Palestina: una delegazione UE “scioccata” dalle immagini del prigioniero da quasi 200 giorni in sciopero della fame

Redazione di MEE

29 agosto 2022 – Middle East Eye

I medici avvertono che Khalil Awawdeh è a rischio di morte imminente dopo essere stato trattenuto per mesi in una prigione israeliana senza accuse.***

Domenica la delegazione dell’Unione Europea per i palestinesi ha affermato di essere rimasta “scioccata” dalle foto del gracile corpo del detenuto Khalil Awawdeh, da marzo in sciopero della fame in una prigione israeliana.

La delegazione ha twittato: “Siamo scioccati dalle orribili immagini di Awawdeh che sta facendo lo sciopero della fame…per protestare contro la sua detenzione senza accuse ed è in imminente pericolo di vita. A meno che non sia immediatamente incriminato, deve essere rilasciato.”

Nel messaggio Awawdeh afferma che “questo corpo, di cui rimangono solo pelle e ossa, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma piuttosto riflette e rispecchia il volto concreto dell’occupazione.”

Egli aggiunge che Israele “sostiene di essere uno Stato democratico, mentre c’è un prigioniero senza accuse che si è schierato contro la barbara detenzione amministrativa, per dire con la sua carne e il suo sangue ‘no’ alla detenzione amministrativa.”

I medici hanno avvertito che Awawdeh è a rischio di morte imminente; dopo aver perso decine di chili il suo corpo ha raggiunto un grave livello di fragilità e la sua ossatura e il suo torace sono sporgenti.

Anni di detenzione amministrativa

Il quarantenne è originario del villaggio di Idhna, nei pressi di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata. Nel corso della sua vita è stato arrestato cinque volte ed ha passato un totale di 13 anni nelle prigioni israeliane.

Israele lo accusa di essere un attivista del gruppo Jihad Islamico Palestinese (PIJ).

Lo scorso mese l’organizzazione ha affermato di aver raggiunto un accordo con Israele per il rilascio di Awawdeh e Bassam al-Saadi, importante personalità del PIJ di Jenin, come parte dell’accordo di cessate il fuoco in seguito all’operazione militare israeliana contro la Striscia di Gaza a luglio.

Tuttavia funzionari israeliani lo hanno smentito e rimangono irremovibili riguardo al fatto che sia Saadi che Awawdeh rimarranno in carcere.

Awawdeh ha passato un totale di sei anni in detenzione amministrativa senza accuse. È sposato e padre di quattro figlie.

Ci sono 4.450 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, 560 dei quali in detenzione amministrativa.

Questa prassi molto criticata, in uso quasi esclusivamente contro i palestinesi, consente la detenzione senza accuse né processo per periodi rinnovabili da tre a sei mesi, senza possibilità di appello o senza sapere quali accuse siano mosse al prigioniero.

Molti detenuti palestinesi hanno fatto ricorso allo sciopero della fame per protestare contro questa prassi e imporre il proprio rilascio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre

Pagine Esteri




Palestinese in sciopero della fame si appellerà alla Corte Suprema israeliana

Redazione di Al Jazeera

16 agosto 2022 – Al Jazeera

Il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh continua uno sciopero della fame durato 165 giorni contro la sua detenzione senza accuse né processo

Secondo la sua legale, il prigioniero palestinese in sciopero della fame Khalil Awawdeh si appellerà alla Corte Suprema israeliana contro la sua detenzione dopo che un tribunale militare israeliano ha respinto una richiesta di rilascio per problemi di salute.

Awawdeh – che secondo la sua famiglia è in sciopero della fame per protesta da 165 giorni – sta contestando il fatto di essere detenuto senza accuse né processo in base a quella che Israele definisce “detenzione amministrativa”.

L’avvocatessa Ahlam Haddad sostiene che la salute del suo cliente sta peggiorando e di aver chiesto che venga rilasciato.

“A quest’uomo non è stata fatta giustizia,” ha detto Haddad riguardo alla sentenza del tribunale militare israeliano. “Ci rivolgiamo alla… Corte Suprema di Gerusalemme per ottenere forse la giusta soluzione, cioè il suo rilascio dalla detenzione amministrativa.”

Awawdeh, quarantenne con quattro figli, è uno dei numerosi prigionieri palestinesi in prolungato sciopero della fame che nel corso degli anni hanno protestato contro la detenzione amministrativa.

Israele sostiene che questa politica contribuisce a mantenere le strade sicure e consente al governo israeliano di detenere i sospettati senza divulgare informazioni di intelligence riservate.

Chi lo critica afferma che questo modo di agire nega il giusto processo ai prigionieri palestinesi.

Israele sostiene che Awawdeh è membro di un gruppo armato, un’accusa che tramite la sua avvocatessa egli ha strenuamente respinto.

Miliziani palestinesi del Jihad Islamico hanno chiesto il rilascio di Awawdeh come parte di un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto che ha posto fine all’attacco di tre giorni contro la Striscia di Gaza assediata da parte di forze israeliane all’inizio di questo mese. L’organizzazione non lo ha riconosciuto come un suo membro.

Israele attualmente tiene in carcere circa 4.450 prigionieri palestinesi.

Al momento sono in detenzione amministrativa circa 670 palestinesi, un numero in aumento in marzo quando Israele ha iniziato a effettuare retate quasi ogni sera nella Cisgiordania occupata.

Secondo gli ultimi dati resi pubblici dall’associazione per i diritti dei detenuti Addameer, delle migliaia di palestinesi nelle prigioni israeliane 175 sono minorenni e 27 sono donne.

Haddad ha affermato che, secondo la sua famiglia, durante lo sciopero della fame il suo cliente non ha mai mangiato, salvo che in un periodo di 10 giorni in cui ha ricevuto iniezioni di vitamine.

Il servizio di sicurezza interna israeliano Shin Bet non ha fatto commenti sul suo caso.

Israele ha affermato che la detenzione amministrativa garantisce un giusto processo e imprigiona principalmente chi minaccia la sua sicurezza, benché un piccolo numero di prigionieri sia composto da detenuti per reati minori.

I palestinesi e le associazioni per i diritti umani affermano che il sistema è inteso a reprimere l’opposizione all’occupazione militare israeliana delle loro terre durata 55 anni e che non accenna a finire.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Abbiamo ucciso un bambino, ma abbiamo rispettato le regole di ingaggio’

Yuval Abraham

11 agosto 2022 – +972 magazine

Ex soldati delle Forze di Difesa Israeliane rivelano che, se ritiene che il numero delle vittime sarà contenuto, l’esercito autorizza attacchi contro Gaza pur sapendo che saranno uccisi dei civili.

L’ultimo attacco di Israele contro Gaza si è concluso con l’uccisione di 48 palestinesi, fra cui 16 minori. Israele sostiene che 15 sono morti a causa di razzi vaganti lanciati dal Jihad Islamico Palestinese (PIJ) caduti nella Striscia e che gli attacchi aerei israeliani hanno ucciso 24 miliziani del PIJ e 11 “non-combattenti.”

Ynet, il sito israeliano di notizie [del quotidiano Yedioth Ahronot, ndt.] riporta che alcuni ufficiali dell’esercito si sono vantati perché il rapporto fra “non-combattenti” e combattenti uccisi è stato “il migliore di tutte le operazioni.” Eppure Israele ammette di aver ammazzato almeno 11 persone, tra cui una bambina di cinque anni, che non avevano nulla a che fare con attività militari.

Stando a una soldatessa che ha rilasciato un’intervista a Ynet dopo l’ultimo attacco, l’esercito ha anche riconosciuto di aver ucciso persone disarmate. “Il miliziano (del PIJ) era uscito dalla sua postazione disarmato e io ho fatto fuoco,” ha detto. “Quando è caduto, ho continuato a sparare.”

La maggioranza degli israeliani crede che i minori, o le famiglie, uccisi a Gaza durante le operazioni militari israeliane, il cui unico obiettivo è naturalmente la sicurezza, siano stati uccisi involontariamente. Si pensa infatti che, a differenza delle organizzazioni terroristiche, l’esercito israeliano non ammazzi intenzionalmente degli innocenti. Questo meccanismo permette alla società israeliana di dimenticare scene di sangue e orrore e scacciare dalla nostra coscienza le centinaia di minori che l’esercito ha ucciso a Gaza nel corso degli anni.

Ma la realtà è molto più complessa. Israeliani che hanno prestato servizio in varie unità dei servizi di intelligence dell’IDF negli ultimi mesi hanno rivelato che in molti casi durante le operazioni militari l’esercito sapeva in anticipo che un attacco avrebbe ucciso civili disarmati. Ammazzarli non è stato un errore, ma piuttosto una decisione calcolata e consapevole.

Gli ex soldati hanno testimoniato che i loro superiori avevano detto loro che c’è un certo numero di “non-combattenti”, famiglie e bambini, che l’esercito può uccidere durante attività operative. Finché non si supera questo numero, le uccisioni possono essere approvate in anticipo.

Hanno ucciso un militante di Hamas e il figlioletto’

Dana, che ha chiesto di usare uno pseudonimo come tutti gli ex soldati intervistati per questo articolo, è una maestra d’asilo e vive nel centro di Tel Aviv in un appartamento arredato in legno pieno di libri di filosofia. Durante il servizio militare ha partecipato a un’operazione a Gaza in cui è stato anche assassinato un bambino di cinque anni.

Quando ho servito nella Divisione Gaza stavamo seguendo uno di Hamas perché [l’esercito] sapeva che nascondeva dei razzi,” afferma. “Avevano preso la decisione di eliminarlo.”

Dana era analista del traffico dati nella sala operativa dove il suo compito era di confermare se il missile aveva colpito la persona giusta. “Abbiamo mandato un drone per seguirlo e ucciderlo,” dice, “ma abbiamo visto che era con suo figlio. Un maschietto di cinque o sei anni, penso. Prima di una uccisione bisogna confrontare le informazioni provenienti da due fonti diverse in modo da essere sicuri di uccidere il bersaglio giusto,” spiega Dana. “Ho detto al comandante, un tenente colonnello, che non potevo identificare con precisione il bersaglio. Ho chiesto di non confermare l’azione. Lui mi ha risposto: ‘Non m’importa,’ e l’ha confermata. E aveva anche ragione. Era l’obiettivo giusto. Hanno ucciso il militante di Hamas e il bambino che era con lui.”

Dana mi offre un bicchiere d’acqua, aleggia nell’aria l’odore di segatura proveniente da un vicino deposito di legname. “Come ti sei sentita dopo?” le chiedo. “Quando ero nell’esercito avevo dei meccanismi di difesa,” aggiunge Dana spiegando che aveva rimosso.

I comandanti hanno detto che era conforme alle regole e quindi consentito,” continua. “Nell’esercito avevamo delle regole riguardo a quanti non-combattenti che si trovavano insieme ai bersagli era permesso uccidere a Gaza. Il motivo di questo numero? Ancora non lo so. Adesso mi sembra folle. Ma ci sono regole e la logica interna che hanno escogitato lo rende più facile. Lo rende accettabile.” Dana ha prestato servizio nel reparto di intelligence fino al 2011.

Il dolore dei palestinesi serve a imparare l’arabo

Alle parole di Dana hanno fatto eco parecchi altri ufficiali dei servizi di intelligence con cui ho parlato che vi hanno fatto il servizio militare durante le precedenti guerre contro Gaza in anni recenti.

Tre di loro, fra cui Dana, raccontano che in seguito a un bombardamento israeliano su Gaza nel corso del quale erano stati uccisi dei palestinesi, ai soldati fu chiesto di monitorare le conversazioni telefoniche con i familiari per sentire quando si comunicavano che il loro caro era morto.

È un altro modo per controllare chi è stato ucciso e per essere sicuri che la persona morta era quella che volevamo,” spiega Dana. Questo è stato il suo compito dopo l’assassinio del bambino di cinque anni. “Ho sentito una donna dire: ‘È morto. Il bambino è morto.’ È così che ho avuto la conferma di quello che era successo.”

Alcune di queste conversazioni sono salvate e usate in seguito per insegnare l’arabo ai soldati, come ha testimoniato Ziv che ha terminato il suo servizio militare in un’unità di intelligence top-secret tre anni fa. La prima volta che ha sentito una conversazione così è stato durante l’addestramento. Dice che è un momento scolpito nella mente dei soldati come “particolarmente scioccante.”

Durante l’addestramento abbiamo imparato l’arabo tramite le telefonate fra palestinesi,” ricorda. “Un giorno i comandanti hanno presentato una chiamata di una donna il cui marito le stava dicendo al telefono che il loro figlio era stato ammazzato. Lei ha cominciato a urlare e piangere, era molto difficile stare ad ascoltare. Ti spezzava il cuore. Abbiamo dovuto tradurre in ebraico quello che urlava. Eravamo un gruppo di diciottenni, dei ragazzi. Siamo usciti dalla lezione totalmente sconvolti.

Non era neppure una questione politica, fra noi c’era uno di destra, anche lui inorridito,” continua Ziv. “La conversazione aveva colpito di più i ragazzi che le ragazze, non so perché. Poi ho chiesto ai comandanti se dovevamo proprio imparare l’arabo da questo tipo di dialoghi, ma non sapevano cosa rispondere. Anche loro erano dei ragazzi, avevano 19 anni.”

Il Truman Show’ a Gaza

L’anno scorso Adam, 23 anni, ha terminato il suo servizio militare con l’Intelligence dopo tre anni nell’unità SIGNIT che supervisionava Gaza. Afferma che il controllo delle frontiere e la dipendenza da Israele degli abitanti della Striscia procura a Israele ottime informazioni e rende possibile reclutare collaboratori. “Non hanno modo di andarsene,” dice. “Anche gli egiziani lavorano con noi in totale cooperazione.”

Noi controlliamo tutti i loro varchi, questo ci dà molto potere,” afferma un altro soldato che ha prestato servizio nell’unità tecnologica dei servizi segreti nel 2019. “Se Gaza fosse connessa alla Cisgiordania perderemmo in parte questo potere. Oggi controlliamo tutto quello che entra ed esce fisicamente, elettronicamente o in termini di persone. Ciò rende possibili più modalità di azione: per esempio, gli abitanti di Gaza implorano di ottenere la possibilità di viaggiare per studiare all’estero o andare a trovare parenti fuori dalla Striscia. Questo può essere usato per farli diventare dei collaboratori.”

C’erano persone per cui non avevo alcuna empatia. Tutti i membri più anziani di Hamas che erano molto ideologici, si sentiva veramente che volevano morire per la patria,” dice Adam. “Io non mi riconosco nel loro nazionalismo. Questo è il motivo per cui mi sentivo giustificato a colpirli. Ma abbiamo anche raccolto informazioni su molte persone meno importanti che stavano semplicemente facendo il proprio lavoro. Andavano in ufficio. Chiedevano alla moglie cosa c’era per cena.”

Secondo Adam le informazioni personali che l’esercito raccoglie sono usate per reclutare collaboratori. “La privacy non esiste,” dice. “Si sa tutto di una persona. Cosa gli piace, cosa ha fotografato (con il telefonino), se ha un’amante e il suo orientamento sessuale. Tutto è completamente svelato. Si possono raccogliere informazioni su chiunque uno voglia. E sai che queste persone non vorrebbero che noi sapessimo queste cose.”

Shira, una soldatessa anche lei nei servizi segreti, dice di essere rimasta sorpresa da quanti collaboratori palestinesi lavorino per l’esercito. “Ricordo gli ufficiali che me li indicavano: ‘Lui è un collaboratore. E lui. E anche lui.’ Gli appartenenti ad Hamas e Fatah ci forniscono informazioni a non finire. A un certo punto mi sembrava che tutti cooperassero con noi. Come se ci fosse solo Israele, senza conflitto, e noi vivessimo tutti in una versione del film ‘The Truman Show.’”

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)