Come anche la sinistra disumanizza i Palestinesi di Gaza.

Susan Abulhawa

Al Jazeera, 13 aprile 2019

Avvolgendo gli abitanti di Gaza nell’aura di un mitico coraggio, la sinistra dimentica l’umanità dei Palestinesi.

Lungo tutto l’arco politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, attraversando ogni confine razziale ed etnico, quasi tutti quelli che hanno qualcosa da dire sui dimostranti di Gaza sembrano dimenticarsi il lato umano dei Palestinesi. Se viene da destra, la narrativa sarà quella dei terroristi, dei razzi e di Hamas, rinchiudendo totalmente una legittima resistenza palestinese entro l’immagine di una specie di Uomo Nero per l’immaginazione occidentale.

Da sinistra, le storie diventano materia da leggenda, descrivendo nella parte palestinese solo imperscrutabile eroismo, coraggio e “sumud”, una parola araba romanzata nella lingua inglese per descrivere l’epica determinazione palestinese.

Ai due estremi dello spettro, gli inermi Palestinesi diventano figure gigantesche, diverse dagli altri esseri umani, sia che riescano sovrumanamente a rappresentare una minaccia per dei soldati perfettamente armati e distanti parecchi campi da calcio, sia che mostrino coraggio e impavidità sovrannaturali di fronte a una morte quasi certa. Quest’ultima narrazione, che riesce a drammatizzare un’indicibile disperazione, è così attraente che persino i Palestinesi l’hanno ripresa.

Nulla da perdere

Solo pochi giorni fa guardavo il video di un giovane a cui avevano sparato alle gambe. Zoppica, cade e si rialza solo per essere colpito di nuovo dai proiettili. La scena si ripete per cinque o sei spari consecutivi, finché il giovane non si può più rialzare e gli altri arrivano per portarlo via. Il titolo e i commenti esaltavano il “giovane coraggioso” che continuava a resistere al suo oppressore malgrado fosse stato colpito più volte alle gambe.

Come madre palestinese, vedevo qualcos’altro in quell’uomo, abbastanza giovane da poter essere mio figlio. Forse era stato completamente privato di ogni speranza e gli avevano tolto la voglia di vivere una vita rinchiusa nella barbara, maligna e inventiva ferocia dell’assedio israeliano a Gaza. Un giovane che ha probabilmente conosciuto poco più che paura, disperazione, povertà e impotenza a fare qualsiasi cosa. Forse un giovane che non ha nulla da perdere, uno già derubato della sua vita legittima, che cerca, in segno di sfida, almeno un singolo momento di dignità, sapendo, e magari sperando, che quello sia l’ultimo. E forse è questo ciò che ha visto il soldato che ha sparato, e ha scelto di aggiungere il trauma di un’amputazione a un uomo già torturato che sollevava debolmente una piccola pietra senza neanche la volontà o l’energia sufficiente per lanciarla.

Forse la sua motivazione era il nazionalismo. Forse aveva la speranza di assicurare denaro alla sua famiglia se fosse stato martirizzato o ferito. Forse pensava che la sua morte potesse far avanzare la sua gente di un centimetro verso la libertà. Forse era la sola cosa che gli restava da fare. Non possiamo sapere cosa passa per la testa di uno che mette il proprio corpo tra i proiettili e la disperazione. Ma possiamo essere sicuri che le sue motivazioni sono dolorosamente umane. Non c’è nulla di divino da capire o trasformare in feticcio.

Analisi riduttive

Non c’è dubbio alcuno che ci vuole coraggio per scendere in campo contro Israeliani omicidi e carichi di odio, ma le narrazioni che permeano di mitico eroismo i Palestinesi sono nocive. Queste narrazioni propongono una irreale, quasi divina, capacità di resistere a ciò che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare, e nascondono la molto umana e fosca realtà della vita a Gaza, che ha portato a tassi di suicidio mai prima visti nella società palestinese.

Le persone di Gaza hanno differenti ragioni per prendere parte alla Grande Marcia del Ritorno, ma le analisi prevalenti sono riduttive, spesso unendo l’epico coraggio palestinese con la resistenza nonviolenta, perché l’immaginazione occidentale non può tollerare una resistenza armata, non importa quanto durevole e impietosa sia la violenza che è stata inflitta. L’eroismo connesso alle armi è esclusiva prerogativa dei soldati occidentali. L’unica resistenza moralmente valida concessa agli oppressi è, nella mente occidentale, esclusivamente nonviolenta. Questo significa che il diritto palestinese alla libertà e alla dignità svanisce nel momento in cui noi facciamo volare degli aquiloni incendiari o spariamo un razzo verso uno stato che da decenni sta massacrando la società e i corpi stessi dei Palestinesi. Vediamo le stesse reazioni negli USA, quando gli Afroamericani si sollevano e non si attengono perfettamente a una “pacifica” e “non violenta” protesta, dopo i secoli di denigrazione e marginalizzazione che hanno subito.

Certo non aiuta che persino alcuni Palestinesi rafforzino questa opinione, rigettando Hamas o riducendo qualsiasi forma di resistenza armata ad un fatto anomalo in una protesta altrimenti ideale e ordinata di un popolo oppresso straordinariamente forte e valoroso.

Gaza è un campo di sterminio

Ma bisogna dire la verità, e la verità è orribilmente sgradevole e squallida. Non c’è nulla per cui il mondo debba romanzare Gaza. Nulla da idealizzare. Gaza è un campo di sterminio. La tecnologia dello sterminio e della repressione è il maggior prodotto esportato dalla “Nazione Ebraica” e Gaza è il laboratorio umano dove l’industria israeliana delle armi collauda i suoi prodotti sui corpi, le menti e le anime dei Palestinesi. È una sventurata esistenza che non risparmia nessuno dei due milioni di prigionieri in quel campo di concentramento.

Israele ha trasformato Gaza, una volta grande città crocevia di commercio fra tre continenti, in un buco nero dei sogni. Gaza è la tomba della speranza, un inceneritore del potenziale umano, un estintore di ogni prospettiva. Le persone riescono a malapena a respirare a Gaza. Non possono lavorare, non possono partire, non possono studiare, non possono costruire, non possono guarire. Sotto ogni punto di vista, la minuscola striscia è invivibile, letteralmente inadatta alla vita. Quasi il 100% dell’acqua non è potabile. La disoccupazione giovanile è così alta che è più facile contare gli occupati, un patetico 30%. Circa  l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La maggior parte degli abitanti gode di poche ore di elettricità al giorno. Il sistema fognario è al collasso. Il sistema sanitario è giunto al suo punto di rottura e gli ospedali stanno chiudendo per mancanza di rifornimenti essenziali e di carburante, che Israele spesso impedisce di comprare o anche di ricevere in dono. Questa indicibile miseria è intenzionale. Israele l’ha progettata e realizzata. E il mondo permette che continui.

Parlare di “sumud”

Quando la nostra vita, la nostra resistenza e la nostra lotta sono inquadrate in termini leggendari, non solo si dimentica la nostra umanità, ma si diminuisce la depravazione morale del controllo israeliano su milioni di vite palestinesi. Il discorso sul “sumud” ci prepara all’insuccesso a ogni svolta. Da un lato si presuppone che i Palestinesi possano sopportare qualsiasi cosa, dall’altro si diffonde l’affermazione sottintesa che i Palestinesi meritino di essere liberi poiché sono buoni, coraggiosi, non violenti e determinati.

Ma la verità è che non siamo nulla di più, nulla di meno che umani. Collettivamente non siamo né mostri né eroi, e anche il peggiore di noi ha il diritto di vivere libero dall’occupazione straniera. Va detto e ripetuto che la lotta contro i nostri aguzzini è legittima in ogni sua forma, sia essa nonviolenta o violenta. Va detto e ripetuto che comunque noi lottiamo, la nostra resistenza è sempre autodifesa. Va detto ancora e ancora che il nostro diritto alla vita e alla dignità non è basato sulla nostra collettiva bontà, o coraggio o risolutezza. In ultima analisi, la sinistra deve smettere di raccontare in forma leggendaria i Palestinesi e guardare invece direttamente all’orrore della disperazione e dell’angoscia di Gaza che la maggior parte di chi legge, io credo, non può neanche immaginare.

Il punto di vista espresso in questo articolo è quello personale dell’autrice e non riflette necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese autrice del romanzo, best-seller internazionale, “Ogni mattina a Jenin” (2010). È anche fondatrice di Playgrounds for Palestine, una ONG che si occupa di bambini.

Traduzione di Elisabetta Valento

A cura di Assopace Palestina



Rapporto OCHA del periodo 26 marzo – 8 aprile 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, nel contesto delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 1.456 sono rimasti feriti.

Tre dei quattro, tra cui due ragazzi 17enni, sono stati uccisi sabato 30 marzo, giornata anniversario sia del “Giorno della Terra” che dell’inizio, un anno fa, delle manifestazioni [per la GMR]. Il quarto uomo, ferito durante le manifestazioni, è morto tre giorni dopo. La mattina del 30 marzo, in un episodio non collegato alle manifestazioni della GMR, un altro uomo è stato colpito e ucciso vicino alla recinzione perimetrale.

Sempre nella Striscia di Gaza, per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [stabilite da Israele] sia alle aree lungo la recinzione perimetrale [lato interno a Gaza] che a quelle di mare, le forze israeliane, in almeno 27 occasioni non legate agli eventi della GMR, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori, senza provocare feriti. In altre quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale. In altri due episodi, cinque palestinesi, tra cui tre minori, sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Israele.

In Cisgiordania, in due operazioni di ricerca e arresto, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi [di seguito il dettaglio]. Un paramedico volontario palestinese 18enne è stato ucciso dalle forze israeliane il 27 marzo, con arma da fuoco: il giovane era in servizio nel Campo Profughi di Duheisheh, a Betlemme, mentre si svolgeva un’operazione militare. Secondo fonti palestinesi, nell’area interessata all’uccisione non erano in corso scontri. Il secondo palestinese, 24enne, è stato ucciso dai soldati israeliani il 2 aprile, nelle vicinanze del Campo Profughi di Qalandiya; qui erano scoppiati scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano durante operazioni di ricerca-arresto. Nel contesto di questi due episodi sono stati feriti, con armi da fuoco, altri quattro palestinesi, tra cui due minori.

Ancora in Cisgiordania, in altri scontri, per lo più conseguenti a operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 304 palestinesi, tra cui 239 minori [78,6%]. Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 169 operazioni di ricerca, otto di esse hanno provocato scontri nel corso dei quali sono stati feriti undici palestinesi [dei 304 riportati sopra]. I palestinesi arrestati sono stati 197, tra cui quindici minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato il maggior numero di tali operazioni. In due distinti episodi, il 7 e l’8 marzo, nell’area a controllo israeliano della città di Hebron (zona H2), le forze israeliane, a quanto riferito facendo seguito al lancio di pietre da parte di minori palestinesi, hanno sparato bombolette lacrimogene all’interno di un complesso scolastico; come risultato 225 studenti e 35 insegnanti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Altri otto palestinesi sono rimasti feriti durante scontri scoppiati nel contesto di diverse proteste: in commemorazione del “Giorno della Terra”e durante la protesta settimanale contro la violenza dei coloni e contro l’espansione degli insediamenti colonici nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah) e nell’area della Valle del Giordano. Complessivamente, il 90% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (o perché colpiti dalle bombolette contenenti il gas); il 7% da proiettili di gomma; il 2% da armi da fuoco.

Il 3 aprile, vicino al raccordo stradale di Beita (Nablus), un colono israeliano della colonia Elon Moreh ha aperto il fuoco per tre volte, ferendo due palestinesi. Uno dei due, un 23enne, è morto più tardi in ospedale; secondo Organizzazioni per i Diritti Umani, il giovane, quando è stato colpito, stava lanciando pietre contro veicoli israeliani. L’altro ferito palestinese è stato colpito mentre lavorava nella sua bottega situata nella zona. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

Altri undici attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato lesioni o danni a proprietà palestinesi. Tre degli episodi hanno visto la vandalizzazione di 35 ulivi nei villaggi di Buring e Yanun (entrambi a Nablus) e 400 alberi e alberelli in terreni privati del villaggio di Deir Jarir (Ramallah). Nel villaggio di Ras Karkar (Ramallah), coloni israeliani hanno distrutto, su terreno di proprietà privata, un edificio parte di un progetto agricolo; il danno causato ricade su nove persone. Un ragazzo palestinese è rimasto ferito e quattro veicoli sono stati vandalizzati in cinque distinti episodi di lancio di pietre da parte di coloni a Ya’bad (Jenin), e nei villaggi di Al Mughayyir, Beitin e An Nabi Salih (tutti a Ramallah). Vicino al villaggio di Jibiya (Ramallah), i componenti di una famiglia di tre persone, tra cui una ragazza di 17 anni, sono stati feriti da coloni mentre si stavano recando sui loro terreni. Nella città di Beit Hanina (Gerusalemme Est), coloni hanno forato le gomme di 15 veicoli ed hanno spruzzato scritte su veicoli e muri delle case; danneggiate 15 famiglie, per un totale di 75 persone. Nel 2019, OCHA [Office for the Coordination of Humanitarian Affairs] ha registrato 104 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o hanno danneggiato proprietà palestinesi (compresi oltre 2.500 alberi): un incremento del 53% del numero di episodi rispetto al corrispondente periodo del 2018.

I media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli di coloni israeliani; non sono state riportate vittime, ma sono state danneggiati cinque veicoli.

A Gerusalemme Est, in sei diverse località, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite dieci strutture, sfollando nove palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 83. Delle dieci strutture demolite, cinque erano abitative e sono state autodemolite dagli stessi proprietari che avevano ricevuto ordini definitivi di demolizione; secondo quanto riferito, per evitare di incorrere in ulteriori multe. In Cisgiordania, dall’inizio del 2019, complessivamente, sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane 145 strutture.

In concomitanza con le elezioni nazionali israeliane, il 9 aprile, le autorità israeliane hanno imposto ai Territori Palestinesi occupati la chiusura di un giorno. Il valico commerciale di Kerem Shalom e il passaggio pedonale di Erez con la Striscia di Gaza sono stati chiusi, fatta eccezione per i casi urgenti autorizzati. In Cisgiordania la chiusura ha comportato il divieto di accesso in Gerusalemme e in Israele per tutti i detentori di documento di identità della Cisgiordania e titolari di regolari permessi di ingresso rilasciati da Israele; è stata fatta eccezione per il personale ONU, delle Ong e per il personale diplomatico.

Il 1° aprile, le autorità israeliane hanno esteso a 15 miglia nautiche la zona di pesca permessa [ai palestinesi] lungo la parte meridionale della costa di Gaza: la più ampia consentita dal 2000 ad oggi. Lungo le aree settentrionale e centrale l’accesso rimane limitato a 6-12 miglia nautiche. Si prevede che l’ampliamento aumenterà il volume e la qualità del pescato.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è stato aperto per sei giorni in entrambe le direzioni e per quattro giorni in una direzione. Sono entrate a Gaza 3.267 persone e ne sono uscite 3.393.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’essenza di essere palestinese: qual è il vero significato della Grande Marcia del Ritorno

Ramzy Baroud

5 aprile 2019,

Ma’an News

Gli obiettivi delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziata a Gaza il 30 marzo 2018, sono porre fine all’asfissiante assedio israeliano e la realizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che furono espulsi dalle loro case e città nella Palestina storica 70 anni fa.

Ma per la Marcia del Ritorno c’è molto più di qualche richiesta, soprattutto se si tiene a mente l’alto costo umano ad essa legato.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza, oltre 250 persone sono state uccise e 6.500 ferite, compresi minori, personale sanitario e giornalisti.

A parte gli eccessivamente citati ‘aquiloni incendiari’ e i giovani che tagliano simbolicamente la

recinzione che li ha rinchiusi per molti anni, la Marcia è stata generalmente nonviolenta. Ciononostante Israele ha impunemente ucciso e menomato manifestanti.

Lo scorso mese una commissione d’inchiesta ONU per i diritti umani ha rilevato che Israele potrebbe aver commesso crimini di guerra contro i dimostranti, con l’uccisione di 189 palestinesi nel periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018.

L’inchiesta ha trovato “fondati motivi per credere che i cecchini israeliani abbiano sparato a minori, personale sanitario e giornalisti, benché essi fossero chiaramente riconoscibili come tali,” hanno concluso i membri della commissione come riportato dalla BBC online.

Tuttavia molti nei media non capiscono ancora quello che la Grande Marcia del Ritorno significa realmente per i palestinesi.

Un reportage cinicamente titolato del Washington Post ha tentato di dare una risposta. L’articolo, “I gazawi hanno pagato con il sangue un anno di proteste. Ora molti si chiedono per cosa,” cita in modo selettivo palestinesi feriti che, si suppone, hanno la sensazione che il loro sacrificio sia stato inutile.

Oltre a fornire all’esercito israeliano un fondamento per incolpare il movimento Hamas per la Marcia durata un anno, il lungo articolo termina con queste due citazioni:

La Marcia del Ritorno “non ha ottenuto niente,” secondo un palestinese ferito.

L’unica cosa che posso riscontrare è che ciò ha fatto in modo che la gente vi dedicasse attenzione,” dice un altro.

Se il Washington Post lo avesse fatto, avrebbe capito che l’atmosfera tra i palestinesi non è né cinica né disperata.

Il [Washington] Post avrebbe dovuto chiedere: se la Marcia “non ha ottenuto niente”, perché i gazawi continuano a protestare e la natura popolare e inclusiva della marcia non ne è stata compromessa?

Il diritto al ritorno è più di una posizione politica,” afferma Sabreen al-Najjar, la madre della giovane dottoressa palestinese, Razan, che, il 1 giugno 2018, è stata colpita a morte dall’esercito israeliano mentre cercava di aiutare manifestanti palestinesi feriti. È più di un principio: avvolta in essa e riflessa nella letteratura, nell’arte e nella musica, c’è l’essenza di cosa significhi essere palestinese. È nel nostro sangue.”

Infatti, che cos’è la “Grande Marcia del Ritorno” se non un popolo che cerca di rivendicare il proprio ruolo ed essere riconosciuto ed ascoltato nella lotta per la liberazione della Palestina?

Quello che è per lo più assente nel dibattito su Gaza è la psicologia collettiva che sta dietro questo tipo di mobilitazione, e perché è essenziale per centinaia di migliaia di persone assediate riscoprire la propria forza e comprendere la propria reale situazione, non come vittime indifese ma come attori di cambiamento nella propria società.

La lettura ottusa, o il travisamento della Marcia del Ritorno, la dice lunga sulla complessiva sottovalutazione del ruolo del popolo palestinese nella sua lotta, durata un secolo, per la libertà, la giustizia e la liberazione nazionale.

La storia della Palestina è la storia del popolo palestinese, in quanto è vittima di oppressione e il principale canale di resistenza, a iniziare dalla Nakba – la creazione di Israele sulle rovine di città e villaggi palestinesi nel 1948. Se i palestinesi non avessero resistito, la loro storia si sarebbe conclusa allora, e anche loro sarebbero scomparsi.

Quelli che rimproverano la resistenza palestinese o, come il [Washington] Post, non capiscono il valore latente del movimento popolare e dei sacrifici, hanno una scarsa comprensione delle ramificazioni psicologiche della resistenza – il senso di emancipazione collettiva e di speranza che si diffonde tra le persone. Nella sua introduzione al libro di Frantz Fanon “I dannati della terra”, Jean-Paul Sartre descrive la resistenza, appassionatamente rivendicata da Fanon, come un processo attraverso il quale “un uomo ricrea se stesso.”

Per 70 anni i palestinesi hanno intrapreso quel percorso di ri-creazione di se stessi. Hanno resistito, e la loro resistenza in tutte le sue forme ha plasmato un senso di unità collettiva, nonostante le numerose divisioni che sono state erette in mezzo al popolo.

La Marcia del Ritorno è l’ultima manifestazione dell’incessante resistenza palestinese.

È evidente che le interpretazioni elitiste della Palestina sono fallite – Oslo si è dimostrato un inutile esercizio di vuoti cliché, tesi a conservare il dominio politico americano in Palestina così come nel resto del Medio Oriente.

Ma la firma degli accordi di Oslo nel 1993 ha sconvolto la relativa coesione del discorso palestinese, indebolendo e dividendo di conseguenza il popolo palestinese.

Nella narrazione sionista israeliana i palestinesi sono descritti come squilibrati vagabondi, un intralcio che ostacola il cammino del progresso – una descrizione che definisce sempre i rapporti tra ogni potenza coloniale occidentale e i nativi colonizzati che resistono.

All’interno di qualche circolo politico e accademico israeliano i palestinesi semplicemente “esistevano” per essere “scacciati”, per fare posto a un popolo diverso e più degno. Dalla prospettiva sionista, l’“esistenza” dei nativi è intesa come temporanea. “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto,” scrisse il padre fondatore di Israele, David Ben Gurion.

Assegnare al popolo palestinese il ruolo dell’espulso, diseredato e nomade, senza prendere in considerazione le implicazioni etiche e politiche di tale percezione, ha erroneamente presentato i palestinesi come una collettività docile e sottomessa.

Pertanto è fondamentale che noi sviluppiamo una maggiore comprensione dei significati a vari livelli della Grande Marcia del Ritorno. Centinaia di migliaia di palestinesi a Gaza non hanno rischiato la vita e gli arti durante lo scorso anno solo perché chiedono rifornimenti urgenti di medicine e cibo.

I palestinesi lo hanno fatto perché comprendono la propria centralità nella lotta. Le loro proteste sono un’affermazione collettiva, un grido per la giustizia, un’estrema rivendicazione della loro narrazione come popolo – che ancora resiste, ancora forte e che ancora spera dopo 70 anni di Nakba, 50 di occupazione militare e 12 di assedio senza interruzione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ministero della Salute: 270 morti, tra cui 52 bambini, nel 1 ° anno delle proteste a Gaza

4 aprile 2019 Ma’an news

Gaza City (Ma’an) “La Grande Marcia del Ritorno” ha manifestato lungo il confine di Gaza dal 30 marzo 2018 fino al 30 marzo 2019, mercoledì.

I dati dicono che 551 delle ferite sono state considerate critiche, 7024 moderate, 8616 minori e 365 non classificate.Tra le ferite, 6846 provenivano da veri proiettili, 865 da proiettili di acciaio rivestiti di gomma, 2426 da soffocamento con gas lacrimogeni, 6419 da schegge e altre lesioni.

I dati confermati contano 1567 ferite alla testa e al collo, 761 nel petto e nella schiena, 654 nell’addome e nel bacino, 2322 negli arti superiori, 7941 negli arti inferiori, 371 in varie parti e 2922 altri.

Sono state registrate anche 136 amputazioni, di cui 122 agli arti inferiori e 14 agli arti superiori.

Divisi per quartieri, i dati hanno mostrato che 3590 feriti si trovavano nel nord di Gaza, 5392 a Gaza City, 2558 a Gaza centrale, 3175 a Khan Younis e 1841 a Rafah, entrambi nel sud di Gaza.

Il ministero ha detto che tra gli uccisi dalle forze israeliane c’erano tre membri della sua equipe medica, tra cui l’operatrice sanitaria 21enne Razan al-Najjar, e che 115 ambulanze sono state danneggiate.

Il ministero ha aggiunto che anche due giornalisti palestinesi, Yasser Murtaja e Ahmad Abu Hussein, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane mentre seguivano le proteste di Gaza.

(Traduzione di Luciana Gallino)




Come la Grande Marcia del Ritorno ha rivitalizzato la resistenza palestinese

Ahmed Abu Artema

30 marzo 2019, Al Jazeera

La marcia che abbiamo iniziato un anno fa ha sfidato i nostri due maggiori nemici: la divisione palestinese tra fazioni e la propaganda israeliana.

Il 30 marzo 2018 ho assistito a una cosa che non dimenticherò mai. Ho visto decine di migliaia di persone con diverse affiliazioni politiche e posizioni ideologiche, stare tutte dalla stessa parte, alzare la bandiera palestinese e cartelli con i nomi dei villaggi e delle città da cui Israele li ha cacciati.

Quel giorno le divisioni tra palestinesi sono scomparse e la gente è andata insieme a rivendicare i propri inalienabili diritti.

La Grande Marcia del Ritorno ha aperto un capitolo nuovo nella lotta palestinese per la libertà. Ha dato al popolo palestinese una nuova opportunità per ribellarsi collettivamente contro l’occupazione israeliana.

Da allora abbiamo pagato un prezzo durissimo per la nostra resistenza pacifica.

Circa 266 palestinesi sono stati uccisi e più di 6.557 sono stati feriti da proiettili veri; 124 hanno avuto un arto amputato.

Ma abbiamo perseverato. Ogni venerdì migliaia di noi, donne e uomini, giovani e anziani, hanno continuato ad affluire verso la barriera di confine con Israele per chiedere il nostro diritto sancito dalle leggi di tornare alla nostra patria e hanno dimostrato che non accetteranno una morte lenta all’interno delle mura della prigione della Striscia di Gaza.

La Grande Marcia del Ritorno ha riacceso il nostro spirito di resistenza, ci ha dato potere, ci ha resi più forti e più uniti.

Quando, più di un anno fa, io e i miei amici per la prima volta abbiamo iniziato a discutere dell’idea di una marcia non mi sarei mai aspettato che avremmo ottenuto così tanto.

L’idea ci è venuta in un momento in cui la resistenza popolare in Palestina stava subendo una notevole crisi. Dalla fine della Seconda Intifada nel 2005 ci sono state proteste sporadiche, ma non movimenti di massa spontanei.

Invece molte fazioni politiche hanno occupato le piazze con manifestazioni pianificate, convocando i propri membri e sostenitori. Questo attivismo organizzato in base a tendenze politiche ha ridotto molti palestinesi a spettatori passivi e li ha tenuti lontani.

Ciò è stato molto deprimente per la causa nazionale, perché ha reso il movimento di resistenza una questione di fazioni. Dato che l’occupazione prende di mira il popolo palestinese come un tutto unico e non solo una specifica fazione politica, la lotta nazionale può avere successo solo se coinvolge ogni singolo palestinese.

Inoltre le guerre israeliane contro Gaza nel 2008, 2012 e 2014 hanno spostato i riflettori sulle fazioni armate e lontano dalla resistenza popolare. Questi scontri militari hanno anche consentito a Israele di raddoppiare i suoi tentativi di giustificare l’uso eccessivo della forza contro la popolazione palestinese con il pretesto di proteggersi dagli attacchi di gruppi armati.

Di conseguenza l’attenzione internazionale si è allontanata dalle violazioni dei diritti da parte di Israele e si è concentrata sulle sue pretese di sicurezza. Questo ha ulteriormente escluso il palestinese comune e le sue rivendicazioni per la fine dell’occupazione e per il diritto al ritorno.

Ma tutto questo è cambiato con la Grande Marcia del Ritorno.

Ciò che l’ha distinta dalle proteste e scontri del recente passato non è stata solo la sua natura popolare e pacifica, ma anche il modo in cui è stata concepita. L’idea della marcia è venuta ai giovani di Gaza – i miei amici ed io abbiamo preso l’iniziativa e diffuso l’idea sulle reti sociali. I palestinesi comuni l’hanno discussa e hanno contribuito a farla maturare e a trasformarla in qualcosa che potesse essere adottata da tutti i componenti della società palestinese.

La Grande Marcia del Ritorno, in quanto idea concepita dal popolo, è riuscita ad attraversare tutte le differenze tra le fazioni e a costruire un fronte unitario. Ha intercettato l’energia del popolo palestinese che non trova spazio nelle attività delle fazioni tradizionali.

Singole persone e famiglie senza alcuna affiliazione politica, che nel passato sentivano che non avrebbero potuto trovare un posto in molte altre proteste, hanno partecipato attivamente a questa marcia. Anche organizzazioni della società civile e attivisti si sono uniti, come anche alcune associazioni di clan.

La Grande Marcia del Ritorno ha attirato anche molti giovani disillusi e depoliticizzati a causa della condizione disastrosa della politica interna palestinese ed ha riacceso il loro spirito di resistenza. Ha contribuito al fatto che una nuova generazione di palestinesi abbia abbracciato la lotta palestinese per il diritto al ritorno.

La marcia – con la sua ispirazione popolare e la sua natura pacifica – è riuscita anche a minare i tentativi israeliani di presentare Gaza come una “questione di sicurezza”. Le continue proteste sono state fonte di disappunto, fastidio e imbarazzo per l’occupazione israeliana.

La violenta risposta di Israele alla Grande Marcia del Ritorno ha dimostrato che non vuole che i palestinesi adottino l’opzione pacifista. Timoroso che la nostra resistenza pacifica possa danneggiare i suoi tentativi propagandistici che ci dipingono come aggressori, Israele ha scelto di attaccare manifestanti che non rappresentavano un pericolo diretto per il suo popolo. E mentre i suoi soldati uccidevano, mutilavano e facevano tacere i dimostranti pacifici, lo Stato israeliano ha cercato di gettare la colpa dello spargimento di sangue sulle vittime.

Tuttavia questa volta gli occupanti non hanno avuto successo. Questa marcia ha contribuito al fatto che sempre più persone nel mondo vedano la nostra tragedia e ascoltino le nostre richieste di libertà e dignità. La Grande Marcia del Ritorno ha ridato credibilità al concetto di lotta pacifista. Se la resistenza armata si scontra contro l’occupazione con le pallottole, la lotta non violenta vi si oppone con il potere delle parole e con la giustizia della propria causa.

Israele può avere la forza militare, ma è eticamente debole. Ha espulso un popolo, occupato la sua terra e continua fino ad oggi a conculcarne la libertà e la dignità. Quindi in questa lotta i palestinesi sono naturalmente dalla parte moralmente giusta e le loro proteste pacifiche sferrano a Israele i colpi più duri di qualunque altra arma.

Un anno dopo l’inizio della nostra marcia provo un misto di tristezza e di determinazione. Per queste manifestazioni pacifiche abbiamo pagato con le vite e i corpi di molti palestinesi. Ad ogni singola pallottola israeliana che ha colpito uno dei manifestanti i nostri lutti e le nostre sofferenze come popolo si sono moltiplicati. Tuttavia non ci siamo arresi per 70 anni e non abbiamo intenzione di farlo ora.

La Grande Marcia del Ritorno è la risposta di una Nazione orgogliosa a decenni di occupazione, aggressione e furto. Prendendo questa posizione pacifista, stiamo annunciando al mondo che, nonostante i tentativi israeliani di spazzarci via, stiamo ancora resistendo forti e uniti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista e attivista per la pace palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 12- 25 marzo (due settimane)

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in cinque diversi contesti, sono stati uccisi sei palestinesi e due israeliani; pertanto il numero di palestinesi e israeliani uccisi nel corso di quest’anno sale rispettivamente a 16 e 3 [di seguito il dettaglio].

Il 17 marzo, al raccordo stradale che porta alla colonia di Ariel, vicino a Salfit, un palestinese ha ucciso un soldato e un colono israeliani; prima di fuggire, ha ferito un altro soldato israeliano nei pressi di un vicino incrocio. Dopo l’accaduto, le forze israeliane hanno avviato numerose operazioni di ricerca-arresto ed hanno dispiegato decine di posti di blocco volanti. Due giorni dopo, un’unità israeliana sotto copertura ha fatto irruzione in una casa nel villaggio di Abwein (Ramallah) in cui si nascondeva il presunto colpevole e lo hanno ucciso dopo uno scambio a fuoco. Durante le operazioni di ricerca-arresto, sono scoppiati scontri tra palestinesi e forze israeliane; otto palestinesi sono rimasti feriti nella stessa Abwein e altri 14 nella città di Salfit. Inoltre, in un precedente episodio accaduto il 12 marzo nella città di Salfit, un altro palestinese era stato ucciso, con arma da fuoco, dalle forze israeliane e 40 palestinesi erano rimasti feriti durante scontri scoppiati nel corso di un’operazione di ricerca-arresto. Nello stesso giorno, presso un checkpoint per l’accesso pedonale alla zona H2 di Hebron controllata da Israele, un palestinese di 41 anni è stato ucciso dalle forze israeliane di presidio: l’uomo avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano (nel 2018, nella stessa zona H2, in accoltellamenti o tentati accoltellamenti, tre palestinesi furono uccisi dalle forze israeliane). Il 20 marzo, altri due palestinesi sono stati colpiti con arma da fuoco e uccisi in una zona in cui erano in corso scontri tra palestinesi e forze israeliane; queste ultime stavano scortando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, nella città di Nablus; nella circostanza anche un’ambulanza palestinese ha subito danni che le hanno impedito di raggiungere i feriti. In un altro episodio, accaduto il 20 marzo a Betlemme, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendone un altro; i due transitavano nelle vicinanze di una torretta militare ad un posto di controllo israeliano; non è chiaro perché i soldati abbiano aperto il fuoco.

Nella Striscia di Gaza, il 22 marzo, in due zone ad est di Gaza e di Al Bureij, in manifestazioni e scontri verificatisi lungo la recinzione perimetrale, due palestinesi sono stati uccisi e altri 350 sono rimasti feriti. Secondo fonti sanitarie palestinesi, 204 di tali feriti sono stati ricoverati in ospedale; tra questi, 93 presentavano ferite da armi da fuoco. In ulteriori proteste e attività riferibili alla “Grande Marcia di Ritorno”, un palestinese è stato ucciso nella zona di Beit Hanoun e altri 69 sono rimasti feriti: questi dati fanno riferimento alle dimostrazioni tenute sulla spiaggia, vicino alla recinzione perimetrale nella parte settentrionale di Gaza, oltre che al tentativo, da parte di una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale e ad attività notturne presso la recinzione; nel corso di queste ultime sono stati lanciati ordigni esplosivi contro le forze israeliane. Le forze israeliane hanno lanciato un missile verso una postazione militare ed hanno sparato proiettili di carri armati contro un gruppo di persone che, a quanto riferito, stava lanciando palloni incendiari presso la recinzione: in queste due circostanze sono rimasti feriti altri quattordici palestinesi.

Il 14 marzo, per la prima volta dalle ostilità del 2014, due razzi lanciati dalla Striscia di Gaza hanno colpito Tel Aviv. In risposta, le forze aeree israeliane hanno attuato diversi attacchi aerei, prendendo di mira siti militari e aree aperte di Gaza; sono rimaste ferite quattro persone, tra cui un minore e due donne, una delle quali incinta; i bombardamenti hanno creato gravi danni. Secondo fonti militari israeliane, a Gaza sarebbero stati colpiti100 obiettivi.

Il 25 marzo, nell’area centrale di Israele, sette israeliani sono rimasti feriti ed una casa è stata danneggiata gravemente da un razzo lanciato da Gaza. In seguito a questo episodio, le autorità israeliane hanno chiuso i valichi di Kerem Shalom ed Erez fino a nuovo avviso, consentendo solo transiti di casi urgenti; la zona di pesca consentita è stata ridotta a zero miglia nautiche. Inoltre, l’aviazione israeliana ha colpito diverse località della Striscia di Gaza, tra cui edifici residenziali, uffici, siti militari e aree aperte; secondo i primi rapporti del Gruppo Ripari di Emergenza, due persone sono state ferite e sedici famiglie sono state sfollate, per un totale di 83 persone. Gruppi armati palestinesi hanno sparato decine di proiettili verso il sud di Israele, causando danni.

In situazioni non collegate a manifestazioni, ma contestuali all’applicazione delle restrizioni di accesso, in almeno nove occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa di Gaza; ferito un palestinese. In un’occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 75 palestinesi. Tra questi, 26 in due operazioni di ricerca-arresto nel Campo Profughi di Al Jalazoun a Ramallah e nella città di Salfit, rispettivamente il 15 e il 17 marzo. Complessivamente, [nel periodo di riferimento di questo Rapporto,] le forze israeliane hanno condotto 227 operazioni di ricerca-arresto, durante le quali sono state arrestate 200 persone. Il 20 marzo, altri 22 palestinesi sono stati feriti nella città di Al Bireh (Ramallah): protestavano contro l’uccisione di un palestinese, avvenuta il giorno prima ad Abwein [vedi sopra]. Inoltre, durante gli scontri verificatisi nell’area H2 di Hebron [vedi sopra], 20 studenti e cinque insegnanti hanno avuto bisogno di trattamento sanitario a seguito del lancio di lacrimogeni dentro la loro scuola da parte delle forze israeliane. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, sette palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti dalle forze israeliane dopo che una stazione di polizia situata nel Complesso della Moschea di Al Aqsa aveva subito danni a causa di un incendio che, a quanto riferito, sarebbe stato appiccato deliberatamente da palestinesi. Il Complesso è stato chiuso per un breve periodo. Complessivamente, quasi due terzi delle lesioni provocate negli scontri verificatisi nel periodo di riferimento sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 25% da proiettili di gomma, l’8% da aggressioni fisiche e il 3% da armi da fuoco.

Vi è stato un aumento della violenza dei coloni; sarebbe da collegare all’uccisione dei due israeliani avvenuta il 17 marzo [vedi sopra]; attribuiti a coloni 13 episodi che hanno portato al ferimento di cinque palestinesi e danni a proprietà palestinesi. In due di tali episodi, avvenuti a Nablus e Jenin, coloni hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi in transito sulla Strada 60 e vicino alla colonia di Homesh, ferendo quattro palestinesi, inclusa una donna. Un’altra donna è stata aggredita fisicamente da coloni nella zona di Tel Rumeida a Hebron. In altri otto episodi, coloni hanno fatto irruzione nei villaggi di Burqa, Burin e Asira al Qibliya (Nablus), Kifl Haris (Salfit), Jinsafut (Qalqiliya), Saffarin (Tulkarm) e Battir (Betlemme), vandalizzando almeno 30 auto di palestinesi e causando danni a tre case. Altri 28 veicoli [palestinesi] sono stati vandalizzati da coloni nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est.

Sempre in Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 25 strutture di proprietà palestinese, sei delle quali erano state donate; le demolizioni hanno costretto allo sfollamento 35 persone e più di 500 altre sono state coinvolte. Nove delle strutture sono state demolite in Area C, in cinque Comunità dei governatorati di Betlemme e Hebron; le rimanenti si trovavano a Gerusalemme Est. In un caso, nel quartiere di Shu’fat, le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare in costruzione; si trattava di un ampliamento di una scuola preesistente che, nel prossimo anno scolastico, avrebbe dovuto ospitare 450 studenti.

Secondo quanto riportato da media israeliani, in due episodi, palestinesi hanno causato danni a tre veicoli appartenenti a coloni israeliani [di seguito il dettaglio]. Il 20 marzo, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano nei pressi del villaggio di Beit Sira (Ramallah), causando danni a due auto; nello stesso giorno hanno lanciato pietre contro la metropolitana leggera a Shu’fat (Gerusalemme).

Secondo gruppi per i Diritti Umani, tra il 14 e il 18 marzo, nel corso di proteste a Gaza, centinaia di persone sono state arrestate e altre sono state aggredite fisicamente e ferite dalle forze di Hamas. Le manifestazioni erano state organizzate contro le condizioni disastrose e l’alto costo della vita ed hanno visto l’incendio di pneumatici, la costruzione di barricate, il lancio di pietre e scontri con le forze di Hamas.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni per sette giorni e in una sola direzione per altri due giorni, per consentire l’uscita dei pellegrini. Un totale di 2.635 persone sono entrate a Gaza, tra cui 641 pellegrini, e ne sono uscite altre 3.714, tra cui 1.539 pellegrini.

Ultimi sviluppi

Nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele si è registrata una significativa intensificazione delle ostilità: questo dopo che, il 25 marzo, da Gaza era stato lanciato un razzo che ha danneggiato gravemente una abitazione nell’area centrale di Israele ed ha ferito sette israeliani [vedi soprastante Rapporto]. Nonostante le segnalazioni di un cessate il fuoco negoziato dall’Egitto, le ostilità sono proseguite durante la notte del 26 marzo; dal 27 marzo pare subentrata una relativa calma.

Nelle prime ore del mattino del 27 marzo, durante scontri nel Campo Profughi di Duheisheh (Betlemme), un 18enne palestinese, in servizio sanitario volontario, è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




‘Il nostro popolo non cederà’: Gaza celebra l’anniversario delle proteste

Rana Shubair e Maram Humaid

30 marzo 2019, Al Jazeera

Quattro persone uccise, centinaia ferite dalle forze israeliane che utilizzano proiettili veri e gas lacrimogeni contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno

Decine di migliaia di palestinesi si sono radunati alla barriera tra Israele e Gaza per celebrare il primo anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, affrontando i carri armati e le truppe israeliane ammassati lungo il perimetro fortificato.

Secondo fonti del ministero della Salute di Gaza, sabato le forze israeliane hanno impiegato proiettili veri, pallottole rivestite di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti, uccidendo tre diciassettenni e ferendo almeno 207 persone.

Tamer Aby el-Khair è stato colpito al petto ad est di Khan Younis nel sud di Gaza ed è morto in ospedale, ha comunicato il ministero. Il secondo ragazzo, Adham Amara, è deceduto dopo essere stato colpito al volto ad est di Gaza City.

Il terzo, Belal al-Najjar, secondo funzionari di Gaza è stato ucciso da un colpo di fucile israeliano. Un quarto palestinese, identificato come il ventenne Mohamed Jihad Saad, è stato ucciso durante una protesta nella notte precedente alla manifestazione principale.

I palestinesi chiedono il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie furono espulse con la forza durante la creazione di Israele nel 1948. Chiedono anche la fine dell’assedio israeliano ed egiziano a Gaza che dura da 12 anni.

Marceremo verso il confine anche se moriremo”, ha detto Yusef Ziyada, di 21 anni, con il volto dipinto coi colori della bandiera palestinese. “Non ce ne andremo. Ritorneremo nella nostra terra.” Nonostante la forte pioggia, circa 40.000 persone si sono radunate nella zona di confine, ha detto l’esercito israeliano.

[Ashraf Amra/Anadolu]

La maggior parte dei manifestanti si è tenuta lontana dalla barriera, ma alcuni hanno lanciato pietre e ordigni esplosivi verso la struttura e hanno incendiato copertoni, ha dichiarato l’esercito, aggiungendo di aver reagito con “mezzi antisommossa e spari, conformemente alle procedure operative standard.”

Descrivendo la marcia come “del tutto pacifica”, Mohammed Ridwan, un manifestante di 34 anni che lavora in un gruppo di esperti a Gaza, ha detto a Al Jazeera che l’enorme affluenza di sabato è stata “una chiara dimostrazione che il nostro popolo non tornerà indietro fino a che non otterrà i propri legittimi diritti.”

Bahaa Abu Shammal, un attivista ventiseienne, ha detto che si trovava nel luogo della protesta “a grande distanza dalla barriera di separazione”, eppure è stato quasi “soffocato dai gas lacrimogeni israeliani”.

Ha detto ad Al Jazeera: “Dobbiamo rompere il brutale assedio che stiamo subendo. Vogliamo tornare nelle nostre terre occupate.”

Minori uccisi’

L’anno scorso la barriera è stata teatro di proteste di massa e di una grande carneficina in cui sono stati uccisi più di 260 palestinesi, soprattutto dal fuoco di cecchini. Secondo il ministero della Salute di Gaza circa altri 7000 sono stati colpiti e feriti.

L’associazione per i diritti Save the Children ha dichiarato che tra gli uccisi vi sono 50 minori. Altri 21 adolescenti hanno avuto le gambe amputate e molti altri sono stati resi disabili permanenti, ha detto il direttore regionale dell’associazione, Jeremy Stoner.

Giovedì, esprimendo profonda preoccupazione per la morte dei ragazzini palestinesi, Stoner ha detto: “Temiamo che oggi altri minorenni potrebbero essere feriti o uccisi.”

La tregua tra Hamas e Israele

L’anniversario della Grande Marcia del Ritorno cade a pochi giorni di distanza da un grave scoppio di violenze tra Israele e Hamas, che governa Gaza. L’Egitto ha cercato di mediare tra le due parti nel tentativo di frenare le violenze ed evitare il tipo di risposta letale da parte dell’esercito israeliano che ha accompagnato le precedenti proteste.

Harry Fawcett di Al Jazeera, citando il giornale al-Risalah legato a Hamas, ha detto che l’organizzazione ha raggiunto un accordo con Israele per ridurre le tensioni nella Striscia di Gaza.

Secondo il giornale al-Risalah, le concessioni israeliane comprendono l’aumento del finanziamento del Qatar da 15 a 40 milioni di dollari al mese per il pagamento dei salari; l’estensione della zona di pesca da 9 a 12 miglia nautiche; l’incremento della fornitura di elettricità da Israele a Gaza; l’approvazione di un importante progetto di desalinizzazione”, ha detto Fawcett, che scrive da una zona a est di Gaza City.

In cambio, Israele ha chiesto lo stop al lancio di razzi, come quello che lunedì ha distrutto la casa di una famiglia a nord di Tel Aviv, ferendo sette persone e scatenando una nuova escalation.”

Abdullatif al-Kanoo, un portavoce di Hamas, ha confermato questo accordo, dicendo che i mediatori egiziani “sono riusciti ad ottenere l’approvazione” di Israele all’alleggerimento delle restrizioni sul lavoro, la pesca, l’elettricità e gli aiuti dal Qatar.

Nei prossimi giorni verrà stabilito un calendario per l’attuazione di quanto è stato concordato”, ha detto ad Al-Jazeera.

Nel frattempo, alla vigilia delle proteste per l’anniversario, gli organizzatori hanno diffuso istruzioni ai manifestanti invitandoli a tenersi a distanza di sicurezza dai fucili israeliani, a seguire le indicazioni degli organizzatori sul campo, ad astenersi da azioni aggressive e a non bruciare copertoni, una mossa considerata un segnale che l’accordo mediato dall’Egitto potrebbe essere rispettato.

I funzionari della sicurezza di Hamas sul luogo della protesta sono stati visti indossare per la prima volta uniformi militari, mentre raccoglievano le gomme e le portavano via.

Sembra che siano qui per rafforzare l’accordo, per assicurare che nessuno dia fuoco a queste gomme”, ha detto Fawcett.

Israele, che ha inviato altre truppe e carri armati al confine, vuole anche la fine dei lanci degli aquiloni incendiari e la garanzia di calma vicino alla barriera.

Non vi è stato alcun commento da parte israeliana al presunto accordo.

Tra quanti anni le nostre vite saranno migliori?

Le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono iniziate il 30 marzo dell’anno scorso dopo che le associazioni della società civile a Gaza hanno chiamato ad un’azione contro il durissimo assedio di 12 anni contro l’enclave.

Le agenzie umanitarie accusano l’assedio di aver impoverito Gaza, dove i tassi di povertà e di disoccupazione sono alti. Secondo le Nazioni Unite più del 90% dell’acqua non è potabile, mentre i due milioni di abitanti di Gaza ricevono meno di 12 ore di elettricità al giorno.

Il 30 marzo segna anche il Giorno della Terra – la commemorazione annuale della morte nel 1976 di sei palestinesi che protestavano contro la confisca della loro terra per costruire comunità ebraiche.

Entro un anno finirò la scuola. Mio padre è disoccupato, per cui non potrò andare all’università. Chi ne è responsabile? Israele”, ha detto il manifestante Mohammed Ali, di 16 anni. “Non so quanti anni ci vorranno prima che le nostre vite migliorino, ma continueremo (le proteste) fino a quando ci saranno l’occupazione e l’assedio”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters. L’uso di forza letale da parte di Israele contro i manifestanti è stato censurato dalle Nazioni Unite e dalle associazioni per i diritti.

Un’indagine dell’ONU ha riscontrato che, mentre alcuni dimostranti hanno usato la violenza, la grande maggioranza era disarmata e pacifica. Essa afferma che le forze israeliane potrebbero essere incolpate di crimini di guerra per l’uso eccessivo della forza.

Tutti gli israeliani devono sapere che, se sarà necessaria una campagna [militare] complessiva, noi la condurremo con forza e in sicurezza e dopo aver esaurito tutte le altre opzioni”, ha detto Netanyahu. Anche Hamas è sotto pressione politica interna.

All’inizio del mese, invece di andare al confine, i manifestanti sono scesi in piazza contro gli aumenti dei prezzi e delle tasse. Le forze di sicurezza di Hamas hanno represso le manifestazioni con pestaggi e arresti.

Al centro di queste proteste c’era lo stesso senso di frustrazione che da un anno ha spinto migliaia di persone sul confine, settimana dopo settimana.

Rana Shubair e Maram Humaid hanno contribuito al reportage da Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza oggi. Ancora sangue sulla Grande Marcia

Patrizia Cecconi

30 marzo 2019, L’Antidiplomatico

Oggi in Palestina è la Giornata della Terra, cioè la ricorrenza di una delle tante stragi impunite commesse da Israele contro un gruppo di palestinesi che tentavano di opporsi a un ulteriore furto delle loro terre in “alta Galilea”. Una giornata celebrativa che a Gaza coincide con il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno. Una giornata che potrebbe essere una carneficina come molti temono e i cui esiti non saranno importanti solo per Gaza ma, ci dicono più voci, per il futuro del Medio Oriente perché Gaza, pur sotto assedio e forse proprio perché sott’assedio, è diventata una “piazza” speciale, su cui arrivano e da cui partono messaggi politicamente complessi . Questo si diceva stamattina quando il sole si era appena levato e si discuteva di ciò che sarebbe stato.

Verso le 10 di questa stamattina, quando la marcia non era ancora cominciata, già si contava il primo martire. Mohammad J. Saad, 20 anni, ucciso da una granata alla testa nell’accampamento di Malaka nella zona centrale della Striscia. Lo stesso accampamento dove qualche mese fa, in uno dei venerdì della marcia, Taaghreed in un bellissimo abito bianco e Ahmad in elegante abito scuro decisero di sposarsi dando al loro gesto il significato altamente simbolico di partecipazione al sogno comune di libertà e di riconoscimento del diritto al ritorno nella loro terra. Era diversi mesi fa, e da allora sulla sabbia di Malaka, come su quella degli altri quattro accampamenti delle tende del ritorno, non sono più caduti confetti ma sangue.

Sempre a Malaka, nel pomeriggio, c’è stato il secondo omicidio. Un lacrimogeno – sparatogli in bocca come già successo per altri martire nei mesi scorsi – ha stroncato la vita di Adhan Nedal Saqr Amara, 17 anni, altri sogni spezzati prima ancora di raggiungere la maggiore età. Abbiamo ragione di supporre che non si tratti di errori ma del sadismo di chi sa di essere impunito perché protetto dal potere di quelle stesse lobby che garantiscono furti e o regali di terre altrui allo Stato ebraico.

La Marcia sta concludendosi e si tirano le somme. Due martiri e 112 feriti ospedalizzati secondo i dati ufficiali del Ministero della Salute, di questi circa la metà seriamente intossicati dai nuovi lacrimogeni usati da Israele che, come si sa, usa Gaza anche come laboratorio di sperimentazione delle sue armi. Questi nuovi lacrimogeni, uno dei quali ha ucciso il giovane Adhan, non sembra abbiano provocato convulsioni come altri usati precedentemente, ma violenta irritazione agli occhi e serie difficoltà di respirazione ottenendo più facilmente la dispersione dei manifestanti.

Tra le azioni di cui i manifestanti vanno fieri c’è quella di un gruppo di giovani che a Khan Younis ha sfidato la morte per andare a issare la bandiera palestinese sulla recinzione che definisce l’assedio. Piccola cosa dirà qualcuno, certo che è piccola cosa, ma grande simbolo, significa che pur in questa situazione, dove si sa che si può cadere come sagome di un tirassegno, c’è qualcosa che resiste alla legittima paura, qualcosa che i palestinesi chiamano al karameh, cioè sentimento di dignità. Quella che non permette ai gruppi di resistenti, con e senza orientamenti partitici, di accettare le concessioni fatte da Israele grazie alla mediazione egiziana. “Concessioni” e non riconoscimento di diritti dovuti, ciò per cui Gaza manifesta dal 30 marzo dello scorso anno.

I dirigenti di Hamas hanno partecipato alle manifestazioni di oggi in compagnia della delegazione egiziana. Il messaggio sembrerebbe chiaro ma le interpretazioni di natura politica in questo spicchio di mondo non sono mai lineari. Ci dicono alcuni gazawi che questo voleva significare che Hamas intende accettare l’invito a spegnere gradualmente la marcia con le rivendicazioni che l’hanno fatta nascere. Altri dicono che è una partita che Hamas sta giocando per non essere messo all’angolo e per garantire il miglioramento delle condizioni di vita veramente penose di una parte della popolazione gazawa ed evitare altre manifestazioni di malcontento popolare. Comunque, come ci hanno già detto ieri attivisti, medici, giornalisti e cittadini “qualunque” tutte le concessioni ottenute dalla delegazione egiziana sono interne alla logica dell’assediante. Non dovrebbero essere concessioni ma diritti che già spettano ai gazawi e che Israele non riconosce. Non è questo che vogliono i gazawi e lo hanno ben spiegato con la loro presenza al border i 30 – 40 mila che hanno sfidato i mezzi corazzati schierati in massa lungo la recinzione e i tiratori scelti dislocati lungo tutta la linea dell’assedio.

Rispetto alle previsioni di ieri le cose sono andate meglio del previsto. 112 feriti non sono cosa da niente, ma si temeva di peggio, si temeva la pesante carneficina che avrebbe potuto far scattare la reazione che da più parti si ipotizzava. Gli ospedali erano allertati e i timori espressi dal dr. Said dell’Al Awda Hospital e dal dr. Raed dell’UHCC che temevano di trovarsi nuovamente a soccorrere centinaia di feriti senza averne i mezzi , per fortuna sono stati fugati. I 112 feriti sono stati dislocati in 5 ospedali da nord a sud della Striscia e il Ministero della Salute ha comunicato che tra loro ci sono ben 26 bambini, un paio di giornalisti e due soccorritori e che anche un’ambulanza è stata danneggiata. Tutte cosucce che si configurano come pesanti violazioni del Diritto universale ma che in pochi si illudono che porteranno Israele sul banco degli imputati.

Ora che la giornata si è conclusa si aspettano le conseguenze politiche di quest’ultima manifestazione. Una cosa è chiara e ci è stata ripetuta da tante persone che oggi, pur non seguendo alcuna fazione politica, sono andate al border convinte di dover rischiare: i palestinesi di Gaza, per quanto coraggiosi e un po’ folli, non vanno a farsi ammazzare per nessun partito ma per quell’idea che ha dato il via alla marcia a partire dalle riflessioni di Abu Hartema, un po’ poeta, un po’ utopista, che si sono allargate a macchia d’olio e che, nonostante i tentativi di controllo e direzione di Hamas, restano la spina dorsale della Grande marcia la quale, al momento, non si sa come si evolverà e se si evolverà. Le valutazioni che emergono in proposito sono diverse. ma qui tutto e è estremamente variabile e ora la parola passa alla sfera istituzionale. I gazawi vogliono la libertà e il diritto al ritorno. Accetteranno le concessioni ottenute grazie all’Egitto nel caso in cui le istituzioni locali, ovvero Hamas, le accettasse?

I gazawi non sono Hamas, e i prossimi giorni si capirà se la Marcia si sarà chiusa come si chiuse la prima intifada nel 1993 o se i diritti irrinunciabili per cui circa 270 martiri hanno perso la vita sono ancora irrinunciabili e nessun accordo li metterà all’angolo.

Patrizia Cecconi

Betlemme 30 marzo 2019




Dall’ispirazione alla disperazione: un anno della Grande Marcia del Ritorno

Yara Hawari

30 marzo 2019 Middle East Eye

Come il sogno dei palestinesi di tornare a casa, Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza

Lo scorso mese un quattordicenne palestinese di Gaza, Hasan Shalabi, è stato mortalmente colpito al petto da un cecchino israeliano. Stava cercando lavoro e cibo per la sua famiglia quando è diventato uno delle decine di ragazzini uccisi dall’esercito israeliano durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Le manifestazioni presso la barriera israeliana che rinchiude il territorio sono iniziate il 30 marzo 2018 per commemorare il Giorno della Terra, che ricorda un episodio del 1976, quando la polizia israeliana sparò e uccise sei cittadini palestinesi di Israele che stavano protestando contro l’esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese.

Da allora la data è stata celebrata per sottolineare il rapporto tra la resistenza palestinese e la sua terra. Lo scorso anno a Gaza la data è stata anche utilizzata per evidenziare il diritto palestinese al ritorno.

Occupazione e assedio

La maggior parte dei due milioni di palestinesi di Gaza è composta da discendenti dei rifugiati espulsi dalle loro case nel 1948. Molti vivono a pochi chilometri dai loro villaggi d’origine. La Grande Marcia del Ritorno è iniziata dopo un appello della società civile di partecipare a una marcia di massa verso la barriera israeliana. Decine di migliaia di persone hanno risposto all’appello, marciando in nome del ritorno, ma anche in risposta a decenni di occupazione e di continuo assedio di Gaza.

Le immagini e i video di quel primo giorno sono state entusiasmanti, ricordavano altre marce del ritorno, quando i palestinesi hanno cercato di sfidare i confini coloniali. Una delle più importanti è stata nel maggio 2011, quando centinaia di palestinesi rifugiati in Siria marciarono verso la barriera che divide la Siria dalla città di Majdal Shams, sulle Alture del Golan, occupata da Israele.

Molti manifestanti oltrepassarono la barriera, ignorando gli avvertimenti sulla presenza di mine e riuscirono a rompere temporaneamente la loro forzata separazione. Un uomo, Hassan Hijazi di Giaffa, fece centinaia di chilometri fino alla città costiera prima di consegnarsi alle autorità israeliane. “Era il mio sogno arrivare a Giaffa perché è la mia città,” disse in seguito. “Ma pensavo che se fossi riuscito a farlo sarebbe stato con una marcia di un milione di persone.”

Un sogno collettivo

Questo sogno di rompere i confini coloniali di Israele ha dominato l’immaginazione di molti palestinesi. È un sogno di ritorno collettivo. Come ha chiesto l’organizzatore della Grande Marcia del Ritorno Ahmed Abu Artema: “E se 200.000 manifestanti marciassero pacificamente e attraversassero la barriera a est di Gaza ed entrassero per qualche chilometro nelle terre che sono nostre, portando le bandiere della Palestina e le chiavi del ritorno, accompagnati dai media internazionali, e poi vi piazzassero delle tende e costruissero una città lì?”

Sfortunatamente nel corso dell’anno passato alla domanda è stata data una risposta brutale, mentre le proteste nei pressi della barriera di Gaza sono continuate in modo costante. Più di 200 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia feriti dalle forze israeliane.

Un rapporto dell’ONU presentato a Ginevra questo mese ha accertato che “i soldati israeliani hanno commesso violazioni delle leggi per i diritti umani e umanitarie internazionali. Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o crimini contro l’umanità.” Il rapporto dettaglia specifiche morti, ma anche esempi di ferite che hanno cambiato la vita [delle vittime], comprese molte amputazioni.

L’entità di quello che è stato inflitto a Gaza nello scorso anno è grande, soprattutto nel contesto del durissimo assedio israeliano – eppure il rapporto dell’ONU non ha fatto scalpore a livello internazionale. Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza; la precarietà della vita lì è diventata un fatto accettato in tutto il mondo.

Inquadrare la violenza

In “Contesti di guerra” l’autrice, Judith Butler, lo spiega esaminando la “vita che può essere afflitta”, e sostiene che in certi contesti alcune vite non sono considerate perdute se fin dall’inizio non sono intese come vite. Le continue distruzioni e violenze inflitte a Gaza dal regime israeliano l’hanno a tal punto collocata in una simile cornice che la perdita della vita è stata normalizzata.

A un anno di distanza le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono diventate una manifestazione di estrema disperazione. Gli effetti dell’assedio e dell’occupazione hanno ridotto più di metà dei palestinesi di Gaza a vivere in povertà estrema, molti in gravi condizioni di salute mentale e fisica. Com’è noto, un rapporto ONU ha stabilito che Gaza sarà invivibile entro il 2020, citando la distruzione di infrastrutture e la catastrofe ambientale in corso. Eppure, in base alla maggior parte dei parametri, Gaza è invivibile da molto tempo – una cosa che motiva molti dei manifestanti, nonostante le alte percentuali di ferite o di morte. Questa vita invivibile è ciò che ha portato Hasan Shalabi a protestare lo scorso mese.

Finché continuerà la disperazione a Gaza, lo farà anche il sogno di tornare a casa. Tuttavia l’anno che è passato ha dimostrato che i costi saranno alti – soprattutto se Israele continuerà a violare senza conseguenze i diritti dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Sparare per menomare”: come Israele ha creato una generazione con le stampelle a Gaza

Dania Akkad

29 marzo 2019, Middle East Eye

Medici dicono a MEE che le ferite invalidanti, soprattutto agli arti inferiori, dei manifestanti palestinesi sono state inflitte deliberatamente.

Medici in prima linea hanno detto a Middle East Eye che cecchini israeliani hanno intenzionalmente mutilato palestinesi che protestavano a Gaza lo scorso anno, creando una generazione di giovani disabili e sconvolgendo il già disastrato sistema sanitario del territorio.

Secondo l’inchiesta delle Nazioni Unite resa pubblica questo mese, oltre l’80% dei 6.106 manifestanti della Grande Marcia del Ritorno feriti nei primi nove mesi è stato colpito agli arti inferiori.

Il rapporto ne conclude che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato a civili e potrebbero aver commesso crimini di guerra con la loro durissima risposta alle proteste tenutesi periodicamente a Gaza dal 30 marzo 2018.

Operatori sanitari affermano che le caratteristiche ricorrenti delle ferite mostrano che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato per menomare i manifestanti, molti dei quali sono giovani ventenni e ora hanno necessità di cure mediche a lungo termine.

“Il soldato sa esattamente dove sta sparando il proiettile. Non è casuale. È del tutto intenzionale, è decisamente pianificato,” dice Ghassan Abu Sitta, professore di chirurgia dell’Università Americana di Beirut (UAB), che lo scorso maggio per tre settimane ha curato manifestanti feriti all’ospedale Al-Awad di Gaza.

“Quando hai un numero così alto di ferite praticamente identiche, quando molti pazienti erano a 150 metri di distanza, non a diretto contatto con i soldati israeliani, ti rendi conto che questa è una politica intenzionale piuttosto che un danno involontario,” dice a MEE Abu Sitta.

Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di Medici senza Frontiere (MSF) concorda: “È ovvio. Quando hai quasi il 90% di persone ferite agli arti inferiori, significa che c’è la decisione politica di prendere di mira gli arti inferiori,” afferma.

MEE ha chiesto all’esercito israeliano se i soldati hanno intenzionalmente ferito i manifestanti. Sottolineando le condizioni nelle quali i soldati operano – che includono il fatto di essere sotto tiro, i tentativi dei manifestanti di entrare in Israele, i copertoni bruciati, il lancio di pietre e di bottiglie molotov – un portavoce ha detto a MEE via posta elettronica: “”L’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] usa proiettili veri solo come ultima risorsa e in base a regole che rispettano le leggi internazionali.” Il portavoce ha anche indicato a MEE una pagina di “Domande Frequenti” [nel sito dell’IDF, ndt.] sulle proteste.

Tra i più di 6.000 palestinesi feriti ci sono un calciatore la cui carriera è finita, uno studente di giornalismo a cui è stata amputata la gamba destra e una studentessa di 16 anni che quando è stata colpita stava sventolando una bandiera palestinese.

Secondo gli ultimi dati del ministero della Sanità di Gaza almeno 136 di loro hanno subito l’amputazione di arti, 122 dei quali solo agli arti inferiori.

Ma i dati non danno il quadro completo delle difficoltà che i manifestanti feriti, che soffrono di lesioni dolorose, e i loro familiari devono affrontare, in quanto la grande maggioranza vive in povertà, dice Bassem Naim, che è stato ministro della Sanità di Gaza dal 2006 al 2012.

“Sinceramente è una catastrofe. Molti dei feriti rimarranno per sempre disabili,” dice Naim. “Portarli da casa all’ospedale ogni giorno per la riabilitazione o le cure? È un onere veramente pesante.”

“Vivo al nono piano e praticamente ogni giorno non c’è elettricità da dodici a sedici ore. Si può immaginare cosa vuol dire per un giovane senza una gamba?”

Non è cambiata solo la vita di migliaia di manifestanti e delle loro famiglie, ma anche il sistema sanitario di Gaza in difficoltà è sottoposto a forti tensioni in seguito alle cure intensive necessarie per il trattamento delle ferite alle gambe.

Il personale sanitario teme che, con manifestazioni di massa previste questo fine settimana per commemorare un anno dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, il collasso del sistema possa essere imminente.

Caratteristiche ricorrenti delle ferite

Il 30 marzo 2018 decine di migliaia di palestinesi hanno protestato lungo il confine di 65 km con Israele, rivendicando il diritto di tornare alle case da cui le loro famiglie scapparono nel 1948 e la fine dell’assedio di 11 anni contro il territorio costiero palestinese.

Praticamente appena le proteste sono iniziate, i soldati israeliani hanno cominciato a sparare ai manifestanti a corta distanza con fucili di precisione. Alla fine di quel primo giorno di proteste sono rimasti uccisi 16 palestinesi e almeno altri 400 sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Da allora quella che era prevista come una campagna di sei settimane si è prolungata per un anno, durante il quale almeno 197 palestinesi sono stati uccisi e 29.000 feriti. Secondo l’ONU nello stesso periodo due israeliani sono rimasti uccisi e 56 feriti.

Uno ogni quattro palestinesi feriti è stato colpito con proiettili veri, e la grande maggioranza alle gambe.

Uno di loro è stato il trentunenne Mohammed al-Akhras.

Akhras, che lavorava come fabbro, dice di aver deciso di unirsi alle proteste in seguito al fatto di essere stato torturato durante sei anni di detenzione in prigioni israeliane.

Quando le forze israeliane lo hanno arrestato e accusato di essere coinvolto in operazioni militari con fazioni armate palestinesi aveva 19 anni e stava cacciando uccelli sul confine orientale di Rafah, nel sud di Gaza.

È stato rilasciato nel 2013, ma il vivo ricordo e la frustrazione derivanti dal suo arresto e dalla sua detenzione lo hanno spinto a manifestare, dice.

Akhras racconta che il 18 maggio stava protestando come altri attorno a lui e non stava facendo niente di speciale quando due proiettili esplosivi – che scoppiano all’impatto squarciando i tessuti e le ossa – hanno colpito la sua gamba sinistra.

Aveva bisogno di un’operazione urgente, ma ci sono voluti due mesi prima che potesse essere operato – in Egitto.

Le autorità israeliane non gli hanno consentito di viaggiare attraverso il valico di Erez per essere operato in Giordania a causa del fatto che in precedenza era stato un detenuto.

“Dopo vari tentativi sono riuscito a andare in Egitto, e dopo che la tumefazione della mia gamba ha raggiunto il punto limite,” dice. A quel punto i dottori sono stati obbligati ad amputarla.

Secondo il rapporto dell’ONU e come sottolineato dal portavoce dell’esercito israeliano, le regole d’ingaggio delle forze di sicurezza israeliane consentono ai soldati di sparare ai manifestanti “come ultima risorsa nel caso di imminente pericolo di vita o di ferite di soldati o civili israeliani.”

Ma medici internazionali e palestinesi che hanno parlato con MEE affermano di aver visto colpire manifestanti anche quando questi non minacciavano i soldati.

L’ex ministro della Sanità di Gaza Naim dice di essere stato presente alla protesta l’8 febbraio con suo figlio di 14 anni e un gruppo di amici. Lì vicino un amico del ragazzo stava masticando semi di girasole e guardando la manifestazione a circa 100 o 150 metri dalla barriera con Israele.

“Improvvisamente hanno visto un ragazzino che cadeva, e quando sono corsi da lui lo hanno trovato in una pozza di sangue ed era stato colpito al collo,” dice.

“Ti posso mandare ore di video di attività culturali (durante le proteste) e al contempo vedrai qualcuno, soprattutto giovani, che cercano di lanciare pietre o di attraversare la barriera. Bene, ma posso dire che nel 99,9% dei casi non c’era alcuna minaccia per i soldati.”

Pur non essendo più direttamente coinvolto in campo medico, Naim sostiene di credere che i soldati israeliani abbiano intenzionalmente mutilato manifestanti – sia in base a quello che ha visto durante le manifestazioni di quest’anno che alla sua esperienza come medico durante la Seconda Intifada.

Durante quella rivolta all’inizio degli anni 2000, quando lavorava all’ospedale Naser di Khan Younis, Naim dice che c’erano evidenti caratteristiche costanti delle ferite inflitte dai cecchini israeliani.

“Un giorno c’erano solo gambe, un altro solo glutei, un terzo giorno solo toraci,” dice.

“Se vogliono spezzare la forza di volontà di un popolo, allora sparano con l’obiettivo di uccidere. Ma a volte, se non vogliono che le cose sfuggano al controllo, sparano, ma cercano di evitare di uccidere persone colpendo le gambe, le mani.”

Naim crede che i cecchini abbiano utilizzato, circa due decenni dopo, la stessa precisione ora sulla frontiera di Gaza.

“Ne posso essere certo perché alcuni venerdì ci sono uno, due o tre martiri, e a volte ce ne sono 50 o 25, perché vogliono esercitare più pressione,” dice.

Sistema sanitario al collasso

Oltre alle crescenti questioni sconvolgenti riguardo alle tattiche dell’esercito israeliano, la Grande Marcia del Ritorno ha messo sotto rinnovata pressione il sistema sanitario in difficoltà, in quanto migliaia di manifestanti feriti vi sono regolarmente portati per cure urgenti.

Il dottor Medhat Abbas, direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, descrive il 14 maggio dello scorso anno come uno dei giorni peggiori che l’ospedale abbia mai vissuto.

Ore dopo che il presidente USA Donald Trump aveva aperto la nuova ambasciata USA a Gerusalemme e sono scoppiate manifestazioni di rabbia in seguito al suo spostamento, sono arrivati all’Al-Shifa circa 500 palestinesi feriti, quasi quanti ne può ospitare l’ospedale, con 760 letti.

I pazienti giacevano a terra e nei corridoi mentre i chirurghi, troppo pochi e con mezzi insufficienti, hanno lavorato 24 ore al giorno in tutte le 14 sale operatorie dell’ospedale.

“È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” dice Abbas a MEE, rispondendo alle domande con messaggi registrati di WhatsApp nelle ore più strane, troppo impegnato per un’intervista telefonica.

Nel campo di rifugiati d Jabaliya Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut, lavorava all’ospedale Al-Awda proprio perché era uno dei principali luoghi della manifestazione.

“Sapevamo che quel numero [di pazienti] che vedevamo ogni venerdì sarebbe aumentato il giorno dello spostamento dell’ambasciata,” dice.

Non era solo lo Shifa ad essere sovraffollato: tra le 16 e le 20 di quel giorno 3.400 manifestanti vennero feriti, 1.000 in più del numero totale dei letti negli ospedali di Gaza, dice Abu Sitta.

Alla fine della giornata 68 persone erano state uccise o avevano subito ferite mortali a causa delle quali in seguito sono decedute.

Il sistema sanitario di Gaza era già indebolito in seguito all’assedio di 11 anni che ha limitato l’afflusso nel territorio di apparecchiature mediche, rifornimenti e medici, in particolare quelli specializzati in chirurgia.

Ma l’alto numero di vittime in giorni come il 30 marzo o il 14 maggio ha lasciato negli ospedali di Gaza un peso duraturo. Ferite da arma da fuoco alle gambe, soprattutto quelle provocate da pallottole dei cecchini sparate a corta distanza, possono richiedere fino a nove interventi chirurgici per essere curate, dice Abu Sitta.

Cosa succede quando proiettili di cecchini colpiscono le gambe

Il danno provocato da un proiettile dipende dalla velocità alla quale si muove la pallottola, con la velocità cinetica che si trasferisce ai tessuti, dice Ghassan Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut.

“Quando usi un fucile di precisione – che è un fucile da guerra ad alta velocità – si tratta del proiettile più veloce che ci sia perché può percorrere fino a 3 km,” afferma.

“Perciò quando spari a qualcuno a 50 o 100 metri, la maggioranza dell’energia cinetica è ancora nel proiettile.”

Secondo Medici Senza Frontiere, in metà dei casi di ferite alle gambe che hanno trattato a Gaza dallo scorso marzo, i pazienti avevano fratture esposte complicate, cioè l’osso è esposto all’aria e c’è il rischio che si infetti.

Molti hanno anche gravissimi danni ai tessuti e ai nervi e perdono parti importanti delle ossa delle gambe.

Un medico di MSF dice che in metà dei casi che ha visto l’osso “era letteralmente polverizzato”.

Questo tipo di ferite richiede una serie di interventi chirurgici, a volte fino a nove, dice Abu Sitta.

“Ciò significa mesi e forse anni di cure. Quindi ciò vuol dire che hanno molto dolore, stanno soffrendo molto,” afferma Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di MSF a Gerusalemme.

La maggioranza di quelli che sono feriti avranno effetti collaterali per il resto della loro vita, compresi irrigidimento degli arti, paralisi e, per alcuni, amputazione.

“Pensi al numero di interventi chirurgici ortopedici e plastici necessari per fare una chirurgia ricostruttiva sull’80% dei 6.500 (pazienti feriti),” afferma.

“Supera le capacità di risorse umane di Gaza. Supera il numero di ore di sala operatoria a disposizione, in termini di materiali, di medicazioni, di riabilitazione. E lo scopo è di sovraccaricare totalmente il sistema. C’è l’intenzionalità di menomare.”

Se i medici non possono spostarsi rapidamente per aiutare i feriti, questi possono patire complicazioni per il resto della loro vita, dice Ingres di MSF.

“Siamo in difficoltà perché temiamo che, se non si reagisce con sufficiente impegno, migliaia di persone potrebbero rimanere disabili,” sostiene.

“Già 200 persone hanno subito amputazioni, e se non siamo in grado di curarle domani, cioè tra i giovani, molti di loro saranno disabili perché non siamo riusciti a salvare le loro gambe, e ciò si potrebbe fare.”

Le ferite alle gambe hanno anche suscitato preoccupazioni riguardo alla resistenza agli antibiotici a Gaza. Ingres afferma che MSF stima che almeno 1.200 persone possono aver sviluppato infezioni alle ossa, che richiedono sei settimane di ospedalizzazione e antibiotici di alto livello prima di ogni operazione.

“Quindi sappiamo già che il trattamento sarà lungo e molto costoso,” dice.

Il tributo di una generazione

Oltre ai vari livelli di crisi sanitaria a Gaza, dicono i medici, ci sono le conseguenze a lungo termine di una generazione di disabili palestinesi, molti dei quali ventenni.

“I media diranno ‘oggi due, tre palestinesi morti, 500 feriti’. Ma in realtà questi 500 sono condannati a una vita di disabilità, di disoccupazione e ad anni di dolorose operazioni chirurgiche,” afferma Abu Sitta.

“È anche un problema psicologico,” aggiunge Ingres, “perché ora i giovani capiscono che sarà molto difficile per loro.”

“La maggioranza voleva solo manifestare per mostrare che hanno il diritto di esistere come chiunque altro al mondo. E oggi, dopo un anno, cos’hanno ottenuto? Non hanno niente.”

Ingres sostiene che lo spettro di una grande manifestazione per commemorare il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno è preoccupante.

“Ad essere sinceri, se ci sarà un nuovo massiccio numero di feriti nessuno riuscirà a gestire Gaza,” dice. “Sarà un disastro.”

Ma pur avendo una chiara comprensione dei rischi in cui incorrono per protestare vicino alla frontiera, i giovani palestinesi hanno continuato a protestare, con l’invito a un milione di persone perché sabato si uniscano alla marcia di commemorazione.

Akhras, il trentunenne colpito a una gamba lo scorso maggio, potrebbe essere tra i manifestanti, nonostante il fatto che la sua vita sia drammaticamente cambiata da quando è stato ferito.

Non più in grado di guadagnarsi da vivere come fabbro, Akhras ha ricevuto uno stipendio dall’Autorità Nazionale Palestinese per persone ferite fino a due mesi fa, quando è stato sospeso e lui è rimasto in condizioni economiche difficili.

Sua moglie, Haneen al-Qutati, di 23 anni, contribuisce al sostentamento della coppia con il suo lavoro di infermiera, e il loro primo figlio nascerà a breve. Nel frattempo, grazie a un’organizzazione che aiuta persone disabili, Akhras si sta formando come falegname.

Dice di sentire spesso il dolore della ferita, ma non vuole prendere antidolorifici per il timore di diventarne dipendente. Non ha ancora una gamba artificiale e per spostarsi usa le stampelle.

“Alla sera ho forti dolori, ma cerco di far vedere a mia moglie che non mi fa male,” dice. “Qualcuno mi guarda con compassione. È una sensazione penosa per mia moglie.”

Ciononostante durante molti degli ultimi venerdì è uscito per unirsi alle proteste nei pressi di Rafah, ancora deciso a manifestare.

“Voglio che i giovani dimostrino una grande volontà,” afferma. “L’occupazione li prende deliberatamente di mira e vuole che una giovane generazione di palestinesi cammini con le stampelle.”

(traduzione di Amedeo Rossi)