La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 3

di Nijmeh Ali

da Al-Shabaka Ma’an News

La gioventù palestinese che è scesa nelle strade sta dando inizio ad un’importante fase nella risposta all’occupazione israeliana e all’ingiustizia, indicando il ruolo significativo che la generazione dei più giovani potrebbe svolgere, sostituendo l’attuale leadership.

Tuttavia rimane un problema: la nuova generazione è in grado di spostare la rivolta o l’ondata di rabbia dalle strade agli ambiti politici o diplomatici? Il problema sta nel fallimento della rivolta contro le tradizionali leadership palestinesi di Fatah, di Hamas e della sinistra: è questo ciò che occorre per trasformare lo spirito della rivoluzione in risultati diplomatici e politici.

I partiti politici palestinesi si comportano normalmente come i partiti di tutto il mondo: valutano i vantaggi politici che possono ricavare da questa ondata di rabbia, in termini di ripresa dei negoziati con Israele. Non agiscono come partiti rivoluzionari che combattono una lotta di liberazione, e non sono in linea con sentire popolare. Così, i partiti erigono ostacoli piuttosto che appoggiare la rivolta dei giovani o qualunque altra azione al di fuori della cornice istituzionale prestabilita, come i gruppi armati delle fazioni. Le azioni incontrollate non avvantaggiano i partiti politici, perché (i partiti) non possono dirigerle.

La questione non è creare un nuovo spazio all’interno o all’esterno dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Sta anche nel cambiare il comportamento politico dei palestinesi come popolo subordinato agli attuali apparati politici. E’ indispensabile superare le strette affiliazioni di parte che hanno rafforzato la divisione interna tra palestinesi ed indebolito l’OLP. L’ondata di rabbia popolare è un’aperta ribellione contro tali strette affiliazioni ed è un’espressione della necessità di rafforzare il livello nazionale in quanto opposto alle affiliazioni di parte.

Tuttavia, data la realtà esistente e la crescente divisione tra fazioni, sarebbe stato più opportuno che i giovani si fossero ribellati contro l’attuale leadership politica e l’avessero rimpiazzata con leader più giovani che avessero energia politica, credibilità e vigore.

I leader locali non sono mai stati isolati dalla loro leadership centrale: Fatah e Hamas, per esempio, sono movimenti politici di massa piuttosto che partiti politici in senso tradizionale. Perciò non ci si deve prospettare uno scenario in cui potrebbe emergere un movimento popolare indipendente, anche se possono essere istituiti dei comitati popolari, come successe nella prima intifada. Vale la pena di notare che la leadership nazionale unificata di quell’intifada era stata formata da attori politici che perseguivano obbiettivi politici comuni ed una visione incentrata sulla fine dell’occupazione come tappa fondamentale verso la liberazione.

In breve, abbiamo bisogno di una primavera palestinese all’interno dei partiti, piuttosto che di strutture politiche alternative che rafforzerebbero la divisione e la miope partigianeria. In assenza di una ribellione dei giovani all’interno dei partiti politici palestinesi, nessuna rivolta otterrà un reale cambiamento politico. I sacrifici del popolo palestinese andranno sprecati, aumentando la frustrazione ed il senso di impotenza. Sarebbe davvero preoccupante se questa frustrazione sopprimesse lentamente la fiducia dei palestinesi nella loro capacità di liberarsi.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

 Parte 2

 

di Jamil Hilal

Ma’an News (ma tratto da Al-Shabaka)

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la seconda parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Jamil Hilal, un sociologo e scrittore palestinese indipendente che ha pubblicato molti libri e articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e i problemi del Medio Oriente.

I partiti politici democratici e progressisti hanno storicamente fornito i dirigenti nella lotta per la libertà dall’oppressione, soprattutto dal saccheggio e dal terrore provocato dall’ insediamento di coloni. Purtroppo qui ciò non è avvenuto fin dalla prima Intifada alla fine degli anni ’80. Non solo i partiti politici e i movimenti non si sono fatti carico delle loro responsabilità, ma hanno anche agito in un modo che ha frammentato il movimento di liberazione nazionale palestinese. Invece i partiti avrebbero dovuto rivedere in modo critico i progressi ed i fallimenti del passato in modo da ricostruire un movimento più consono alle nuove condizioni nazionali, regionali e internazionali. In breve, i partiti politici non sono nelle condizioni di fornire una dirigenza unificata e una strategia coerente con l’attuale lotta dei giovani contro l’oppressione dei coloni e il cupo futuro che attende i giovani.

Quanto alla riconciliazione tra Fatah e Hamas, tutto indica che non verrà raggiunta presto. Gli altri partiti politici hanno giocato il ruolo di mediatori invece di formare una leadership alternativa con un programma che affronti la frammentazione, colonizzazione e sottomissione sempre più pesanti imposte ai palestinesi. Non è stato formato un blocco storico per spingere i due maggiori movimenti in conflitto (Fatah e Hamas) a rinsavire o, in mancanza di ciò, che si prendesse la responsabilità di offrire una nuova prospettiva e una nuova dirigenza.

La maggioranza del popolo palestinese è disillusa e frustrata dai continui litigi e dai risultati di Fatah e Hamas, mentre sempre più terra viene occupata dai coloni e le case distrutte, i palestinesi vengono arrestati arbitrariamente, Gerusalemme viene “israelizzata”, i gazawi sottoposti a un lento genocidio, i palestinesi del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana. Ndtr.] soffrono discriminazione e segregazione e i rifugiati sono condannati all’esilio. Ora giovani disarmati vengono assassinati a sangue freddo dall’esercito israeliano e dai coloni mentre la cooperazione sulla sicurezza vergognosamente continua.

La risposta dovrebbe essere che ogni comunità palestinese decida democraticamente la propria dirigenza alternativa e pensi collettivamente a come costruire un nuovo movimento nazionale, conservando al contempo i risultati positivi che la lotta palestinese ha raggiunto nei decenni scorsi. Ciò non sarà facile, ma i palestinesi del 1948 sembrano essere sulla via giusta [l’autore si riferisce alla costituzione alle ultime elezioni israeliane di una lista unitaria degli arabo-israeliani. Ndtr.], il loro esempio dovrebbe essere studiato e, dove possibile, seguito.

Ovviamente, ciò non sarà facile da mettere in pratica. Sembra che ci sia ancora bisogno, data la situazione estremamente vulnerabile della maggior parte delle comunità palestinesi, di costituire comitati locali nei villaggi, nei campi di rifugiati e nei quartieri urbani in modo da articolare i loro bisogni in base alle specificità della loro situazione, e poi formare aggregazioni più ampie. Per esempio, in Cisgiordania, per un gran numero di comunità il problema è come difendere se stessi, la propria terra e proprietà contro i mortali attacchi dei coloni; nella Striscia di Gaza, come affrontare i pressanti problemi causati dall’assedio israeliano e le continue guerre letali; e in Libano, come dare più potere ai comitati popolari nei campi di rifugiati in modo che formino un “quadro unificato” per affrontare i maggiori problemi comuni ai vari campi.

Il ruolo di simili comitati locali potrebbe estendersi in base alle circostanze, dai municipi,dai consigli di villaggio, dalle sezioni locali di partiti politici, dalla società civile e dallele istituzioni locali. Gli esempi delle continue lotte dell’Alto Comitato di Monitoraggio tra i palestinesi del 1948 [comitato che riunisce tutte organizzazioni dei palestinesi con cittadinanza israeliana. Ndtr.] e delle lotte del Movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sono un esempio per tutti noi.

Ma nella vita reale, la gente riflette e trova le soluzioni concrete ai problemi che deve affrontare in una specifica situazione. Fortunatamente non stanno ad aspettare gente come me che gli dica cosa fare.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 1

Maannews

di Jamal Juma

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la prima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jamal Juma’, un membro fondatore dei Comitati di Soccorso Agricolo Palestinese, dell’Associazione Palestinese per gli Scambi Culturali e della Rete delle ONG Ambientaliste Palestinesi.

Per circa due mesi, i palestinesi hanno atteso che i partiti politici si facessero carico del loro ruolo di direzione e guida della rivolta. Evidentemente, costoro non sono in grado né vogliono farlo. Ci sono una serie di ragioni della loro inazione. Per un verso, i leader dei partiti sono riluttanti a pagare il prezzo di dirigere e strutturare la resistenza popolare, se questo prezzo è fatto pagare da Israele nella forma di arresti, persecuzioni e prendendo di mira le organizzazioni, soprattutto in quanto i partiti agiscono alla luce del sole e le loro strutture organizzative sono deboli. E non vogliono neppure perdere i privilegi di cui godono in quanto membri dell’OLP, sia in termini di vantaggi economici che di status politico.

Oltretutto i vari partiti non possono agire senza il consenso dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di quello della sua fazione maggioritaria, Fatah: sono al momento troppo deboli per cambiare lo status quo. Il presidente Mahmoud Abbas, che detiene tutto il potere, crede che la rivolta abbia il compito di attirare l’attenzione sulla causa palestinese e di risvegliare la comunità internazionale, e sta scommettendo su nuove iniziative per riprendere i negoziati con Israele. Di conseguenza Abbas ha dichiarato in termini inequivocabili che non vuole una rivolta.

A causa della debolezza della loro attuale composizione e delle loro strutture organizzative, i partiti politici non possono fornire una cornice politica, organizzativa ed economica in grado di dirigere una rivolta di lungo termine che sia in grado di prosciugare le risorse e le energie dell’occupazione israeliana. Una ribellione vittoriosa richiederebbe una visione complessiva per raggiungere obiettivi chiari e perseguibili mobilitando opportunità e relazioni locali, regionali e internazionali.

Riguardo alle forze islamiche, Hamas e Jihad Islamica, hanno preso anche loro la stessa posizione di inattività. Neanche loro vogliono pagare il prezzo e fornire a Israele un’opportunità di lanciare un’offensiva contro la Striscia di Gaza. Essi temono anche che la ribellione possa essere sfruttata per migliorare i termini dei negoziati per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l’ANP.

Ci sono una serie di fattori a favore della creazione di uno spazio per una nuova dirigenza nazionale o locale. Anche se si dovesse placare, l’attuale rivolta ha sollevato la questione dell’idoneità dell’attuale leadership e ha legittimato la ricerca di alternative. Ha inoltre unito il popolo palestinese all’interno della Linea Verde [in Israele. Ndtr.], in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza.

Ironicamente, sono le forze politiche a rimanere divise. Pur se in modo limitato, anche i palestinesi della Diaspora si sono mossi e hanno aiutato ad organizzare manifestazioni. Le azioni sul terreno stanno gettando i semi di una dirigenza emergente che può essere coltivata, anche se è dispersa e circoscritta in ambito locale.

Dal punto di vista negativo, tuttavia, è chiaro che l’ANP non permetterà che emerga una nuova leadership e non risparmierà gli sforzi per contrastarla, anche se ciò dovesse richiedere il coordinamento con l’occupazione israeliana, con cui in ogni caso collabora. Oltretutto gli attuali movimenti di base sono deboli, in quanto gli intellettuali giocano uno scarso ruolo nella vita politica palestinese e sono incapaci di appoggiare le forze popolari. Come per la Diaspora palestinese, hanno una ridotta influenza nei processi decisionali.

La sfida consiste nel costruire sui fattori positivi e minimizzare quelli negativi: da notare che per creare una dirigenza alternativa qualunque serio movimento dovrebbe lavorare in certa misura clandestinamente.

Per cominciare, è importante crearsi uno spazio protetto dalla dominazione politica, nel quale sia possibile appoggiare quelle forze popolari che hanno una visione politica e una capacità di mobilitazione, come i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le federazioni delle donne e naturalmente i gruppi giovanili, in modo che possano agire a fianco della rivolta.

E’ anche importante sfruttare il potenziale della Diaspora palestinese, soprattutto tra i giovani, e organizzare gruppi di lavoro che possano comunicare e coordinarsi con figure nazionali di rilievo che credano nel ruolo importante che la Diaspora deve giocare sia nel processo decisionale che nell’appoggio alla resistenza del popolo palestinese.

Quindi è vitale investire nell’importante coordinamento tra la madre patria e la Diaspora. Dobbiamo ricostruire la fiducia tra noi e rinnovare la sicurezza in noi stessi e nella nostra capacità di provocare dei cambiamenti. In ultima analisi, dobbiamo avere una fede assoluta nel nostro popolo e nella sua capacità di sacrificio e di sviluppo [della lotta] e credere, al di là di ogni dubbio, che vinceremo.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




L’economia al cuore delle colonie illegali di Israele

07/01/2015  ma’an news

Gerusalemme (IRIN) – Tra tutti gli ostacoli nei negoziati di pace tra i dirigenti israeliani e palestinesi forse il più grave sono le circa 150 colonie israeliane in Cisgiordania.

Queste comunità, considerate illegali dall’ONU, hanno incrinato i rapporti di Israele persino con i suoi alleati: quest’anno il presidente filo-israeliano della commissione per gli affari esteri del parlamento britannico ha dichiarato che la decisione di sviluppare nuovi insediamenti “mi ha indignato più di qualunque altra cosa nella mia vita politica.”

Nonostante un congelamento ufficioso dei progetti di colonizzazione, alla fine di dicembre il Comitato della Pianificazione e del Bilancio di Gerusalemme ha gettato le basi per approvare permessi edilizi per circa 400 case sul territorio palestinese a Gerusalemme e approvato un piano per altre 1.850 per un quartiere che si trova sul confine.
Benché siano spesso concepite come il risultato di una missione religiosa da parte degli ebrei per reclamare altro territorio, di fatto per molti coloni le ragioni per andarci a vivere sono economiche – incoraggiati da sistemi di incentivazione pianificati dal governo per spostarli nella terra occupata. Ma per alcuni il fatto di andare a vivere in una colonia può avere l’effetto di radicalizzarli.

“Qualità della vita”

E’ un giorno infrasettimanale nell’insediamento di Ariel, in Cisgiordania. Al campus dell’università gli studenti condividono una pausa per fumare. Due donne che fanno fare un giretto ai loro cani chiacchierano in ebraico con accento russo. Niente fa pensare che non si tratti di altro che di una qualunque cittadina israeliana.
Ma benché non sia nota per una forte tendenza ideologica o per violenti attacchi contro i suoi vicini palestinesi, sconfinando di circa 16 chilometri ad est della Linea Verde che divide Israele dai Territori Occupati in Cisgiordania, questa cittadina di 19.000 abitanti è decisamente una colonia.
Ad Ariel molti residenti vivono come i pendolari israeliani. C’è una superstrada diretta a Tel Aviv, a meno di 40 chilometri di distanza, con autobus che collegano regolarmente alla capitale e meno frequentemente a Gerusalemme, a 50 chilometri.
“La gente viene qui in cerca di qualcosa di diverso” dice Avi Zimmerman, capo del Fondo di Sviluppo di Ariel [che si incarica di migliorare la vita ed i servizi della colonia e di promuoverla a livello locale e internazionale. N.d.tr.] e portavoce di fatto di questo Comune. Ebreo osservante, è arrivato otto anni fa in cerca di una comunità eterogenea.
“Ci troverai gente che è venuta per la qualità della vita, persino per sfuggire all’umidità di Tel Aviv.”
Ma per molti la cosa più importante sono i vantaggi economici. Il prezzo delle case è cresciuto rapidamente in Israele negli ultimi sette anni, con il costo della vita e dei beni alimentari che ha provocato proteste di massa nell’estate del 2011. Il costo medio di un appartamento ad Ariel è di 1.098.774 shekel (circa 233.780 €), molto meno della media di Tel Aviv di 2.363.263 shekel (circa 502.821 €).
Gli affitti bassi nel 2009 hanno fatto di Noa e del suo fidanzato dei coloni temporanei quando hanno iniziato a cercare un posto vicino alla sua università a Gerusalemme. “Entrambi eravamo studenti e dovevamo trovare un posto economico per vivere,” spiega Noa, un’insegnante di ballo sulla trentina. Non erano riusciti a trovare niente a portata delle loro tasche a Gerusalemme, ma ad Anatot, una comunità di 1.000 abitanti a sette chilometri all’interno della Linea Verde, il prezzo andava bene.
Amit, madre trentaquatrenne di un bambino, vede la sua colonia – anche se non la chiama così – 5 km oltre la Linea Verde solo come un semplice quartiere periferico di Gerusalemme. Lei e suo marito avevano vissuto in città, ma quando si sono messi a cercare una casa lei voleva “la casa, un giardino e un parcheggio. E avere un parco ed avere vicino Gerusalemme sono una grande cosa.” Lei viaggia a Gerusalemme per lavoro, e suo marito a Tel Aviv: “Non la vedo come una terra contesa [la definizione che il governo israeliano da dei Territori Occupati. N.d.tr.]” sottolinea, ma “per me è un sobborgo di una grande città e io ci torno di sera.”

Incentivi del governo

Secondo il Yesha Council, un’organizzazione che rappresenta e promuove le colonie in Cisgiordania, in base all’ultima stima del giugno 2014 c’erano 382.031 coloni ebrei in Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, che Israele non considera territorio occupato. Questa spinta oltre la Linea Verde è stata incoraggiata dai successivi governi israeliani.
La maggior parte degli aiuti di Stato viene elargita in base alla definizione di circa tre quarti delle colonie come “area di priorità nazionale”, insieme ad altre zone che si ritiene abbiano bisogno di sostegno – comunità vicine ai confini con il Libano o Gaza oppure periferiche e sottosviluppate.
Le aree di priorità nazionale ottengono sconti sul prezzo della terra e sovvenzioni per i mutui, e quelle riconosciute dal ministero dell’Edilizia ricevono investimenti statali per le infrastrutture [riguardanti] gli appartamenti. Nelle aree designate con il più alto livello di priorità ci sono riduzioni sul costo della terra e sulle spese per lo sviluppo.
Anche gli investimenti per le infrastrutture delle colonie, come le strade, sono cruciali, e gli insegnanti che vivono nelle colonie ricevono una generosa assistenza, compresa quella che l’ONG israeliana B’tselem segnala come un incremento di salario del 15-20% e un contributo governativo del 75% delle spese di viaggio e dell’80% per l’affitto della casa. In quanto aree di priorità nazionale, le colonie ricevono anche ulteriori investimenti per l’educazione, comprese ore addizionali di scuola e più fondi.
Per lo più i vantaggi individuali diretti sono stati eliminati, con agevolazioni fiscali sul reddito abolite nel 2003, portando molti coloni a pensare che le colonie dovrebbero essere considerate come qualunque altra città israeliana.
Avi Zimmerman discute l’idea che ingiuste agevolazioni fiscali abbiano spinto la gente nei territori palestinesi.”Si continua a parlare degli incentivi a causa del passato.” Ora “non ci sono incentivi diretti, per esempio non ci sono più prestiti bancari.”
Natan Sachs, uno studioso del Centro per le Politiche in Medio Oriente della Brooking Institution [centro studi nordamericano, considerato tra i più influenti al mondo. N.d.tr.] ed esperto di politiche israeliane, concorda sul fatto che “non ci sono incentivi diretti, nel senso che non ci sono sovvenzioni.”

Ma “ci sono molti modi per ‘incoraggiare la colonizzazione’, soprattutto il prezzo della terra e le licenze edilizie. Non ci sono incentivi espliciti ma in concreto ci sono ancora agevolazioni notevoli.

Radicalizzazione

Il miglioramento della “qualità della vita” dei coloni è uno dei principali cambiamenti dalle origini del movimento di colonizzazione alla fine degli anni ’60, quando, dopo la vittoria nella guerra del 1967 contro l’Egitto, la Giordania e la Siria, Israele ha iniziato a spostare i suoi cittadini in quelle che vengono chiamate Giudea e Samaria, i nomi biblici dei territori occupati in Cisgiordania.

Molti dei primi coloni hanno sperato di rivendicare quello che vedevano come l’Israele biblico, come spiega Elie Pierpz, direttore degli affari esterni del Yesha Council.
“Considerazioni di carattere religioso erano il principale stimolo per lo sviluppo negli anni ’70 e ’80. C’è una spinta ideologica, questa è l’ultima frontiera sionista; 100 anni fa era Tel Aviv, 60 anni fa era il Negev e la zona nord del paese, e negli ultimi 47 anni lo sono state Giudea e Samaria.”
Il fenomeno dei coloni per ragioni economiche è variegato. Ariel, per esempio, è un misto di immigrati dall’ex Unione Sovietica, laici e osservanti, ma non ebrei ultraortodossi.
Dror Etkes, un esperto di colonie, sostiene che la differenza terminologica tra i coloni per motivi economici o per migliorare la qualità della vita e i loro omologhi più ideologizzati non è realmente giustificata, tutti sono parte del progetto di occupazione più complessivo, che lo vogliano o no.

“Quando l’ideologia si incontra con l’economia è sempre meglio, e magari l’ideologia arriva a coincidere con gli interessi individuali. La gente si racconta delle favole. E’ molto facile essere coloni. Quello che non vuoi vedere è meglio non vederlo.”
Comunque le colonie, anche quelle dominate da migranti economici, possono spostare le proprie convinzioni verso destra.
Etkes nota che molti recenti attacchi violenti contro i palestinesi sono venuti dai cosiddetti insediamenti “non ideologici”. Lo scorso mese una scuola bilingue ebraico-araba a Gerusalemme è stata data alle fiamme. Due dei tre sospetti, che hanno confessato il delitto, sono di Beitar Illit, non nota in precedenza per le convinzioni di estrema destra.
E anche se i coloni per ragioni economiche possono vedere se stessi come a-politici o persino di sinistra – Noa dice di essere “di centro sinistra, a volte di sinistra” – andando negli insediamenti il comportamento elettorale dei coloni può cambiare in base ai propri interessi personali.
I coloni ultraortodossi sono il paradigma di questo cambiamento. In grande maggioranza poveri, negli ultimi 15 anni molti si sono spostati in zone come Beitar Illit o Modi’in Ilit per via dei costi economici degli affitti e del contesto omogeneo, con molto spazio per il loro alto tasso di natalità. Storicamente, non erano interessati alla colonizzazione o alla militanza sionista.
Neve Gordon, professore di politiche e governo all’università Ben Gurion e autore di “L’occupazione di Israele”, sottolinea che i partiti che rappresentano questo settore hanno cambiato la propria politica. “Nei primi anni ’90 i partiti degli ortodossi erano favorevoli ad un compromesso sulla terra, oggi molto meno, perché una notevole percentuale del loro elettorato vive nei territori occupati: lo spazio cambia le coscienze.”

Un ostacolo alla pace

La “qualità della vita” dei coloni è diventata di pubblico dominio dopo gli accordi di Oslo del 1993 tra i leader israeliani e palestinesi, quando ci sono stati seri colloqui per uno scambio di territori. Per molto tempo si è ipotizzato che grandi insediamenti, anche quelli vicini a Gerusalemme come Ma’ale Adumim, Beitar Ilit, Modi’in Ilit , quelli troppo grandi per essere evacuati, e luoghi strategici come Ariel sarebbero stati inclusi in ogni futura soluzione dei due Stati.
Ma continue inchieste hanno suggerito che una grande percentuale di coloni non ideologici sarebbero stati pronti a lasciare le loro case e spostarsi all’interno della Linea Verde, dietro compensazioni.
Tuttavia al momento, sostiene Sachs, “ci sono perversi disincentivi ad andarsene.” L’opinione pubblica israeliana in larga misura vede che il governo si è sbagliato nel 2005 quando se n’è andato da Gaza, con alcuni ex coloni che sono stati portati via a forza dalle loro case che si lamentano in televisione per aver ricevuto scarsi indennizzi e per l’incapacità del governo a risistemarli in modo corretto.

Secondo Sachs ciò rende comprensibilmente diffidente chi potrebbe essere intenzionato ad andarsene dalla Cisgiordania. Un gruppo costituito da un ex direttore dello Shin Bet [servizio di intelligence israeliano. N.d.tr.], Blue White Future (Futuro bianco azzurro)[sono i colori della bandiera israeliana e il gruppo BWF è favorevole alla soluzione dei due Stati, n.d.tr.], sostiene un’evacuazione volontaria ed unilaterale dei coloni con un indennizzo.
Amit ha comprato la sua casa proprio nel periodo dell’evacuazione di Gaza e dice che la possibilità di un’eventuale evacuazione “era qualcosa a cui avevamo pensato.” La sua zona è stata spesso citata come una di quelle che è abbastanza vicina a Gerusalemme da essere inclusa tra quelle spettanti ad Israele, e questa è stata una ragione per comprare.
“Se ci fosse una forma di indennizzo (come parte di un accordo di pace), non rimarremmo qui sotto un governo palestinese.”
Ma è improbabile che grandi insediamenti colonici come Ariel siano spostati da un’altra parte, anche nel caso di un eventuale accordo di pace con i palestinesi. In un certo senso, sono semplicemente troppo grandi per essere spostati.

Per Zimmerman, che è stato ad Ariel per otto anni, il concetto di compensazione è irrilevante, in quanto non vede come il governo israeliano possa fare anche solo il tentativo di evacuare Ariel. “Questo sta per essere gestito dal governo eletto. Stanno facendo una politica su questo e c’è accordo tra i politici israeliani che Ariel è parte di Israele, punto.”

E’ forse questa certezza che ha portato il prezzo delle case di Ariel a salire: in sei anni fino al 2013 il prezzo delle case nuove e di quelle di seconda mano è aumentato del 104%. Altre colonie hanno visto un aumento, compreso Beitar Ilit (80%), Efrat (77%), in maggioranza laico, e Oranit (65%). Poiché i prezzi delle case in Israele sono ancora più alti di quelli nelle colonie, il loro aumento ha accresciuto la pressione per trovare nuovi insediamenti.
Pierpz è entusiasta del futuro della colonizzazione. “Le comunità molto unite (dove fare autostop è un modo di vivere, le porte molto spesso rimangono aperte, i ragazzi sono sicuri nelle strade non controllate fino a notte alta), sono una delle ragioni per cui la gente vuole rimanere e allevare le prossime generazioni qui.”
I dirigenti palestinesi dicono che prenderanno in considerazione le motivazioni dei coloni nei negoziati per i confini di un futuro Stato palestinese. Ma alla fine vedono ogni colonia come una violazione della terra palestinese, sia che i coloni siano arrivati per avere aria fresca e sistemazioni economiche sia per motivazioni religiose.

(traduzione di Amedeo Rossi)