Ben Gourion Internazionale, questo aeroporto diventato un tribunale inquisitorio
Laurent Perpigna Iban
6 giugno 2020 – Middle East Eye
All’aeroporto di Tel Aviv ottenere il visto israeliano a volte diventa un incubo per i viaggiatori. Soprattutto per quelli che sono sospettati dalle autorità israeliane di essere militanti filopalestinesi
Tel Aviv, Israele – La lunga rampa che conduce dai terminal dell’aeroporto Ben Gurion agli uffici dell’immigrazione israeliani a volte ha il sapore della paura. Più in basso, dietro i vetri della ventina di posti di controllo, gli agenti attendono pazientemente i viaggiatori. Nelle code in attesa la gioia dei pellegrini contrasta con l’ansia di altri candidati al visto.
Arriva il momento fatidico. I passaporti vengono analizzati meticolosamente, le domande a dir poco brusche: “Dove andate? Conoscete qualcuno qui? Come si chiama?”. E altrettante domande a cui i viaggiatori devono rispondere senza batter ciglio, soprattutto coloro che intendono recarsi per conto proprio in Cisgiordania, per i quali la bugia risulta essere il miglior parafulmine ai guai.
Queste domande da interrogatorio non riguardano solo questioni di sicurezza. Gli obbiettivi, oltre a prevenire attacchi sul suolo israeliano, sono anche politici, poiché si tratta di limitare la presenza straniera nei territori occupati. A questo scopo le autorità israeliane dispongono di uno strumento imbattibile: la concessione del visto all’arrivo.
Dato che i due principali punti d’ingresso che consentono agli stranieri di recarsi in Cisgiordania sono sotto controllo israeliano – l’aeroporto di Tel Aviv e il ponte di Allenby – Malik Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania – la concessione di questo ‘apriti sesamo’ si è trasformata nel tempo in uno strumento amministrativo agli ordini della politica israeliana.
Gli accordi che esentano dalla richiesta di visto prima della partenza conclusi con parecchi Paesi erano peraltro tesi a facilitare il viaggio degli stranieri. Ma ecco che queste cortesi direttive hanno assunto l’aspetto si una roulette russa per molti viaggiatori: l’autorizzazione ad entrare nel territorio – attraverso un visto per turismo di tre mesi – si ottiene direttamente sul posto e di fatto sottopone i viaggiatori all’arbitrio.
Il quotidiano economico Globes, citando statistiche dell’Amministrazione dei posti di frontiera, della popolazione e dell’immigrazione –che fa capo al Ministero dell’Interno israeliano – riportava che nel 2018 erano state respinte al loro arrivo circa 19.000 persone, contro le 16.534 del 2016 e….le 1.870 del 2011.
Risultato: molti viaggiatori che vogliono andare in Cisgiordania in modo indipendente preferiscono tacere le proprie intenzioni, di fronte al rischio di pesanti interrogatori o anche di respingimento.
Interrogatori interminabili
Kamel e Louis* lo sapevano. Questi due giovani francesi si erano documentati in proposito prima di partire per Tel Aviv, nel novembre 2019. Se Louis ha passato senza problemi i controlli, non è stato così per il suo amico.
“Ho mostrato il mio passaporto francese. Ho risposto che sarei andato a visitare Tel Aviv e Gerusalemme. La giovane donna allora mi ha chiesto quali fossero le mie origini. Algerine. Per me è stato l’inizio dei guai,” racconta Kamel a Middle East Eye.
Il giovane viene quindi fatto entrare nella sala d’attesa riservata ai “aspiranti [all’ingresso in Israele] sospetti”. Kamel subisce un primo interrogatorio di una mezz’ora. Passano due ore prima che sia portato davanti ad un secondo interlocutore.
“Questo mi ha detto di essere il capo della sicurezza. Mi ha fatto le stesse domande alle quali ho dato le stesse risposte. Mi sono trovato davanti una terza persona. E’ diventato sempre più pesante.”
Kamel riferisce che dal terzo interrogatorio in poi era presente un traduttore francese.
“L’agente della sicurezza israeliana ha alzato più volte la voce. Mi ha chiesto se ero musulmano, se pregavo… E poi domande personali che non li riguardavano e che comunque loro si permettevano di farmi. Davano l’impressione di voler controllare tutto e di avere un potere assoluto. Mi hanno chiesto perché i miei genitori erano andati a vivere in Francia. Hanno anche controllato il mio portatile”, racconta.
Il giovane ha subito in tutto cinque interrogatori, per un fermo in totale di sei ore.
“Hanno cercato di colpirmi psicologicamente. Ero nella posizione del colpevole”, racconta a MEE. Quando si rassegna ad un respingimento formale, ha finito “quasi miracolosamente”per ottenere il visto.
Un trattamento che sono costretti a subire tutti coloro che non corrispondono al profilo del turista depoliticizzato. Ma di fatto le persone di origine araba e di fede musulmana sono molto più esposte a queste complicazioni. Al punto che alcune di loro, dal profilo insospettabile, a volte sono pesantemente minacciate.
Nel 2019 il quotidiano israeliano Haaretz ha dato conto della disavventura dell’ambasciatore di Israele a Panama, Reda Mansour, che ha riferito che lui stesso e suoi famigliari sono stati “umiliati e trattati come sospetti dalle guardie di sicurezza”.
Un trattamento che aveva provocato una pesante polemica in Israele, che ha costretto il presidente Reuven Rivlin ad esprimersi pubblicamente. “Ciò che conta è ciò che voi sentite, e se voi vi sentite così feriti, allora non dobbiamo fare delle riflessioni”, aveva allora dichiarato il capo dello Stato.
In seguito la situazione non sembra essere affatto migliorata: alcune ore prima della messa in quarantena di tutti i viaggiatori in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv a causa dell’epidemia di coronavirus, gli agenti dell’immigrazione si preoccupavano meno di sapere se essi provenissero da una zona infetta dal coronavirus che di cosa avessero intenzione di fare una volta entrati.
La legge in questione
Alla fine degli interrogatori alcuni non hanno la fortuna di Kamel e si trovano nella situazione di « denied entry » (ingresso respinto). Per loro è un ritorno al mittente.
Qualunque scusa è buona per giustificare questa decisione. Le simpatie filo palestinesi, anche presunte, mettono il candidato al visto nella posizione del colpevole, mentre le foto archiviate sui telefonini, gli account Twitter e Facebook valgono come prove.
Una situazione tanto più paradossale in quanto la visita nei territori palestinesi non è vietata agli stranieri, anche in base al diritto israeliano.
Tuttavia nel 2017 la Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] ha approvato una legge che vieta il rilascio di visti e di diritti di residenza ai cittadini stranieri che aderiscono al boicottaggio economico, culturale o accademico di Israele, ma anche di tutte le istituzioni israeliane o di ogni “zona sotto il controllo di Israele”, cioè le colonie. Se gli stranieri sono il principale obiettivo, anche i militanti israeliani contro l’occupazione ne fanno regolarmente le spese.
Tuttavia non sono solo i controlli all’arrivo a provocare paura e tensione. Quelli effettuati al momento di lasciare il Paese in aereo – il primo avviene tre chilometri prima di arrivare all’aeroporto – sono tanto numerosi quanto snervanti.
Il più inquietante è quello effettuato dentro l’area da una schiera di agenti di sicurezza, ancor prima che il viaggiatore possa accedere agli sportelli per il check in. Con il pretesto della sicurezza aeroportuale, le domande sui viaggi precedenti – soprattutto nei Paesi arabi – si susseguono a folle velocità, volutamente destabilizzante.
Questa raccolta di informazioni resta segreta, anche se alcuni segreti dei servizi di immigrazione israeliani a volte finiscono per essere smascherati. È il caso degli adesivi con codice a barre incollati sul retro del passaporto dopo l’interrogatorio: secondo diverse fonti il primo numero, compreso tra 1 e 6, classifica i viaggiatori secondo un ordine crescente di “pericolosità”.
Una teoria confermata da nostri incontri con una decina di persone che hanno viaggiato in Israele: quelle che hanno la prima cifra compresa tra 5 e 6 subiscono interrogatori pesanti e sistematiche perquisizioni dei bagagli.
Chris Den Hond è un giornalista. Abituato dal 1994 a recarsi nei territori occupati, è avvezzo a questo genere di interrogatori.
“Anche se non mi hanno messo il timbro sul passaporto e non mi hanno mai sequestrato cassette video, tutte le volte, sia all’entrata che all’uscita, è lo stesso stress”, confida a MEE.
“Mi sono sempre limitato a visitare i siti turistici di Gerusalemme e di Betlemme. Ma le intimidazioni perché io fornissi i nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi di contatti palestinesi sono sempre numerose.”
Nel 2017, quando Chris Den Hond è uscito dal territorio attraverso il valico con la Giordania, ha citato anche la visita a Ramallah. “La città di troppo”, spiega, amaramente.
Si susseguono lunghe ricerche condotte dalle forze di sicurezza israeliane, che non tardano a trovare dei video che il giornalista ha realizzato sul movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), vera bestia nera delle elite del paese.
“Alla fine un dirigente mi ha consigliato ironicamente di consultare l’ambasciata israeliana prima di pensare di tornare in Israele, per evitare di essere respinto all’arrivo. Ho chiesto: ‘ Per quanto tempo?’ Mi hanno risposto: ‘Almeno per dieci anni’.”
[SI tratta di] frequenti misure di divieto di ingresso nel territorio, come spiega a MEE Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese.
“All’arrivo attraverso questo aeroporto Israele cerca di vietare l’ingresso nel territorio a tutte le persone che hanno idee politiche considerate filo palestinesi. Questo rientra nel loro concetto di negazione stessa dell’esistenza del popolo palestinese”, commenta.
Il caso spinoso dei familiari di palestinesi
Salah Hamouri è nel mirino delle autorità israeliane. Dopo essere stato incarcerato una prima volta tra il 2005 e il 2011, l’avvocato viene arrestato nell’agosto 2017 a Gerusalemme: passerà più di un anno in detenzione amministrativa, senza che le accuse contro di lui vengano rese pubbliche.
Prima ancora, nel 2016, hanno arrestato sua moglie, Elsa Lefort, allora incinta di sette mesi. “È rimasta tre giorni in un centro di detenzione prima di essere rimandata in Francia con un divieto di ingresso nel territorio tuttora in vigore. Non può più venire a Gerusalemme.”
Quando è uscito di prigione nel 2018, il Ministero degli Esteri francese ha consigliato a Salah Hamouri di fare domanda di visto presso l’ambasciata israeliana prima di partire, se (sua moglie) vuole tornare nel Paese.
“L’ambasciata mi ha risposto che le era vietato l’ingresso nel territorio fino al 2025. Quanto a mio figlio, hanno detto che la sua domanda sarebbe stata esaminata al momento dell’arrivo…”, spiega.
L’avvocato ricorda almeno “una trentina di donne francesi sposate a palestinesi” che incontrano tremende difficoltà per entrare nel territorio e condurre una vita normale. Di fronte a questi problemi che le riguardano direttamente, “le autorità francesi restano sorde…”, ci dice.
In realtà Salah Hamouri, come altri, deplora la passività della diplomazia francese.
“Ufficialmente, anche se io sono in possesso della carta di residenza di Gerusalemme, ho soltanto la nazionalità francese e in quanto famiglia francese noi abbiamo il diritto di vivere dove vogliamo. Le nostre richieste alle autorità francesi sono vane. Nel mio caso gli israeliani utilizzano questo per revocarmi la carta d’identità come residente a Gerusalemme e scoraggiarmi dall’andarci.”
Un arbitrio al passo coi tempi: i palestinesi di Gerusalemme, che nella gran maggioranza non possiedono la cittadinanza israeliana, hanno solamente lo statuto di residenti della città, facilmente revocabile. Per Salah Hamouri, come per migliaia di altri, un allontanamento geografico di eccessiva durata potrebbe privarlo di questa preziosa carta di residenza.
Nondimeno, l’ esasperato sistema di controllo dell’aeroporto di Tel Aviv suscita l’interesse e anche l’ammirazione di parecchi Paesi, soprattutto europei, che lo considerano – nonostante gli abusi rilevati – uno dei luoghi più sicuri al mondo.
Così, due mesi dopo l’attentato avvenuto all’aeroporto di Bruxelles nel marzo 2016, il Ministro dell’Interno belga ha effettuato una visita privata delle installazioni israeliane. Anche altre delegazioni europee vi si sono recate in trasferta.
In queste condizioni è difficile aspettarsi un qualunque ammorbidimento all’aeroporto internazionale Ben Gurion, che di anno in anno si trasforma sempre più in tribunale inquisitorio.
* I nomi di battesimo sono stati modificati.
** Al momento della pubblicazione di questo articolo le autorità aeroportuali israeliane non avevano ancora risposto alle domande di MEE.
(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)