro gruppo o più a destra, con altro mezzo che la volgarità, per “risvegliare la consapevolezza” – la consapevolezza sionista, che una massa di arabi stia minacciando lo Stato ebraico. Il sionismo non ha una soluzione per questo, perché i suoi aderenti non riescono a trovare in se stessi nemmeno la capacità di concepire una separazione dal sionismo. I discorsi sul “divorzio dai palestinesi” sono ipocriti fin dall’inizio, tanto per cominciare perché non è che Israele li abbia “sposati”. Allo stesso modo, la soluzione del “divorzio” non è una vera e propria separazione in cui ognuno va per la propria strada, ma una separazione in cui Israele continua il controllo coloniale e la sottomissione dei palestinesi “divorziati”. L’intrinseco squilibrio razzista non viene mai preso in considerazione.

La “piaga” dei matrimoni misti

Si potrebbe anche avere l’impressione che la campagna sul “divorzio” sia solo un eufemismo per un problema schiettamente nazionale e impersonale. Eppure echeggia una generale vena isolazionista sionista che entra fin nell’intimo della vita privata degli individui, e questo da sinistra e dal centro del sionismo.

All’inizio di quest’anno, l’ex leader della sinistra e dell’opposizione, Isaac Herzog, ha ammonito che i matrimoni misti, specialmente negli Stati Uniti, sono una “piaga”. Come reazione a un recente matrimonio tra ebrei e musulmani famosi, Tzahi Halevy e Lucy Aharish, il menzionato “centrista-liberale” Yair Lapid si è lamentato solo del fatto che le condanne del matrimonio (dei principali ministri israeliani) non fossero state riservate a una settimana dopo il matrimonio; nel 2014, Lapid ha risposto ad un altro presunto “matrimonio misto” (supposto, perché la donna si era convertita all’Islam e l’uomo era musulmano), dicendo:

“Mi darebbe fastidio se mio figlio sposasse un non ebreo … Mi darebbe molto fastidio.”

Dunque c’è qui un aspetto personale molto concreto, di isolazionismo fondamentalista, molto sionista. I “pacifisti” usano la nozione privata di “divorzio” come metafora, perché sanno che “risveglierà la consapevolezza” degli israeliani (leggi = in maggioranza ebrei), visto che li immaginano come fossero, Dio non voglia, sposati ai palestinesi (leggi = i non ebrei).

In questo atteggiamento mentale i palestinesi sono considerati con intrinseca e istituzionale ripugnanza da parte dello Stato colonialista di Israele. E nessuno di quei sionisti illuminati si preoccupa davvero di come questo rappresenti i palestinesi, perché tutto è per il sacro ideale del sionismo: la “separazione”. Perché abbiamo bisogno di essere una nazione a sé, nella “nostra terra”, come dice l’inno nazionale.

Il dibattito sulla velocità dell’ espansione

Alla fine, non c’è proprio niente di nuovo. Tutto ciò è molto in stile Barak, come quando nel 2000 Ehud Barak fece una “offerta (apparentemente) generosa” ai palestinesi, che era poi quella dei bantustan. Storicamente le lotte tra il sionismo di destra e quello di sinistra sono sempre state non tanto su uno Stato palestinese accanto a Israele, ma sulla velocità e il ritmo con cui l’espansionismo debba procedere. Un fattore essenziale è sempre la demografia ebraica, esistenzialmente importante per i sionisti, perché l’ambita e presunta natura “ebraica e democratica” dello Stato avrebbe potuto essere raggiunta solo attraverso l’espulsione e le varie forme di apartheid. Anche il “processo di pace” ha avuto un ruolo fondamentale. Come Ben White riassume nel suo recente articolo su The Arab Weekly:

“Perciò, mentre il decennio di potere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visto il consolidamento di uno Stato di fatto unico tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sono stati gli accordi di Oslo e la visione di Rabin sulla separazione a gettare le basi per l’ attuale status quo di apartheid ”.

Mentre Comandanti per la Sicurezza di Israele sta ammonendo sulle terribili conseguenze dell’annessione dell’Area C, Israele è impegnato in una lenta e continua pulizia etnica di quell’area. B’tselem, l’ONG israeliana che vigila sui diritti umani, ha una pagina dedicata permanente, con un blog dal vivo chiamato “affrontare l’espulsione”:

“Migliaia di persone – residenti in decine di comunità palestinesi situate nell’Area C, in Cisgiordania – si trovano ad affrontare un’imminente espulsione da parte delle autorità israeliane in base a un mucchio di pretesti”.

E’ così che Israele si impegna attivamente a “risolvere il problema demografico”. Mentre il centrosinistra dice che l’annessione non è una soluzione, non è così per quel che riguarda la destra e la logica sionista nel suo complesso. Anche le “non soluzioni” dei sionisti fanno parte della strategia sionista. Sulla scia della guerra del 1967, il ministro della Difesa Moshe Dayan propose di dire ai palestinesi:

“Non abbiamo una soluzione, continuerete a vivere come cani, chi vuole se ne andrà, e vediamo come funziona questa procedura”.

Questo è essenzialmente il modo di fare di Israele, che sposta i palestinesi, li espropria e crea insediamenti come “dati di fatto sul campo” per “giudaizzare” i territori in cui si espande. Tutto questo è “Sionismo 101” [programma di brevi video documentari che spiegano il sionismo, ndtr.]. La preoccupazione “liberale-sionista” riguarda sempre la velocità a cui si dovrebbe procedere, e quali soluzioni, o non soluzioni, siano accettabili in un dato momento.

Ecco perché ho divorziato dal sionismo.

Mille grazie a Ofer Neiman

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Israele reso furioso dal premio francese per i diritti umani

Adri Nieuwhof

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

La Francia ha insignito Al-Haq e B’Tselem [due organizzazioni per i diritti umani, una palestinese e l’altra israeliana, ndtr.] con il prestigioso “Premio della Repubblica Francese per i Diritti Umani”.

Ciò è avvenuto nonostante le pesanti pressioni da parte di Israele sul governo francese perché togliesse il riconoscimento alle due associazioni che documentano i crimini di guerra e i soprusi israeliani contro i palestinesi.

Tuttavia la ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet ha ceduto alle pressioni e si è rifiutata di partecipare alla cerimonia di premiazione a Parigi lo scorso lunedì [10 dicembre, ndtr.].

Il gruppo della lobby franco-israeliana CRIF ha scritto a Belloubet sostenendo che i due vincitori “chiedono il boicottaggio di Israele,” ed ha affermato che per il ministero della Giustizia francese dare loro il premio “anche in assenza della ministra è un insulto alla giustizia.”

Nel suo discorso di ringraziamento il direttore esecutivo di B’Tselem Hagai El-Ad ha definito “isterica” la risposta del governo israeliano.

El-Ad ha detto che il tentativo israeliano di esercitare pressioni su dirigenti francesi “dimostra la situazione in cui lavoriamo: propaganda, menzogne e minacce da parte di un governo che crede che far tacere e nascondere consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani.”

Il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, ha detto ad Electronic Intifada che il premio è un riconoscimento per il lavoro del suo gruppo in un periodo in cui l’organizzazione è presa di mira da una campagna di calunnie da parte di Israele.

La cerimonia di premiazione del 10 dicembre ha coinciso con il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti umani.

Risposta furiosa

Israele ha risposto con ira all’annuncio che la Francia stava per assegnare il prestigioso premio alle due associazioni.

“La Francia consegna il suo riconoscimento più prestigioso a B’Tselem e Al-Haq, che accusano Israele di apartheid, ci delegittimano a livello internazionale, difendono il terrorismo e sostengono il BDS,” ha affermato Michael Oren, vice ministro israeliano per i rapporti diplomatici.

BDS sta per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – una campagna palestinese non-violenta per rendere Israele responsabile delle violazioni dei diritti dei palestinesi, sul modello del vincente movimento internazionale di solidarietà che contribuì a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

L’ambasciata di Israele in Francia ha twittato di essere “scioccata” per il premio ed ha asserito che Al-Haq sarebbe legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico e un’organizzazione di resistenza che Israele definisce gruppo “terroristico”.

La ministra della Cultura di Israele Miri Regev ha detto che B’Tselem e i suoi membri dovrebbero “vergognarsi”, descrivendo il premio come un “simbolo di disonore”.

La viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely ha definito il premio “deplorevole” ed ha chiesto al governo francese di ripensarci.

Hotovely ha sostenuto che anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua opposizione durante un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron.

Chiudere spazi

Il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin ha parlato con Electronic Intifada all’Aia, pochi giorni prima di recarsi a Parigi per la cerimonia di premiazione.

Ha detto che il premio arriva in un momento in cui Israele sta “cercando di chiudere gli spazi” per il lavoro a favore dei diritti umani.

Il riconoscimento francese, ha detto, significa per Al-Haq ancor di più perché “giunge nello stesso giorno del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

Jabarin ha affermato che il premio è stato assegnato “alle vittime in Palestina” ed è “un riconoscimento dei loro diritti.”

Ma ha ammonito che le vittime hanno bisogno di molto più di un riconoscimento simbolico.

“La Francia deve agire in base ai propri impegni,” ha detto, in riferimento ai trattati internazionali sui diritti umani che ha firmato.

Momento di agire

A settant’anni dalla Nakba – l’espulsione dei palestinesi – e dopo 51 anni di occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ha detto Jabarin, “niente è cambiato, la situazione si sta aggravando, l’occupazione si sta approfondendo, come le sofferenze.”

Il messaggio di Jabarin al governo francese è che “se vuole davvero la pace in Palestina e altrove, deve agire.”

Jabarin ha affermato che, per cambiare la situazione, ci devono essere sanzioni contro Israele, compreso il divieto di commercio dei prodotti delle colonie e un embargo sulle armi.

Gli europei non dovrebbero “lasciare che i criminali viaggino nei loro Paesi,” ha aggiunto Jabarin.

“Se i criminali non pagano il prezzo dei loro crimini, non c’è modo che ripensino o cambino le loro azioni e le loro politiche.”

La CPI propende per la narrazione israeliana?

Jabarin ha anche manifestato delusione nei confronti della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 sta portando avanti un “esame preliminare” dei possibili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

“È passato molto tempo,” ha detto Jabarin.

Un esame preliminare è il primo passo nel procedimento della Corte per decidere se aprire un’inchiesta formale, che può poi portare a imputazioni e a un processo.

Ma mentre un esame preliminare è portato avanti ogni volta che viene presentata una richiesta di deferimento, esso è a tempo indefinito e può continuare per anni, a discrezione del procuratore generale.

Benché la procuratrice generale, Fatou Bensouda, lo scorso aprile abbia messo in guardia i dirigenti israeliani che potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, la Corte non ha iniziato un’inchiesta formale.

Le “vittime, il popolo che sta soffrendo, non possono più attendere,” ha detto Jabarin. “Questa istituzione deve agire in base al suo mandato e non occuparsi della questione da un punto di vista politico.”

Jabarin ha definito deludente l’ultimo rapporto annuale sullo stato di avanzamento.

Il rapporto afferma che “la procura intende completare l’esame preliminare il prima possibile,” ma non fornisce nessuna data limite.

Jabarin ha descritto il rapporto come “confuso” nell’uso di terminologia e concetti giuridici. Teme che la procuratrice si sia spostata “verso la narrazione israeliana.”

Ma vede “qui e là segnali positivi.”

Spera che la procuratrice si muova rapidamente per aprire un’inchiesta formale e “persegua i criminali e successivamente emetta mandati di arresto.”

“Confido nella professionalità e nell’indipendenza della procuratrice,” ha detto Jabarin. “Il mio messaggio a lei è che il tempo passa e le sofferenze continuano. È il momento di intervenire.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I neo-nazisti sostengono all’UE la falsa definizione israeliana di antisemitismo

Asa Winstanley

7 dicembre 2018, Electronic Intifada

Una nuova dichiarazione dell’Unione Europea potrebbe rendere più difficile criticare Israele come Stato razzista senza essere definiti antisemiti.

Giovedì a Bruxelles i politici hanno approvato il documento.

La mozione chiede a tutti i governi dell’UE di “approvare la definizione operativa non legalmente vincolante di antisemitismo utilizzata dall’International Holocaust Remembrance Alliance [organismo intergovernativo europeo che intende promuovere l’educazione sull’Olocausto, ndtr.].

La proposta, approvata dai ministri degli Interni degli Stati membri dell’UE, è già stata condannata da molti accademici israeliani e francesi.

La dichiarazione è stata promossa dall’Austria, il cui governo di coalizione comprende ministri membri di un partito neonazista.

L’assemblea dell’UE che giovedì ha formalmente adottato la dichiarazione includeva molti ministri di diversi partiti di destra, che istigano al fanatismo anti-ebraico.

Il Ministro degli Interni austriaco Herbert Kickl è uno di loro.

È del Partito della libertà, un’organizzazione anti-musulmana guidata dal neo-nazista Heinz-Christian Strache (ora vice-cancelliere dell’Austria).

Kickl è stato accusato per il suo linguaggio nazista a gennaio, quando ha chiesto alle autorità “di concentrare i richiedenti asilo in un unico posto”.

Il suo linguaggio sembrava deliberatamente calcolato per evocare l’Olocausto – sebbene questa volta prendesse di mira principalmente i richiedenti asilo musulmani.

Definizione falsa

Come da tempo riferisce The Electronic Intifada, la “definizione operativa” dell’IHRA è stata concepita come potente mezzo, spalleggiato da Israele, per soffocare le critiche nei confronti dello Stato e dei suoi crimini contro i palestinesi.

Israele e i suoi gruppi lobbysti hanno esercitato un’enorme pressione in tutta Europa negli ultimi due anni affinché fosse adottata.

La “definizione operativa” è stata condannata da numerosi sindacati palestinesi e da altri gruppi della società civile, nonché dalla Palestine Solidarity Campaign nel Regno Unito e dai sindacati di tutta Europa.

Come ha riferito la scorsa settimana il sito web EUobserver, le ambasciate israeliane di solito “fanno riferimento alla definizione dell’IHRA” quando presentano proteste diplomatiche formali contro le critiche dell’UE ai crimini di guerra israeliani in Palestina. Tali critiche sono inefficaci, considerando che l’UE spesso consente i crimini di Israele.

Nel Regno Unito, gruppi lobbysti israeliani hanno fatto pressione con successo sul partito laburista all’opposizione perché la “definizione operativa” fosse adottata.

Ma anche questo non è stato sufficiente, e un grande polverone mediatico è stato sollevato sull’iniziale riluttanza del partito ad adottare tutti gli “esempi” allegati che il documento dell’IHRA afferma essere antisemiti.

Molti di questi 11 “esempi” menzionano Israele.

Si giunge persino a definire il semplice atto di affermare il fatto che Israele è uno Stato istituzionalmente razzista – ” un’impresa razzista” nel linguaggio IHRA – come un esempio di “antisemitismo”.

L’Austria ha già approvato la “definizione operativa” e, come riportato da EUobserver, il governo di coalizione ha spinto per l’appoggio alla dichiarazione.

Neo-nazisti austriaci

L’Austria, che attualmente detiene la presidenza di turno dell’UE, il mese scorso ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a prendere parte a una conferenza a Vienna.

La dichiarazione approvata dall’UE è stata redatta durante quella conferenza, dedicata all’antisionismo. Netanyahu aveva accettato di partecipare alla conferenza ma poi ha cancellato la propria partecipazione a causa dell’instabilità del suo governo di coalizione.

L’Austria voleva una versione ancora più radicale, e una delle prime bozze invitava gli Stati dell’UE ad adottare la definizione “includendo esempi illustrativi”. Questo è stato recepito nella dichiarazione finale, che descrive la definizione come “non legalmente vincolante”.

Questa frase ipocrita compare nello stesso documento IHRA. In realtà però, la definizione viene costantemente utilizzata per vigilare sui discorsi critici nei confronti di Israele.

Gli eventi di quest’anno all’interno del Partito laburista britannico lo illustrano perfettamente.

Come parte della “crisi” sul presunto antisemitismo, costruita da anni ad arte dai critici del leader laburista Jeremy Corbyn, i gruppi di pressione israeliani hanno chiesto al partito di adottare anche gli 11 “esempi” di antisemitismo dell’IHRA.

A settembre l’esecutivo nazionale del partito laburista si è arreso alle pressioni. Ma ciò ha solo rafforzato i cacciatori di streghe, che continuano a cercare di punire i politici eletti che si mostrino critici nei confronti di Israele.

L’isteria dei media sulla “crisi” ha portato a una caccia alle streghe che ha preso di mira attivisti laburisti di sinistra e filo-palestinesi.

L’isteria si è estesa dal partito laburista alla società nel suo complesso.

La “definizione operativa” viene ora utilizzata per licenziare le persone.

Sospeso per aver definito razzista Israele

Paul Jonson, impiegato del consiglio comunale di Dudley, vicino a Birmingham, è stato sospeso dal suo lavoro in ottobre per aver contribuito ad organizzare una protesta contro Ian Austin, parlamentare eletto in quel comune – esplicito promotore della propaganda israeliana.

Qual è stato il “crimine” di Jonson? Pubblicare su Facebook la frase “Stiamo con la Palestina, Israele è un’impresa razzista” nella sua promozione della protesta.

Attivista nei locali gruppi di solidarietà con i palestinesi, Jonson ha dichiarato a The Electronic Intifada che i capi del consiglio comunale hanno citato la “definizione operativa” dell’IHRA – che l’autorità locale ha adottato – come giustificazione per la sua sospensione.

In ottobre l’amministratore delegato del consiglio comunale ha detto ad un giornale locale che Jonson era sotto inchiesta.

Jonson ha dichiarato a The Electronic Intifada di aver saputo della sua “sospensione” solo dal titolo del giornale.

Fino ad allora i dirigenti gli avevano assicurato che non era sospeso, che stavano solo facendo dei colloqui preliminari in merito ad un reclamo ricevuto da Campagna Contro l’Antisemitismo – un gruppo di propaganda antipalestinese dal nome ingannevole.

Riferisce che fino ad allora gli era stato detto solo di “astenersi dal lavoro fino a nuovo avviso”.

Ma lo stesso giorno in cui la notizia è trapelata alla stampa, i manager lo hanno invitato a un altro incontro e lo hanno sospeso.

Jonson sospetta che ci sia Ian Austin dietro la protesta. Il parlamentare è patrono del gruppo che ha presentato il reclamo.

I sindacalisti locali hanno chiesto il reintegro di Jonson, come ha fatto il gruppo di sinistra Jewish Voice for Labour [Voce Ebraica del partito laburista, gruppo di membri ebrei del partito che si oppongono alla campagna di diffamazione orchestrata dai laburisti filo-israeliani, ndtr.].

Una petizione che chiede il suo reintegro ha già raccolto oltre 600 firme.

(traduzione di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 20 novembre – 3 dicembre 2018

Per la 36a settimana consecutiva sono continuate le dimostrazioni collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”; 272 palestinesi sono rimasti feriti ad opera delle forze israeliane, ma non sono stati segnalati morti. Dei 272 feriti, 79 si sono avuti nella zona a nord di Beit Lahiya, durante manifestazioni di protesta contro le restrizioni imposte sulle zone di pesca. Fonti israeliane hanno affermato che in nessuna manifestazione sono stati lanciati aquiloni o palloncini incendiari e che non è stato fatto alcun tentativo di violare la recinzione.

Ancora in Gaza, al di fuori delle manifestazioni di cui sopra, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 31 casi, ferendo un minore che si era avvicinato alla recinzione perimetrale. Tre pescatori sono stati arrestati e il lavoro di sussistenza di contadini e pescatori palestinesi è stato interrotto. In due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato lavori di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 26 novembre, sulla strada principale prossima al villaggio di Beit Ummar (Hebron), un palestinese di 32 anni è stato colpito mortalmente dalle forze israeliane dopo che, a quanto riferito, aveva guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati dislocati sulla strada, ferendone tre. Il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. Secondo testimoni oculari palestinesi, si sarebbe trattato di un incidente automobilistico, mentre, secondo le fonti dei media israeliani, si sarebbe trattato di un attacco intenzionale. In Cisgiordania, dall’inizio del 2018, tredici palestinesi sono stati uccisi durante attacchi o presunti attacchi contro israeliani.

Sempre in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, 41 palestinesi, tra cui otto minori, sono stati feriti da forze israeliane nel corso di numerose proteste e scontri. Di questi ferimenti, 34 sono stati registrati vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus), durante le proteste contro la detenzione, da parte israeliana, del Governatore di Gerusalemme, membro dell’Autorità Palestinese, ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel contesto della protesta settimanale contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici. Altri sette feriti si sono avuti durante gli scontri scoppiati in seguito a due operazioni di ricerca-arresto; durante il periodo di riferimento, sono state effettuate 176 di tali operazioni. Di tutti i ferimenti, 16 sono stati causati da proiettili di gomma e 21 da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, o causati direttamente da bombolette lacrimogene.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 33 strutture di proprietà palestinese, incluse due strutture fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 16 persone, tra cui sei minori, sono state sfollate e altre 226 persone hanno subìto danno economico. Ventiquattro delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est e nove in Area C. L’episodio più grave si è verificato nel Campo Profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) dove, in un’area destinata [da Israele] alla costruzione di una strada, sono state demolite 19 strutture per mancanza di permessi edilizi, colpendo i mezzi di sostentamento di 179 persone. Nel quartiere di Jabal al Mukabbir (Gerusalemme Est), le autorità israeliane hanno demolito un appartamento costruito sul tetto di una struttura residenziale, sfollando una famiglia di quattro persone. In area C, nella Comunità di Suba (Hebron), due delle strutture demolite erano cisterne per l’acqua; erano state finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione. Sempre in Area C, altre tre strutture abitative sono state demolite, sfollando tredici persone.

Il 28 novembre, l’impianto di trattamento delle acque reflue di Gaza ha parzialmente ripreso a funzionare; per i danni causati da un raid aereo israeliano del 12 novembre si era verificata una completa interruzione della fornitura di acqua a diversi quartieri. Il personale municipale di Gaza è riuscito a riparare parte del danno e a riprendere la fornitura di acqua per centinaia di famiglie. Dall’inizio di novembre, grazie ai finanziamenti del governo del Qatar destinati all’acquisto di combustibile per la Centrale Elettrica, l’erogazione di energia elettrica è stata portata ad almeno undici ore al giorno, migliorando la fornitura di servizi di base, comprese le strutture igienico-sanitarie.

Sono stati segnalati almeno undici attacchi da parte di coloni israeliani con danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), secondo fonti del Consiglio del villaggio, sono stati vandalizzati da coloni israeliani circa 85 alberi di proprietà palestinese. In altri cinque episodi avvenuti ad Al Mughayyir (Ramallah), Al Jab’a (Betlemme), Beit Iksa (Gerusalemme) e Asira al Qibliya e Huwwara (questi ultimi in Nablus), coloni israeliani hanno forato le gomme di 52 veicoli ed hanno spruzzato scritte offensive su alcuni veicoli e sui muri di una scuola, di una moschea e di diverse abitazioni. Coloni ed altri gruppi israeliani sono entrati in vari siti religiosi della Cisgiordania, provocando alterchi e scontri con palestinesi, conclusi senza feriti. I siti interessati sono il complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est ed un santuario nel villaggio di Sabastiya (Nablus). Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni e il vandalismo sono andati aumentando: la media settimanale di attacchi con feriti o danni è salita a cinque, rispetto a tre nel 2017 ed a due nel 2016.

In Cisgiordania vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, in almeno nove occasioni, secondo fonti israeliane, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni ad almeno otto veicoli privati; a Ramallah, in uno di questi episodi, un colono israeliano è rimasto ferito.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di cinque giorni. Un totale di 1.280 persone sono entrate a Gaza e 2.611 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è rimasto aperto, quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, nel corso di scontri conseguenti ad una operazione di ricerca e arresto, un disabile palestinese di 22 anni è morto, colpito con arma da fuoco da forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Settant’anni e una brutta storia

Vercelli C., Israele 70 anni. Nascita di una Nazione, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, 12,90 €.

Amedeo Rossi

Questo libro merita una recensione solo per una ragione: è una chiara dimostrazione del perché non sia possibile instaurare un dibattito serio neppure con i filo-israeliani di “sinistra” (Vercelli, autore di vari libri su Israele, è un collaboratore de “Il Manifesto”).

Il sottotitolo fa riferimento, in modo involontariamente ironico, ad un famoso film americano del 1915, “The born of a Nation”, un capolavoro del cinema ma anche un’esaltazione del razzismo. Non è certo la nota predominante del libro, che in quarta di copertina viene definito “una ricostruzione puntuale e obiettiva”, ma neppure questa è la descrizione corretta di questo lavoro.

Il punto di vista dell’autore viene chiarito in primo luogo dall’uso del lessico: i problemi con i palestinesi sono definiti “frizioni”, questi ultimi in genere indicati genericamente come “arabi” o “arabo musulmani”, la pulizia etnica del ’48 “fuga”, la Cisgiordania sarebbe “Giudea e Samaria”, le colonie israeliane sono definite “insediamenti”, “stanziamenti”, in un caso (Gilo) “quartiere”.

Vercelli assume, senza renderlo mai esplicito, esclusivamente il punto di vista sionista e israeliano, facendo eco a tutti i luoghi comuni ormai smentiti dalla storiografia. Dei nuovi storici israeliani in bibliografia compaiono solo Tom Segev e il libro di Benny Morris “Vittime”, di cui però non cita i passaggi che mettono in dubbio la lettura degli avvenimenti dal punto di vista israeliano.

Ecco alcuni degli esempi più evidenti a un lettore informato di questa posizione dell’autore.

Secondo Vercelli “l’ostilità delle popolazioni arabe” verso i sionisti era dovuta al fatto che queste ne vedevano la presenza “come una crescente intrusione che, in prospettiva, poteva portare all’espropriazione delle terre e alla limitazione delle possibilità di lavoro.” Inoltre sarebbe stato particolarmente ostile “il ceto medio urbano” che “dovette confrontarsi con la concorrenza ebraica in campo commerciale, artigianale e della piccola industria.” L’autore liquida così quello che fu un tipico processo colonialista di espulsione dei contadini e di creazione di un mercato della terra in un contesto di economia agraria tradizionale, che determinò un aumento vertiginoso dei prezzi, una crisi dell’agricoltura, l’inurbamento dei coltivatori espulsi dalle campagne, la creazione di un‘ economia e di un mercato paralleli che escludevano la popolazione nativa, come aveva preconizzato lo stesso Herzl, padre del sionismo. Tutto ciò grazie anche al favore del potere mandatario inglese, che nel libro invece non viene evidenziato.

Negli anni ’30 i flussi dell’immigrazione ebraica in Palestina sarebbero stati incentivati dalla chiusura delle frontiere USA, ma anche in questo caso viene ignorato l’intervento dei dirigenti sionisti che si attivarono per promuovere questa chiusura. In merito Enzo Sereni, dirigente sionista, affermò: “Non abbiamo nulla di cui vergognarci nel fatto che abbiamo usato la persecuzione degli ebrei in Germania per l’edificazione della Palestina.” Di questo non c’è traccia nella ricostruzione qui proposta.

Altrettanto avviene riguardo alle tattiche terroristiche messe in atto da tutte le milizie sioniste, a cui Vercelli dedica solo un accenno ed una foto dell’esplosione dell’hotel King David, ma la didascalia non dice che ci furono 97 morti e 58 feriti. Vengono totalmente ignorate le centinaia di vittime arabe di attacchi terroristici sionisti, oppure l’uccisione del mediatore Onu conte Bernadotte, e il fatto che alcuni primi ministri israeliani, come Begin, Shamir e Rabin, erano stati capi o militanti di gruppi che praticavano il terrorismo indiscriminato contro i civili.

Ancora più grave è la versione accolta nel libro riguardo alla guerra del ’48, da cui è nato lo Stato di Israele. Ad esempio la questione dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene così spiegata : i profughi sarebbero stati “popolazioni civili coinvolte nei combattimenti e fuggite dai loro luoghi di residenza.” Inoltre, secondo Vercelli, questo esodo sarebbe stato incentivato dalla “propaganda dei paesi arabi… che garantivano una vittoria certa sugli ebrei”. “Nondimeno,” concede l’autore, “da parte sionista l’interesse ad avere territori abitati in grande maggioranza da popolazione ebraica era nell’ordine delle cose.” Viene liquidato in questo modo il processo di pulizia etnica e con esso il lavoro degli studiosi palestinesi e dei nuovi storici israeliani, compreso il già citato Benny Morris. Certo, dal punto di vista sionista ciò era “nell’ordine delle cose” per la semplice ragione, non menzionata nel testo, che anche nei territori destinati dal piano di spartizione dell’ONU al futuro Stato di Israele la maggioranza della popolazione era araba. Vercelli cita solo la strage di Deir Yassin, troppo nota per essere ignorata, ma non le decine di massacri perpetrati dalle milizie sioniste e le centinaia di villaggi distrutti durante la guerra. Ma definisce la cacciata degli ebrei dai Paesi arabi “un brutale meccanismo di ritorsione” e “una massiccia espulsione.”

A questo proposito, pur dedicando alcune analisi interessanti alle caratteristiche della società ebreo-israeliana, il libro ignora i molti episodi di discriminazione di carattere tipicamente eurocentrico e colonialista cui furono sottoposti gli ebrei arabi, dal rapimento di bambini di famiglie yemenite all’ emarginazione territoriale nelle zone di confine. Nel 1949 comparve su Haaretz, giornale progressista, un articolo in cui si affermava che gli ebrei di lingua araba: “Sono appena meglio del livello di arabi, negri e berberi della regione.” Un’immagine molto diversa da quella di una società felicemente multietnica, dinamica, che presterebbe “particolare riguardo ai diritti civili.” Basti pensare al trattamento riservato in Israele ai lavoratori immigrati, ai richiedenti asilo, in generale ai non ebrei. Vercelli ignora anche la condizione di inferiorità giuridica a cui sono soggetti i cittadini arabo-israeliani, sottoposti all’amministrazione militare fino al 1966, espropriati delle terre e discriminati da più di 50 leggi e regolamenti, definiti sbrigativamente nel libro “diversi vincoli e numerose limitazioni” che avrebbero provocato “un misto di diffidenza ed estraneità”. Gli “attriti” con gli “arabo musulmani” (ma ci sono anche gli “arabo-cristiani”) avrebbero determinato in “alcuni arabi” il senso di appartenenza “a quell’identità palestinese” maturata nei campi profughi “come nei Territori a maggioranza palestinese, a est e a sud di Israele”.

Grazie alla guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, da cui altre centinaia di migliaia di palestinesi secondo il libro sarebbero “fuggite”, “la nozione di spazio [degli ebrei israeliani]…si svincolò dalle dimensioni asfittiche legate a una piccola porzione di territorio quale era lo Stato del 1948.”

Il libro non accenna neppure al metodico, pianificato e progressivo processo di espropriazione ed oppressione imposto alle comunità locali dai vari governi israeliani, rispetto alla quale i palestinesi manifesterebbero una “crescente indisponibilità”, non dovuta a fatti concreti ed oggettivi ma al “senso di discriminazione”. Allo stesso modo il libro minimizza, parlando di qualche centinaio di vittime, le responsabilità (riconosciute persino da un’inchiesta parlamentare israeliana) dell’esercito e dell’allora ministro della Difesa Sharon nella strage di Sabra e Shatila durante la guerra contro il Libano; la Prima Intifada sarebbe scoppiata perché “[I giovani palestinesi] si sentivano vittime di un’ingiustizia,”; la Seconda dalla “disillusione” e dal “malessere della popolazione palestinese”, che portarono ad una radicalizzazione, attribuita al successo dei gruppi islamisti, senza spiegarne le cause. Sensazioni, opinioni, emozioni soggettive. Quanto infine al fatto che nel nuovo contesto mediorientale “Israele non può dare risposte di merito ai problemi degli altri paesi della regione, ma si confronta, inevitabilmente, con gli effetti prodotti dalla loro persistenza,” andrebbe chiesto conto all’autore degli sviluppi diplomatici che vedono Israele allineato sempre più esplicitamente con i peggiori regimi arabi.

 Si potrebbe proseguire, ma credo che quanto scritto finora dia sufficientemente conto del tenore di questo libro. Si tratta di un’opera celebrativa (come testimonia il notevole apparato iconografico) ed elogiativa che esalta l’impresa sionista con un approccio solo apparentemente neutrale, la cui lettura è utile più per analizzare l’ideologia dell’autore e dei suoi sodali filo-israeliani che per il suo valore storiografico.