Israele sotto tiro per gli attacchi a giornalisti palestinesi ed agenzie di informazione

30 luglio 2017, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Nei giorni scorsi le forze israeliane sono state oggetto di una severa condanna per attacchi a giornalisti palestinesi e agenzie di informazione, in seguito ad un’incursione nella notte di sabato contro una società di produzione mediatica a Ramallah ed a molteplici attacchi a giornalisti che informavano sulle proteste di massa nei territori palestinesi occupati contro le misure di sicurezza, ora ritirate, alla Moschea di Al-Aqsa.

In un raid all’alba di sabato le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di PalMedia, una società di produzione nel settore dei media, che fornisce servizi di trasmissione a parecchi organi di informazione, tra cui Russia Today, al-Mayadeen, al-Manar e al-Quds News, hanno messo a soqquadro gli uffici e distrutto attrezzature, con l’accusa di presunta “istigazione”.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha denunciato il raid in una dichiarazione in cui ha affermato che “le politiche israeliane di violenza e repressione sono un palese tentativo di spezzare la risolutezza del popolo palestinese” e configurano una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani relativamente alla libertà di espressione.

Israele si sta chiaramente impegnando in una costante politica che prende di mira deliberatamente i mezzi di comunicazione ed i giornalisti palestinesi che lavorano con coraggio per rappresentare la narrazione umana palestinese e che informano sull’ occupazione militare israeliana e le sue permanenti politiche di apartheid e di pulizia etnica,” ha detto.

Queste politiche israeliane di violenza e repressione, come anche i recenti attacchi contro esponenti della stampa palestinese all’interno e intorno a Gerusalemme est occupata, sono un palese tentativo di spezzare la tenacia del popolo palestinese.”

Ha invitato la comunità internazionale ad agire immediatamente per “frenare la continua violazione da parte di Israele delle leggi e delle convenzioni internazionali e per sostenere i nostri sforzi nonviolenti e diplomatici per chiedere giustizia e protezione per il popolo palestinese in tutte le sedi giuridiche internazionali.”

Anche il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) domenica ha rilasciato una dichiarazione in risposta al raid contro PalMedia ed a ciò che ha definito un palese incremento degli attacchi contro giornalisti “che svolgono il proprio lavoro informando circa i sit-in pacifici organizzati da abitanti di Gerusalemme.”

La grande quantità di violenti attacchi indiscriminati contro media e giornalisti conferma la persistenza delle violazioni e dell’aggressione dell’occupazione israeliana alle libertà dei mezzi di comunicazione con diversi mezzi violenti”, ha dichiarato l’ONG con sede a Ramallah.

Mada considera questi incidenti come mezzi per impedire che si diffonda al resto del mondo la vera immagine di ciò che sta avvenendo sul terreno e le politiche messe in atto contro i palestinesi, ed inoltre insiste sull’urgente necessità di perseguire i responsabili di tali attacchi, che sono tuttora impuniti.”

Mada ha affermato che, nelle ultime due settimane, ha osservato decine di violazioni commesse dalle forze israeliane nei confronti di giornalisti a Gerusalemme.

Questi attacchi erano di diverso tipo, ma comprendevano arresti, pestaggi, minacce, confisca e distruzione di attrezzature, impedimento di trasmettere gli avvenimenti, interrogatori ed il fatto di prendere di mira giornalisti con pallottole vere e lacrimogeni.”

Il 22 luglio la corrispondente televisiva di Ma’an Mirma al-Atrash è stata colpita da un candelotto di gas lacrimogeno e lievemente ferita al viso durante una protesta nella città di Betlemme, in Cisgiordania.

Mada ha sottolineato il violento arresto, filmato, del fotogiornalista Fayez Abu Rmeila durante una protesta il 25 luglio, aggiungendo che egli è stato sottoposto a due interrogatori dopo che è stato spinto e picchiato da un poliziotto che gli ha anche confiscato la carta di identità e la memory card.

Abu Rmeila ha detto a Mada che “a causa di una disputa insorta tra me ed il poliziotto, lui mi ha aggredito e minacciato di spaccarmi la testa se avessi parlato in malo modo.” In seguito ha detto di essere stato nuovamente picchiato, insultato ed ingiuriato nel centro di detenzione.

Il rapporto di Mada elenca almeno altri 11 giornalisti, inviati di organi locali ed internazionali come la Reuters, aggrediti a Gerusalemme da poliziotti israeliani.

Anche l’Ong “Reporter Senza Frontiere” ha condannato gli ostacoli posti dalle forze israeliane alla copertura mediatica nel corso della crisi di Al-Aqsa, azione che era già stata ampiamente denunciata dal sindacato palestinese dei giornalisti, dal ministero dell’Informazione palestinese, dal “Comitato di Protezione dei Giornalisti” e da altri.

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa ha accusato le forze israeliane di fare uso di “intimidazione, divieto di accesso, violenza ed arresti per limitare o impedire la copertura mediatica delle manifestazioni e degli scontri scatenati dall’introduzione di ulteriori misure di sicurezza intorno alla Moschea di Al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme.”

In seguito ad un precedente raid contro l’ufficio di PalMedia tre anni fa, “Reporter Senza Frontiere” ha affermato che il raid “si è aggiunto al lungo elenco di violazioni dei diritti dei mezzi di informazione palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane, attraverso continue minacce, arresti ed operazioni militari.”

Israele è stato accusato di etichettare qualunque mezzo di informazione critico nei confronti di Israele e delle sue politiche nelle comunità palestinesi come “istigazione”, allo scopo di reprimere le critiche alle politiche discriminatorie di Israele, alla sua perdurante occupazione della Cisgiordania giunta al suo cinquantesimo anno e al suo decennale assedio della Striscia di Gaza, che ha precipitato quel territorio in una interminabile crisi umanitaria.

Nel bel mezzo delle proteste a Gerusalemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anche accusato la rete televisiva satellitare Al Jazeera, con sede in Qatar, di aver “incitato deliberatamente alla violenza” ad Al-Aqsa attraverso la sua informazione sugli eventi, ed ha chiesto che gli organi competenti israeliani chiudano i suoi uffici in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Un tribunale israeliano conferma la sentenza per omicidio colposo, con condanna a 18 mesi nei confronti di Elor Azarya

30 luglio 2017 , Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Domenica un tribunale israeliano ha confermato la sentenza per omicidio colposo e la condanna a 18 mesi di carcere emessa nei confronti dell’ex soldato israeliano Elor Azarya, per aver sparato con modalità da esecuzione al ventunenne palestinese Abd al-Fattah al-Sharif nel 2016.

Azarya è stato condannato per omicidio colposo ad un anno e mezzo di prigione per aver sparato ed ucciso Al-Sharif mentre il palestinese disarmato era a terra gravemente ferito, dopo che aveva presumibilmente compiuto un attacco col coltello nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata, nel marzo 2016.

Il collegio di difesa di Azarya ha fatto appello sia contro la sentenza per omicidio colposo che contro la condanna a 18 mesi di prigione, in quanto troppo severa, mentre la procura militare israeliana ha fatto ricorso in appello per aggravare la sentenza.

Secondo il Times of Israel, i giudici della corte d’appello hanno deciso di confermare la sentenza per omicidio colposo, definendo l’azione di Azarya “proibita, grave, immorale” e sostenendo che “ l’etica è fondamentale perché l’esercito sia in grado di resistere sia al suo interno che rispetto all’esterno.”

I giudici hanno espresso tre voti contro due per la conferma della sentenza. “La punizione è la più mite tra le possibili sentenze applicabili,” hanno sottolineato, lamentando che “un così eccellente soldato abbia commesso un simile tremendo errore”.

La corte ha puntualizzato che Azarya, che è stato trasferito agli arresti domiciliari all’inizio di questo mese in attesa del processo d’appello, “non ha mai espresso rimorso o messo in discussione le sue azioni” e questa è stata una delle principali ragioni per cui la pena non è stata ridotta.

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Il quotidiano Haaretz ha riportato che Azarya, che ha scontato solo nove giorni in carcere ed ha trascorso la maggior parte della sua detenzione all’interno di una base militare, sarebbe stato trasferito in un carcere militare se la sentenza fosse stata confermata.

Tuttavia, riferisce Haaretz, il collegio di difesa di Azarya potrebbe compiere parecchi altri passi per tentare di eludere la sentenza.

Gli avvocati di Azarya potrebbero portare il caso davanti alla Corte Suprema israeliana per chiedere che la condanna dell’ex soldato sia rinviata una seconda volta, cercare di ottenere una riduzione della pena da parte del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano – un’iniziativa che sarebbe possibile solo se Azarya assumesse pubblicamente la responsabilità delle sue azioni – o chiedere la grazia al Presidente Reuven Rivlin.

La procura ha anche fatto appello contro la sentenza sostenendo che la condanna di Azarya non era congruente con la decisione dei giudici, che avevano respinto nel dettaglio ogni obiezione del collegio di difesa quando lo hanno incriminato ed avevano accettato l’argomentazione della procura, secondo cui il soldato ha commesso un ingiustificato omicidio per vendetta. Comunque, la difesa ha sostenuto che Azarya aveva subito un ingiusto accanimento e che la sua condanna rappresenta “un’applicazione selettiva della legge”, secondo Human Rights Watch (HRW).

In giugno l’associazione per i diritti ha affermato: “Certo, Human Rights Watch ha reiteratamente documentato il fatto che il problema non è la condotta di un singolo soldato, ma il clima di impunità per le uccisioni illegali di palestinesi.

La responsabilità di applicare le norme morali e giuridiche non grava solo sulle spalle di un singolo soldato ventenne, ma anche sugli ufficiali di alto grado che hanno inviato a lui – e a molti altri – il messaggio sbagliato relativamente all’uso letale della forza.”

Al-Sharif è stato colpito e gravemente ferito dopo aver presumibilmente aggredito col coltello un altro soldato israeliano ed in seguito è stato lasciato a terra sanguinante per circa dieci minuti. Azarya gli ha sparato alla testa e parecchi testimoni lo hanno sentito dire “Questo cane è ancora vivo” e “ Questo terrorista merita di morire”, prima di premere il grilletto.

Prima della condanna, il caso era già stato denunciato come “processo dimostrativo” per accendere i riflettori su questo caso in modo da distogliere l’attenzione da una più generale cultura dell’impunità per le forze armate israeliane, in quanto Azarya è stato accusato di omicidio colposo per ciò che veniva definito dalle associazioni per i diritti come un’ “esecuzione extragiudiziale” e dalla famiglia della vittima come “omicidio a sangue freddo”.

In seguito all’iniziale notizia della condanna a 18 mesi, la famiglia Al-Sharif aveva detto di “non essere sorpresa” dalla mite sentenza – sottolineando che il soldato aveva ricevuto una pena detentiva minore di quella che sarebbe toccata ad un bambino palestinese che avesse tirato pietre.

Secondo Human Rights Watch, Azarya è stato l’unico membro delle forze armate israeliane ad essere accusato di aver ucciso un palestinese nel 2016 – quando almeno 109 palestinesi sono stati colpiti ed uccisi dalle forze armate e dai coloni israeliani.

Secondo l’associazione (israeliana) per i diritti Yesh Din, su 186 inchieste giudiziarie condotte dall’esercito israeliano per sospetti reati contro palestinesi, solo quattro hanno portato ad incriminazioni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Coloni israeliani tentano di prendere il controllo di una casa palestinese ad Hebron

25 luglio 2017 Ma’an News

Hebron (Ma’an) – Secondo quanto raccontato a Ma’an da alcuni residenti, martedì sera decine di coloni israeliani hanno fatto irruzione in una casa palestinese nei pressi della moschea di Ibrahim [“Tomba dei Patriarchi” nella denominazione israeliana, ndt.] nella città di Hebron, nella zona meridionale della Cisgiordania, nel tentativo di prendere il controllo dell’edificio.

Gli abitanti della casa della famiglia Abu Rajab sono stati coinvolti per anni in una disputa giuridica con coloni israeliani, dopo che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato la propria intenzione di incoraggiarvi la fondazione di una nuova colonia israeliana illegale, con il nome di “Beit Hamachpela.”

Tuttavia le autorità israeliane non hanno concesso l’autorizzazione di costruire la colonia sulla base del fatto che i coloni non sono stati in grado di dimostrare il presunto acquisto della casa palestinese, in quanto i palestinesi li hanno accusati di aver falsificato i documenti.

Hazem Abu Rajab al-Tamimi, un abitante della casa, ha affermato che più di 50 coloni hanno fatto irruzione nella casa e che i soldati israeliani li hanno aiutati durante l’incursione.

Al-Tamimi ha detto a Ma’an che i soldati israeliani e le guardie di frontiera sono state schierate davanti alla casa durante le scorse 48 ore prima di consentire alla fine ai coloni di farvi irruzione martedì.

In risposta ad una richiesta di fare un commento, una portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che decine di israeliani sono entrati “in un piccolo edificio” adiacente alla moschea, ma ha negato che i soldati fossero presenti durante l’incursione dei coloni.

Ha detto che le forze israeliane sono arrivate sul luogo dopo che ciò era avvenuto ed erano attualmente presenti nella zona alle 21,30 circa.

“Al momento non c’è la decisione di farli sloggiare,” ha detto la portavoce, ed ha sottolineato che la situazione era in evoluzione.

Mercoledì mattina l’esercito israeliano ha detto a Ma’an che la casa era stata dichiarata zona militare chiusa, ma non ha potuto confermare se i coloni erano stati espulsi dall’edificio oppure no.

I coloni israeliani hanno sostenuto di aver comprato la casa dai proprietari, tuttavia i proprietari palestinesi hanno citato in giudizio i coloni israeliani e li hanno accusati di aver falsificato i documenti nel tentativo di impossessarsi della casa.

La casa della famiglia Abu Rajab è costituita da tre piani. Al-Tamimi ha detto che, in seguito al caso in corso relativo alla casa, il tribunale israeliano ha deciso che nessuno possa entrare al secondo e al terzo piano dell’edificio finché non verrà stabilita una decisione del tribunale.

Ha affermato che il tribunale ha anche deciso di mettere la casa sotto la “protezione” dell’esercito israeliano e dell’Amministrazione Civile [il governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] israeliana.

L’Ong e osservatorio sulle colonie israeliano “Peace Now” ha rilasciato una dichiarazione in cui conferma che circa 15 famiglie di coloni sono entrate nella casa senza autorizzazione.

“La lunga controversia legale su chi sia il proprietario non è ancora arrivata alla fine, ma ciò non ha impedito ai coloni di invaderla oggi,” afferma il comunicato.

“Peace Now” ha spiegato che la commissione del registro dell’Amministrazione Civile israeliana ha rigettato le affermazioni dei coloni di averla acquistata, e i coloni che hanno impugnato la decisione stavano aspettando di comparire di nuovo davanti alla commissione.

“Finora i coloni non sono stati in grado di dimostrare la proprietà e i palestinesi sostengono che non è stata acquistata. Oltretutto i coloni rivendicano solo una proprietà parziale dell’immobile. Inoltre, anche se alla fine i coloni provassero di avere la proprietà, ciò non rappresenterebbe una ragione sufficiente per fondare un nuovo insediamento nel cuore della città palestinese di Hebron” afferma “Peace Now”.

La dichiarazione continua: “La fondazione di un nuovo insediamento a Beit HaMachpela ostacolerebbe seriamente la libertà di movimento dei palestinesi e si aggiungerebbe alla crescente tensione nella zona.”

“Chiediamo che il governo ordini l’immediata evacuazione dei coloni che hanno invaso Beit HaMachpela. Dopo che le loro pretese di proprietà sono state rigettate, i coloni hanno deciso di farsi giustizia da soli e di costituire una colonia illegale che potrebbe incendiare la regione. Chiediamo al Primo Ministro e al Ministro della Difesa di rispettare la legge e gli interessi israeliani e di evacuare senza indugio gli intrusi.”

Situata nel centro di Hebron – una delle maggiori città della Cisgiordania occupata – la Città Vecchia è stata divisa tra zone sotto controllo palestinese e sotto il controllo israeliano, note come H1 e H2, in seguito al massacro della moschea di Ibrahim [nel 1994 un colono israeliano entrò nella moschea vestito da soldato ed uccise 29 palestinesi in preghiera prima di essere linciato dalla folla, ndt.].

Circa 800 coloni israeliani notoriamente molto aggressivi vivono ora sotto la protezione dell’esercito israeliano nella Città Vecchia, circondati da più di 30.000 palestinesi.

I residenti palestinesi della Città Vecchia devono fare i conti quotidianamente con una massiccia presenza di militari israeliani, con almeno 20 check point situati alle entrate di molte strade, così come della stessa moschea di Ibrahim.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestinese colpito ed arrestato dopo aver ucciso 3 israeliani in un attacco all’arma bianca in una colonia

Ma’an News

21 luglio 2017

Betlemme (Ma’an) – Un palestinese è stato colpito e, a quanto riferito, versa in condizioni non gravi dopo aver fatto irruzione in una casa di una colonia israeliana illegale nel centro della Cisgiordania occupata ed aver compiuto venerdì sera, secondo l’esercito israeliano, un attacco all’arma bianca che ha causato la morte di tre israeliani e un ferito.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che un aggressore è entrato in una casa della colonia illegale di Halamish, nota anche come Neve Tzuf ed ha accoltellato quattro israeliani.

Due sono morti poco dopo in seguito alle ferite ed altri due sono stati portati in ospedale in gravi condizioni. Di un terzo è stata confermata la morte.

Il portavoce ha detto che l’assalitore è stato colpito. E’ stato identificato dai media israeliani come Omar al-Abed, tra i 19 e 20 anni, del vicino villaggio di Kobar, nella parte settentrionale del distretto di Ramallah.

Secondo il sito israeliano di notizie Ynet, un settantenne, suo figlio e sua figlia, sui trent’anni, sono stati uccisi e la loro madre di 68 anni è rimasta gravemente ferita.

Secondo quanto riportato, quando l’aggressore ha fatto irruzione nella casa i quattro stavano cenando per lo Shabbat con circa 10 membri della loro famiglia. Alcuni sono riusciti a nascondersi in un’altra stanza, a chiamare la polizia e urlare per chiedere aiuto. Secondo Ynet un vicino, soldato dell’esercito israeliano, avrebbe sentito del trambusto, sarebbe arrivato sul posto ed avrebbe sparato ferendo in modo non grave l’assalitore.

Secondo i media israeliani, prima di mettere in atto l’attacco, al-Abed ha scritto su Facebook: “Ho molti sogni e credo che si realizzeranno, amo la vita e rendere felici gli altri, ma cos’è la mia vita quando loro (Israele) uccidono donne e bambini e profanano la nostra Al-Aqsa?”

L’attacco mortale ha avuto luogo dopo che tre palestinesi sono stati uccisi – due dei quali dalla polizia israeliana ed uno, a quanto riportato, da un colono israeliano – quando, venerdì mattina, a Gerusalemme massicce manifestazioni di disobbedienza civile sono degenerate in violenti scontri.

Altre centinaia di palestinesi disarmati sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di proteste nei territori occupati contro le nuove misure per la sicurezza nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme occupata, imposte in seguito alla sparatoria mortale della scorsa settimana nel luogo sacro, con un bilancio di tre aggressori palestinesi e due poliziotti israeliani uccisi.

I palestinesi hanno visto le misure ad Al-Aqsa come l’ennesimo esempio del fatto che le autorità israeliane utilizzano le violenze e le tensioni tra israeliani e palestinesi come mezzo per accentuare il controllo su importanti luoghi nei territori palestinesi occupati e per normalizzare crescenti misure che prendono di mira i palestinesi da parte delle forze israeliane.

Secondo informazioni, in risposta all’attacco alla colonia il portavoce di Hamas Husam Badran avrebbe detto: “Continueremo a lottare contro l’occupazione in ogni punto di frizione per appoggiare Al-Aqsa.”

In seguito all’incidente, un notevole numero di forze israeliane ha fatto un’incursione a Kobar ed ha imposto la chiusura del villaggio, consentendo l’uscita o l’entrata al villaggio solo a “casi umanitari” – una tipica risposta dell’esercito israeliano ad attacchi mortali contro israeliani, che viene regolarmente denunciata dai gruppi per i diritti umani come una punizione collettiva messa in atto contro palestinesi innocenti.

Il quotidiano israeliano “Haaretz” ha informato che durante la notte forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di al-Abed ed hanno arrestato suo fratello, iniziando i preparativi per la demolizione della casa.

L’esercito israeliano avrebbe anche arrestato un palestinese disarmato “sospetto” nei pressi di Halamish, secondo quanto riferito da Ynet, che afferma che l’esercito israeliano stava verificando se fosse in qualche modo coinvolto nell’incidente.

Si prevede che ulteriori truppe verranno schierate nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Tre palestinesi sono stati uccisi negli scontri per Al-Aqsa a Gerusalemme e in Cisgiordania

Ma’an News , 21 luglio 2017

Betlemme (Ma’an) – Secondo informazioni raccolte da Ma’an, venerdì tre palestinesi sarebbero stati colpiti ed uccisi durante scontri nella Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate, nel corso di incidenti su vasta scala nei territori palestinesi occupati in seguito a nuove misure di sicurezza presso il complesso della moschea di Al-Aqsa.

Le morti sono avvenute venerdì durante grandi manifestazioni a Gerusalemme est per denunciare le nuove misure israeliane per la sicurezza nei pressi della moschea di Al-Aqsa in seguito all’attacco mortale della scorsa settimana.

Le forze israeliane hanno represso violentemente le proteste a Gerusalemme est, così come altre marce in solidarietà nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza sotto assedio, mentre la Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a Ma’an che venerdì almeno 193 palestinesi sono rimasti feriti a Gerusalemme est e in Cisgiordania.

Secondo le informazioni in possesso di Ma’an, nel 2017 49 palestinesi, 14 dei quali nel solo mese di luglio, sono stati uccisi dagli israeliani.

Un palestinese sarebbe stato ucciso da un colono israeliano a Ras al-Amoud

Fonti mediche hanno detto a Ma’an che un adolescente palestinese è stato ucciso durante scontri nel quartiere di Ras al-Amoud a Gerusalemme est, mentre testimoni affermano che il giovane è stato ammazzato da un colono israeliano.

Il giovane è stato identificato come il diciottenne Muhammad Mahmoud Sharaf, del quartiere di Silwan.

Testimoni affermano che Sharaf è stato colpito al collo da un colono israeliano ed è poi morto in seguito alle ferite.

Subito dopo la sua morte i familiari in lutto hanno fatto il funerale di Sharaf, per paura che le autorità israeliane confiscassero il suo corpo, mentre i partecipanti scandivano slogan sul giovane e su Al-Aqsa.

Nel contempo un altro palestinese, identificato da fonti mediche come Muhammad Abu Ghanam, è morto in seguito a ferite nell’ospedale al-Makassed dopo essere stato colpito dalle forze di polizia israeliane durante scontri nel quartiere di al-Tur a Gerusalemme.

Testimoni hanno affermato che venerdì sera forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ospedale cercando di arrestare palestinesi feriti durante gli scontri.

Un giornalista di Ma’an presente sul posto ha detto che si è tenuto rapidamente anche il funerale di Abu Ghanam, in quanto palestinesi sono stati filmati mentre trasportavano il suo corpo oltre un muro che circonda l’ospedale al-Makassed, per evitare che le forze israeliane se ne impossessassero.

Testimoni affermano che le forze israeliane hanno sparato bombe assordanti nel cimitero di al-Tur durante il funerale. Persone del posto hanno detto a Ma’an che Abu Ghanam aveva vent’anni, era un abitante di al-Tur ed era al secondo anno di studi presso l’università di Birzeit.

Palestinese colpito ed ucciso durante la manifestazione ad Abu Dis.

Nel pomeriggio di venerdì il ministro palestinese della Sanità ha detto che un palestinese è deceduto in seguito a ferite in un ospedale di Ramallah dopo essere stato colpito al petto dalle forze israeliane durante una manifestazione nel villaggio di Abu Dis, nel distretto di Gerusalemme, in Cisgiordania.

Il palestinese ucciso è stato identificato da fonti locali come il diciassettenne Muhammad Mahmoud Khalaf, mentre secondo altre fonti si tratterebbe di Muhammad Lafi.

Venerdì sera il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha emesso un comunicato in cui celebra Muhammad Khalaf come un “eroico martire” che è morto “per appoggiare Al-Aqsa e in rifiuto delle politiche vigliacche e razziste dell’occupazione (israeliana).”

Il FDLP aggiunge che Khalaf e la sua famiglia sono militanti del movimento di sinistra, e che il giovane aveva di recente superato i suoi esami di maturità e dirigeva il comitato studentesco nell’istituto arabo di Abu Dis.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Robert Piper dell’ONU: gli attori politici stanno perdendo di vista la sofferenza dei civili a Gaza

Ma’an News– 11 luglio 2017

Chloe Benoist

Gerusalemme (Ma’an) – Martedì le Nazioni Unite hanno reso pubblico un rapporto che lancia l’allarme rispetto alla situazione umanitaria in continuo peggioramento nella Striscia di Gaza sotto assedio, un mese dopo che il territorio palestinese ha segnato il decimo anniversario sotto il blocco israeliano.

Il rapporto, intitolato “Gaza dieci anni dopo”, avverte soprattutto che l’acquifero di Gaza potrebbe diventare inutilizzabile entro la fine dell’anno, oltre alle continue crisi energetiche e sanitarie, mentre più di metà dei due milioni di abitanti di Gaza soffre di insicurezza alimentare.

Resta fondamentale che la gente di Gaza abbia la possibilità di vivere una vita degna, sana e produttiva in pace e sicurezza e che l’attuale spirale discendente sia invertita,” ammonisce il rapporto. “Senza questi passi Gaza diventerà più isolata e più disperata, aumenterà la minaccia di una nuova e più devastante escalation e le prospettive di una riconciliazione tra i palestinesi scemeranno – e lo stesso avverrà con le prospettive di pace tra Israele e Palestina.”

In occasione della diffusione del rapporto, il coordinatore per l’aiuto umanitario e le attività di sviluppo nei territori palestinesi dell’ONU si è incontrato martedì con Ma’an ed ha discusso della perdurante crisi a Gaza, così come della gestione da parte dell’ONU delle tensioni quando si occupa delle violazioni delle leggi internazionali nei territori palestinesi occupati. L’intervista, pubblicata per la sua chiarezza e brevità, può essere letta qui di seguito.

Quali erano le intenzioni dell’ONU nella pubblicazione del rapporto, due anni dopo aver messo in guardia sul fatto che Gaza potrebbe diventare invivibile entro il 2020?

In primo luogo, ogni volta che cerchiamo di condividere la vicenda di Gaza, siamo costantemente attaccati da diverse angolature perché la successione dei fatti sarebbe sbagliata, perché banalizzeremmo la situazione, perché non citeremmo qualcuno, e così di seguito. Nell’ambito dell’ONU c’è questa preoccupazione che, anno dopo anno, perdiamo di vista i civili coinvolti nella tragedia che è oggi Gaza, e non dobbiamo perdere alcuna occasione per parlare della loro vicenda.

In secondo luogo, è il decennale, un anniversario tragico di almeno tre avvenimenti: la presa di potere violenta da parte di Hamas a Gaza, il rafforzamento della chiusura veramente rigida – un vero e proprio blocco da quando Hamas ha preso il sopravvento – e la conseguente separazione che ne è seguita tra Gaza e la Cisgiordania.

Nel rapporto lei afferma di aver visitato Gaza due volte al mese. Cosa le hanno detto i gazawi su come vedono la situazione?

I gazawi sono davvero molto resilienti. Sono orgogliosi, e non vogliono in un certo senso lamentarsi e dimostrare debolezza, c’è un elemento di incredibile stoicismo e resistenza che è veramente sbalorditivo. Ma si ha rapidamente questa sensazione di sfinimento tra i comuni gazawi, che ne hanno passate così tante, per così tanto tempo, e hanno la sensazione che nessuno sia realmente dalla loro parte. Francamente non hanno niente di buono da dire su nessun dirigente. Penso che si sentano terribilmente abbandonati.

E quando incontri un sottogruppo di persone particolarmente vulnerabili – donne con cancro al seno, bambini che necessitano di apparecchiature per la dialisi – capisci che, mentre ci può essere una parte della gente che in qualche modo se la può cavare, ben presto arrivi ad un’altra fascia di persone terribilmente vulnerabili che sono imprigionate a Gaza, sono terribilmente dipendenti dall’elettricità, dalle cure mediche, dai permessi (israeliani) per raggiungere un ospedale, e sono sempre più disperate.

Crede che ci sia tempo per evitare una crisi umanitaria ancora peggiore o abbiamo ormai raggiunto un punto in cui Gaza è invivibile?

E’ possibile modificarla, ma dobbiamo fare in fretta, e in primo luogo bisogna mettere quella gente, se non in cima, almeno un po’ più in alto nell’agenda. Al momento stanno languendo troppo in fondo alla lista delle priorità, ma c’è molto che si può fare e può essere fatto in fretta. La situazione non è facile da risolvere perché ci sono tante di quelle diverse dimensioni che vanno insieme contemporaneamente, ma assolutamente, siamo al cento per cento ottimisti che sia fattibile se c’è la volontà da parte degli attori principali che questo avvenga.

Pensa che oggi ci sia questa volontà?

Il fatto che abbiamo dovuto scrivere questo rapporto e che questo rapporto racconti una storia così triste di un de-sviluppo praticamente secondo ogni possibile indicatore, penso risponda a quella domanda. Non c’è il tipo di interessamento che ci dovrebbe essere, non c’è il tipo di impegno che ci aspettiamo di vedere oggi.

Il rapporto afferma che tenta di “guardare oltre le polemiche” quando si discute della crisi di Gaza – ma perché il documento cita solo brevemente la recente decisione dell’ANP di tagliare l’elettricità a Gaza, una decisione che lei ha denunciato in giugno?

Stiamo realmente tentando di dedicare attenzione ad una vicenda di dieci anni di decadimento strutturale in praticamente tutti i settori. Non ci sono aggiustamenti a breve termine, per cui abbiamo preso la decisione consapevole di non approfondire troppo la crisi attuale, perché è oscurata da una storia decennale. Spero davvero che la saga attuale sulle forniture di elettricità israeliane sia solo una nota marginale sperabilmente risolta in un tempo relativamente breve, ma di nuovo, dobbiamo essere molto chiari: nei giorni buoni Gaza ha il 40% dell’elettricità di cui ha bisogno. Nessun bambino di 12 anni ricorda più di 12 ore di elettricità al giorno. E’ terribile, e stiamo cercando di attirare l’attenzione su quella vicenda.

Il rapporto mette davvero in luce le responsabilità di Hamas nella situazione di Gaza e le sue violazioni delle leggi internazionali, ma è formulato in modo ambiguo quando si riferisce alle violazioni israeliane, facendo spesso riferimento al blocco con il termine più velato di “restrizioni all’accesso ed al movimento.” Ciò è parte della decisione di “andare oltre le polemiche”?

Penso che troverà che il documento fa riferimento in modo non ambiguo al blocco, che troverà la condanna delle azioni da parte di Israele, della mancanza di responsabilizzazione, di “punizione collettiva”. Troverà alcuni commenti realmente duri su Hamas e su come governa Gaza, ma troverà anche qualche analisi di opportunità mancate da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e così di seguito. Penso che vi troverà qualcosa riguardo a ciascuno.

Se vuole essere onesta nel cercare di raccontare la vicenda (a Gaza), deve mettere in collegamento questi tre avvenimenti – il blocco, la presa di potere di Hamas, la divisione dell’amministrazione palestinese. Quello che ci siamo rifiutati di fare è stato di isolare ognuno di questi fattori e dire “se solo non fosse successo questo, tutto sarebbe andato bene.” Sono tutte parti integranti nella comprensione del disastro che Gaza è oggi. Penso che una lettura onesta del rapporto arriverebbe alla conclusione che nessuno la fa franca e nessun problema è preso da solo come l’unica causa determinante.

Per utilizzare un solo esempio, quando il rapporto parla del ricorrente conflitto nella Striscia di Gaza e quindi invita “entrambe le parti” a rispettare “i principi di distinzione, proporzionalità e precauzione” durante i periodi di guerra, cosa risponde l’ONU alle critiche secondo cui questo tipo di affermazioni mette sullo stesso piano le violazioni palestinesi ed israeliane ed elimina le violazioni su più larga scala di tali principi di una delle parti?

Probabilmente lei sa molto bene che durante le ostilità del 2014 ci sono state violazioni da entrambe le parti e c’è stata una commissione di inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU che ha dettagliato correttamente le prove e le raccomandazioni in merito alle violazioni da parte di entrambi. L’ONU da allora ha chiesto che ne rendessero conto e non ha visto quasi nessuno da entrambe le parti [pagare le conseguenze]. A quel punto, non ci siamo addentrati in problemi di proporzionalità – penso che quando le leggi internazionali sono violate, sono violate, e questo è tutto. In questo rapporto non abbiamo davvero avuto lo spazio – o il desiderio – di entrare in maggiori dettagli. Per noi il punto è che entrambe le parti hanno violato le leggi internazionali, e che non c’è stata una sufficiente assunzione di responsabilità da parte di entrambi per queste violazioni, e non penso che noi dobbiamo andare molto oltre.

Lei pensa che ci sia una qualche reticenza degli organismi dell’ONU nell’essere troppo critici di una parte specifica del conflitto – Israele – date le reazioni a un rapporto dell’ESCWA [Commissione economica e sociale dell’ONU per l’Asia occidentale, un cui rapporto del marzo 2017 che accusava Israele di praticare un sistema di apartheid a danno dei palestinesi è stato censurato dal Segretario Generale. In seguito a ciò la presidentessa dell’ESCWA ha presentato le sue dimissioni per protesta, ndtr.] e alla recente risoluzione dell’UNESCO [che ha stabilito che La Città Vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim sono parte del patrimonio culturale palestinese e sono in pericolo, ndt] quest’anno? E’ una cosa che avete preso in considerazione?

Prendiamo in considerazione come questi rapporti verranno recepiti, ma non ci si sbagli: possiamo essere impopolari per chiunque in diversi momenti dell’anno. E’ la natura del nostro lavoro, soprattutto in un contesto in cui abbiamo quello che chiamiamo un’operazione di protezione. L’obiettivo fondamentale di questo rapporto – e resta da vedere se ci riuscirà o meno – è fare la storia dell’impatto di queste misure su civili innocenti al centro della narrazione, invece che delle politiche o della sicurezza, e non consentire che questa vicenda sia monopolizzata da parti interessate. I dati di questo rapporto – l’impatto sull’acquifero, il peggioramento dei servizi per la salute, l’insicurezza alimentare peggiorata, i livelli di povertà e di disoccupazione – questi dati non sono politici. E’ una vicenda di sofferenze umane che devono essere messe al centro, e ciò non deve essere strumentalizzato da nessuno, e sfideremo chiunque a farlo.

Lei pensa che questi problemi possano essere affrontati separatamente dal contesto politico?

Non separatamente, ma se lei mette gli interessi (umanitari) di due milioni di persone al primo posto quando guarda alle soluzioni, sicuramente ciò influenzerà e orienterà le scelte politiche che si faranno. Il grado in cui sei disposto ad arrivare a compromessi è in parte sicuramente determinato da quanta importanza si attribuisce al livello di sofferenza che si sta vedendo oggi a Gaza.

Quali azioni concrete lei spera che prenderà la comunità internazionale in seguito a questo rapporto?

Penso che la comunità internazionale debba essere presente sia nei momenti di crisi in termini di soccorso, ma anche per appoggiare a lungo termine gli investimenti necessari. Gaza si trova in una specie di circolo vizioso di crisi, ricostruzione, crisi, ricostruzione. Abbiamo bisogno di importanti investimenti infrastrutturali, per cui onestamente si tratta di un altro tipo di fondi da parte di un diverso tipo di investitori rispetto a quelli che sono stati disponibili per Gaza nell’ultimo decennio. Abbiamo bisogno di una comunità internazionale con una maggiore disponibilità al rischio di quella di oggi, perché questo è un contesto complicato e ad alto rischio. Molti investitori, molti donatori sono preoccupati di investire molto denaro in un simile contesto.

C’è anche la necessità di una comunità internazionale che faccia pressione sugli attori coinvolti in modo consistente e coordinato. Non ci possiamo permettere di avere una comunità internazionale frammentata che reagisce all’ultimo sviluppo di una crisi, abbiamo bisogno di coesione della comunità internazionale, che è una cosa veramente rara da vedere.

Pensa che il suo lavoro sia stato influenzato dall’elezione del presidente USA Donald Trump?

Il mio non è un lavoro politico, è umanitario e per lo sviluppo, per cui non sono così tanto sensibile a ciò. Per essere onesto, penso che buona parte del lavoro che facciamo è stato sottoposto a intense pressioni ormai da parecchi anni. Se misuriamo il nostro lavoro in termini del numero di demolizioni nell’Area C [zona della Cisgiordania sotto temporaneo controllo totale israeliano in base agli accordi di Oslo, ndt.], del numero di persone che hanno ottenuto un permesso di cura del cancro fuori da Gaza, è veramente molto scoraggiante, ad essere onesti, non solo negli ultimi sei mesi, ma negli ultimi anni. Per cui penso che abbiamo sfide difficili di fronte a tutti noi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il carburante importato dall’Egitto evita il totale collasso della Striscia di Gaza.

24 giugno, 2017 , Maan News

Gaza City (Ma’an). – Un milione di litri di carburante fornito dall’Egitto, ultimo di diverse forniture mandate dalle autorità egiziane,. sta per entrare sabato nella Striscia sotto assedio attraverso il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, per venire in soccorso del territorio colpito da una devastante carenza di elettricità.

Lo scorso mese le autorità israeliane hanno annunciato il drastico taglio dell’energia fornita al territorio assediato su richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese della Cisgordania occupata, che paga la bolletta mensile di Gaza a Israele detraendo[la] dalle tasse raccolte da Israele per conto dell’ANP.

In base ai resoconti di giovedì le autorità israeliane hanno ridotto l’offerta di elettricità del 60%. Tuttavia, notizie più recenti hanno verificato che Israele ha approvato di ridurre del 40% la fornitura di carburante al territorio.

Il carburante egiziano allevia la crisi energetica di Gaza

Khalil Shaqfa, capo della Commissione petrolifera della Striscia di Gaza, ha riferito a Ma’an che, in seguito a colloqui tra Hamas, che governa de facto Gaza, e le autorità egiziane, l’Egitto avrebbe fornito carburante per il consumo nelle stazioni di benzina private e nell’unica centrale di energia elettrica dell’enclave costiera, chiusa in aprile quando i funzionari del servizio elettrico a Gaza hanno affermato di non poter pagare una tassa sul diesel imposta dall’ANP, che avrebbe raddoppiato il costo di esercizio dell’impianto.

La centrale elettrica non ha funzionato a pieno regime per anni, per il durissimo blocco israeliano che ha limitato fortemente le importazioni di carburante nell’enclave costiera.

Ciò ha fatto sì che le linee elettriche israeliane fossero le uniche sorgenti efficienti di energia che alimentavano il territorio impoverito, dal momento che le linee egiziane che fornivano elettricità alla parte meridionale di Gaza erano spesso fuori servizio per problemi tecnici.

A quanto riferisce Shaqfa, 700.000 litri di diesel sono stati forniti alle stazioni di servizio private di Gaza per essere venduti ai residenti a 4.37 shekel al litro (1,10 euro), mentre un litro di diesel importato da Israele è venduto a 5,37 shekel (circa 1,30 euro). Gli abitanti , ha detto, faranno la loro scelta rispetto a quale carburante preferiscono comprare.

Shafqa ha messo in evidenza che, mentre il carburante egiziano continua a essere importato dentro Gaza, insieme alla quantità ridotta israeliana, non è sufficiente a sostituire tutto il carburante israeliano da cui dipendono i palestinesi di Gaza.

Shaqfa non ha detto per quanto tempo è prevista l’importazione del carburante egiziano nella Striscia e se l’accordo sia di lungo periodo o solamente temporaneo.

Alleanze improbabili in presenza di tensioni più forti tra Hamas e l’ANP

Secondo quanto riferito, l’ANP ha tentato di impedire la fornitura di carburante egiziano alla centrale elettrica di Gaza e ha minacciato misure punitive, incluso che l’ANP avrebbe cessato il pagamento mensile alla centrale se avesse importato il carburante egiziano, costringendo Hamas a ottenere un’ordinanza della magistratura per imporre all’impianto di accettare la fornitura di carburante.

Altre notizie hanno riportato che la fornitura di carburante è il risultato di recenti colloqui tra Hamas e il dimissionato dirigente di Fatah Muhammad Dahlan, il rivale politico del presidente Mahmoud Abbas.

Dahlan, che, nonostante risieda a Abu Dhabi in esilio, continua ad avere un’influenza politica nella regione, in base a notizie riportate ha convinto il governo egiziano a mandare il carburante al territorio sotto assedio.

Dahlan, essendo stato un fiero oppositore del governo di Hamas a Gaza dopo il successo di quest’ultima alle elezioni del 2006 che ha provocato un prolungato conflitto interno tra Fatah e Hamas, sembra essere l’improbabile alleato politico di Hamas.

Ciononostante Dahlan e il movimento di Hamas hanno iniziato una serie di colloqui che gli esperti hanno interpretato come l’opposizione concomitante di Hamas e Dahlan all’Autorità Nazionale Palestinse (ANP) guidata da Abbas nella Cisgiordania occupata.

Sebbene l’ANP abbia giustificato la propria decisione di tagliare i fondi per l’elettricità al fatto che Hamas non stesse rimborsando il governo con sede a Ramallah, in genere tra i palestinesi e tra chi critica [l’ANP] a livello internazionale si ritiene che l’ANP a guida Fatah stia realmente cercando di esercitare una pressione su Hamas perché rinunci al controllo dell’enclave costiera assediata e ceda il territorio all’ANP.

Con un altro colpo di scena, il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman, di destra, ha criticato la decisione di Abbas di tagliare da parte dell’ANP il pagamento del carburante israeliano alla Striscia di Gaza e ha accusato Abbas di cercare di influenzare Hamas a intraprendere la guerra contro Israele esasperando deliberatamente la crisi nel territorio assediato.

Abbas sta aumentando i tagli e fra poco cesserà di pagare i salari a Gaza e anche l’importazione di carburante nella Striscia in base a una duplice strategia: colpire Hamas e trascinarlo alla guerra contro Israele” ha detto, secondo quanto riferito.

Israele costretto ad assicurare la fornitura di carburante a Gaza

Gaza, che la scorsa settimana ha segnato il decimo anno sotto il blocco imposto da Israele, ha lottato per anni con la carenza di energia dovuta al limitato ingresso di carburante e al degrado delle infrastrutture

Anche l’Egitto, che confina con il sud di Gaza, ha partecipato al blocco, dopo che il presidente Al Sisi ha spodestato il governo dei Fratelli Musulmani nel 2013, chiudendo in seguito il valico di Rafah ai palestinesi.

Molti gazawi non possono entrare o uscire dall’enclave costiera assediata, a volte per diversi mesi, dal momento che le autorità egiziane aprono solo periodicamente il valico di Rafah, rimanendo bloccati i palestinesi su entrambi i lati del valico durante le chiusure.

La settimana scorsa il responsabile del dipartimento di radiologia degli ospedali pubblici di Gaza Ibrahim Abbas ha detto che il macchinario della diagnostica radiologica che è stato acquistato nel decennio passato – a un valore stimato in 10 milioni di dollari ( 894.000.000 euro) -, potrebbe presto andare perso per la sensibilità alle interruzioni di elettricità – aggravate da un’altra crisi finanziaria del centro ospedaliero in seguito ai tagli operati dall’ANP ai finanziamenti per le apparecchiature mediche e farmaci.

La crisi umanitaria a Gaza deve essere un campanello d’allarme per chiunque sia in grado di risolvere il problema” ha detto Ran Goldstein, direttore esecutivo dei Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI).

I bambini di Gaza sono diventati ostaggio del gioco politico portato avanti da ANP, Hamas e Israele. Ci vuole un mutamento drastico e immediato, fornendo farmaci, finanziamenti ed elettricità, aprendo Gaza al mondo esterno e offrendo assistenza umanitaria urgente” ha aggiunto Goldstein.

Mercoledì Chris Gunness , portavoce del UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, in un comunicato ha sottolineato che prima dell’attuale crisi Gaza stava già ricevendo meno della metà dei 450/ 500 megawatt necessari all’enclave costiera.

Gunness ha citato il ministro della Sanità di Gaza, che ha avvertito che 40 camere operatorie e 11 camere operatorie di ginecologia, che conducono circa 250 interventi chirurgici al giorno a Gaza, sono ora a rischio.

La scorsa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani “Gisha” ha affermato che, con altre 15 associazioni della società civile, ha mandato una lettera al procuratore generale chiedendo che il governo israeliano ritorni sulla sua decisione di ridurre [l’approvvigionamento] di carburante a Gaza.

Secondo il gruppo la Corte suprema israeliana nel 2008 ha emesso una sentenza affermando che “anni di occupazione militare israeliana nell’area hanno determinato una completa se non totale dipendenza di Gaza dall’elettricità fornita da Israele”, e ha stabilito che Israele ha una responsabilità nel permettere le importazioni delle merci per assicurare le necessità umanitarie basilari dei palestinesi a Gaza.

Gisha ha sottolineato che tuttavia Israele ha continuato a fornire all’enclave assediata solamente 120 megawatt, nonostante una crescita della popolazione e una domanda di elettricità, raddoppiata da quando la corte ha emanato la sentenza.

Inoltre, nonostante l’aggravarsi della crisi di carburante, Israele ha continuato a centellinare l’ingresso della maggior parte delle attrezzature richieste dai palestinesi di Gaza per attenuare la carenza di energia, quali “generatori e i loro pezzi di ricambio, batterie e componenti per evitare le interruzioni di energia”, facendo riferimento alla valutazione israeliana secondo cui questi beni hanno un “uso duplice”, Gisha ha riferito, nel senso che possono essere usati sia per scopi civili che militari.

Israele non può sostenere di non essere altro che un fornitore di servizi, che risponde in modo neutrale a una richiesta di un cliente. Dato il suo totale controllo sulla vita della Striscia, Israele, in qualità di potenza occupante nella Striscia, ha il dovere di assicurare una vita normale ai suoi abitanti”, è scritto nella lettera.

La lettera afferma che Israele è “obbligato a trovare soluzioni” alla crisi e a continuare a fornire il carburante a Gaza “alla capacità esistente”, aggiungendo che Israele deve intraprendere dei passi verso un incremento dell’offerta per permettere agli abitanti, le cui tasse sono raccolte da Israele, un accesso a condizioni di vita accettabili”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Lieberman: neanche un solo rifugiato palestinese tornerà nella sua terra in Israele

23 giugno 2017,Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – In un discorso tenuto alla conferenza di Herzliya in Israele, in cui si discutono [periodicamente] le politiche nazionali del Paese, il ministro della Difesa di estrema destra Avigdor Lieberman ha negato la possibilità, per i palestinesi profughi dalla Palestina storica su cui è stato costruito Israele, di ritornare alle loro terre all’interno dei confini del 1967, diritto sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Non accetteremo il ritorno anche di un solo rifugiato all’interno dei confini del ‘67”, avrebbe detto Lieberman. “Non ci sarà mai più un altro primo ministro che faccia proposte ai palestinesi come ha fatto Ehud Olmert”, ha aggiunto, riferendosi ad una proposta di pace del 2008 avanzata dall’ex primo ministro.

Il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi è una delle principali richieste tra i palestinesi e i loro dirigenti. Essa rappresenta anche un potente legame simbolico con le loro terre e case da cui furono espulsi, in quanto molti palestinesi possiedono ancora le chiavi originali delle loro case occupate dallo Stato di Israele 69 anni fa.

Secondo i media israeliani, Lieberman ha anche detto che una conclusione del decennale conflitto israelo-palestinese “non risolverà i problemi – li peggiorerà”, ed ha sottolineato che Israele dovrebbe anzitutto “raggiungere un accordo regionale con gli Stati sunniti moderati e solo in seguito un accordo con i palestinesi.”

Ha poi messo in discussione anche la legittimità della presenza dei cittadini palestinesi al parlamento israeliano, la Knesset, evidenziando che il blocco politico ‘Lista Unita’ – che rappresenta nella Knesset partiti guidati da cittadini palestinesi di Israele – ha rifiutato di aderire alle ideologie sioniste.

L’unico luogo che non vogliono lasciare è Israele. Perché? Perché stanno bene qui”, ha detto, riferendosi ai palestinesi cittadini di Israele, che costituiscono circa il 20% della popolazione, le cui famiglie vivevano nelle terre della Palestina storica prima della creazione dello Stato di Israele.

Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese (PCBS), il 66% dei palestinesi che viveva nella Palestina del mandato britannico nel 1948 fu espulso dalla Palestina storica e scacciato dalle proprie case e terre durante il processo di creazione dello Stato di Israele, evento a cui i palestinesi si riferiscono come Nakba, o catastrofe.

Riguardo a Gaza, Lieberman avrebbe detto “Non credo che abbiamo bisogno di parlarne. Non finirà presto”, dopo aver definito la tremenda situazione nel territorio palestinese sotto assedio una “crisi interna ai palestinesi”, facendo eco alle dichiarazioni dell’ambasciatore USA alle Nazioni Unite Nikki Haley, che ha attribuito tutta la colpa della tragica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza assediata ad Hamas, ed assolto Israele da ogni responsabilità per la perdurante crisi.

Lieberman ha anche accusato il presidente palestinese Mahmoud Abbas di cercare di spingere Hamas alla guerra contro Israele esacerbando la crisi a Gaza con il taglio dei pagamenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per l’elettricità fornita a Gaza da Israele.

Abbas sta per incrementare i tagli e presto interromperà i pagamenti dei salari a Gaza ed il rifornimento di carburante alla Striscia, nell’ambito di una strategia su due fronti: colpire Hamas e spingerlo alla guerra con Israele”, avrebbe detto.

Le dichiarazioni di Lieberman sono state rilasciate nel bel mezzo di un tentativo di ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi da parte del destrorso Presidente USA Donald Trump.

Recentemente, mercoledì sera, nella città di Ramallah nella Cisgiordania occupata si è tenuto un incontro tra Abbas ed il genero e principale consigliere di Trump, Jared Kushner, per discutere di una ripresa dei colloqui di pace con Israele.

In quell’occasione il membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, Wasel Abu Yousif , in una dichiarazione ha detto che rilanciare un processo politico richiede certi requisiti basati sul diritto internazionale: deve essere fissato un limite di tempo per porre fine alla cinquantennale occupazione israeliana dei territori palestinesi, per stabilire uno Stato palestinese lungo i confini del 1967 con capitale Gerusalemme est, e i rifugiati palestinesi devono avere garanzia del diritto al ritorno alle case ed ai villaggi da cui sono stati espulsi.

Tuttavia i dirigenti israeliani sono stati espliciti nel respingere le pretese dell’ANP su Gerusalemme est, che è stata ufficialmente annessa da Israele nel 1980, e hanno ripetutamente proclamato la loro opposizione al ritorno dei rifugiati palestinesi o persino alla sospensione dell’espansione delle colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati.

Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione della destra israeliana, ha anche presentato un disegno di legge al parlamento israeliano che impedirebbe ogni futura divisione di Gerusalemme, emendando la Legge Fondamentale israeliana su Gerusalemme in modo che sia necessaria l’approvazione di 80 dei 120 membri della Knesset per apportare cambiamenti alla legge, invece della maggioranza semplice.

Lo scopo di questa legge è di unificare Gerusalemme per sempre”, avrebbe detto Bennett, aggiungendo che la sua proposta di legge renderebbe “impossibile” dividere Gerusalemme.

Mentre l’ANP e la comunità internazionale non riconoscono la legittimità dell’occupazione di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania a partire dal 1967, molti palestinesi ritengono che tutta la Palestina storica sia stata occupata fin dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Un crescente numero di militanti ha criticato la soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese come insostenibile e non atta a consentire una pace durevole, stante l’esistente contesto politico, proponendo al suo posto uno Stato binazionale con eguali diritti per israeliani e palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




FPLP e Hamas rivendicano la responsabilità dell’attacco letale a Gerusalemme

17 giugno 2017Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – L’organizzazione di sinistra Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e il movimento Hamas hanno entrambi rivendicato la responsabilità per l’attacco omicida di venerdì nella Gerusalemme est occupata, mentre, secondo una dichiarazione rilasciata sabato dal gruppo, il FPLP ha definito gli attaccanti palestinesi uccisi “eroi” del popolo palestinese.

Tutti e tre i palestinesi, che erano armati di coltelli e di un’arma automatica, sono stati uccisi sul posto dalla polizia israeliana nei pressi della Porta di Damasco nella Città Vecchia di Gerusalemme. Un’ufficiale della polizia israeliana di 23 anni è stata uccisa nell’attacco, mentre un certo numero di persone presenti sul luogo sono rimaste ferite. Il ministero della Salute palestinese ha identificato gli attaccanti uccisi come Adel Hasan Ahmad Ankoush e Baraa Ibrahim Salih Taha, di18 anni, e Osama Ahmad Dahdouh, di 19.

Mentre i media israeliani hanno riportato che il cosiddetto Stato Islamico si è attribuito l’attacco, Hamas ha smentito la rivendicazione ed ha affermato che riconoscere l’attribuzione dell’attacco al gruppo è stato un tentativo di confondere la situazione. L’affermazione di Hamas ha confermato che uno degli attaccanti era un membro del proprio movimento, mentre gli altri due appartenevano al FPLP.

In passato lo Stato Islamico ha tentato di attribuirsi la responsabilità di attacchi palestinesi, in particolare facendovi menzione sul periodico on line di propaganda del gruppo “Dabiq”. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno rifiutato ogni correlazione tra quello che considerano una parte della legittima resistenza palestinese contro la colonizzazione israeliana e il “terrorismo” ispirato dallo Stato Islamico.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri nella dichiarazione ha affermato che l’attacco di venerdì è parte della resistenza popolare palestinese contro l’ormai cinquantennale occupazione israeliana e una “reazione naturale ai crimini dell’occupazione”.

Nel contempo il FPLP ha lodato gli attaccanti come “eroi” in un comunicato rilasciato dal gruppo e ha affermato che Baraa Salih Taha e Osama Ahmad Dahdouh erano membri dell’organizzazione.

Secondo il FPLP i tre avevano in precedenza partecipato al lancio di bottiglie molotov e pietre per opporsi “agli attacchi delle forze di occupazione e dei coloni,” lungo le strade di collegamento israeliane che portano alla colonia illegale israeliana di Halamish, che è adiacente alla loro città natale, Deir Abu Mashal, nel distretto di Ramallah, nella zona centrale della Cisgiordania occupata.

Il FPLP ha affermato che in seguito a ciò nel 2015 Baraa ha passato parecchi mesi in prigione in Israele, mentre Osama era stato in carcere per un anno nel 2014.

Il gruppo ha definito l’attacco un’ “operazione eroica” e ha affermato che è arrivato in un “momento critico per difendere la resistenza palestinese”.

Gli attaccanti erano “eroi del popolo palestinese che hanno agito per difendere i diritti del popolo palestinese con un coraggio senza pari, eludendo il controllo sionista su Gerusalemme per dirigere il fuoco della loro rabbia contro le forze in armi ed i soldati dell’occupazione,” ha sostenuto il gruppo, e ha aggiunto che “la resistenza è continua, radicata nella patria e a Gerusalemme, l’eterna capitale della Palestina.”

Il FPLP aggiunge che l’attacco manda anche un “messaggio forte, diretto” ai “leader sconfitti dell’Autorità Nazionale Palestinese, alle loro politiche e alla loro strategia”, aggiungendo che l’attacco ha evidenziato che la resistenza sta continuando ed è l’unica via per sconfiggere l’occupante.”

Nel contempo sabato i rappresentanti delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea hanno entrambi condannato l’attacco.

L’inviato della Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov in una dichiarazione ha affermato che ” simili atti di terrorismo devono essere nettamente condannati da tutti. Sono inorridito dal fatto che ancora una volta qualcuno trovi opportuno giustificare simili attacchi in quanto ‘eroici’. Sono inaccettabili e tendono a trascinare tutti verso un nuovo ciclo di violenze.”

L’ambasciatore dell’UE in Israele Lars Faaborg-Andersen ha affermato su Twitter: “Condanno gli attacchi terroristici di ieri a Gerusalemme, in cui è stato ucciso Hadas Malka. Le mie condoglianze alla sua famiglia e ai suoi colleghi.”

Secondo quanto riferito, l’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite Danny Danon ha anche condannato l’Autorità Nazionale Palestinese per aver incoraggiato gli attacchi attraverso il discusso programma di compensazione ai “martiri”, che fornisce sussidi finanziari alle famiglie dei palestinesi imprigionati, feriti o uccisi dalle forze israeliane.

“La dirigenza palestinese continua a dare il suo appoggio alla pace, anche se paga mensilmente i terroristi ed educa i propri bambini all’odio. La comunità internazionale deve chiedere che i palestinesi mettano fine ai loro intollerabili atti di violenza,” ha affermato.

In base alla documentazione di Ma’an, 33 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni dall’inizio del 2017, mentre durante lo stesso periodo 8 israeliani sono stati uccisi dai palestinesi.

Mentre i dirigenti israeliani spesso indicano l’ “incitamento” palestinese come causa di questi attacchi, e spesso tentano di metterli in relazione con la cosiddetta “guerra al terrorismo”, i palestinesi hanno al contrario citato come le cause principali di tali attacchi le frustrazioni quotidiane e la continua violenza militare israeliana imposta dall’occupazione israeliana del territorio palestinese.

In seguito all’attacco di venerdì le forze israeliane hanno completamente bloccato il villaggio cisgiordano di Deir Abu Mashal ed hanno fatto irruzione nelle case delle famiglie dei palestinesi uccisi, avvertendole che le loro abitazioni saranno presto demolite – una politica israeliana utilizzata contro famiglie i cui membri hanno commesso attacchi e che i gruppi per i diritti umani hanno giudicato una forma di “punizione collettiva”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha revocato tutti i permessi concessi ai palestinesi per entrare a Gerusalemme e in Israele per il mese santo musulmano del Ramadan.

Numerosi altri palestinesi sono rimasti feriti e detenuti dalle forze israeliane in seguito all’attacco, in quanto, secondo alcuni testimoni, forze israeliane avrebbero “aggredito” palestinesi e sparato proiettili veri “a casaccio” nella zona.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Barghouthi: lo sciopero della fame segna un ‘punto di svolta’ per i palestinesi detenuti da Israele

30 maggio 2017,Ma’an

RAMALLAH (Ma’an) – Martedì, per la prima volta dopo la fine dello sciopero alcuni giorni fa, Marwan Barghouthi, il leader di Fatah incarcerato, che ha guidato uno sciopero della fame di massa di 40 giorni nelle carceri israeliane, ha rilasciato una dichiarazione in cui ha definito lo sciopero un “punto di svolta” nel rapporto dei prigionieri palestinesi con la dirigenza carceraria ed ha avvertito le autorità israeliane che i prigionieri ricomincerebbero lo sciopero se gli impegni presi non fossero rispettati.

La sua dichiarazione, resa nota dall’Associazione dei Prigionieri Palestinesi (PPS), ha sottolineato il trattamento dei prigionieri palestinesi nel corso dello sciopero della fame, che comprendeva il loro trasferimento tra diverse prigioni israeliane e in isolamento in “condizioni brutali e crudeli”.

Barghouthi ha aggiunto che le autorità israeliane hanno confiscato “tutti gli averi personali, compresa la biancheria. I prigionieri sono stati privati di tutti gli oggetti sanitari ed igienici, la loro vita è stata resa un inferno e sono state diffuse vergognose dicerie e menzogne.”

Ha aggiunto: “Eppure tra i prigionieri si è registrata una risolutezza senza precedenti nella storia del movimento dei prigionieri palestinesi e la repressione israeliana non è riuscita a spezzare la loro determinazione.”

Centinaia di prigionieri in sciopero della fame hanno invocato la fine del divieto delle visite dei familiari, il diritto ad accedere ad un’istruzione superiore, cure e trattamenti medici adeguati, la fine dell’isolamento e della detenzione amministrativa – incarcerazione senza accuse né processo – tra le altre richieste di diritti fondamentali.”

Dopo aver ringraziato tutti coloro che si sono impegnati nel sostegno allo sciopero della fame, Barghouthi, che è stato una figura decisiva nel corso dei colloqui con il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) che hanno messo fine allo sciopero, ha detto che i leader dello sciopero sono stati capaci di “ottenere parecchi risultati equi ed umanitari” dalle autorità carcerarie, incluso il ripristino di una seconda visita mensile dei familiari dei prigionieri, e sono riusciti a costringere le autorità israeliane a considerare questioni relative alla “vita quotidiana” nelle prigioni, come le modalità di trasferimento, e le “condizioni delle donne, dei minori e dei malati detenuti.”

Mentre i leader palestinesi hanno affermato che l’80% delle richieste dei prigionieri sono state esaudite da Israele, i dirigenti del Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) hanno duramente smentito tali affermazioni, dicendo che non sono state fatte concessioni ai prigionieri e che l’accordo che ha posto fine allo sciopero ha garantito solamente il ripristino di una seconda visita mensile dei familiari ai prigionieri, che sarà finanziata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Tuttavia, Barghouthi ha aggiunto che i prigionieri hanno accettato la creazione di un “comitato di alti dirigenti del Servizio Penitenziario” per proseguire il dialogo con i rappresentanti dei prigionieri palestinesi nei prossimi giorni, “per discutere di tutti i problemi senza eccezioni.”

Alla luce di ciò e in vista dell’inizio del sacro mese del Ramadan, abbiamo deciso di interrompere lo sciopero per dare l’opportunità di condurre queste discussioni con il Servizio Penitenziario, sottolineando la nostra ferma intenzione di riprendere lo sciopero se il Servizio Penitenziario non rispetterà gli impegni assunti verso i prigionieri”, ha detto.

Ha poi aggiunto che lo sciopero ha rappresentato un “punto di svolta” nel rapporto tra i prigionieri palestinesi e il “sistema dell’amministrazione penitenziaria”, dicendo che i prigionieri “non consentiranno più nessuna violazione delle loro conquiste e dei loro diritti.”

Lo sciopero, ha affermato Barghouthi, aveva anche lo scopo di unificare il movimento dei prigionieri palestinesi e di porre le basi di una “leadership nazionale unificata”, che nei prossimi mesi possa ottenere il riconoscimento dei palestinesi “nelle carceri dell’occupazione israeliana” come prigionieri di guerra e prigionieri politici.

Lo sciopero inoltre ha cercato di mettere in luce le violazioni israeliane del diritto internazionale nel sistema carcerario, in particolare in quanto il trasferimento di prigionieri palestinesi fuori dai territori occupati in carceri all’interno di Israele viola la quarta Convenzione di Ginevra.

Barghouthi ha anche fatto appello al presidente palestinese Mahmoud Abbas, all’OLP e alle fazioni palestinesi nazionaliste ed islamiche perché adempiano ai loro obblighi nazionali e lavorino per la liberazione dei palestinesi sottoposti a detenzione israeliana, ed ha diffidato dal proseguire qualunque negoziato prima che siano poste le condizioni per la “completa liberazione di tutti i prigionieri e detenuti palestinesi.”

Barghouthi è stato tenuto in isolamento per tutta la durata dello sciopero, mentre le autorità israeliane tentavano di screditare il leader diffondendo un video di Barghouthi che nella sua cella di isolamento si sarebbe alimentato durante lo sciopero della fame, video prontamente denunciato dai leader palestinesi come “falso” e un tentativo da parte delle autorità israeliane di delegittimare Barghouthi.

Le autorità israeliane avevano rifiutato di negoziare con Barghouthi fino all’undicesima ora delle trattative tra IPS, ANP e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), mentre gli scioperanti avevano ribadito che qualunque trattativa che non includesse Barghouthi era illegittima e “finalizzata a interrompere lo sciopero della fame in cambio di vuote promesse.”

Lunedì la Commissione per gli affari interni del parlamento israeliano, la Knesset, ha tenuto una riunione riguardo allo sciopero, durante la quale un dirigente dell’IPS ha asserito che “in nessun momento l’IPS ha negoziato con i prigionieri di sicurezza in sciopero della fame e non ha accettato nessuna delle loro richieste.”

L’IPS ha affermato che, poiché l’ANP ha accettato di finanziare la seconda visita mensile (dei familiari), dopo che lo scorso anno era venuto a mancare il finanziamento dell’ICRC, non è stata fatta nessuna nuova concessione ai prigionieri.

Durante la riunione, diversi deputati israeliani di destra hanno criticato le richieste dello sciopero, ed uno di loro ha detto: “A loro (i prigionieri) dovrebbero essere concesse le condizioni minime in base al diritto internazionale”, mentre un altro ha detto: “Se facessimo la cosa giusta, ogni terrorista prenderebbe una pallottola in testa. C’è spazio sufficiente sottoterra.”

Secondo l’associazione Addameer per i diritti dei prigionieri, fino ad aprile nelle prigioni israeliane erano detenuti 6.300 palestinesi.

Mentre le autorità israeliane definiscono i palestinesi “prigionieri di sicurezza”, gli attivisti e le associazioni per i diritti hanno a lungo considerato i palestinesi detenuti da Israele come prigionieri politici ed hanno sistematicamente condannato l’uso israeliano delle carceri come mezzo per destabilizzare la vita politica e sociale palestinese nei territori occupati.

Addameer ha riferito che il 40% della popolazione maschile palestinese è stata detenuta dalle autorità israeliane in un certo momento della sua vita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)