Una tragedia anglo-israeliana nata dall’occupazione

Ben Reiff

11 aprile 2023 – +972 Magazine

Omettere il contesto violento in cui sono avvenute le uccisioni della famiglia Dee equivarrebbe a condannare innumerevoli altri palestinesi e israeliani allo stesso destino.

Tributi sono giunti ai notiziari tv e ai social media per Rina e Maia Dee,15 e 20 anni, le sorelle anglo-israeliane uccise lo scorso venerdì in attacco con armi da fuoco nella Cisgiordania occupata, e per la loro madre Lucy morta all’inizio della settimana in seguito alle ferite subite. Le tre viaggiavano in un’auto nelle vicinanze dello svincolo di Hamra nella valle del Giordano quando sarebbero state colpite da una violenta scarica di proiettili. L’esercito israeliano sta ora conducendo una caccia all’uomo per trovare i sospettati palestinesi. 

La famiglia Dee era emigrata nove anni fa dal Regno Unito nella colonia cisgiordana di Efrat: Leo, il padre delle ragazze e marito di Lucy, era stato in precedenza rabbino in due congregazioni ortodosse nel nord di Londra. “Non ci sono parole per descrivere la profondità del nostro sgomento e dolore nel ricevere la notizia dell’omicidio,” ha twittato il rabbino capo britannico Ephraim Mervis all’annuncio delle morte delle sorelle, aggiungendo che erano “molto amate” nel Regno Unito e in Israele. Alla notizia che anche Lucy era morta ha twittato: “Il nostro dolore indescrivibile è ancora più profondo.” 

Lunedì il rabbino Dee in lacrime ha detto ai media che “la nostra famiglia di sette persone si è ridotta a quattro,” dopo che Lucy, Maia, e Rina sono state sepolte nel cimitero regionale di Gush Etzion nella colonia di Kfar Etzion. Perdere un membro della famiglia, specie se giovane, è una tragedia insopportabile, non si può immaginare il dolore che il rabbino Dee e i figli rimasti stanno sopportando dopo averne persi tre in una volta. 

Pur riconoscendo tale perdita straziante, da quasi tutti questi tributi e racconti manca un dettaglio importante: l’occupazione militare israeliana. Inserire questo elemento non vuole giustificare l’assassinio delle Dee, al contrario. Ma ignorarlo significherebbe fraintendere il contesto in cui sono vissute e sono state uccise, e così condannare molti altri allo stesso destino.

Come centinaia di migliaia di israeliani che abitano in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, i Dee sono diventati parte integrante del progetto israeliano di espansione coloniale nei territori occupati. Colonie come Efrat, che sembra una normale cittadina o sobborgo israeliano serve ad ammassare i palestinesi in bantustan sempre più piccoli per massimizzare il territorio a disposizione degli ebrei, inclusi quelli che arrivano dall’estero. 

Dal 1967 Israele ha rubato oltre 2 milioni di dunam (200.000 ettari) di terre di proprietà privata palestinese in Cisgiordania per fondare centinaia di colonie e avamposti esclusivamente per ebrei, oltre alle infrastrutture necessarie per collegarli fra di loro e con il resto dello Stato. Ognuna di queste colonie è illegale ai sensi del diritto internazionale e viola la Quarta Convenzione di Ginevra che vieta esplicitamente alla potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori occupati. 

Successivi governi israeliani hanno incoraggiato attivamente i propri cittadini a trasferirsi in queste zone offrendo ogni tipo di incentivi finanziari: edilizia sovvenzionata, scuole e trasporti, sgravi fiscali e persino stipendi più alti nel settore pubblico. Tutto ciò va ad aggiungersi a radicate ideologie religiose e suprematiste che ispirano i settori più radicali del movimento dei coloni, sebbene non sia un segreto che tali opinioni sono in molti casi concretamente indotte o facilitate dallo Stato. 

In Israele queste colonie illegali sono totalmente normalizzate e si sono espanse per ospitare circa tre quarti del milione dei suoi cittadini ebrei. Ma l’esistenza stessa delle colonie, oltre all’esteso furto di terre che ha reso possibile la loro costruzione ed espansione, richiede la costante sottomissione della popolazione palestinese dei territori. 

Questa violenza assume varie forme: un esercito che, dall’inizio dell’anno, ha già ucciso circa 90 palestinesi in Cisgiordania, compresi 18 minori, una vasta rete di checkpoint militari che limitano pesantemente la libertà di movimento dei palestinesi e un muro di separazione che penetra profondamente nella Cisgiordania, confiscando altre terre, una misura definita illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia. 

Che un’oppressione di tal sorta generi resistenza, anche scoppi violenti, non dovrebbe sorprendere: è una verità vecchia come la storia che popoli sottomessi lottino contro le società che le opprimono mentre combattono per la libertà. In una pubblicità profetica pubblicata da Haaretz nel settembre 1967, solo pochi mesi dopo l’inizio dell’occupazione, attivisti israeliani affiliati al gruppo radicale di sinistra Matzpen si metteva in guardia: “Tenere i territori occupati ci trasformerà in una Nazione di assassini e vittime di assassini.” 

Quella frase sarebbe suonata vera anche due decenni prima, quando, durante la Nakba del 1948, forze sioniste espulsero oltre 750.000 palestinesi il cui ritorno Israele ha continuato a impedire con la forza sin d’allora costruendo città ebraiche sulle macerie dei villaggi palestinesi. L’obiettivo allora era lo stesso di oggi: mantenere la supremazia ebraica sulla terra.

È possibile ripudiare atti di violenza senza negare le condizioni che rendono tale violenza inevitabile. Eppure è esattamente quello che moltissime reazioni all’uccisione delle Dee stanno facendo, omettendo il brutale sistema di dominio imposto ai palestinesi e perciò rendendo le loro azioni incomprensibili, motivate esclusivamente da sete antisemita di sangue. Evitando di fare i conti direttamente con quel sistema, garantiscono che niente cambierà prima che il prossimo attacco faccia altre vittime.

Mantenere l’occupazione è una semplice questione di scelta, nonostante i complessi meccanismi e la burocrazia. Quante altre persone moriranno prima che Israele scelga di porvi fine?

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)