Gay pride e bandiera palestinese

Perché sono andato a una manifestazione del Gay Pride in Israele con una bandiera palestinese

Respingo la strumentalizzazione della lotta del movimento LGBTQ+ da parte del governo per perseguire le sue mire suprematiste.

 

Shai Gortler e Haokets

17 luglio 2020 – +972

 

A quanto pare una manifestazione della comunità LGBTQ+ in Israele non è politica almeno fino a quando non si sventola la bandiera palestinese. Quando l’ho fatto al Pride di Tel Aviv il mese scorso, un omonazionalista ha prima cercato di coprirla con la bandiera arcobaleno più grande che aveva in mano, poi ha finito con l’aggredire violentemente Sapir Sluzker-Amran, attivista e avvocata, intervenuta in aiuto di un’altra donna che stava cercando di difendermi.

Alcuni potrebbero chiedersi quale sia il legame fra la lotta LGBTQ+ e la bandiera palestinese. Durante tutto il mio attivismo nelle politiche LGBTQ+ in Israele-Palestina sono stato testimone di due tentativi effettuati da chi sta al potere di sfruttare le battaglie della comunità LGBTQ+ per portare avanti obiettivi di suprematismo bianco e di colonialismo di insediamento. Sto raccontando questi eventi per sviluppare una teoria: i diritti conquistati a scapito di quelli più marginalizzati di noi sono solo temporanei, mentre solo ampie coalizioni di svantaggiati ci possono evitare di essere noi i prossimi ad essere perseguitati dai regimi repressivi.

Nel 2010 facevo parte di un gruppo dell’associazione israeliana LGBT che chiedeva di tenere il primo Pride in assoluto a Beersheva. Il sindaco Ruvik Danilovich pose la condizione per concedere il finanziamento municipale che l’evento si tenesse nella piazza della Grande Moschea di Beersheva. Nel 1948, dopo aver espulso dalla città i residenti palestinesi, Israele prese il controllo della moschea, usandola prima come prigione, poi come tribunale e infine trasformandola in un museo. Il comune continua a rifiutarsi di riconsegnare l’edificio al culto degli abitanti musulmani. Quando abbiamo ricevuto il messaggio rivoluzionario che la città era intenzionata a sostenere il nostro evento, il direttore del museo ci chiese di astenerci dal tenere spettacoli di drag queen, in ossequio alla relazione della commissione intergovernativa che raccomanda di rispettare la moschea quale luogo sacro.

Noi attivisti locali della sezione israeliana di Beersheva dell’associazione LGBT sostenemmo che il comune forse stava cercando di rafforzare le sue pretese nei confronti della moschea rappresentando i musulmani come omofobi (basandosi sul loro presupposto che i musulmani avrebbero protestato per la realizzazione di un evento del Pride nei pressi di una moschea), mentre simultaneamente cercavano di ingraziarsi l’opposizione omofoba alla manifestazione presentandola come un’iniziativa ebraica che avrebbe ulteriormente deprivato i musulmani. Noi abbiamo rifiutato di essere usati in questo modo e il Comune ha fatto marcia indietro. Da quella decisione in poi i musulmani della comunità LGBTQ+ continuano a partecipare a eventi e parate del Pride a Beersheva.

Vorrei aggiungere un fatto personale: io e il mio partner siamo stati inseriti in quella che il Ministero del lavoro, affari sociali e servizi sociali chiama “lista di attesa B” per le adozioni. Il diritto israeliano ci discrimina in quanto coppie dello stesso sesso e stabilisce che solo “un uomo e la propria moglie” possa adottare bambini. Ma, nel 2008, è diventato possibile per le coppie dello stesso sesso adottare bambini nei casi in cui non ci fossero coppie eterosessuali disposte a farlo a causa dell’età o delle condizioni di salute del bambino.

L’anno scorso ad agosto, Amir Ohana, il ministro della Giustizia, lui stesso gay, ha presentato una proposta di legge che cerca di emendare la discriminazione contro le coppie dello stesso sesso (ma lasciando intatta la discriminazione contro i genitori single). Comunque, con la scusa della legge sull’uguaglianza, Ohana ha infilato un altro emendamento per cui le adozioni sarebbero autorizzate dal tribunale anche nel caso in cui “non si trovasse una persona della stessa religione dell’adottato.”

Il diritto israeliano impone rigide limitazioni alle adozioni interconfessionali. Questa scelta, secondo il professor Michael Karayanni, è stata condizionata dai rapimenti di bambini ebrei da parte di cristiani durante e dopo l’Olocausto e dal desiderio del legislatore di evitare atti simili. Ma l’emendamento proposto da Ohana avrebbe, in effetti, permesso a genitori ebrei di adottare bambini musulmani, dato che la richiesta di adozioni nella comunità ebraica israeliana supera il numero dei bambini a disposizione per l’adozione, mentre la tendenza è all’opposto nella comunità musulmana nel Paese.

Il numero di bambini interessati da questa proposta di emendamento a breve termine non è alto: nel 2019 sono stati adottati solo nove bambini musulmani. Comunque, pur modificando parzialmente la discriminazione legale contro la comunità LGBTQ+, la versione corrente della legislazione proposta potrebbe danneggiare i cittadini palestinesi in Israele, perché faciliterebbe la possibilità di portar via bambini palestinesi dalle loro case, persino senza il consenso dei loro genitori. Anche se gli emendamenti alla legge israeliana, incluso quello sull’adozione interreligiosa, sono molto necessari, quelli di noi che stanno lottando contro la discriminazione omofobica non desiderano l’uguaglianza a scapito di altri.

E allora perché ho sventolato la bandiera palestinese a una manifestazione del Pride? Non perché la libertà di espressione è riservata esclusivamente a ebrei, non per una sopravalutazione del nazionalismo e neppure per i giovani queer palestinesi che sventolavano bandiere arcobaleno a fianco di quelle di trans-bisessuali per il resto della parata del corteo dopo il violento attacco.

Io impugnavo la bandiera palestinese per ricordare a coloro fra noi che rifiutano l’uso che il governo fa della lotta dei LGBTQ+ per calpestare altri. A differenza della coalizione che al momento si è formata fra i settori privilegiati della nostra comunità e il regime suprematista, noi chiediamo di  immaginare delle alternative.

Invece di fare video di propaganda per la polizia, noi chiediamo a Itai Pinkas, rappresentante di spicco della comunità LGBT nel consiglio comunale di Tel Aviv-Giaffa, di fare i nomi di alcuni di quelli che sono assassinati dalla brutalità della polizia: Iyad al-Hallaq [palestinese autistico, ndtr.], Solomon Teka [ebreo israeliano di origine etiope, ndtr.] e Shirel Habura [israeliano con problemi psichiatrici]. Per Tel Aviv chiediamo, invece dell’attuale sindaco Ron Huldai che una volta ha detto che “due gay che si baciano mi fanno schifo come scarafaggi” e che “ogni città ha bisogno di un buco del culo” durante una discussione sui quartieri LGBTQ+ e mizrahi [ebrei originari di Paesi arabi e musulmani, ndtr.] che circondano la stazione centrale degli autobus di Tel Aviv e che ha profanato il cimitero di al-Is’af a Giaffa ignorando i suoi abitanti, un sindaco che si impegni per tutti.

Non potevo fare a meno di pensare, in silenzio perché alcuni pensieri non possono essere detti ad alta voce nelle piazze cittadine, agli abitanti che vivevano nel villaggio palestinese di Summayl [i cui abitanti furono espulsi nel dicembre 1947, ndtr.], un tempo situato all’incrocio delle strade Arlozorov e Ibn Gabirol, la cui storia la maggior parte degli israeliani non ha modo di conoscere. La manifestazione del Pride per l’eguaglianza si è svolta sulla loro terra senza chiedere il loro consenso mentre loro stessi, rifugiati o sfollati, vorrebbero far ritorno a quella stessa terra.

I mizrahi mandati dal governo israeliano a occupare Summayl sono stati sostituiti, e continuano a esserlo, con ricchi padroni di Huldai. Anche i gay che una volta si incontravano al parco dell’Indipendenza, che ha preso il posto del cimitero di Summayl, sono stati cacciati.

Cosa succederebbe se, invece di permettere a un regime bianco colonialista e suprematista di sfruttare le comunità LGBTQ+ prima di rivolgere il suo potere contro di noi, continuassimo a formare coalizioni con altri che lo combattono? Mi sembra già di sentire gli omonazionalisti imbracciare le armi, ma so che sbagliano. Non sono io ad aver portato relazioni di potere tra israeliani e palestinesi alla manifestazione, sono sempre state davanti ai nostri occhi.

Il prof. Shai Gortler è un borsista post-dottorato presso il Centre for Humanities Research, University of the Western Cape, Cape Town.

Haokets è una rivista online israeliana senza scopo di lucro, indipendente e progressista che ospita discussioni critiche su temi socioeconomici, culturali e filosofici, di attivismo per i diritti umani, di femminismo e politiche mizrahi, con un blog in inglese.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




‘Ringraziate di non essere gay a Gaza’

Noa Bassel

(tradotto in inglese Si Berrebi)

7 giugno 2018,  +972

Visto che i palestinesi sono privati dall’occupazione dei loro diritti, non si possono considerare le conquiste della comunità LGBTQ israeliana come un indice di tolleranza. Il nostro compito è di contrastare queste opinioni e continuare a chiedere eguali diritti per tutti.

Ogni anno a giugno, durante il “Mese dell’Orgoglio Gay”, il paradosso insito costruito all’interno del discorso politico israeliano raggiunge un’altissima intensità: più un gruppo sociale è oppresso, più ci si aspetta che sia grato per quello che è dato per scontato dal resto della popolazione.

I palestinesi dovrebbero essere grati di poter frequentare l’università, le femministe dovrebbero ringraziare Israele perché non vivono in Iran, gli immigrati ebrei dall’Etiopia dovrebbero essere felici di non trovarsi nella loro patria e le persone LGBTQ dovrebbero ringraziare di poter camminare per strada.

Questi gruppi sono sistematicamente attaccati o discriminati dalla polizia, dal sistema giuridico, dalle istituzioni statali e dal mercato del lavoro. Eppure si chiede loro di essere grati per la loro situazione, non fosse altro che per il confronto con scenari immaginari se fossimo nati in altri luoghi, tutto ciò al contempo mantenendo lo stigma che ci condanna all’ inferiorità.

Il discorso “di dover essere grati” viene diffuso da internet, da membri del parlamento, da giudici della Corte Suprema e da alcuni membri della comunità LGBTQ, e si basa su alcune significative contraddizioni. Primo, in ogni lotta ci si chiede di smettere di combattere e di essere grati per ciò che abbiamo già ottenuto – che in primo luogo non avremmo ottenuto se all’epoca non avessimo smesso di dire grazie. Sono sicura che i gay negli anni ’70 avrebbero potuto essere contenti che non fosse stata applicata la legge che puniva il sesso tra uomini, che si potesse sempre ingannare il proprio capo ed avere una relazione omosessuale dopo aver messo al mondo dei figli all’interno delle comodità del matrimonio.

Negli ultimi due anni abbiamo dovuto spiegare perché non possiamo essere gay solo nel privato delle nostre case, e la settimana scorsa nella città di Kfar Saba [nella zona centrale del Paese, ndt.] la polizia ha chiesto agli organizzatori del corteo dell’“Orgoglio Gay” di pagare per la costruzione di un muro intorno ai manifestanti “per proteggerli”. Fortunatamente in ognuna di queste circostanze ci sono state persone coraggiose che dissentivano; grazie a loro adesso ci mostriamo orgogliosamente di fronte a uomini in giacca e cravatta che ci chiedono di ringraziarli.

Una contraddizione più complessa è data dal raffronto tra i diritti LGBTQ in Israele, in Cisgiordania e a Gaza. Anzitutto perché chi solleva la questione non deve mai provare le proprie affermazioni: tutti sostengono che gli omosessuali vengono buttati giù dai tetti. Ma se si prova a calcolare soltanto quante persone gay sono state assassinate a Gaza, ed in quali circostanze, ciò risulta molto difficile. La posizione ufficiale di Israele è che le persone LGBTQ non subiscono sistematiche persecuzioni in Cisgiordania.

Lo status della popolazione LGBTQ nella società palestinese è tutt’altro che perfetto, ma dirlo non è compito di chi solleva la questione come mezzo per tacitare le critiche alle azioni di Israele. Inoltre, se la vediamo dal punto di vista degli LGBTQ israeliani, l’accusa che la società palestinese o musulmana sia intrinsecamente più omofoba di quella ebrea appare una volgare generalizzazione. In entrambe le società si possono trovare soggetti che accettano gli LGBTQ ed altri che li contrastano. Da entrambe le parti vi sono organizzazioni che lottano per i diritti LGBTQ.

Esponenti religiosi minacciano la comunità da entrambe le parti. Il movimento LGBTQ in Israele ha subito violenza, resistenza e difficoltà – proprio come la sua controparte palestinese.

Purtroppo i genitori israeliani cacciano ancora di casa i loro figli gay e le persone LGBTQ e i loro sostenitori vengono ancora attaccati. La violenta aggressione contro una transessuale a Tel Aviv, i due accoltellamenti da parte di Yishai Schlissel [estremista religioso, ndt.] alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” a Gerusalemme e la sparatoria mortale al centro giovanile LGBTQ [2 morti e 15 feriti nel 2009, delitto rimasto tuttora impunito, ndt.], sono solo alcuni esempi (altri non trovano spazio nei media).

Ogni membro della comunità ha subito un attacco violento, o almeno una aggressione verbale per la strada. I minori israeliani sono tuttora mandati in terapia di conversione [dell’orientamento sessuale, ndtr.] (l’anno scorso la Knesset ha votato contro una legge che intendeva vietare questa pericolosa pratica). Solo la settimana scorsa il vicepresidente della Liberia – che ha proposto una legge per rendere le relazioni omosessuali un reato di primo grado punibile con 10 anni di prigione – ha visitato Israele come ospite del ministero degli Esteri.

I giovani israeliani piangono l’israeliana Shira Banki, che è stata assassinata da un ultra- ortodosso alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” di Gerusalemme, il 2 agosto 2015. L’aggressore, Yishai Schlissel, accoltellò sei persone. (Yotam Ronen/Activestills.org). La relativa apertura che riscontriamo oggi nell’opinione pubblica israeliana è il risultato di una continua lotta da parte dei membri della nostra comunità. Ma vi è anche una fondamentale differenza tra la situazione delle persone LGBTQ dai due lati della barriera: chi è dal lato di Israele gode di libertà di movimento, di maggior tempo libero e reddito ed anche di miglior accesso all’istruzione superiore e all’informazione, che consente di proseguire la lotta. Di questi diritti gli LGBTQ palestinesi sono privati dallo Stato di Israele.

Perciò non si possono considerare le conquiste della comunità in Israele – che sono state ottenute in assenza dell’oppressione che subiscono i palestinesi LGBTQ in Cisgiordania e a Gaza – come un indice di tolleranza e pluralismo di Israele. Il nostro impegno come comunità inclusiva è di resistere a queste opinioni e continuare a chiedere niente di meno che eguali diritti per tutti.

Noa Bassel è studentessa di lingue e attivista sociale. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Haokets’ [rivista progressista israeliana online, ndtr.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)