rapporto OCHA del periodo 18 giugno-1 luglio (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 494 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane nel corso delle manifestazioni tenute nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno” che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale con Israele.

Oltre il 45% dei feriti è stato ricoverato in ospedale.

Sempre nella Striscia di Gaza, in almeno 12 occasioni non riconducibili alle manifestazioni della”Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi per far loro rispettare le restrizioni di accesso alle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa; agricoltori e pescatori sono stati costretti a lasciare tali aree. Tre pescatori sono stati arrestati e un altro è rimasto ferito, oltre a danni causati a tre barche da pesca e alla confisca di reti da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (ad est di Beit Hanoun e di Khan Yunis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 giugno, Israele, in risposta al lancio di palloncini incendiari da Gaza verso i propri territori, ha sospeso le consegne di carburante, costringendo la Centrale Elettrica di Gaza ad operare a potenza circa dimezzata, riducendo di conseguenza l’erogazione di energia elettrica nei giorni dal 25 al 28 giugno.

In Cisgiordania, il 27 giugno, durante scontri nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, un 21enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco, da un poliziotto israeliano. Secondo fonti della Comunità locale, l’uomo è stato colpito al petto da distanza ravvicinata ed è deceduto poco dopo il ricovero presso un ospedale israeliano. Il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane fino al 1 luglio. Secondo fonti israeliane, quando gli hanno sparato, l’uomo era rivolto nella direzione di poliziotti israeliani e stava accendendo un petardo. Fonti palestinesi affermano che si trattava di un astante non coinvolto negli scontri. Dopo l’omicidio, nella zona di Al Isawiya, gli scontri tra palestinesi e forze israeliane sono proseguiti per diversi giorni, provocando decine di feriti palestinesi (vedi sotto).

Ancora in Cisgiordania, durante proteste e diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito 168 palestinesi, tra cui almeno sei minori [di seguito il dettaglio]. 134 di questi 168, (tra cui almeno tre minori) sono stati feriti durante scontri con forze israeliane avvenuti a seguito dell’uccisione del 21enne palestinese il 27 giugno (vedi sopra): 124 [dei 134] in quattro diverse occasioni verificatesi ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e altri 10 [dei 134] vicino a Bab Az Zawiya (Hebron). Altri 22 feriti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto nel villaggio di Kobar e nel Campo profughi di Al Am’ari (entrambi a Ramallah). I venerdì successivi (21 e 28 giugno) un totale di dodici persone, tra cui tre minori, sono stati feriti durante le manifestazioni settimanali, tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni. Altre tre persone [non conteggiate nel totale], tra cui una donna, sono state ferite il 19 giugno, in una manifestazione svoltasi nella città di Al Isawiya a Gerusalemme Est, per protestare contro le ricorrenti operazioni di ricerca condotte [dalle forze israeliane] nella città. Nell’Area H2 della città di Hebron, due palestinesi, un uomo di 53 anni ed il figlio 14enne, mentre tentavano di accedere, tramite il checkpoint 56, alla loro casa nella via Ash Shuhada, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani [non conteggiati nel totale].

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 155 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato almeno 168 palestinesi, tra cui 13 minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato la più alta quota di operazioni (41) e di arresti (56).

Il 29 giugno, poliziotti israeliani di confine hanno fatto irruzione nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est, interrompendo le prestazioni mediche di emergenza e arrestando due palestinesi. Secondo quanto riferito, stavano ricercando manifestanti feriti negli scontri avvenuti nelle aree di Al Isawiya e At Tur di Gerusalemme Est.

Nella zona C e a Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 27 strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 52 persone, tra cui 35 minori, sono state sfollate e altre 5.074 hanno subìto ripercussioni di entità diverse [di seguito il dettaglio]. Tre delle strutture demolite o sequestrate erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni nei villaggi di Qusra e Majdal Bani Fadil (entrambi a Nablus). Tra le strutture colpite, 24 si trovavano in nove Comunità dislocate in Area C. Tra queste, la Comunità di pastori di Zatara al Kurshan (Betlemme), dove, il 27 giugno, sei strutture sono state demolite, provocando lo sfollamento di 46 persone, tra cui 32 minori. Tale Comunità si trova all’interno di una zona designata da Israele come “area militare chiusa”. In un’altra “area militare chiusa”, nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito un’abitazione presso la Comunità di pastori di Umm Fagarah, sfollando cinque persone, tra cui tre minori. A Barta’a ash Sharqiya (Jenin), in Area C, per mancanza di un permesso di costruzione, è stata sequestrata una roulotte, parte di un progetto per la gestione dei rifiuti. Il provvedimento ha colpito l’attuazione del progetto pensato per servire l’intero villaggio dove vivono circa 4.950 persone. Le restanti 13 strutture dislocate in Area C comprendevano due strutture abitative, cinque di sostentamento e quattro strutture agricole, oltre a due serbatoi d’acqua. Inoltre, tre strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una nell’area di Ras al ‘Amud, dove una famiglia palestinese di sei persone, tra cui quattro minori, è stata costretta ad auto-demolire un ampliamento della propria casa.

Diciotto episodi aggressivi, perpetrati da coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella zona H2 della città di Hebron, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. In altri tre episodi distinti, in base a riprese video realizzate da una Organizzazione per i Diritti Umani e secondo testimoni oculari, coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti di Homesh, Yitzhar e Beitar Illit, hanno incendiato decine di ettari di terreni appartenenti a contadini di Madama e Burin (entrambi a Nablus) e Wadi Fuqin (Betlemme), danneggiando almeno 287 ulivi. In un ulteriore episodio, riferito da fonti della Comunità locale palestinese, coloni hanno vandalizzato altri 37 ulivi e alberelli appartenenti al villaggio di Surif (Hebron). A Yasuf (Salfit), in un’area il cui accesso richiede un preliminare coordinamento con le autorità israeliane, risulta che coloni abbiano dato fuoco a circa 0,5 ettari di terra coltivata a grano e orzo. In due distinti casi, coloni hanno anche spianato circa 1,5 ettari di terra a Wadi Fukin (Betlemme) e Khirbet Samra (Tubas), danneggiando le colture. Dall’inizio del 2019, OCHA ha registrato le segnalazioni di azioni di sradicamento, di incendio o di vandalizzazione di oltre 4.100 alberi perpetrate da coloni israeliani. Sulla media mensile, ciò rappresenta un aumento del 126% rispetto al 2018 e del 37% rispetto al 2017. Gli episodi rimanenti includono la vandalizzazione di 35 veicoli e le scritte offensive spruzzate su muri di case di Deir Istiya (Salfit), Beitin e Sinjil (entrambi a Ramallah).

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in tre occasioni: vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah. Risultano danneggiati almeno tre veicoli.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Sparare ai manifestanti mentre si riposano: le nuove regole d’ingaggio di Israele

Maureen Clare Murphy

28 giugno 2019 – Electronic Intifada

Sparare ai “principali istigatori” durante le proteste disarmate a Gaza quando si stanno riposando. Aprire il fuoco contro adolescenti che cercano di andare a pregare a Gerusalemme benché non rappresentino un pericolo.

Questo è il normale, ingiustificato e criminale uso letale di armi da fuoco contro palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane.

Un documento dell’esercito israeliano afferma che i cecchini hanno il permesso di sparare a palestinesi che essi ritengano essere “i principali istigatori” o “principali facinorosi” durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

L’esercito definisce “principali istigatori” le persone che “dirigono o guidano attività” durante le proteste, come “posizionamento tattico” e bruciare copertoni.

Principali facinorosi” sono definiti quelli il cui comportamento “determina le condizioni grazie alle quali irruzioni di massa o infiltrazioni” in Israele da Gaza possono avvenire.

Il documento dell’esercito israeliano afferma che ai cecchini è consentito “sparare a un istigatore importante” mentre “si allontana temporaneamente dalla folla e si riposa prima di continuare la sua attività.” Il documento presenta simili azioni come un esempio di “moderazione” e suggerisce che tali precauzioni riducono il rischio di “colpire qualcun altro”.

Israele giustifica l’uso di forza letale contro manifestanti definendo le mobilitazioni della “Grande Marcia del Ritorno” – manifestazioni nelle zone orientale e settentrionale di Gaza tenute periodicamente dall’inizio dello scorso anno – una “sommossa” o “violenti disordini” che pongono una minaccia all’esercito e alle sue infrastrutture o in qualche caso a quelle civili.

Afferma anche che il confine di Gaza “separa due parti di un conflitto armato”, una tesi rifiutata da una commissione d’inchiesta ONU che ha stabilito che le manifestazioni sono di carattere civile. Associazioni per i diritti umani affermano che le proteste di massa lungo i confini sono una questione civile di applicazione della legge regolata dal quadro delle leggi internazionali sui diritti umani.

Una di queste organizzazioni, “Adalah”, chiede che Israele proibisca l’uso di proiettili veri contro i manifestanti.

Secondo Adalah il concetto di “principali istigatori non è né fissato dalle leggi internazionali,” né è stato definito dalle autorità durante audizioni dello scorso anno presso l’alta corte israeliana in seguito alle richieste di gruppi per i diritti che contestavano gli ordini dell’esercito di aprire il fuoco.

Secondo Adalah allora la corte “ha accolto in toto la posizione dell’esercito israeliano”, sentenziando che l’uso di proiettili veri potrebbe essere consentito solo quando ci sia “un immediato e imminente pericolo per le forze o per i civili israeliani.”

Più di 200 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati uccisi e circa 8.500 feriti da proiettili veri durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Gli esperti indipendenti sui diritti umani nominati dall’ONU per indagare sull’uso della forza da parte di Israele contro la Grande Marcia del Ritorno hanno preso in considerazione tutte le vittime delle proteste avvenute dall’inizio delle manifestazioni, il 30 marzo 2018, fino alla fine di quell’anno.

La commissione di inchiesta ha notato solo un incidente, il 14 maggio 2018, “che può aver rappresentato una ‘partecipazione diretta alle ostilità’” e un altro il 12 ottobre di quell’anno “che potrebbe aver costituito una ‘imminente minaccia di vita o di gravi conseguenze’ per le forze di sicurezza israeliane.”

In tutti gli altri casi la commissione ha scoperto che “l’uso di proiettili letali da parte delle forze di sicurezza israeliane contro manifestanti è stato illegale.”

Giustificazione retroattiva

Suhad Bishara, avvocatessa di Adalah, ha affermato che l’idea di “principale istigatore” è stata “creata retroattivamente per giustificare il fatto di aver sparato contro persone che non rappresentavano un pericolo reale e immediato per soldati o civili israeliani.”

Ha aggiunto che il tentativo dell’esercito di giustificare l’uso di proiettili veri contro dimostranti disarmati “deriva da un totale disprezzo per la vita umana.”

Il disprezzo israeliano riguardo alla vita dei palestinesi non si limita a Gaza ed è stato esemplificato dalla recente uccisione di un adolescente mentre l’ultimo venerdì di Ramadan tentava di raggiungere Gerusalemme per pregare nella moschea di al-Aqsa con la sua famiglia.

Durante il Ramadan Israele riduce le restrizioni che impediscono ai palestinesi della Cisgiordania il libero accesso ai luoghi sacri a Gerusalemme. Anche con le limitazioni parzialmente revocate, i palestinesi devono attraversare posti di controllo militari e quest’anno ai maschi tra i 16 e i 30 anni è stato vietato di entrare a Gerusalemme durante il Ramadan.

Il 31 maggio questo divieto ha portato Luai Ghaith a accompagnare suo nipote e suo figlio di 15 anni Abdallah nei pressi del muro di Israele in modo che potessero arrampicarvisi e incontrarsi dall’altra parte con i membri della loro famiglia che avevano il permesso di attraversare il posto di controllo.

Dopo che Abdallah e suo cugino si sono arrampicati sul filo spinato e hanno raggiunto un percorso tra il filo spinato e il muro, il cugino ha visto un ufficiale della polizia di frontiera.

Secondo B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani,“è tornato indietro sul filo spinato e ha gridato ad Abdallah di scappare. A quel punto poliziotti di frontiera hanno sparato due pallottole calibro 0,22 contro Abdallah, una delle quali lo ha colpito al petto.”

Abdallah è riuscito a saltare indietro sul filo spinato e correre via per alcuni metri prima di crollare al suolo.”

Luai Ghaith ha detto a B’Tselem che suo figlio “era così eccitato all’idea di andare a pregare ad al-Aqsa l’ultimo venerdì di Ramadan. L’ufficiale della polizia israeliana che gli ha sparato non ne sapeva niente di tutto ciò.”

Nessuna giustificazione”

Circa un’ora prima che Abdallah venisse ferito a morte, nello stesso luogo poliziotti di frontiera hanno sparato e ferito un ventenne palestinese che cercava di raggiungere Gerusalemme per pregare.

Non ci possono essere scusanti per questo uso delle armi da fuoco, con queste conseguenze prevedibilmente letali,” ha affermato B’Tselem. “Ciò dimostra quanto poco contino le vite dei palestinesi agli occhi sia dei poliziotti sul campo che di tutta la catena di comando che consente che tali azioni avvengano.”

Secondo B’Tselem né Abdallah né l’uomo colpito poco prima rappresentavano alcun pericolo per i poliziotti di frontiera che hanno sparato contro di loro: “Non si tratta di un caso di pericolo mortale, o di un qualunque pericolo in assoluto.”

Nessuno sarà chiamato a rendere conto della morte di Abdallah, né la famiglia riceverà un risarcimento in quanto Israele ha “approvato una legge che ha strategicamente escluso per i palestinesi ogni opzione praticabile per denunciare lo Stato per danni.”

Finora quest’anno più di 70 palestinesi sono morti a causa del fuoco israeliano.

Secondo B’Tselem, “il fatto che il prevedibile e mortale risultato di questa vergognosa condotta sia accolto dall’indifferenza dell’opinione pubblica e che questo comportamento riceva il totale sostegno di tutte le istituzioni ufficiali dimostra solo quanto poco valore sia attribuito alle vite dei palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: come è stata strangolata l’enclave palestinese

Chloé Benoist

21 giugno 2019 Middle East Eye

Decenni di colloqui falliti con Israele e le divisioni interne hanno lasciato gli abitanti più disperati che mai e l’“accordo del secolo” non sembra in grado di modificare lo status quo

Isolata dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est occupate; sotto assedio da oltre un decennio; sottoposta a discordie politiche interne, Gaza svolge il più complicato dei ruoli nel conflitto israelo-palestinese.

La sua posizione, sia come teatro di una catastrofica crisi umanitaria che come sede del potere di Hamas – l’organizzazione palestinese di resistenza armata definita organizzazione terroristica da Israele e dai suoi alleati – ha fatto del destino di Gaza uno dei nodi centrali di ogni trattativa che cerchi di occuparsi correttamente del futuro dei palestinesi

Questo articolo fa parte della serie “Done Deal [accordo fatto]” di Middle East Eye, che indaga su quanti degli aspetti attesi del cosiddetto “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump rispecchino una realtà che già esiste sul terreno.

Prenderà in esame come il territorio palestinese sia già stato di fatto annesso, perché i rifugiati non abbiano prospettive realistiche di tornare un giorno nella loro patria, come la Città Vecchia di Gerusalemme sia sotto dominio israeliano, come vengano usati minacce finanziarie e incentivi per indebolire l’opposizione allo status quo e come Gaza sia tenuta in uno stato di assedio permanente.

Ma Gaza è in un vicolo cieco. Il soccorso umanitario, lo sviluppo economico e l’autodeterminazione palestinese sono considerati troppo spesso nei piani di pace come incompatibili tra loro – e questo include l’ “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump.

Il ruolo dell’Egitto nell’assedio israeliano

Intrappolata tra Egitto e Israele, lo status di Gaza come enclave fin dalla creazione dello Stato di Israele ha determinato molto della sua esistenza e anche della posta in gioco.

Nel 1948 la Striscia di Gaza contava circa 80.000 abitanti – ma quel numero arrivò velocemente ad una stima di 200.000, quando i rifugiati palestinesi fuggirono dalle forze israeliane. Sessant’anni dopo Gaza ha circa due milioni di abitanti e la reputazione di essere una delle aree più densamente popolate al mondo.

Alla fine degli anni ’40 Gaza era governata dall’esercito egiziano, con un breve periodo di autogoverno ampiamente simbolico, prima di essere occupata da Israele dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Come in Cisgiordania e a Gerusalemme est, Israele creò insediamenti in tutta la Striscia di Gaza contravvenendo al diritto internazionale. Fu in questo contesto che nel 1987 Hamas si impose come braccio armato della Fratellanza Musulmana nei primi giorni della prima Intifada.

Mentre nel 1993 gli Accordi di Oslo prevedevano un completo ritiro israeliano da Gaza entro un periodo di transizione di cinque anni, questa parte dell’accordo di pace – come molte altre parti – non si realizzò. Fu solo dopo la seconda Intifada, terminata nel 2005, che Israele evacuò le sue 25 colonie da Gaza: alla fine di quell’anno furono trasferiti 9.000 coloni.

Hamas vinse le elezioni legislative del 2006, ma subito dopo scoppiò il conflitto con Fatah, il partito dominante dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). La faida di fatto lasciò Gaza sotto un’ amministrazione guidata da Hamas, separata dall’ANP guidata da Fatah nella Cisgiordania occupata.

Quando Hamas ottenne il controllo della Striscia, Israele impose un rigido assedio a Gaza, sostenuto anche dall’Egitto sul confine meridionale dell’enclave.

Israele non ha più una presenza militare permanente a Gaza, ma continua ad esercitare il controllo. L’accesso all’elettricità si aggira tra le 3 e le 12 ore al giorno. Le riduzioni di combustibile mettono a rischio il funzionamento di vitali infrastrutture sanitarie. L’acqua pulita è diventata una merce rara. Oltre un milione di persone vive con 3,50 dollari, o meno, al giorno. Il mare, un tempo vitale fonte di reddito per gli abitanti di Gaza, è sottoposto a restrizioni dei diritti di navigazione e pesca che cambiano continuamente.

Dodici anni di assedio, unitamente a tre guerre, innumerevoli scoppi di violenze e la repressione di un movimento di protesta di massa dal 2018 hanno portato le Nazioni Unite a denunciare ripetutamente che Gaza è di fatto diventata “invivibile”.

L’unità dei palestinesi è andata in pezzi

A partire dalle elezioni palestinesi del 2006 Gaza è stata intrappolata tra due conflitti probabilmente irrisolvibili: quello tra palestinesi ed israeliani e quello fra gli stessi palestinesi.

L’ANP vuole consolidare il proprio potere nei territori occupati, ma Hamas teme di venire emarginata sotto un governo unificato. Vi è disaccordo tra Fatah e Hamas anche sull’atteggiamento da adottare verso Israele, soprattutto riguardo al futuro del braccio militare di Hamas.

La rottura politica che dura ormai da 13 anni ha anche impedito qualunque attività diplomatica credibile tra Israele e Palestina. Come potrebbe realizzarsi un’efficace discussione sullo Stato palestinese quando la stessa dirigenza palestinese è aspramente divisa?

Innumerevoli tentativi di riconciliazione – promossi da Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Siria – sono falliti. Ma il fallimento di questi colloqui non è dovuto soltanto ad irreconciliabili differenze tra i due partiti palestinesi. Israele ha molto da guadagnare dal continuo dissidio tra palestinesi e spesso ha fatto pressioni militari e finanziarie quando un riavvicinamento tra le parti palestinesi sembrava alla portata.

Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito ad un accordo di unificazione, firmato dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dall’allora capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal, definendolo “un colpo mortale alla pace e un grande regalo al terrorismo.” Israele ha quindi sospeso il trasferimento di 80 milioni di dollari di tasse che esso raccoglie per conto dell’ANP.

Il 2 giugno 2014 Abbas promise un governo tecnocratico di unità palestinese guidato dal Primo Ministro Rami Abdallah. Dieci giorni dopo tre adolescenti israeliani furono rapiti in Cisgiordania. Le forze israeliane lanciarono una feroce caccia all’uomo, accusando Hamas del rapimento: i loro corpi furono trovati due settimane dopo.

Alla fine di luglio la polizia israeliana disse che il rapimento e le uccisioni erano opera di una “cellula isolata” – ma a quel punto Israele e Hamas da tre settimane erano coinvolti in una devastante guerra a Gaza, che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e 70 israeliani.

Alcuni osservatori ritengono che la ricerca dei ragazzi e il conseguente attacco ad Hamas fossero meri pretesti per vanificare gli sforzi di unificazione palestinese e, di conseguenza, la creazione di uno Stato palestinese.

Un futuro nel Sinai?

Non vi sono segnali di una duratura riconciliazione tra Fatah e Hamas – quindi questo dove condurrà Gaza?

Lo status particolarmente delicato dell’enclave – isolata tra i due governi ostili di Netanyahu e del Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, e alle prese con una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche – ha spinto molti mediatori a cercare di affrontare le sue questioni separatamente da più ampie discussioni sull’autodeterminazione palestinese.

Nel 2015 l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair incontrò in diverse occasioni Meshaal – la prima volta in cui Hamas fu il principale rappresentante palestinese in sede di colloqui.

Pare che Blair abbia offerto a Hamas una completa eliminazione del blocco di Gaza, aiuti per la ricostruzione dopo la guerra del 2014 e la possibilità di un porto marittimo e di un aeroporto. In cambio Hamas avrebbe dovuto accettare un cessate il fuoco illimitato con Israele. Alla fine tuttavia Blair non riuscì ad ottenere l’appoggio israeliano ed egiziano al suo piano.

Alla fine del 2018 sono emerse informazioni secondo cui, come parte dell’“accordo del secolo”, Washington ed Israele stavano facendo pressioni sull’Egitto perché trasformasse parti della regione del Sinai settentrionale in una zona industriale e di infrastrutture per dare lavoro ai palestinesi e aiutare Gaza.

L’amministrazione Trump ha negato il piano, ma non sarebbe la prima volta che è stata suggerita questa idea.

Negli anni ’50 l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, propose che la sovrappopolazione di Gaza potesse essere alleggerita espandendo il territorio verso sud lungo la costa tra le città egiziane di al-Arish e Port Said – un piano che all’epoca fu categoricamente respinto dai rifugiati palestinesi.

Il giornalista e ricercatore palestinese Adnan Abu Amer ha detto a Middle East Eye che vent’anni dopo, facendo seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973, Israele tentò di convincere il Presidente egiziano Anwar al-Sadat ad annettere totalmente Gaza all’Egitto.

Per quanto storico, l’ approccio a Gaza come questione a parte durante colloqui non è piaciuto a tutti. Per Saeb Erekat, il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), gli sforzi per negoziare una tregua tra Hamas e Israele proprio mentre Israele applica misure punitive contro l’ANP stavano deliberatamente “accentuando la separazione (tra palestinesi) con tutti i mezzi possibili” nel tentativo di “distruggere il progetto nazionale palestinese consistente nella creazione dello Stato palestinese indipendente e sovrano.”

I piani finanziari falliscono

Intanto l’urgente bisogno di Gaza di soccorso economico ed umanitario è stato a lungo al centro di conferenze e colloqui di pace – ma raramente messo in pratica.

Secondo Abu Amer, nel 1991 durante la conferenza di pace di Madrid furono avanzati piani per lo sviluppo economico di Gaza . Gli Accordi di Oslo del 1993 auspicarono una cooperazione su petrolio e gas tra israeliani e palestinesi per sostenere l’industria di Gaza. Abu Amer ha detto a MEE che i progetti per un’azienda petrolifera a Gaza furono visti come un elemento centrale nella costruzione del futuro economico di un previsto Stato palestinese.

Nel corso degli Accordi di Oslo furono proposti progetti per una fabbrica, un porto marittimo ed un aeroporto a Gaza: di essi, solo l’aeroporto divenne realtà. Inaugurato dall’allora Presidente USA Bill Clinton nel 1998, l’aeroporto internazionale Yasser Arafat ebbe vita breve: nel 2000 venne distrutto dalle forze israeliane durante la seconda Intifada.

Progetti per un porto marittimo sono stati regolarmente suggeriti, anche da politici israeliani. Ma finché permane l’assedio israeliano, compreso il divieto di importazione a Gaza di prodotti “a doppio uso”, come i materiali da costruzione, le iniziative economiche possono essere solo teoriche.

Mentre Israele è stato il principale responsabile nel mantenere Gaza in condizioni di crisi umanitaria, persino personaggi israeliani hanno visto il pericolo creato da un territorio palestinese sempre più impoverito e non in grado di sopravvivere.

È stato rivelato che a settembre ufficiali della sicurezza israeliana hanno fatto pressione sul loro governo perché trovasse una fonte alternativa di aiuti per Gaza. Si temeva che la decisione di Trump di interrompere i finanziamenti all’UNRWA potesse peggiorare la situazione umanitaria dell’enclave, che poteva degenerare in una vera e propria guerra.

Intanto in Israele i politici di estrema destra, che negli ultimi anni hanno accresciuto la propria influenza nel panorama israeliano, hanno auspicato un “duro e sproporzionato” intervento militare contro Hamas.

In condizioni giudicate invivibili dalle organizzazioni internazionali e con uno stallo nei colloqui tra ANP e Israele, il futuro di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti appare fosco.

Motasem Dalloul ha inviato corrispondenze dalla Striscia di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 giugno 2019 ( due settimane)

Venerdì 14 giugno, nel corso di una protesta della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), sono stati feriti 238 palestinesi; 70 di essi sono stati ricoverati in ospedale.

Secondo i rapporti israeliani, sia durante manifestazione relative alla “GMR”, sia in altri giorni compresi nel periodo di riferimento [4-17 giugno], in diverse località nel sud di Israele sono scoppiati incendi innescati da palloncini incendiari lanciati da palestinesi.

Tra il 13 ed il 14 giugno si sono registrati lanci di razzi da parte di fazioni armate palestinesi e attacchi aerei da parte dell’aviazione israeliana. Secondo i media, un razzo ha colpito un edificio nella città di Sderot, nel sud di Israele. Non sono stati segnalati feriti.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 16 occasioni, ferendo sei palestinesi. Nella zona di Rafah, le forze israeliane hanno anche effettuato un’incursione [all’interno della Striscia] e un’operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane, quindici palestinesi hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma e armi da fuoco. Dieci [dei 15] sono rimasti feriti durante scontri scoppiati in tre operazioni di ricerca-arresto, effettuate nel Campo profughi di Al Jalazoun (Ramallah), nella città di Ramallah e nel villaggio di Bani Na’im (Hebron). Complessivamente, nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 119 operazioni di ricerca-arresto, di cui 29 a Hebron e 24 a Gerusalemme. Altri tre feriti [dei 15] si sono avuti venerdì 14 giugno, durante la manifestazione settimanale tenuta nel villaggio di Kafr Qaddum (Qaqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni.

Durante il periodo di riferimento, 43 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o confiscate a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele; sono state sfollate 54 persone e coinvolte molte altre. Del totale delle strutture colpite, 32 sono state registrate in 11 Comunità dell’Area C; tra queste è compresa la Comunità di pastori di Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas), dove, il 12 giugno, sono state demolite 11 strutture. Questa Comunità è penalizzata perché collocata all’interno dei confini di un’area designata da Israele “zona militare chiusa”. In un’altra “zona militare chiusa” nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito quattro abitazioni nelle Comunità di Halaweh e Khallet Athab’a. Inoltre, nel villaggio di Tammun (Tubas) sono state demolite due cisterne per l’acqua, in quanto erano ubicate all’interno di una “riserva naturale”: risulta così colpito l’accesso all’acqua per i circa 13.600 abitanti del villaggio. Nello stesso villaggio e per motivi simili [ubicazione entro “riserva naturale”], le forze israeliane hanno abbattuto 390 alberi. Una delle cisterne era di uso pubblico ed era stata fornita, insieme a 150 alberi, dall’Autorità palestinese. Le restanti 11 strutture [delle 43] sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui 2 in Kafr ‘Aqab e 4 in Bir Onah; si tratta di due Comunità situate all’interno di aree municipali di Gerusalemme, sul lato cisgiordano della Barriera.

Sono stati registrati dodici episodi, perpetrati da coloni israeliani, che hanno provocato danni a centinaia di ulivi e ad altre proprietà palestinesi. In uno di questi episodi, avvenuto il 5 giugno, coloni, probabilmente provenienti dall’avamposto di Adei Ad, hanno appiccato il fuoco a circa 30 ettari di terra appartenenti ai contadini del villaggio di Jalud (Nablus), danneggiando 900 ulivi. La Comunità locale ha riferito che, nello stesso giorno, coloni hanno bruciato altri 233 ulivi e alberelli, oltre ad alcuni ettari coltivati a grano ed appartenenti al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah). In tre separati episodi [dei 12], nel villaggio di Ein Samiya (Ramallah), coloni hanno anche bruciato circa 0,4 ettari di coltivazioni di grano e orzo ed hanno spianato 1,5 ettari di terra appartenente ai villaggi di Yanun e Madama (entrambi a Nablus). Dall’inizio dell’anno, sono state danneggiate da coloni circa 4.000 piante di proprietà palestinese. I rimanenti episodi [dei 12] includono la vandalizzazione di sei veicoli, una scritta minatoria sui muri di una moschea nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e la distruzione di una serra appartenente a un contadino di Wadi Fukin (Betlemme). Nell’area a controllo israeliano (H2) della città di Hebron, secondo testimoni oculari, coloni hanno danneggiato il muro di una casa di nuova costruzione e avviato attività di ristrutturazione in un negozio abbandonato di proprietà palestinese.

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, in quattro occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, causando danni a quattro veicoli.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 18 giugno, le autorità israeliane hanno esteso a dieci miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa di Gaza. Il blocco navale totale era stato imposto il 13 giugno, secondo quanto riferito, in risposta al lancio di palloncini incendiari dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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L’OMS occulta la responsabilità di Israele per le uccisioni a Gaza

Maureen Clare Murphy

5 giugno 2019 – Electronic Intifada

Nell’arco di un anno tra la popolazione di Gaza, che ammonta a due milioni di persone, ci sono stati circa 7000 feriti da arma da fuoco.

Molti dei feriti hanno subito danni estesi ed in alcuni casi irreversibili alle ossa, alle strutture vascolari e ai tessuti molli.

Centinaia di loro dovranno subire amputazioni se non potranno accedere a cure specialistiche complesse per le loro disastrose ferite.

Tre operatori sanitari sono stati uccisi e oltre 700 feriti.

Sono state rinviate migliaia di operazioni non urgenti in quanto il sistema sanitario, già in crisi, ha affrontato successive ondate di vittime che necessitavano di interventi d’emergenza.

I casi di violenza di genere esaminati dagli operatori del servizio sono raddoppiati in quanto le famiglie hanno avuto difficoltà a fronteggiare ulteriori pressioni economiche e traumi.

Questi allarmanti fatti emergono dall’esame dei dati sui traumi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) relativamente alle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza, iniziata nel marzo 2018.

Occultati

I dati forniti dall’OMS sono una lettura sconvolgente. Ma il rapporto nasconde il fatto che questa violenza che spezza e traumatizza i corpi è frutto di una deliberata politica israeliana.

Qualunque cura efficace deve fare una diagnosi corretta delle cause e non solo dei sintomi.

Nell’anno che è seguito all’inizio della Grande Marcia del Ritorno, a Gaza sono stati feriti più di 28.000 palestinesi e uccisi 277, compresi 52 minori, la maggior parte dei quali assassinati durante le manifestazioni di massa disarmate lungo il confine est e nord di Gaza.

Nonostante il carattere civile delle proteste, come affermato da un’equipe di ricercatori delle Nazioni Unite, l’OMS afferma che le uccisioni e i ferimenti sono avvenuti “a causa di scontri con le forze di sicurezza israeliane.”

Si tratta di una grossolana mistificazione dell’uso israeliano della forza contro manifestanti pacifici e disarmati, ufficialmente sancito da ordini di sparare per uccidere o menomare civili, persino se sono minorenni, che non costituiscono alcuna plausibile minaccia.

L’uccisione di circa 60 palestinesi durante le manifestazioni del 14 maggio 2018 è stata un massacro.

Secondo la commissione di inchiesta dell’ONU, quel giorno durante le proteste di Gaza City le forze israeliane di occupazione hanno sparato quasi a una persona al minuto tra le 9,30 e le 17,30.

Alcuni manifestanti hanno cercato di superare la barriera di confine, o hanno tirato pietre o rimandato indietro in direzione dei soldati candelotti di gas lanciati da Israele. Ma questi non erano scontri tra due gruppi armati, come suggerirebbe l’uso del termine “scontri” da parte dell’OMS.

I medici che quel giorno hanno curato i feriti hanno detto, come sintetizzato nel rapporto della commissione ONU, che “le ferite assomigliano a quelle che di solito si possono riscontrare durante una guerra.”

I medici dell’ospedale hanno detto ai ricercatori che alle loro strutture arrivavano “ferite terribili una dopo l’altra”, i pazienti presentavano grandi ferite esposte agli arti inferiori, “la loro pelle ed i tessuti sottostanti….spappolati dalla potenza del proiettile.”

Nel loro rapporto i ricercatori dell’ONU dichiarano che nei mesi delle proteste circa 1.600 persone “sono state ferite da proiettili o frammenti di metallo di rimbalzo, colpi e proiettili frammentati e colpi passati da un corpo all’altro – il che dimostra chiaramente il pericolo di sparare proiettili veri ad alta velocità in mezzo ad una folla di manifestanti.”

L’incredibile numero di vittime non è “il risultato di scontri con le forze di sicurezza israeliane”, è l’uso illegale di forza letale contro persone indifese da parte di un potere occupante che mira alla completa capitolazione della popolazione sotto il suo controllo.

“Sono state commesse gravi violazioni dei diritti umani, che potrebbero configurare crimini contro l’umanità”, affermano i ricercatori dell’ONU.

12 anni di assedio

Il rapporto dell’OMS specifica che le proteste hanno luogo nel contesto di un assedio di 12 anni contro Gaza, però non afferma esplicitamente che l’assedio è imposto da Israele.

L’OMS afferma che il sistema sanitario di Gaza “disponeva già di risorse insufficienti e versava cronicamente in difficoltà”. Durante il primo mese delle proteste della Grande Marcia del Ritorno la metà del totale di farmaci a Gaza aveva raggiunto il livello zero di scorte – meno di un mese di rifornimento.

Un duro stallo tra la dirigenza politica palestinese, con la conseguenza che il personale degli ospedali governativi riceveva solo una parte del salario dovuto, ha inoltre “ridotto la capacità delle istituzioni locali a Gaza di fornire servizi essenziali.”

“Nel solo 2018 hanno lasciato Gaza 84 medici”, afferma l’OMS.

E nonostante tutto questo, come riferito nel rapporto, migliaia di medici volontari a Gaza hanno mantenuto attivo il sistema sanitario ed hanno salvato vite.

Grazie alla presenza di volontari di comunità esperti, solo due pazienti su 6.000 che sono stati feriti agli arti da proiettili ad alta velocità durante le proteste sono morti dissanguati.

Secondo l’OMS, un protocollo di percorso per i traumi, dal primo soccorso nel luogo del ferimento all’ospedale e al trattamento postoperatorio e riabilitativo, ha salvato centinaia di vite.

Tre medici che salvavano vite, due dei quali volontari, sono stati uccisi durante le proteste.

Eppure la responsabilità di Israele per la loro morte è occultata nel rapporto dell’OMS.

L’OMS afferma che “vi è stata un’ondata di incidenti violenti che ha coinvolto il settore sanitario” durante l’anno di proteste, con 446 incidenti a Gaza nel 2018, rispetto ai 24 segnalati nell’anno precedente.

Oltre agli operatori sanitari uccisi, 730 sono stati feriti e più di 100 ambulanze ed altri veicoli sanitari sono stati danneggiati.

Ma il rapporto non identifica il responsabile: Israele.

Lo si confronti con le conclusioni inequivocabili dei ricercatori dell’ONU, che dichiarano:

“Sulla base di numerose interviste alle vittime e ai testimoni e della conferma di riprese video in molte situazioni, la Commissione ha riscontrato ragionevoli motivi per ritenere che i cecchini israeliani abbiano colpito deliberatamente operatori sanitari, nonostante vedessero che erano chiaramente contraddistinti come tali.”

Come le uccisioni e i ferimenti di manifestanti, l’uccisione e la menomazione di operatori sanitari sono la conseguenza diretta di ordini di aprire il fuoco da parte di Israele – non le “conseguenze di scontri.”

Inizio modulo

Maureen Clare Murphy è capo redattrice di Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 21 maggio- 3 giugno 2019 (due settimane)

Durante il periodo di riferimento, 234 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale israeliana [sul lato interno a Gaza].

Per oltre il 16% dei feriti è stato necessario il ricovero in ospedale.

Presso la recinzione perimetrale e al largo delle coste di Gaza, in almeno sette casi non riferibili alle manifestazioni GMR, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nell’apparente tentativo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso a tali zone; due palestinesi sono stati feriti ed il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Non sono state segnalate incursioni.

In Cisgiordania, il 31 maggio, in due separati episodi accaduti a Gerusalemme e nei dintorni, due palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane [segue dettaglio]. Il ragazzo è stato ucciso vicino al checkpoint di An Nu’man (Betlemme) quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che tentavano di attraversare la Barriera ed entrare in Gerusalemme senza permesso. Antecedentemente, quello stesso giorno, in due diversi punti della Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 19enne aveva pugnalato e ferito due israeliani, tra cui un ragazzo di 16 anni; l’aggressore era stato successivamente colpito e ucciso dalla polizia israeliana. Secondo quanto riferito, si tratterebbe di un palestinese residente nel villaggio di Abwain (Ramallah), entrato in Gerusalemme Est senza permesso. Alla chiusura del presente bollettino il suo corpo risulta ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Dall’inizio del 2019, in attacchi e/o presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi due israeliani e cinque aggressori e/o presunti aggressori palestinesi.

Sempre in Cisgiordania, durante proteste e molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 114 palestinesi, tra cui 53 minori: un incremento significativo rispetto ai due precedenti periodi di riferimento, quando la media era stata di 44 feriti [segue dettaglio dei 114 feriti]. Ventitré feriti sono stati registrati il 2 giugno, in scontri scoppiati nella Città Vecchia di Gerusalemme durante due distinte proteste tenute contro l’ingresso nel Complesso della Moschea di Al Aqsa / Monte del Tempio di coloni e altri gruppi israeliani entrati per commemorare l’anniversario di ciò che, in Israele, viene definita “la riunificazione di Gerusalemme” [avvenuta in seguito alla “Guerra dei sei giorni” del 1967]. Altri 70 palestinesi, tra cui 30 minori, hanno inalato gas lacrimogeno ed hanno avuto necessità di cure mediche dopo che le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni contro palestinesi che, nei pressi del checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), tentavano di attraversare la Barriera ed entrare, senza permesso, in Gerusalemme Est per partecipare alla preghiera di mezzogiorno del venerdì. Altri tre ferimenti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto; nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 110 di tali operazioni, arrestando oltre 146 palestinesi, tra cui almeno otto minori. Altri nove palestinesi sono rimasti feriti, nella città di Nablus, in scontri con le forze israeliane conseguenti all’ingresso di coloni israeliani al sito religioso della Tomba di Giuseppe. Quasi il 71% delle [114] lesioni è stato provocato dall’inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 20% è stato causato da aggressioni fisiche, il 7% da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di armi da fuoco.

Nella Valle del Giordano, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato temporaneamente, per quattro volte, 12 ore ogni volta, 141 palestinesi; l’80% di essi è costituito da donne e minori. Si tratta dei residenti delle Comunità di pastori di Tell al Khashaba, Lifjim e Humsa al Bqai’a, costretti a lasciare incustodito il loro bestiame e, nella maggior parte dei casi, costretti a trascorrere la notte all’aperto o presso Comunità vicine. Tali Comunità sono esposte al rischio di trasferimento forzato e i ripetuti sfollamenti per esercitazioni militari fanno parte del contesto coercitivo.

In Area C, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato dodici strutture di proprietà palestinese; otto di queste erano state fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 19 persone, tra cui nove minori, sono state sfollate e 107 persone sono state altrimenti coinvolte. Delle otto strutture donate, tre strutture abitative e quattro tende per animali, erano state fornite in risposta a precedenti demolizioni avvenute nelle Comunità di pastori di Al Hadidiya e Khirbet ar Ras al Ahmar, nella parte settentrionale della Valle del Giordano, in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco” per addestramento militare. La restante struttura donata, una sezione di una conduttura idrica di nuova costruzione, era destinata al rifornimento di acqua per l’area di Khallet al Foron a sud di Hebron. Le altre [4] strutture demolite includevano una casa in costruzione a Khallet al Louza, una struttura agricola ad Al Khader (entrambe a Betlemme), un deposito ad Az Za’ayyem (Gerusalemme) e un recinto per animali a Khirbet ar Ras al Ahmar, nella parte settentrionale della Valle del Giordano.

Secondo fonti ufficiali israeliane, il terzo e il quarto venerdì di Ramadan, le autorità israeliane hanno permesso, rispettivamente a 61.597 e 90.254 palestinesi in possesso di documenti della Cisgiordania, di entrare in Gerusalemme Est per le preghiere. Complessivamente, ogni venerdì di Ramadan, una media di 79.946 palestinesi ha attraversato uno dei tre checkpoint di ingresso in Gerusalemme Est; l’anno scorso la media era stata di 87.075. I maschi sopra i 40 anni, o sotto i 16, e le donne di tutte le età hanno potuto attraversare i checkpoint senza alcun permesso. Quest’anno, ai residenti di Gaza non sono stati rilasciati permessi per il Ramadan.

Coloni israeliani hanno provocato il ferimento di quattro palestinesi e danni a proprietà palestinesi in sette circostanze [segue dettaglio]. Tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in due distinti episodi verificatisi nella zona H2 [a controllo israeliano] della città di Hebron. Un altro palestinese è stato ferito nella Città Vecchia di Gerusalemme dal lancio di pietre da parte di coloni. Nella zona di Wad Al Hussain (Hebron), secondo fonti locali palestinesi, coloni israeliani di Kiryat Arba hanno distrutto un tratto di una recinzione in pietra (lunga 200 metri) che circonda un terreno agricolo, hanno incendiato raccolti e danneggiato tre ulivi e un fico. A quanto riferito, in altri due episodi, coloni israeliani hanno danneggiato una casa disabitata di proprietà di palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo” sui muri di un distributore di carburante palestinese nel villaggio di Kafr Laqif (Qalqiliya).

Secondo fonti israeliane, in almeno un caso, palestinesi hanno lanciato pietre e danneggiato un veicolo privato israeliano vicino a Gerusalemme, mentre un colono israeliano è stato ferito, sempre per lancio di pietre da parte di palestinesi, nella Città Vecchia di Gerusalemme.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Israele stravolge la legge per evitare l’inchiesta della CPI

Maureen Clare Murphy

30 maggio 2019 – The Electronic Intifada

Israele conta sui muscoli degli USA per bloccare l’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui presunti crimini di guerra perpetrati nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.

“La Corte Penale Internazionale dell’Aia non ha giurisdizione per discutere materie riguardanti il conflitto israelo-palestinese”, ha dichiarato questa settimana Sharon Afek, procuratore generale militare di Israele, alla conferenza annuale di Herzliya, una riunione ad alto livello delle élite politiche e militari israeliane.

“Israele è un Paese rispettoso delle leggi, con un sistema giudiziario indipendente e forte e non vi è motivo perché le sue azioni vengano prese in esame dalla CPI”, ha aggiunto Afek.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha affermato che recentemente l’ufficio della procura generale militare ha anche pubblicato un rapporto che sostiene che l’esercito ha svolto “conferenze e seminari sulle implicazioni giuridiche” delle azioni delle forze di occupazione.

“L’iniziativa è stata sollecitata dagli scontri settimanali tra soldati e palestinesi nell’ultimo anno, come anche dall’esame della Corte Penale Internazionale sulle azioni (dell’esercito) nella guerra contro Gaza del 2014”, ha aggiunto Haaretz.

La situazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è sottoposta ad indagine preliminare da parte della Corte Penale Internazionale dal 2015. Lo scorso anno il suo procuratore capo rivolto un monito senza precedenti ai leader israeliani, avvertendo che potrebbero subire un processo per le uccisioni di manifestanti disarmati a Gaza.

Durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza più di 200 palestinesi, compresi 44 minori, sono stati uccisi e altre migliaia sono state ferite. Nella sola giornata del 14 maggio 2018, il giorno più letale delle proteste da quando sono cominciate all’inizio di quell’anno, circa 1400 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri nel corso delle proteste.

I giudici dell’Aia hanno anche ordinato alla Corte Penale Internazionale di mettersi in comunicazione con le vittime dei crimini di guerra in Palestina.

Indagini di facciata

Afek ha ordinato un’inchiesta della polizia militare sull’uccisione di 11 palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno.

Israele mantiene l’apparenza di un solido apparato interno di indagine per evitare di essere chiamato a rispondere di fronte ai tribunali internazionali. Le associazioni per i diritti umani hanno definito le inchieste dell’esercito israeliano sulle sue violazioni contro i palestinesi un meccanismo di insabbiamento.

All’inizio di questo mese l’esercito ha chiuso la sua indagine sull’uccisione di Ibrahim Abu Thurayya, un uomo con le gambe amputate colpito alla testa durante una protesta nel dicembre 2017.

A settembre 2016 l’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato che “dal 1987 nessun soldato o comandante israeliano è stato incriminato per aver deliberatamente causato la morte di un palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.”

Da allora vi sono state due incriminazioni – entrambe in episodi di notevole gravità in cui l’uccisione è stata ripresa in un video.

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Nel 2017 il medico militare israeliano Elor Azarya è stato condannato a 18 mesi (di carcere) per l’uccisione a bruciapelo di Abd al-Fattah al-Sharif nella città cisgiordana di Hebron nel 2016. Quella sentenza è stata in seguito ridotta di un terzo.

L’anno scorso Ben Dery è stato condannato a nove mesi di prigione per quella che ‘Defence for Children International Palestine’ ha definito l’“uccisione deliberata” del diciassettenne Nadim Nuwara durante le proteste fuori da una prigione militare della Cisgiordania nel maggio 2014.

Distorcere la legge

Durante il suo intervento alla conferenza di Herzliya, Afek ha accusato le autorità di Hamas a Gaza di mandare migliaia di persone “a varcare la barriera di confine.”

“Questo solleva sostanziali problemi giuridici, incluso quale sia l’adeguato quadro giuridico in base al quale l’esercito deve rispondere”, ha aggiunto.

Israele ha cercato di giustificare l’uso della forza letale contro i manifestanti di Gaza dicendo che le manifestazioni e la loro repressione mortale fanno parte di un conflitto armato con Hamas.

Una commissione d’inchiesta indipendente promossa dalle Nazioni Unite ed associazioni palestinesi per i diritti umani lo hanno confutato. Affermano che le manifestazioni di massa lungo il confine tra Gaza e Israele sono una questione di applicazione della legge riguardante i civili sottoposta al diritto umanitario internazionale. Le uccisioni e le menomazioni di manifestanti non possono quindi essere giustificate sostenendo che sono avvenute durante un conflitto armato.

La commissione d’inchiesta ha predisposto un fascicolo riservato contenente dei dossier su presunti responsabili di crimini internazionali in relazione alla Grande Marcia del Ritorno, da sottoporre alla Corte Penale Internazionale.

Israele fa affidamento sulle minacce e intimidazioni da parte degli USA per impedire una regolare inchiesta da parte della CPI.

Anche Paul Ney, procuratore del Dipartimento della Difesa USA, è intervenuto alla conferenza di Herzliya durante quello che Haaretz ha descritto come “un attacco coordinato contro la giurisdizione della Corte Penale Internazionale”, da parte di USA e Israele.

Ney ha detto che gli USA “non hanno in nessun modo dato il consenso ad alcun esercizio della competenza giurisdizionale da parte della CPI” e che la sua presa in esame di accuse contro personale USA è ritenuta “una flagrante violazione della nostra sovranità nazionale e un attacco allo stato di diritto americano.”

La CPI si arrende alle intimidazioni

In aprile i giudici istruttori della CPI hanno deciso all’unanimità di rinunciare ad aprire un’inchiesta sui crimini di guerra in Afghanistan, adducendo le scarse probabilità di “ottenere una significativa collaborazione da parte delle autorità competenti”, riferendosi agli USA.

L’annuncio è arrivato alcuni giorni dopo che gli USA hanno revocato il visto al procuratore capo della Corte Penale Internazionale.

Il presidente USA Donald Trump ha avvertito che “qualunque tentativo di incriminare personale americano, israeliano o alleato troverà una pronta e dura risposta.”

Alla conferenza di Herzliya Ney ha detto che la CPI non ha giurisdizione per perseguire presunti crimini internazionali di Israele e degli USA, perché nessuno dei due Stati ha aderito allo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte.

Gli USA hanno inoltre adottato misure punitive e coercitive contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per i suoi tentativi di vedere Israele incriminato presso la CPI, compresa la chiusura della sua rappresentanza a Washington l’anno scorso.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha aderito allo Statuto di Roma nel 2015, accettando la giurisdizione della CPI riguardo a presunti crimini commessi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dal 13 giugno 2014.

Maureen Clare Murphy è capo redattrice di ‘The Electronic Intifada’ e vive a Chicago.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Reporter Senza Frontiere accetta un premio da un regime che uccide giornalisti

Ali Abunimah

28 maggio 2019 – Electronic Intifada

Reporter Senza Frontiere sta affrontando dure critiche per aver accettato un premio da un regime che uccide giornalisti.

All’inizio del mese l’associazione, spesso nota con le sue iniziali in francese RSF, durante una cerimonia all’università di Tel Aviv a cui ha partecipato il presidente israeliano Reuven Rivlin, ha ricevuto il premio “Dan David” per “la difesa della democrazia”.

Il direttore di RSF Christophe Deloire ha ritirato il premio a nome del gruppo.

L’ambasciatrice francese a Tel Aviv Hélène Le Gal ha definito la cerimonia di premiazione “una bellissima serata”.

Elsa Lefort, militante francese per i diritti umani, ha detto di “essere rimasta senza parole davanti a un simile cinismo.”

Lefort, moglie di Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese recentemente incarcerato per più di un anno da Israele senza imputazioni, ha aggiunto che i suoi pensieri sono andati ai “giornalisti palestinesi uccisi a Gaza e a quelli che languiscono nelle prigioni dell’occupante.”

Prendere di mira i giornalisti

In febbraio una commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU ha rilevato che lo scorso anno i cecchini israeliani “hanno sparato intenzionalmente” a giornalisti palestinesi che stavano informando sulle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Due sono stati uccisi – Yaser Murtaja and Ahmed Abu Hussein.

All’inizio di questo mese, la madre di Murtaja, Khairiya, ha chiesto alla pop star Madonna di non esibirsi alla competizione musicale Eurovision.

Yaser era un giovane modesto, pacifico, disarmato, che andava sul confine di Gaza con la sua videocamera per trasmettere al mondo la vera immagine di Israele, che assassina i sogni di bambini e giovani,” ha scritto.

Mio figlio non voleva morire, cercava la vita, amava il suo lavoro, voleva far crescere suo figlio con dignità e libertà. Yaser amava questo Paese, e non voleva lasciarmi.” La Commissione per la Protezione dei Giornalisti ha definito l’uccisione di Murtaja e di Abu Hussein “parte di uno schema”, notando che nessuno è mai stato chiamato a rispondere di queste e altre uccisioni di operatori dei media da parte di Israele.

L’organizzazione per i diritti umani con sede a Gaza “Al Mezan” ha documentato più di 230 attacchi contro giornalisti durante la Grande Marcia del Ritorno, 100 dei quali con proiettili veri e altrettanti provocati da candelotti lacrimogeni.

Hamza Abu Eltarabesh, che spesso collabora con questo giornale, recentemente ha detto al podcast di Electronic Intifada di aver smesso di indossare un giubbotto con la scritta STAMPA quando informa sulle proteste di Gaza e cerca solo di mischiarsi alla folla perché l’esercito israeliano ha deliberatamente preso di mira moltissimi giornalisti.

All’inizio di questo mese aerei da guerra israeliani hanno attaccato e distrutto a Gaza City gli uffici dell’agenzia di notizie turca Anadolu.

Persino Reporter Senza Frontiere ha riconosciuto che “le forze israeliane hanno continuato a sottoporre giornalisti palestinesi ad arresti, interrogatori e detenzioni amministrative, spesso senza basi concrete” e che negli ultimi anni le autorità dell’occupazione israeliana hanno ripetutamente chiuso mezzi di informazione palestinesi.

Il giorno dopo la cerimonia di premiazione lo stesso Deloire, il direttore di Reporter Senza Frontiere, ha accusato Israele di “crimini di guerra” contro giornalisti.

Credibilità danneggiata

Il fatto che Reporter Senza Frontiere abbia ricevuto questo premio danneggia gravemente la sua credibilità,” ha osservato la pubblicazione francese ‘Agence Média Palestine’.

In effetti, ricevendo un premio per la ‘democrazia’ in presenza di Reuven Rivlin, il presidente del regime israeliano che lo scorso luglio ha approvato la legge sullo Stato-Nazione che istituisce ufficialmente l’apartheid, non contribuisce alla democrazia, semmai il contrario.”

L’agenzia “Média Palestine” ha accusato Reporter Senza Frontiere di aver preso parte a una manifestazione propagandistica intesa a ripulire l’immagine di Israele.

Gli attivisti palestinesi hanno chiesto a precedenti destinatari di rifiutarsi di accettare il premio Dan David.

Per esempio, nel 2010 il PACBI, la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ha detto alla celebre scrittrice canadese Margaret Atwood che la sua accettazione del premio avrebbe appoggiato una “campagna ben avviata per occultare le gravi violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali da parte di Israele.”

L’autrice di “Il Racconto dell’Ancella” ha ignorato gli appelli dei palestinesi ed ha accettato il versamento di un milione di dollari del “Dan David”.

Il premio “Dan David” è assegnato dall’università di Tel Aviv, che è essa stessa totalmente complice del sistema di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele.

La commissione del “Dan David Price” include Henry Kissinger, l’uomo di stato americano noto per una spaventosa serie di crimini, compreso il fatto di aver architettato il colpo di stato militare in Cile nel 1973 e i bombardamenti genocidi in Cambogia che hanno ucciso 1,7 milioni di persone.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 maggio 2019

Il 10 maggio, nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione israeliana che la delimita, durante proteste avvenute ad est di Rafah nell’ambito della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), un palestinese di 24 anni è stato ucciso ed altri 425 circa sono stati feriti.

Oltre il 47% dei feriti sono stati ospedalizzati; 56 di questi erano stati colpiti con armi da fuoco.

In aree [di terraferma] adiacenti alla recinzione perimetrale [sul lato interno della Striscia] e [di mare,] al largo della costa di Gaza, le forze israeliane, per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 21 occasioni non collegate a proteste per la GMR, provocando tre feriti, tra cui un contadino e un pescatore. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Beit Hanoun (Nord della Striscia), Deir al Balah (Area Centrale) e Rafah [Area Sud], ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante proteste e numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito 24 palestinesi, tra cui quattro minori [dettaglio nel paragrafo seguente]; questo numero rappresenta una riduzione significativa, di circa l’85%, rispetto alla media quindicinale di 155 feriti registrata nei primi mesi di quest’anno. Sei palestinesi [dei 24] sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane verificatisi nei pressi dell’area di Bab al Amud nella Città Vecchia di Gerusalemme. Altri due palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti dalle forze israeliane vicino all’area di Beit Hanina, a Gerusalemme Est, mentre tentavano di attraversare la Barriera senza autorizzazione. Il 10 maggio, a due ambulanze palestinesi è stato negato l’accesso alla Città Vecchia di Gerusalemme e due paramedici sono stati fermati, aggrediti fisicamente e feriti dalla polizia israeliana; questo episodio è avvenuto successivamente ad una intesa con le autorità israeliane che prevedeva l’attenuazione delle restrizioni di accesso a Gerusalemme Est durante il mese musulmano del Ramadan [vedi più avanti]. Un altro palestinese è stato ferito nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) negli scontri scoppiati durante la protesta settimanale contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti [colonici israeliani]. Altri tre palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri scoppiati dopo l’accesso di coloni israeliani alla sorgente di Ein Harrasheh ed in un parco pubblico nella zona B del villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah). Secondo fonti della Comunità locale, i coloni israeliani avevano sparato in aria ed avevano istituito un checkpoint improvvisato, impedendo ai palestinesi l’accesso alla zona. Due palestinesi sono stati arrestati.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 81 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 110 palestinesi. La quota maggiore di operazioni (21) è stata compiuta nel governatorato di Hebron mentre il più alto numero di arresti (30) è stato effettuato nel governatorato di Gerusalemme.

Nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire una esercitazione militare israeliana, in sei occasioni le forze israeliane hanno sfollato, per 7-20 ore ogni volta, 125 palestinesi (per l’80% donne e minori) appartenenti a due Comunità di pastori, Tell al Khashaba (Nablus) e Humsa al Bqai’a. Le famiglie hanno dovuto stazionare all’aperto o trovare ricovero presso Comunità vicine; nella maggior parte dei casi lo sfollamento è avvenuto di notte, ed hanno dovuto lasciare sul posto le greggi ed il bestiame. Il 16 maggio, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, ha presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia israeliana contro lo sgombero della Comunità di Humsa al Bqai’a. Il 22 maggio, l’Alta Corte di Giustizia ha respinto la petizione. Entrambe le Comunità devono affrontare sistematiche demolizioni e restrizioni di accesso che, insieme ai ripetuti sfollamenti temporanei dovuti all’addestramento militare, destano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato dei residenti.

Citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito una struttura di sussistenza di proprietà palestinese, situata nella zona C del villaggio di Haris (Salfit), colpendo una famiglia di sette persone, tra cui quattro minori.

In concomitanza con il mese musulmano del Ramadan, iniziato il 6 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Il provvedimento include l’emissione di circa 150.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est e Israele; inoltre, per le preghiere del venerdì, agli uomini sopra i 40 anni, ai minori di 16 anni e alle donne di tutte le età è consentito l’ingresso a Gerusalemme Est senza necessità di permesso. I residenti di Gaza non hanno avuto permessi per il Ramadan. Secondo il Distretto di Coordinamento israeliano (DCL), per le preghiere del primo e del secondo venerdì di Ramadan, le forze israeliane hanno consentito l’ingresso in Gerusalemme Est, attraverso tre checkpoints circostanti, a circa 75.744 palestinesi il 10 maggio e circa 92.188 il 17 maggio. Nel 2018 i permessi per il primo e secondo venerdì di Ramadan erano stati, rispettivamente, circa 39.300 e 87.085.

Il 13 maggio, Israele ha riaperto entrambi i valichi sotto suo controllo al transito sia di persone che di merci: il valico passeggeri di Erez ed il valico merci di Kerem Shalom. Il provvedimento ha fatto seguito alle severe restrizioni che avevano accompagnato la recente ondata di violenza [vedi il Rapporto precedente] ed alla successiva chiusura generale praticata durante le festività nazionali israeliane.

Durante il periodo di riferimento sono stati segnalati tredici attacchi di coloni israeliani: sette palestinesi sono rimasti feriti e 60 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati o incendiati [seguono dettagli]. Tre degli episodi si sono verificati nelle vicinanze dei villaggi di Asira al Qibliya, Qiryat e Yanun (entrambi a Nablus) e Marda (Salfit). In queste località cinque alberi, almeno 50.000 m2 di coltivazioni e un veicolo sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Shilo, Itamar, Ariel e Mitzpe Ya’ir. Altri tre attacchi incendiari portati nei villaggi di Asira al Qibliya e Burin (entrambi a Nablus) e Izbat Shufa (Tulkarm), secondo quanto riferito, ancora ad opera di coloni israeliani, hanno provocato estesi danni a terreni coltivati e ad almeno 20 ulivi. Dall’inizio del 2019, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha registrato lo sradicamento, l’incendio o la vandalizzazione di 1.845 alberi da parte di coloni israeliani. Tuttavia, rispetto alla media mensile [di fatti analoghi avvenuti nel] 2018 e nel 2017, il numero sopraccitato rappresenta una riduzione del 44% e del 22% rispettivamente. Nell’area H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito e ferito tre palestinesi, tra cui due minori, in quattro distinti episodi. Inoltre, secondo il Consiglio del villaggio di Qaryut (Nablus), il 20 maggio, coloni israeliani dell’insediamento di Eli hanno scaricato liquami su terreni palestinesi coltivati ad ulivi; 10.000 m2 di terreni e 40 ulivi sono stati contaminati. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani in due distinti episodi accaduti nel quartiere di Sheikh Jarrah e nella Città Vecchia di Gerusalemme.

In Cisgiordania, in almeno tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah; secondo fonti israeliane sono stati danneggiati almeno tre veicoli privati, ma non sono stati segnalati feriti.

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Ultimi sviluppi

Per la seconda volta in due settimane, il 23 maggio le autorità israeliane hanno ridotto l’ampiezza della zona di pesca consentita [ai palestinesi] lungo la costa meridionale di Gaza; a quanto riferito, la riduzione (da 15 a 10 miglia nautiche) è stata comminata come risposta al lancio di palloncini incendiari verso Israele.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)