Quattro palestinesi sono stati uccisi da fuoco israeliano in Cisgiordania e a Gaza

MEE e agenzie

sabato 22 dicembre 2018 Middle East Eye

Nelle ultime 24 ore quattro palestinesi, compresi due adolescenti, sono stati uccisi dal truppe israeliane in Cisgiordania

Fonti del ministero della Salute palestinese hanno affermato che le forze israeliane hanno sparato e ucciso tre palestinesi, tra cui un adolescente, nella Striscia di Gaza durante l’ultima delle proteste settimanali del venerdì. Giovedì notte le truppe israeliane hanno ucciso un altro adolescente nella Cisgiordania occupata.

Mohammed al-Jahjuh, 16 anni, stava partecipando alla Grande Marcia del Ritorno, una protesta di massa palestinese iniziata il 30 marzo per chiedere la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati.

“E’ stato colpito al collo da un proiettile sparato dai soldati israeliani,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.] il portavoce del ministero, Ashraf al-Qodra.

In seguito il ministero della Salute ha detto che all’inizio della giornata due uomini, di 28 e 40 anni, sono morti per le ferite riportate durante le proteste in due luoghi diversi lungo la barriera con Israele.

Il ministero della Sanità ha detto che sono stati feriti quattro paramedici. L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto il fuoco “in base alle regole d’ingaggio” in vigore dal momento in cui i palestinesi hanno iniziato le proteste.

Meno di 24 ore prima in Cisgiordania truppe israeliane hanno sequestrato il corpo del diciassettenne Qassem al-Abasi.

Il portavoce dell’esercito israeliano ha detto all’AFP che “i soldati hanno aperto il fuoco in direzione di un veicolo che stava cercando di oltrepassare una barriera militare nella regione di Ramallah, uccidendo uno degli occupanti.”

Abasi era di Gerusalemme est. L’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’incidente.

In base alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU la Cisgiordania è occupata illegalmente da Israele. Ma dal 1967 Israele ha costruito insediamenti e sequestrato terra palestinese, ha edificato un muro di separazione ed autostrade che collegano le colonie senza attraversare i villaggi palestinesi.

Nelle ultime due settimane vicino a Ramallah palestinesi armati hanno sparato a morte a tre israeliani, due dei quali soldati dell’esercito. Israele ha ucciso cinque palestinesi, l’ultimo il 14 dicembre nel campo profughi di al-Jalazone.

Il 9 dicembre un bimbo è nato prematuro ed è morto dopo che la madre, una colona israeliana, mentre era in viaggio è rimasta ferita in una sparatoria nella colonia illegale di Ofra.

Venerdì scorso in Cisgiordania e a Gaza i palestinesi hanno protestato contro le operazioni militari israeliane in città della Cisgiordania.

Truppe israeliane e veicoli militari sono entrati nel centro di Ramallah, sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Anche se gli arresti di palestinesi in incursioni notturne da parte dell’esercito israeliano avvengono quasi quotidianamente, Israele ha intensificato le sue operazioni alla ricerca degli uomini armati palestinesi presumibilmente responsabili dell’uccisione dei soldati israeliani.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Passata in prima lettura alla Knesset una legge per l’espulsione di famiglie di palestinesi accusati di aggressione

Yumna Patel 

20 dicembre 2018, Mondoweiss

Mercoledì [19 dicembre 2018], nonostante la netta opposizione dell’intelligence e di comandanti dell’esercito, la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha approvato in prima lettura una legge per la deportazione di famiglie di palestinesi coinvolti in attacchi contro israeliani.

La legge, presentata dal partito di estrema destra “Casa Ebraica”, è stata approvata con 69 voti a favore e 38 contrari.

Se accolta, comporterebbe che entro una settimana da un attacco o tentativo di attacco verrebbe consentito al comando centrale dell’esercito israeliano di espellere i familiari degli aggressori palestinesi dalle loro città d’origine verso altre zone della Cisgiordania.

Permetterebbe anche alle forze israeliane di delimitare un’area in cui la famiglia non potrebbe entrare.

Il voto ha seguito di pochi giorni l’approvazione della legge da parte del Gabinetto per la Sicurezza di Israele e della Commissione Legislativa Ministeriale.

Durante la sessione tre parlamentari palestinesi, Jamal Zahalka, Ahmad Tibi e Masud Ganaim, sono stati espulsi dall’aula.

Secondo l’Anadolu Agency [agenzia di stampa del governo turco, ndtr.] il parlamentare israeliano del partito “Casa Ebraica” Moti Yogev ha definito “terroristi” i suoi colleghi arabi, mentre il deputato della “Lista Unitaria” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ahmad Tibi gli ha gridato: “Puoi uccidere i palestinesi, ma non puoi opprimere un intero popolo.”

I firmatari del progetto di legge hanno sostenuto che la misura servirebbe come “deterrente” per quanti pensino di prendere di mira israeliani con attacchi con armi da fuoco o all’arma bianca. “L’espulsione di famiglie di terroristi,” afferma la legge, “è un collaudato deterrente che ha il potere di ridurre gli attacchi terroristici e di salvare vite.”

All’inizio di questa settimana Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato che il direttore dello Shin Bet, il servizio israeliano di intelligence interna, si è opposto alla legge affermando che sarebbe praticamente impossibile metterla in pratica e che “porterebbe al risultato opposto alla deterrenza, dato che la sua applicazione determinerebbe tensioni.”

Haaretz cita un importante ufficiale della sicurezza che sostiene che la legge è stata promossa in seguito a pressioni dell’opinione pubblica dopo una serie di attacchi che hanno preso di mira coloni israeliani, non per una reale necessità operativa o di sicurezza. “Come si suppone esattamente che lo facciamo? Prendere famiglie e sbatterle sulle colline di Hebron? E poi cosa? Tenerle d’occhio in modo che non si spostino? Inseguirle ogni volta che tornano indietro al loro villaggio e poi ricacciarle fuori?”, afferma l’anonimo ufficiale.

Per anni il governo israeliano ha messo in atto una serie di queste cosiddette misure di “deterrenza”, compresa la demolizione delle case di familiari di presunti aggressori, chiudendo interi villaggi da cui sarebbero provenuti sospetti assalitori, effettuando operazioni di arresti massicci che prendono di mira la famiglia e gli amici degli accusati e revocando permessi di lavoro israeliani a parenti vicini e lontani di assalitori.

Gruppi per i diritti umani hanno criticato le politiche del governo in quanto punizioni collettive e ufficiali dell’esercito israeliano hanno già dato indicazioni al governo che prassi come le demolizioni di case non evitano gli attacchi.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha condannato la pratica delle demolizioni punitive di case come “vendetta sanzionata da tribunali”, condotta contro membri di una famiglia che non hanno commesso reati, che rappresenta una punizione collettiva.

La nuova legge, che intende espellere le famiglie di assalitori dalle loro case, potrebbe rappresentare un trasferimento forzato – un crimine di guerra in base alle leggi internazionali.

B’Tselem ha così affermato riguardo a questa pratica: “Il trasferimento forzato – con violenza fisica diretta o creando un contesto coercitivo che faccia in modo che gli abitanti lascino le proprie case – è un crimine di guerra. Ogni persona responsabile di ciò – compresi il primo ministro ed il ministro della Difesa – ne sono personalmente responsabili.”

  • Su Yumna Patel

  • Yumna Patel è una giornalista multimediale che risiede a Betlemme, Palestina.

Includiamo alcune citazioni di esponenti politici israeliani, tra cui ministri, tratte da un blog di commento all’articolo di Mondoweiss e che indicano il clima in cui avviene il dibattito su questa legge.

Un importante parlamentare israeliano chiede “l’uccisione di tutti i palestinesi”

Il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ha affermato che “il numero di [manifestanti palestinesi pacifici] uccisi non importa perché comunque sono solo dei nazisti.”

Il presidente della Commissione Difesa del parlamento israeliano Avi Dichter ha invocato l’uccisione di tutti i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Mentre stava commentando le proteste pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che hanno luogo lungo la barriera orientale della Striscia di Gaza, ha detto: “L’esercito israeliano ha abbastanza pallottole per ogni palestinese.”

Dichter è un importante membro del partito di governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il Likud, che è di destra.

Ex direttore del servizio di sicurezza interna, lo Shin Bet, e ministro della Sicurezza Interna, Dichter ha detto che l’esercito israeliano è pronto ad usare ogni mezzo, compresa la forza letale, per scoraggiare i manifestanti palestinesi.

Dal 31 marzo migliaia di manifestanti palestinesi pacifici hanno protestato lungo la barriera orientale della Striscia di Gaza, chiedendo di togliere l’assedio israeliano di dodici anni e ribadendo il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle proprie case.

Il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ha ripetutamente fatto riferimento ai manifestanti uccisi a Gaza come “nazisti”, affermando che non c’erano dimostrazioni, solo “odio nazista”.

Ha aggiunto: “Il numero [di manifestanti palestinesi pacifici] uccisi non importa niente perché comunque sono solo nazisti.”

2.

Parlamentare israeliano: “La nostra vita è più preziosa di quella dei palestinesi” Days of Palestine, 20 dic. 2018

Commentando l’attentato incendiario [in cui morirono un bambino di 18 mesi e il padre, ndtr.] di qualche anno fa contro una famiglia palestinese in Cisgiordania ha detto: “Bruciare una famiglia palestinese non è un’azione terroristica.”

Bezalel Smotrich, membro di estrema destra della Knesset, ha chiesto ai coloni ebrei illegali di attaccare i palestinesi, affermando che “la vita degli ebrei è più importante di quella dei palestinesi.”

Sul suo account twitter Smotrich ha scritto: “Chiedo ai miei eroici amici [coloni] e pionieri di uscire stanotte e di chiudere agli spostamenti dei veicoli arabi la Route 60 su tutta la sua lunghezza.”

Se ci dovessero essere attacchi (della resistenza palestinese contro coloni ebrei illegali), non ci saranno arabi per le strade. Le nostre vite sono più importanti della qualità della loro vita.”

In conseguenza di ciò l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiesto l’apertura di un’inchiesta contro il politico di “Casa Ebraica” in quanto egli ha twittato un appello alla violenza dei coloni contro i palestinesi.

L’organizzazione ha presentato una richiesta ufficiale al procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit, chiedendogli di aprire un’inchiesta penale contro l’appello di Smotrich a favore della violenza contro i palestinesi.

I coloni ebrei illegali hanno risposto al tweet di Smotrich, riunendosi nelle strade principali e attaccando i palestinesi.

Yesh Din afferma che, nelle 24 ore successive al tweet di Smotrich, ha rilevato 25 attacchi condotti dai coloni contro i palestinesi.

Gli attacchi hanno incluso colpi di proiettili veri contro case palestinesi nei vicini villaggi di Ein Yabrud e di Beitin e il lancio di pietre contro auto palestinesi agli incroci di Huwara e Kfar Qaddum, nei pressi di Ofra [colonia israeliana, ndtr.] sulla Route 60 nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 dicembre 2018 (due settimane)

Dal 9 dicembre, in Cisgiordania si è verificato un crescendo di violenza che ha causato l’uccisione di sette palestinesi e tre israeliani ed il ferimento di 481 palestinesi e 16 israeliani. Ci sono state numerose operazioni di ricerca-arresto, scontri violenti, demolizioni punitive e severe restrizioni di accesso

[entrata/uscita dalla città]. Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, la situazione è rimasta relativamente calma. In una dichiarazione rilasciata il 16 dicembre, Jamie McGoldrick, Coordinatore Umanitario per i territori palestinesi occupati, ha chiesto “a tutti gli Attori – compresi i gruppi armati, le forze di sicurezza e i civili armati – di astenersi da attacchi contro i civili e da altre azioni che potrebbero aumentare ulteriormente la violenza”, di garantire che “le operazioni di ordine pubblico siano condotte con moderazione e che venga fornita protezione alle ambulanze, ai bambini, alle scuole e ai civili in generale”.

Nel governatorato di Ramallah, due attacchi attuati da palestinesi hanno provocato la morte di un neonato israeliano e di due soldati israeliani, ed il ferimento di altri otto coloni israeliani e di un soldato [qui di seguito il dettaglio]. Il 9 dicembre, un palestinese ha sparato ferendo sette coloni israeliani, tra cui una donna incinta e quattro minori che viaggiavano in auto vicino all’entrata dell’insediamento colonico di Ofra. Il bambino, nato successivamente prematuro con un parto cesareo di emergenza, è morto tre giorni dopo. Il 13 dicembre, vicino all’insediamento avamposto [colonia non autorizzata dal governo israeliano] di Giv’at Assaf, un altro palestinese ha aperto il fuoco in una stazione degli autobus sulla Strada 60, uccidendo due soldati e ferendo un altro soldato ed una colona israeliana. Entrambi gli autori degli attacchi sono riusciti a fuggire.

Sono stati segnalati altri tre attacchi condotti da palestinesi: quattro soldati israeliani sono rimasti feriti; due degli aggressori sono stati uccisi [qui di seguito il dettaglio]. L’11 dicembre, vicino al villaggio di Idhna (Hebron), un palestinese ha guidato la sua auto contro un gruppo di poliziotti israeliani di confine, ferendone uno; l’aggressore è stato ucciso mentre cercava di fuggire. Il 13 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani di confine e successivamente è stato colpito e ucciso. Il 14 dicembre un palestinese è entrato nell’insediamento di Beit El (Ramallah), dove ha ferito con coltello un soldato israeliano, colpendolo anche con una pietra da distanza ravvicinata; secondo quanto riferito, il giorno seguente si è consegnato alle autorità israeliane.

In varie operazioni di ricerca-arresto e relativi scontri, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi, tra cui due sospetti aggressori [qui di seguito il dettaglio]. Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, durante un’operazione militare, un 22enne palestinese disabile è stato colpito alla testa con arma da fuoco e ucciso; secondo fonti palestinesi, nell’area in cui l’uomo è stato ucciso, non c’erano scontri in corso. Le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta. Il 12 dicembre, nella città di Nablus, a seguito di uno scontro a fuoco, le forze israeliane hanno ucciso il presunto colpevole di un attacco compiuto il 7 ottobre, in cui erano stati uccisi due israeliani. Nello stesso giorno, nella città di Surda (Ramallah), un’unità israeliana sotto copertura ha ucciso il presunto autore dell’attacco compiuto nei pressi dell’insediamento colonico di Ofra [vedi sopra]; secondo testimoni palestinesi, nel momento in cui veniva fatto salire sul veicolo militare l’uomo era vivo, con le mani e le gambe ammanettate. Il 13 dicembre, nella zona industriale di Al Bireh (Ramallah), durante un’operazione di arresto, le forze israeliane hanno ucciso un 58enne palestinese che, alla guida dell’auto, nei pressi del suo luogo di lavoro, aveva ferito leggermente un soldato israeliano. Il giorno seguente, durante scontri nel Campo Profughi di Jalazun (Ramallah), un 18enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco.

Inoltre, in questi ed altri scontri per lo più correlati ad operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 246 palestinesi, tra cui 52 minori. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 215 operazioni in cui sono stati arrestati 287 palestinesi. La maggior parte delle vittime e degli arresti è stata registrata a partire dal 13 dicembre. Durante il periodo di riferimento, il 31% delle operazioni ed il 60% dei ferimenti sono avvenuti nel governatorato di Ramallah. Nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, otto palestinesi sono stati feriti. Di tutti i ferimenti, quasi il 70% è stato causato da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 15% da proiettili di gomma e il 9% da armi da fuoco.

Nella città di Hebron, durante una manifestazione, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti e 15 sono stati arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi. La manifestazione intendeva commemorare la fondazione del movimento di Hamas. Secondo i media, i manifestanti sono stati aggrediti con manganelli e granate assordanti.

Il 13 dicembre, per diverse ore, l’esercito israeliano ha bloccato le principali vie di accesso e di uscita della città di Ramallah. Alla chiusura del presente bollettino, alcune di queste strade erano ancora chiuse: due ad est (checkpoint DCO) ed una ad ovest (porta di Deir Ibzi). La maggior parte delle altre strade permangono sotto il controllo dell’esercito che effettua ricerche su veicoli e passeggeri, causando pesanti ingorghi stradali; in particolare ai checkpoint di Qalandiya ed Atara.

In conseguenza di due demolizioni punitive, 29 palestinesi sono stati sfollati e altri 80 sono rimasti feriti durante scontri correlati [qui di seguito il dettaglio]. Il 15 dicembre, nel Campo Profughi di Al Amari (Ramallah), l’esercito israeliano ha fatto esplodere e distrutto un edificio di quattro piani, danneggiando gravemente due edifici adiacenti, sfollando un totale di 23 persone, tra cui sei minori. L’edificio in questione era la casa di famiglia di un uomo che, nel maggio 2018, durante un’operazione di ricerca nel Campo, aveva ucciso un soldato israeliano con un mattone. Oltre 80 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri durante e dopo la demolizione. Il 17 dicembre, nella città di Tulkarm, il seminterrato e il piano terra di un edificio a tre piani sono stati demoliti, rendendo l’intero edificio pericoloso e sfollando sei persone, tra cui un minore. I piani demoliti ospitavano un palestinese che, il 7 ottobre, aveva ucciso due israeliani (vedi sopra).

Inoltre, in Area C e Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture palestinesi, sfollando 18 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 170. Tali demolizioni e sequestri sono stati effettuati a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Delle strutture citate venti erano situate in cinque comunità nell’Area C e le rimanenti in Gerusalemme Est.

Impennata di violenza da parte di coloni israeliani nel corso di proteste ed incursioni seguite ai due attacchi effettuati da palestinesi [vedi sopra]. Durante il periodo sono stati registrati almeno 38 casi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani contro veicoli palestinesi, con conseguente ferimento di 12 persone e danni a decine di auto. La maggior parte degli episodi sono avvenuti durante le proteste tenute dai coloni dopo l’attacco del 13 dicembre, quasi la metà delle quali registrate nel governatorato di Ramallah. Alcuni degli episodi hanno anche comportato il blocco di importanti snodi stradali. In un caso, un gruppo di coloni diretti al luogo in cui si teneva una delle proteste, hanno fatto irruzione nel villaggio di Beitin (Ramallah) accompagnati da forze israeliane; qui un palestinese è stato ferito con arma da fuoco. In altri due episodi, nei pressi dei villaggi di Al Maniya e Taqu (entrambi a Betlemme) e nell’abitato di Modi’in Illit (Ramallah) tre uomini palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. Fonti palestinesi riferiscono che, in due episodi accaduti nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah) e Tuwani (Hebron), coloni israeliani hanno vandalizzato 266 ulivi.

Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione e sulla spiaggia, sono proseguite le manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”: un bambino palestinese di 4 anni è morto e altri 557 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. Il bambino, colpito da un proiettile ad est di Khan Yunis, durante la manifestazione del precedente venerdì, è morto l’11 dicembre. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, di tutti i feriti occorsi durante questo periodo, 102 erano minori e 340 necessitavano di ricovero in ospedale, tra cui 105 persone con ferite da armi da fuoco.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 15 casi non collegati alle manifestazioni. Il 10 e 12 dicembre, nelle aree di Rafah e Deir El-Balah, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro pescatori, ferendone almeno due e arrestandone sei, tra cui un minore. In tre occasioni, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, ad est della città di Gaza e nelle aree settentrionali, forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, tra Gaza e l’Egitto è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.517 persone sono entrate a Gaza e 2.737 sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Israele reso furioso dal premio francese per i diritti umani

Adri Nieuwhof

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

La Francia ha insignito Al-Haq e B’Tselem [due organizzazioni per i diritti umani, una palestinese e l’altra israeliana, ndtr.] con il prestigioso “Premio della Repubblica Francese per i Diritti Umani”.

Ciò è avvenuto nonostante le pesanti pressioni da parte di Israele sul governo francese perché togliesse il riconoscimento alle due associazioni che documentano i crimini di guerra e i soprusi israeliani contro i palestinesi.

Tuttavia la ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet ha ceduto alle pressioni e si è rifiutata di partecipare alla cerimonia di premiazione a Parigi lo scorso lunedì [10 dicembre, ndtr.].

Il gruppo della lobby franco-israeliana CRIF ha scritto a Belloubet sostenendo che i due vincitori “chiedono il boicottaggio di Israele,” ed ha affermato che per il ministero della Giustizia francese dare loro il premio “anche in assenza della ministra è un insulto alla giustizia.”

Nel suo discorso di ringraziamento il direttore esecutivo di B’Tselem Hagai El-Ad ha definito “isterica” la risposta del governo israeliano.

El-Ad ha detto che il tentativo israeliano di esercitare pressioni su dirigenti francesi “dimostra la situazione in cui lavoriamo: propaganda, menzogne e minacce da parte di un governo che crede che far tacere e nascondere consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani.”

Il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, ha detto ad Electronic Intifada che il premio è un riconoscimento per il lavoro del suo gruppo in un periodo in cui l’organizzazione è presa di mira da una campagna di calunnie da parte di Israele.

La cerimonia di premiazione del 10 dicembre ha coinciso con il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti umani.

Risposta furiosa

Israele ha risposto con ira all’annuncio che la Francia stava per assegnare il prestigioso premio alle due associazioni.

“La Francia consegna il suo riconoscimento più prestigioso a B’Tselem e Al-Haq, che accusano Israele di apartheid, ci delegittimano a livello internazionale, difendono il terrorismo e sostengono il BDS,” ha affermato Michael Oren, vice ministro israeliano per i rapporti diplomatici.

BDS sta per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – una campagna palestinese non-violenta per rendere Israele responsabile delle violazioni dei diritti dei palestinesi, sul modello del vincente movimento internazionale di solidarietà che contribuì a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

L’ambasciata di Israele in Francia ha twittato di essere “scioccata” per il premio ed ha asserito che Al-Haq sarebbe legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico e un’organizzazione di resistenza che Israele definisce gruppo “terroristico”.

La ministra della Cultura di Israele Miri Regev ha detto che B’Tselem e i suoi membri dovrebbero “vergognarsi”, descrivendo il premio come un “simbolo di disonore”.

La viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely ha definito il premio “deplorevole” ed ha chiesto al governo francese di ripensarci.

Hotovely ha sostenuto che anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua opposizione durante un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron.

Chiudere spazi

Il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin ha parlato con Electronic Intifada all’Aia, pochi giorni prima di recarsi a Parigi per la cerimonia di premiazione.

Ha detto che il premio arriva in un momento in cui Israele sta “cercando di chiudere gli spazi” per il lavoro a favore dei diritti umani.

Il riconoscimento francese, ha detto, significa per Al-Haq ancor di più perché “giunge nello stesso giorno del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

Jabarin ha affermato che il premio è stato assegnato “alle vittime in Palestina” ed è “un riconoscimento dei loro diritti.”

Ma ha ammonito che le vittime hanno bisogno di molto più di un riconoscimento simbolico.

“La Francia deve agire in base ai propri impegni,” ha detto, in riferimento ai trattati internazionali sui diritti umani che ha firmato.

Momento di agire

A settant’anni dalla Nakba – l’espulsione dei palestinesi – e dopo 51 anni di occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ha detto Jabarin, “niente è cambiato, la situazione si sta aggravando, l’occupazione si sta approfondendo, come le sofferenze.”

Il messaggio di Jabarin al governo francese è che “se vuole davvero la pace in Palestina e altrove, deve agire.”

Jabarin ha affermato che, per cambiare la situazione, ci devono essere sanzioni contro Israele, compreso il divieto di commercio dei prodotti delle colonie e un embargo sulle armi.

Gli europei non dovrebbero “lasciare che i criminali viaggino nei loro Paesi,” ha aggiunto Jabarin.

“Se i criminali non pagano il prezzo dei loro crimini, non c’è modo che ripensino o cambino le loro azioni e le loro politiche.”

La CPI propende per la narrazione israeliana?

Jabarin ha anche manifestato delusione nei confronti della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 sta portando avanti un “esame preliminare” dei possibili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

“È passato molto tempo,” ha detto Jabarin.

Un esame preliminare è il primo passo nel procedimento della Corte per decidere se aprire un’inchiesta formale, che può poi portare a imputazioni e a un processo.

Ma mentre un esame preliminare è portato avanti ogni volta che viene presentata una richiesta di deferimento, esso è a tempo indefinito e può continuare per anni, a discrezione del procuratore generale.

Benché la procuratrice generale, Fatou Bensouda, lo scorso aprile abbia messo in guardia i dirigenti israeliani che potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, la Corte non ha iniziato un’inchiesta formale.

Le “vittime, il popolo che sta soffrendo, non possono più attendere,” ha detto Jabarin. “Questa istituzione deve agire in base al suo mandato e non occuparsi della questione da un punto di vista politico.”

Jabarin ha definito deludente l’ultimo rapporto annuale sullo stato di avanzamento.

Il rapporto afferma che “la procura intende completare l’esame preliminare il prima possibile,” ma non fornisce nessuna data limite.

Jabarin ha descritto il rapporto come “confuso” nell’uso di terminologia e concetti giuridici. Teme che la procuratrice si sia spostata “verso la narrazione israeliana.”

Ma vede “qui e là segnali positivi.”

Spera che la procuratrice si muova rapidamente per aprire un’inchiesta formale e “persegua i criminali e successivamente emetta mandati di arresto.”

“Confido nella professionalità e nell’indipendenza della procuratrice,” ha detto Jabarin. “Il mio messaggio a lei è che il tempo passa e le sofferenze continuano. È il momento di intervenire.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Forze israeliane uccidono un adolescente durante scontri in Cisigordania

Maureen Clare Murphy

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

Forze israeliane hanno sparato uccidendo un adolescente nel campo di rifugiati di Jalazone mentre l’esercito ha usato il pugno di ferro nella zona di Ramallah nella Cisgiordania occupata dopo 24 ore di violenza in cui due soldati e quattro palestinesi sono rimasti uccisi.

L’adolescente ucciso è stato identificato come Mahmoud Yousif Nakhla. Il ministero della Sanità della Cisgiordania ha detto che aveva 16 anni, ma secondo alcuni mezzi di informazione ne aveva 18.

L’agenzia di notizie palestinese Ma’an News ha affermato che l’adolescente è stato colpito da una distanza inferiore ai 10 metri e che alcuni soldati hanno cercato di nascondere il suo corpo. Secondo Ma’an paramedici palestinesi sono riusciti a recuperare il corpo di Nakhla solo dopo aver discusso con i soldati per più di 30 minuti.

Alcuni filmati della scena montati insieme mostrano soldati che trascinano e poi trasportano Nakhla, dopo di che fanno la guardia intorno a lui. Il video non sembra mostrare soldati che prestino le prime cure all’adolescente.

Nell’ultimo filmato del montaggio delle immagini Nakhla appare ancora vivo quando i medici palestinesi lo mettono su una barella e lo caricano su un’ambulanza. I media informano che Nakhla era in condizioni critiche quando è arrivato all’ospedale, dove è stato infine dichiarato morto.

Il campo profughi di Jalazone

Il campo profughi di Jalazone, nella parte centrale della Cisgiordania, si trova a soli 200 metri dalla colonia di Beit El, costruita da Israele in violazione delle leggi internazionali, che vietano a una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori che occupa.

I soldati di guardia alla colonia, finanziata da David Friedman, l’ambasciatore USA in Israele, vessano costantemente i minori del campo.

Negli ultimi anni le forze israeliane che sorvegliano Beit El hanno ucciso e ferito gravemente parecchi ragazzini palestinesi del campo di Jalazone.

Lo scorso anno soldati di una torre di guardia nei pressi di Beit El hanno ferito a morte Jassim Nakhla, 15 anni, e Muhammad Khattab, 17 anni, sparando contro una macchina che trasportava quattro minori ed era ferma sulla strada. Al momento della pubblicazione di questo articolo non è chiaro se Jassim Nakhla fosse un parente diretto di Mahmoud Nakhla.

Venerdì ci sarebbero stati altri due feriti da proiettili veri durante scontri tra le forze israeliane e i palestinesi nei pressi di Ramallah.

Secondo alcune notizie, venerdì pomeriggio un ragazzo palestinese di 17 anni sarebbe stato ferito in modo non grave dopo essere stato colpito al volto da un proiettile d’acciaio ricoperto di gomma durante scontri nel nord della Cisgiordania.

Venerdì le forze israeliane hanno anche aperto il fuoco contro un’ambulanza palestinese ad al-Bireh, nei pressi di Ramallah, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

L’agenzia di notizie Ma’an ha informato che il soccorso medico stava portando un paziente all’ospedale quando i soldati israeliani del checkpoint di Beit El hanno aperto il fuoco contro l’ambulanza.

Sempre venerdì un soldato israeliano sarebbe stato gravemente ferito nell’avamposto militare nei pressi di Beit El dopo essere stato attaccato con una pietra e un coltello da un palestinese che poi è fuggito.

Secondo il “Palestine Prisoners Club” [Associazione dei Prigionieri della Palestina] anche gli uomini armati che hanno ucciso due soldati e ne hanno feriti altri due giovedì sono in fuga mentre l’esercito li ha cercati per il secondo giorno, e giovedì e nelle prime ore di venerdì ha arrestato più di 100 palestinesi in Cisgiordania.

La città di Ramallah è stata chiusa dall’esercito il giorno prima e lo è rimasta anche venerdì.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese venerdì 25 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane ad al-Bireh, vicino a Ramallah.

Violenza dell’Autorità Nazionale Palestinese

Nel contempo venerdì, che ha segnato il 31mo anniversario della fondazione del partito avversario, Hamas, le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno aggredito dimostranti che protestavano contro i crimini israeliani e ne avrebbero feriti 5 e arrestati 15.

Il “coordinamento per la sicurezza” tra Israele e le forze dell’ANP gioca un ruolo fondamentale nel reprimere la resistenza palestinese contro l’occupazione militare israeliana.

Le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono anche schierate per disperdere con la forza proteste seguite all’uccisione di Mahmoud Nakhla.

Le forze di sicurezza dell’ANP avrebbero anche arrestato il giornalista Abd al-Karim Museitaf mentre stava informando sulle proteste a Ramallah.

I coloni israeliani hanno continuato ad attaccare palestinesi sulle strade della Cisgiordania, compreso un padre che ha reagito con rabbia e frustrazione dopo che il veicolo su cui stava viaggiando con i suoi figli piccoli è stato colpito da una pietra.

L’uomo ha espresso il suo sdegno per il fatto che i suoi figli non hanno un futuro sotto l’occupazione e potrebbero essere uccisi in qualunque momento dagli israeliani.

Una madre palestinese è stata ferita a morte all’inizio di quest’anno in un attacco simile.

Giovedì notte un autista di autobus palestinese ha avuto il bulbo oculare rotto dopo essere stato picchiato da coloni che hanno usato tirapugni mentre stava lavorando nei pressi di Gerusalemme. Il fratello dell’uomo ha detto ai mezzi di comunicazione che l’autista, che lavora per una compagnia israeliana, “è stato aggredito in un incidente simile lo scorso anno, ma ha continuato a lavorare per mantenere la sua famiglia.”

Nel contempo venerdì almeno 60 manifestanti sono rimasti feriti da proiettili veri in quanto Israele ha continuato a utilizzare mezzi letali contro le dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno lungo il confine orientale di Gaza. Sette paramedici e un giornalista sarebbero rimasti feriti durante le proteste.

Finora quest’anno circa 300 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Al Mezan”, a Gaza, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, 175 palestinesi sono stati uccisi dal loro inizio il 30 marzo, “compresi 34 minori, una donna, due giornalisti, tre paramedici e sei disabili, tra cui un minore.”

Circa altri 13.000 sono stati feriti durante le proteste, di cui più di 7.200 da proiettili veri.

Quest’anno sono stati uccisi dai palestinesi quindici israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 20 novembre – 3 dicembre 2018

Per la 36a settimana consecutiva sono continuate le dimostrazioni collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”; 272 palestinesi sono rimasti feriti ad opera delle forze israeliane, ma non sono stati segnalati morti. Dei 272 feriti, 79 si sono avuti nella zona a nord di Beit Lahiya, durante manifestazioni di protesta contro le restrizioni imposte sulle zone di pesca. Fonti israeliane hanno affermato che in nessuna manifestazione sono stati lanciati aquiloni o palloncini incendiari e che non è stato fatto alcun tentativo di violare la recinzione.

Ancora in Gaza, al di fuori delle manifestazioni di cui sopra, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 31 casi, ferendo un minore che si era avvicinato alla recinzione perimetrale. Tre pescatori sono stati arrestati e il lavoro di sussistenza di contadini e pescatori palestinesi è stato interrotto. In due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato lavori di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 26 novembre, sulla strada principale prossima al villaggio di Beit Ummar (Hebron), un palestinese di 32 anni è stato colpito mortalmente dalle forze israeliane dopo che, a quanto riferito, aveva guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati dislocati sulla strada, ferendone tre. Il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. Secondo testimoni oculari palestinesi, si sarebbe trattato di un incidente automobilistico, mentre, secondo le fonti dei media israeliani, si sarebbe trattato di un attacco intenzionale. In Cisgiordania, dall’inizio del 2018, tredici palestinesi sono stati uccisi durante attacchi o presunti attacchi contro israeliani.

Sempre in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, 41 palestinesi, tra cui otto minori, sono stati feriti da forze israeliane nel corso di numerose proteste e scontri. Di questi ferimenti, 34 sono stati registrati vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus), durante le proteste contro la detenzione, da parte israeliana, del Governatore di Gerusalemme, membro dell’Autorità Palestinese, ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel contesto della protesta settimanale contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici. Altri sette feriti si sono avuti durante gli scontri scoppiati in seguito a due operazioni di ricerca-arresto; durante il periodo di riferimento, sono state effettuate 176 di tali operazioni. Di tutti i ferimenti, 16 sono stati causati da proiettili di gomma e 21 da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, o causati direttamente da bombolette lacrimogene.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 33 strutture di proprietà palestinese, incluse due strutture fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 16 persone, tra cui sei minori, sono state sfollate e altre 226 persone hanno subìto danno economico. Ventiquattro delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est e nove in Area C. L’episodio più grave si è verificato nel Campo Profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) dove, in un’area destinata [da Israele] alla costruzione di una strada, sono state demolite 19 strutture per mancanza di permessi edilizi, colpendo i mezzi di sostentamento di 179 persone. Nel quartiere di Jabal al Mukabbir (Gerusalemme Est), le autorità israeliane hanno demolito un appartamento costruito sul tetto di una struttura residenziale, sfollando una famiglia di quattro persone. In area C, nella Comunità di Suba (Hebron), due delle strutture demolite erano cisterne per l’acqua; erano state finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione. Sempre in Area C, altre tre strutture abitative sono state demolite, sfollando tredici persone.

Il 28 novembre, l’impianto di trattamento delle acque reflue di Gaza ha parzialmente ripreso a funzionare; per i danni causati da un raid aereo israeliano del 12 novembre si era verificata una completa interruzione della fornitura di acqua a diversi quartieri. Il personale municipale di Gaza è riuscito a riparare parte del danno e a riprendere la fornitura di acqua per centinaia di famiglie. Dall’inizio di novembre, grazie ai finanziamenti del governo del Qatar destinati all’acquisto di combustibile per la Centrale Elettrica, l’erogazione di energia elettrica è stata portata ad almeno undici ore al giorno, migliorando la fornitura di servizi di base, comprese le strutture igienico-sanitarie.

Sono stati segnalati almeno undici attacchi da parte di coloni israeliani con danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), secondo fonti del Consiglio del villaggio, sono stati vandalizzati da coloni israeliani circa 85 alberi di proprietà palestinese. In altri cinque episodi avvenuti ad Al Mughayyir (Ramallah), Al Jab’a (Betlemme), Beit Iksa (Gerusalemme) e Asira al Qibliya e Huwwara (questi ultimi in Nablus), coloni israeliani hanno forato le gomme di 52 veicoli ed hanno spruzzato scritte offensive su alcuni veicoli e sui muri di una scuola, di una moschea e di diverse abitazioni. Coloni ed altri gruppi israeliani sono entrati in vari siti religiosi della Cisgiordania, provocando alterchi e scontri con palestinesi, conclusi senza feriti. I siti interessati sono il complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est ed un santuario nel villaggio di Sabastiya (Nablus). Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni e il vandalismo sono andati aumentando: la media settimanale di attacchi con feriti o danni è salita a cinque, rispetto a tre nel 2017 ed a due nel 2016.

In Cisgiordania vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, in almeno nove occasioni, secondo fonti israeliane, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni ad almeno otto veicoli privati; a Ramallah, in uno di questi episodi, un colono israeliano è rimasto ferito.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di cinque giorni. Un totale di 1.280 persone sono entrate a Gaza e 2.611 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è rimasto aperto, quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, nel corso di scontri conseguenti ad una operazione di ricerca e arresto, un disabile palestinese di 22 anni è morto, colpito con arma da fuoco da forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Secondo il ministero 18 palestinesi sono stati feriti in quanto l’esercito israeliano ha sparato contro i manifestanti di Gaza

MEE e agenzie

venerdì 30 novembre 2018, Middle East Eye

Da marzo circa 6.000 palestinesi sono rimasti feriti a causa dell’uso di proiettili veri da parte dell’esercito israeliano durante le proteste nella Striscia di Gaza

Il ministero della Sanità dell’enclave assediata ha affermato che venerdì almeno 18 palestinesi sono rimasti feriti dopo che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro le proteste settimanali nella Striscia di Gaza.

Il ministero ha detto che sono stati colpiti da proiettili veri quando qualche migliaio di palestinesi si è radunato in diversi punti lungo la barriera che divide Israele da Gaza, e che nessuno risulterebbe in pericolo di vita.

Ogni settimana dalla fine di marzo i palestinesi di Gaza hanno manifestato come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

I manifestanti chiedono la fine dell’opprimente blocco contro il territorio costiero palestinese e rivendicano il diritto al ritorno ai loro luoghi d’origine in quello che ora è Israele.

Il numero di partecipanti alle proteste è diminuito da quando all’inizio di questo mese è stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco tra Israele ed Hamas, che governa Gaza.

Inoltre da marzo almeno 235 palestinesi di Gaza sono stati uccisi, per lo più dal fuoco israeliano, ma anche da attacchi aerei e con i carri armati. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno altri 6.000 palestinesi sono stati feriti dall’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili veri contro le proteste. All’inizio di questa settimana Medici senza Frontiere (MSF) ha affermato che il sistema sanitario di Gaza sta lottando per far fronte alle necessità dei palestinesi che sono stati feriti da proiettili veri durante le manifestazioni.

In seguito a ciò, secondo l’ente di assistenza sanitaria migliaia di abitanti di Gaza stanno soffrendo di ferite che richiedono molto tempo per essere curate e la maggioranza dei pazienti di MSF necessita di ulteriore trattamento medico per guarire adeguatamente dalle ferite o ricevere le cure necessarie per la riabilitazione.

L’assistenza del pronto soccorso si sta svolgendo in modo rallentato a Gaza a causa delle accresciute necessità dei pazienti colpiti dall’esercito israeliano e gravemente feriti durante le proteste,” afferma l’organizzazione.

Questo onere è troppo pesante da sopportare per il sistema sanitario di Gaza nella sua attuale forma, in quanto è indebolito da più di un decennio di blocco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 6 -19 novembre 2018 ( due settimane)

Due giorni di intense ostilità, a Gaza e nel sud di Israele, hanno provocato l’uccisione di 15 palestinesi ed un israeliano, e la distruzione o il danneggiamento di decine di abitazioni.

Il crescendo di violenza, avvenuto tra l’11 ed il 13 novembre, è stato provocato dagli scontri tra un’unità israeliana sotto copertura, in azione a Khan Yunis, e un’unità militare di Hamas. Gli scontri hanno provocato l’uccisione di sette membri dell’unità palestinese e di un ufficiale israeliano. L’episodio è stato seguito da un intenso lancio di razzi su Israele e attacchi aerei su tutta Gaza. Il 13 novembre, con il sostegno dell’Egitto e delle Nazioni Unite, è stato raggiunto un cessate il fuoco informale, ancora in vigore alla fine del periodo di riferimento.

Gruppi armati palestinesi hanno lanciato più di 400 razzi verso varie località del sud di Israele, uccidendo un palestinese della Cisgiordania e ferendo gravemente almeno una donna israeliana. La maggior parte dei razzi è caduta in aree aperte o è stata intercettata in volo; tuttavia alcuni di essi, caduti in varie località israeliane, hanno danneggiato diverse abitazioni, un asilo infantile, un edificio industriale e un deposito di gas. Secondo fonti israeliane, oltre 20 civili israeliani, che hanno subito lesioni da lievi a moderate (tra cui l’inalazione di fumo), sono stati ricoverati negli ospedali ed almeno 15 famiglie sono state sfollate a seguito di danni alle loro case. Inoltre, vicino alla recinzione perimetrale che circonda Gaza, un soldato israeliano è stato gravemente ferito quando palestinesi hanno lanciato un missile anticarro contro un autobus utilizzato dai militari.

Gli attacchi aerei israeliani, estesi su tutta la Striscia di Gaza, hanno ucciso sette palestinesi, tra cui almeno due civili, e ferito altri 27, tra cui cinque minori; 33 unità abitative sono state distrutte o gravemente danneggiate e gli abitanti sono stati sfollati. Una delle vittime civili era un contadino al lavoro sulla propria terra. Tre membri della stessa famiglia sono rimasti feriti a causa delle schegge di missili israeliani caduti sulla loro casa. Operatori di Shelter Cluster [Organismo di Protezione internazionale, cui partecipa anche l’ONU] hanno distribuito materassi, coperte, set da cucina e altri articoli a 39 famiglie sfollate o colpite. Secondo fonti israeliane, sono stati presi di mira e distrutti circa 150 siti e strutture utilizzate da fazioni militari, ma anche un certo numero di edifici situati in zone residenziali, tra cui un hotel ed una stazione televisiva affiliata ad Hamas.

Nella prosecuzione delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”, svolte vicino alla recinzione perimetrale israeliana attorno a Gaza, un palestinese è stato ucciso e 265 sono stati feriti e ricoverati in ospedale. L’uomo è stato ucciso dalle forze israeliane il 9 novembre, durante una protesta ad est di Rafah. Un altro palestinese è morto il 7 novembre per le ferite riportate durante le proteste di fine ottobre. Del totale dei ferimenti, oltre 50 si sono verificati sulla spiaggia, nell’area settentrionale di Beit Lahiya, durante le proteste contro il blocco navale; la gran parte dei restanti ferimenti si sono avuti durante le manifestazioni settimanali del venerdì. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, quasi la metà dei feriti ospedalizzati sono stati colpiti da armi da fuoco. Dall’inizio di novembre, c’è stata una diminuzione della violenza durante le proteste, inclusa una diminuzione del lancio di ordigni incendiari e tentativi di aprire brecce nella recinzione. Il Comitato organizzatore ha chiesto ai manifestanti di evitare di raggiungere la recinzione o di scontrarsi con le forze israeliane. L’8 novembre, ad est del Campo Profughi di Maghazi, un altro palestinese, non coinvolto in manifestazioni, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane mentre si avvicinava alla recinzione perimetrale.

Il 7 e il 14 novembre, in due diversi episodi, due pescatori palestinesi sono stati uccisi da forze navali egiziane e israeliane. Gli episodi si sono verificati in mare, al largo di Rafah e Beit Lahia [rispettivamente a Sud e Nord della Striscia].

In Cisgiordania, durante quattro diverse incursioni nelle scuole, 63 minori palestinesi e nove adulti sono stati feriti da forze israeliane; ad una di queste incursioni hanno partecipato anche coloni israeliani. Due delle scuole interessate si trovano nella zona H2 della città di Hebron, le altre nei villaggi di Tuqu’ (Betlemme) e ‘Urif (Nablus). L’incursione effettuata in quest’ultima scuola ha coinvolto circa 50 coloni israeliani -provenienti, a quanto riferito, dall’insediamento colonico di Yitzhar – che hanno preso d’assalto la scuola accompagnati da forze israeliane. Secondo un rapporto dei media israeliani, questa incursione era in risposta a precedenti attacchi da parte di palestinesi. Dei feriti, due (adulti) sono stati colpiti con armi da fuoco, nove con proiettili di gomma ed i rimanenti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Dall’inizio del 2018 c’è stato un aumento significativo di incursioni nelle scuole palestinesi da parte di forze israeliane e coloni.

In Cisgiordania, in numerosi scontri e operazioni di ricerca-arresto, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 73 palestinesi. Del totale, 27 feriti sono stati registrati durante dimostrazioni tenute nel villaggio di Ras Karkar (Ramallah) per protesta contro la costruzione di una nuova strada riservata a coloni israeliani, ma costruita su terreni di proprietà palestinese. Scontri e ulteriori 15 feriti si sono avuti dopo l’ingresso di coloni israeliani nella città di Nablus in visita ad un sito religioso (la Tomba di Giuseppe). Altri 17 feriti sono stati provocati da operazioni [israeliane] di ricerca-arresto nella città di Al Bireh e nel villaggio di Abu Qash (Ramallah) e nei Campi Profughi di Jenin e Balata (Nablus).

Il 14 novembre, a Gerusalemme Est, un ragazzo palestinese di 17 anni ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano; successivamente è stato colpito con arma da fuoco ed è morto sei giorni dopo per le ferite riportate. In un episodio separato, il 6 novembre, una donna palestinese è stata colpita e ferita dalle forze israeliane; secondo quanto riferito, aveva tentato di pugnalare soldati israeliani all’ingresso dell’insediamento Kfar Adumim (Gerusalemme).

Vicino al villaggio di Abud (Ramallah) quattro palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti da soldati israeliani posizionati su una torre di osservazione. L’episodio è avvenuto il 18 novembre: secondo quanto riferito, gli uomini avevano ignorato l’ordine, impartito dalle forze israeliane, di fermare il loro veicolo.

Un palestinese è morto per le ferite riportate in precedenti scontri con le forze israeliane seguiti ad un assalto di coloni israeliani in un villaggio palestinese. Gli scontri si erano verificati il 26 ottobre nel villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah), dopo che coloni israeliani erano entrati in un parco pubblico [palestinese] di nuova costruzione, situato nella parte di villaggio in Area B. Qui i palestinesi si erano radunati per proteggere il parco da attacchi di coloni; fatto già verificatosi precedentemente. Questo è il secondo palestinese ucciso in episodi simili.

Almeno 11 attacchi di coloni israeliani hanno provocato feriti tra i palestinesi e/o danni alle loro proprietà. In un caso, nella città vecchia di Hebron, coloni hanno bloccato e colpito con pietre un’ambulanza palestinese che stava trasportando un paziente. Il trasporto era stato concordato con le autorità israeliane. Questo è il terzo episodio di questo tipo verificatosi negli ultimi tre mesi. Gli attacchi includono l’aggressione fisica di tre contadini che stavano lavorando sulla loro terra nel villaggio di Susiya (Hebron); la vandalizzazione di 21 veicoli in Kafr ad Dik (Salfit), Burin, Za’tara e Huwwara (Nablus) e Beit Eskaria (Betlemme); il lancio di pietre contro diverse abitazioni a ‘Urif (Nablus). Nelle settimane precedenti, in diversi episodi simili, coloni israeliani avevano vandalizzato e, secondo quanto riferito, tentato di incendiare un parco nel villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (vedi paragrafo precedente). In un ulteriore episodio verificatosi a Gerusalemme Ovest (non incluso nel conteggio), sconosciuti hanno aggredito fisicamente e ferito una donna palestinese e i suoi due figli.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, venti strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate e 20 persone sono state sfollate. Quattro delle strutture prese di mira erano situate in tre Comunità in Area C ed erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

Il 18 novembre, le autorità di Hamas di Gaza hanno revocato le restrizioni all’uscita di titolari di permesso e di cittadini stranieri attraverso il valico di Erez [al confine con Israele]. Le restrizioni erano state imposte il 12 novembre, in seguito ad una operazione israeliana sotto copertura, ed hanno gravemente compromesso l’accesso, tra gli altri, di operatori umanitari, uomini d’affari e giornalisti. I preesistenti requisiti per la registrazione [finalizzata al transito] rimangono comunque in vigore.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, ad eccezione di quattro giorni. 1.356 persone sono entrate a Gaza e 2.545 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto, quasi continuamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Cosa vogliono i palestinesi dalla comunità internazionale?

Haidar Eid

21 novembre 2018, Middle East Monitor

Due giorni prima dell’attacco criminale di Israele nella Striscia di Gaza avevo scritto un articolo in cui cercavo di spiegare esattamente cosa vogliono i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, dalla comunità internazionale. Ho sostenuto che mentre intraprendiamo il nostro lungo cammino verso la libertà, siamo giunti alla conclusione che non possiamo più fare affidamento sui governi; che solo la società civile è in grado di mobilitarsi per l’applicazione del diritto internazionale e per la fine dell’inaudita impunità israeliana.

Ci ispiriamo al movimento anti-apartheid. La mobilitazione della società civile è stata efficace alla fine degli anni ’80 contro il regime di apartheid del Sudafrica bianco, e può fare la stessa cosa a sostegno di una giusta pace in Palestina. Niente può davvero costringere Israele a rispettare il diritto internazionale tranne le persone di coscienza e la società civile.

Affermavo anche che senza l’intervento della comunità internazionale, che è stata efficace contro l’apartheid in Sudafrica, Israele continuerà a perpetrare i suoi crimini di guerra e contro l’umanità. Questo è esattamente ciò che è successo solo due giorni dopo quell’articolo, quando l’apartheid israeliano ha lanciato un massiccio attacco violando – come nel 2009, 2012 e 2014 – un cessate il fuoco non dichiarato con i gruppi di resistenza palestinesi a Gaza, mediato dall’Egitto.

In effetti, a Gaza non ci interessa più la sterile opposizione al processo di normalizzazione avviato dal trattato di Camp David e dagli accordi di Oslo, e consolidato dagli Sceicchi del Golfo. Piuttosto, siamo interessati a elaborare il tipo di reazione che potrebbe effettivamente sconfiggere i diversi livelli del sistema di oppressione sionista: occupazione, pulizia etnica e apartheid. Nel momento in cui la comunità internazionale – società civile e governi – deciderà di agire così come ha fatto contro il sistema di apartheid in Sudafrica, Israele dovrà rimettersi alla voce della ragione – rappresentata dall’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS ), sostenuto da oltre 170 organizzazioni della società civile e approvato da quasi tutte le forze politiche influenti nella Palestina storica e nella diaspora.

La domanda urgente, quindi, è quanto a lungo il mondo tollererà il palese razzismo costituzionale di Israele? Sappiamo per certo che ci sono voluti trent’anni perché la comunità internazionale ascoltasse la chiamata dei popoli oppressi del Sud Africa. Quanto tempo dovranno aspettare i popoli oppressi della Palestina?

I recenti successi del BDS sono ciò che chiediamo dal 2005. Per i palestinesi nella Striscia di Gaza è difficile capire come, nonostante la politica di pulizia etnica di Israele e gli ultimi crimini di guerra commessi contro di noi, nonostante i crimini di guerra continuamente documentati da importanti organizzazioni per i diritti umani, e nonostante la colonizzazione israeliana e l’apartheid, per alcune onorate società e istituzioni internazionali gli affari con Israele rimangano normali “as usual”.

Non è chiarissimo a quelle società, dopo tutti questi anni e dopo le migliaia di rapporti da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani, che a milioni di palestinesi vengono negati i diritti fondamentali all’istruzione, alla libera circolazione, al lavoro e alle prestazioni sanitarie? Siamo privati di una vita normale a causa degli oltre 600 posti di blocco militari israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, dell’assedio medievale di Gaza e della discriminazione ufficiale dell’apartheid verso i cittadini palestinesi nella stessa Israele. Per dirla senza mezzi termini, siamo discriminati perché non siamo ebrei, così come i neri sudafricani venivano discriminati semplicemente perché non erano bianchi

La tendenza sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Nelle carceri israeliane sono detenuti migliaia di palestinesi condannati da tribunali militari; centinaia di loro sono detenuti senza accusa né processo. Tutte le attendibili organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno riferito dettagliatamente in che modo le forze israeliane prendano di mira deliberatamente studenti e istituzioni educative palestinesi, incluse le scuole gestite dall’ONU. Gli studiosi e i ricercatori non dovrebbero essere avvezzi a maneggiare tali rapporti?

Consideriamo nostro diritto aspettarci che le persone di coscienza si uniscano a noi nella lotta contro l’apartheid di Israele, boicottando il regime razzista e militarizzato e le istituzioni che lo fanno prosperare. I palestinesi sono un popolo oppresso senza Stato. Sempre di più facciamo affidamento sul diritto internazionale e sulla solidarietà, per la nostra stessa sopravvivenza.

Ciò che vogliamo, quindi, è l’applicazione del diritto internazionale per porre fine all’occupazione militare israeliana nelle terre arabe occupate nel 1967, per combattere la colonizzazione e l’apartheid di Israele sancite dalle leggi contro la popolazione indigena della Palestina dal 1948, e per consentire il ritorno legittimo dei rifugiati palestinesi vittime di una pulizia etnica quando nelle loro terre fu creato Israele. È una richiesta di por fine allo Stato di Israele? Il boicottaggio dell’apartheid significava porre fine al Sud Africa come nazione, o porre fine alle peggiori forme di razzismo di Stato?

Israele è uno Stato di insediamento coloniale e di apartheid, e gli strumenti usati contro l’apartheid in Sudafrica possono essere modello per la nostra lotta contro l’apartheid di Israele. Trasformare Israele da Stato etno-religioso e di apartheid in un’istituzione autenticamente democratica dovrebbe essere l’obiettivo di ogni persona che crede nella democrazia liberale.

Con le pressioni della comunità internazionale, attraverso una campagna BDS sul modello della Campagna contro l’Apartheid che ha posto fine al razzismo in Sud Africa, crediamo che si possa convincere Israele a liberarsi delle sue strutture di oppressione. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è un embargo sulle armi a Israele per fermare il continuo spargimento di sangue a Gaza.

La campagna BDS tende a ripristinare i diritti democratici del popolo palestinese. Crediamo che le lotte del popolo palestinese nella stessa Israele, nei territori occupati dal 1967 – la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est – così come nella Diaspora siano una cosa sola. Questo è il motivo per cui crediamo che un approccio alternativo basato sui diritti, anziché sull’apparente “pace” di Oslo basata sulla normalizzazione, possa rappresentare per tutti i palestinesi una soluzione che garantisce la pace con giustizia, vale a dire con il diritto al ritorno e all’uguaglianza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Luciana Galliano)




Perché Netanyahu ha insistito davvero per un cessate il fuoco a Gaza

Meron Rapoport

Mercoledì 14 novembre 2018,Middle East Eye

Per la prosecuzione della sua strisciante ma sicura politica di annessione, il primo ministro israeliano ha bisogno di tranquillità, non di guerra.

Arrendevole di fronte al terrorismo” e “vigliacco” – questi sono stati i termini usati da Avigdor Lieberman per descrivere il comportamento del governo israeliano e del primo ministro Benjamin Netanyahu e per giustificare le sue dimissioni da ministro della Difesa.

Si potrebbe ragionevolmente supporre che le dimissioni di Lieberman riguardino principalmente considerazioni politiche. Con le elezioni che si avvicinano vuole essere visto come uno che non si arrende ad Hamas. Lieberman, uno sperimentato animale politico, capisce che identificare Netanyahu come un codardo può essere sfruttato per i propri fini.

Non è l’unico. Martedì a Sderot [città del sul di Israele colpita dal lancio di razzi da Gaza, ndtr.] centinaia di manifestanti si sono riuniti all’entrata in città, bruciando pneumatici e gridando: “Bibi vattene.” Sembrava che avessero preso per buono il ritratto di Netanyahu come un leader vigliacco. Al contempo, il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha sottolineato che la decisione del governo di accettare il cessate il fuoco a Gaza non è stata di suo gradimento.

Non è una novità. Fin dall’attacco del 2014 contro Gaza [l’operazione “Margine Protettivo”, ndtr.] Bennett ha cercato di presentare Netanyahu come un primo ministro indeciso che non ha il coraggio di “fare la cosa giusta”, cioé distruggere Hamas.

Un “uomo di pace”?

Ma non è stato solo a destra che Netanyahu è stato dipinto come un leader debole. Yair Lapid di Yesh Atid [partito di centro, ndtr.], Avi Gabbay del partito Laburista e altri hanno fatto a gara per criticare la “mancanza di coraggio” di Netanyahu di fronte ad Hamas. “Netanyahu è fallimentare e ha ceduto ad Hamas sotto attacco,” ha detto l’ex primo inistro Ehud Barak [del partito Laburista, ndtr.] in risposta alla decisione del cessate il fuoco.

Più o meno ogni 5 minuti qualcuno ha postato su Facebook il video in cui Netanyahu, come capo dell’opposizione nel 2009, prometteva di “distruggere il regime di Hamas”, presentando questa clip come ulteriore prova della distanza tra le sue dichiarazioni bellicose e il suo carattere indeciso e vigliacco.

In un recente articolo su “Haaretz” [giornale israeliano di centro-sinistra, ndtr.] l’editorialista Gideon Levy ha messo in evidenza il lato positivo di Netanyahu, descrivendolo come un “uomo di pace”. E’ stato scritto pochi giorni prima dell’inizio dell’attuale serie di violenze, ma immagino che la rapida approvazione del cessate il fuoco con Hamas non faccia che rafforzare i suoi argomenti principali.

Levy ci ricorda, e a ragione, che durante i suoi 12 anni in carica – compreso il suo primo periodo come primo ministro dal 1996 al 1999 – Netanyahu ha iniziato solo una guerra, rispetto alle due che Olmert fece in modo di scatenare in tre anni come primo ministro. Netanyahu, nota Levy, è stato “uno dei primi ministri più pacifisti che abbiamo mai avuto.”

Tuttavia sia alla critica riguardo alla vigliaccheria di Netanyahu che agli elogi per la sua moderazione sfugge il punto principale del suo comportamento. Netanyahu è un ideologo – un ideologo della “Terra di Israele”. Dal momento in cui per la prima volta assunse l’incarico di primo ministro nel 1996, e sicuramente dal suo ritorno al potere nel 2009, è stato molto deciso nell’evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Politica di annessione

Netanyahu la vede come una missione storica, tramandatagli da suo padre, che a sua volta l’ha ricevuta dal defunto leader sionista Zeev Jabotinsky. Nella Terra di Israele la sovranità ebraica è l’unica possibile, con l’esclusione di qualunque altra. Evitare una sovranità straniera nella Terra di Israele è fondamentale per l’esistenza del popolo ebraico e, indirettamente, della civiltà occidentale. La legge dello “Stato-Nazione” è una manifestazione di questo processo ideologico.

Ma Netanyahu non è un fanatico. Capisce la realtà. Comprende che la comunità internazionale non accetterebbe l’annullamento degli accordi di Oslo insieme allo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Persino sotto Donald Trump, che ha fatto più di qualunque altro precedente presidente USA per incoraggiare questo progetto, il riconoscimento internazionale di un processo che porti alla distruzione della sovranità palestinese è praticamente impossibile.

Quindi quello che Netanyahu deve fare è guadagnare tempo – da una parte, per iniziare un processo politico che crei un congelamento, e dall’altra per continuare l’impresa di colonizzazione e la creazione di fatti sul terreno in Cisgiordania e a Gerusalemme est, sperando che nei prossimi 10, 20 o 30 anni non ci saranno altre opzioni che uno Stato di Israele con il potere esclusivo sulla storica Terra di Israele.

Per continuare questa strisciante ma certa annessione, Netanyahu ha bisogno di tranquillità. L’annessione totale fa rumore, per cui vi si oppone, anche al costo di attacchi velenosi da parte di Bennett e di dirigenti all’interno dello stesso Likud. Una guerra fa rumore, per cui lavora per ridurre il conflitto, anche se ciò significa che un sergente della riserva come Lieberman lo dipinga come un vigliacco.

La divisione tra Hamas e Fatah

L’atteggiamento di Netanyahu verso Hamas dev’essere visto in questo contesto. Netanyahu si è quasi sempre tenuto lontano da una guerra totale di annichilimento contro il potere di Hamas a Gaza – ma non perchè sia timoroso della prospettiva della violenza o di una esibizione di potenza. Al contrario – dal suo punto di vista, una esibizione di potenza è più importante dei principi.

Le altre Nazioni rispettano fino ad un certo punto i principi, ma rispettano molto di più la potenza,” ha detto solo pochi giorni fa durante un incontro della sua fazione nel Likud. Ma Netanyahu non vuole rumore. Soldati che muoiono a Gaza fanno rumore; migliaia di civili palestinesi morti fanno rumore; l’occupazione della Striscia di Gaza è un terremoto che porterebbe l’attenzione di tutto il mondo sulla situazione dei palestinesi, sull’occupazione, sul fatto che i negoziati sono congelati. Questa è l’ultima cosa che Netanyahu vuole.

Ma c’e un’altra questione in ballo, qualcosa di più profondo. Netanyahu ha “ereditato” la divisione tra Hamas e Fatah, tra la Cisgiordania e Gaza, quando ha ripreso il lavoro di primo ministro nel 2009. Dal suo punto di vista, questa divisione è una fondamentale risorsa politica.

Dall’inizio degli anni ’90 Israele ha aspirato a tagliare fuori Gaza dalla Cisgiordania rifiutando permessi di uscita e imponendo il blocco, e poi con il suo assedio alla Striscia di Gaza. L’idea era che finchè le due parti del corpo politico palestinese sono separate tra loro, le possibilità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dei palestinesi in generale di chiedere uno Stato si riducono.

Il fatto che oggi ci siano due governi separati che operano a Gaza e in Cisgiordania è una miniera d’oro politica per chiunque desideri far fallire un qualunque processo che possa portare ad uno Stato palestinese indipendente. E Netanyahu, come abbiamo visto, è esattamente quell’uomo.

La “ricostruzione” di Gaza

Quindi dal punto di vista di Netanyahu conservare il potere di Hamas a Gaza è un vantaggio strategico di prim’ordine. Secondo lui qualunque processo che possa probabilmente portare alla fondazione di uno Stato palestinese indipendente a Gaza, separato dalla Cisgiordnaia, è una benedizione. Se Gaza diventa il suo “emirato”, come piace chiamarlo alla gente di destra, questo sarebbe un colpo mortale alle pretese di Mahmoud Abbas, o di qualunque suo potenziale successore, di rappresentare il popolo palestinese nei negoziati per porre fine all’occupazione e fondare uno Stato indipendente.

Questo concetto spiega l’improvvisa preoccupazione di Netanyahu per la “ricostruzione” di Gaza – e sottolinea anche la ragione per cui ha accettato l’ingresso, davanti alle telecamere, di valigie piene di 15 milioni di dollari dal Qatar, destinati unicamente a pagare i dipendenti di Hamas a Gaza.

Spiega anche perché Netanyahu ha evitato un’occupazione di Gaza. Se un simile passo militare dovesse in qualche modo accadere senza costare le vite di centinaia di israeliani e di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi – e senza diventare una catastrofe mediatica a livello internazionale – Israele alla fine si troverebbe a dover consegnare Gaza ad Abbas e all’ANP, rafforzando così la loro presenza nel mondo. E’ esattamente quello che Netanyahu sta cercando di evitare.

Ciò non significa che Hamas sia una creazione di Netanyahu o di Israele, come gente di Fatah afferma in ogni conversazione privata, e ogni tanto anche in pubblico. Hamas è una spina nel fianco di Israele. Nell’ultimo periodo di violenze Hamas ha di nuovo dimostrato di poter tranquillamente paralizzare la vita quotidiana in vaste aeree di Israele. L’impressione che ha dato è che le sue capacità militari siano solo migliorate e che in futuro sarà ancora più pericolosa – forse non come Hezbollah, ma non lontana dal suo livello.

Il dilemma di Netanyahu

Tuttavia Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da una parte, per tutte le ragioni succitate, è molto importante per lui mantenere Hamas al potere a Gaza. Dall’altra, finchè Hamas governa a Gaza, Netanyahu non è in grado di trasmettere una sensazione di sicurezza a centinaia di migliaia di israeliani nel sud del Paese. E inoltre, poichè si oppone per principio a qualunque negoziato con i palestinesi, Netanyahu non ha un percorso verso un accordo a lungo termine che tranquillizzi la situazione. Non ha altra possibilità che essere d’accordo a farla finita con Hamas.

Hamas capisce bene il dilemma di Netanyahu. La fazione palestinese sa che Netanyahu sa che non cercherà di eliminarla. Quindi nelle attuali circostanze Hamas può lanciare centinaia di razzi contro Israele, sapendo che alla fine Netanyahu accetterà un cessate il fuoco appena Hamas, attraverso la mediazione egiziana, glielo offre. Nell’ultima fase di violenze Hamas ha sfruttato questo circolo vizioso per raggiungere una chiara vittoria politica, e così facendo ha messo in luce la debolezza di Netanyahu.

Netanyahu deve essere cosciente di questo circolo vizioso, ma, data quella che egli vede come la sua missione storica di evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente, è pronto a pagare il prezzo politico per quello che l’opinione pubblica potrebbe vedere come mancanza di coraggio e codardia. Il prezzo politico questa volta è stato particolarmente alto.

E’ ragionevole supporre che le dimissioni di Lieberman spingeranno a nuove elezioni e alla fine del quarto governo Netanyahu, che, fino a non molto tempo fa, sembrava così stabile. Sarebbe sicuramente ironico se fosse Hamas, che Netanyahu ha lavorato così duramente per tenere in vita e per difendere dalle minacce di Abbas, che in conclusione porterà alla fine del regno di Netanyahu.

  • Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)