I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

Al-Jazeera

Mersiha Gadzo e Anas Jnena – 8 giugno 2018

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto del WHO, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

 

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

 

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

 

 

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




“Non vedete che sto male”: cresce la campagna per la liberazione della palestinese ferita

Lubna Masarwa, Dania Akkad

Middle East Eye, 12 gennaio 2018

Israa Jaabis ha riportato ustioni su più della metà del corpo appena prima di essere incarcerata, nel 2015. Da allora lotta per ricevere cure mediche adeguate.

I sostenitori della donna palestinese detenuta che ha bisogno di cure mediche urgenti dicono che le autorità carcerarie israeliane la ignorano da due anni e ne chiedono l’immediata scarcerazione. La campagna per Israa Jaabis, che questa settimana si è guadagnata i titoli di testa sui media palestinesi, arriva mentre lei e il suo avvocato chiedono all’Alta Corte israeliana la riduzione della condanna a 11 anni. Si attende una decisione a giorni.
“Sono qui da due anni e non ricevo l’assistenza sanitaria di cui ho bisogno” ha dichiarato, giovedì, Jaabis alla Corte, ripresa dalle telecamere. “Non vedo alcuna ragione o buon motivo per cui io debba stare in carcere”. “Fisicamente, la situazione di Israa è veramente dura, ed è in condizioni difficili anche dal punto di vista psicologico” ha detto il suo avvocato, Lea Tsemel, dopo l’udienza.
Jaabis, 32 anni, è stata arrestata nell’ottobre del 2015 ed è accusata di aver tentato di far esplodere una bomba per colpire i soldati israeliani davanti a un checkpoint di Gerusalemme Est. Ma lei e la sua famiglia hanno dichiarato che stava traslocando per poter mantenere la residenza a Gerusalemme quando una bombola di gas da cucina difettosa ha preso fuoco a 500 metri dal checkpoint.
Jaabis, che ha un figlio di 10 anni, è rimasta gravemente ferita dalla fiammata, riportando ustioni sul 65% del corpo, tra cui le ferite più gravi a viso e mani. Dopo l’arresto, è stata portata al Hadassah Medical Centre, dove le sono state amputate otto dita. Prima che il trattamento medico fosse completato, però – dice la sua famiglia – è stata portata al carcere di HaSharon.
Da allora, lotta per ricevere cure adeguate e vive una vita dolorosa. Le ferite alle orecchie le hanno provocato continue infezioni e hanno compromesso l’udito. L’interno del naso è rimasto ustionato, quindi respira attraverso un piccolo foro. Non è in grado di sollevare una delle braccia e ha spasmi alle mani e ai piedi. “Non posso fasciare le ustioni perché per non riesco a mettermi le bende” ha scritto alla sorella e all’avvocato in una lettera diffusa sui social media come parte della campagna per liberarla. “Ho gli occhi secchi e provo molto dolore quando sono all’aria o ogni volta che li lavo con l’acqua. I miei occhi devono essere curati urgentemente, ma nessuno mi ascolta.”
Jaabis avrà bisogno di assistenza medica continua e di interventi chirurgici per riuscire a fare anche le cose più semplici, dice sua sorella Muna. “Sente forti dolori in ogni momento e di notte ha gli incubi. Le stanno cadendo i denti.” La famiglia di Israa si è offerta di pagare le cure, ma Muna dice che le autorità carcerarie hanno rifiutato. “Non è solo che è accusata di qualcosa che non ha commesso e di cui loro non hanno prove”, dice Muna, “Oltre a questo, l’hanno privata di diritti fondamentali come le cure mediche”.
Middle East Eye ha contattato venerdì il servizio penitenziario israeliano per un commento, e ci hanno detto di richiamare domenica per parlare con qualcuno del caso specifico di Israa. Centinaia in cerca di cure . Secondo un volontario che fornisce assistenza medica ai detenuti, e secondo il PHR-I (Physicians for Human Rights-Israel), sono centinaia i detenuti palestinesi come Israa che, ogni anno, fanno appello alle organizzazioni per i diritti, chiedendo aiuto per ottenere cure mediche.
“Devono sempre insistere, ripetendo le loro richieste di cure mediche” dice Niv Michaeli, coordinatore dei detenuti al PHR-I. “Ci vuole un sacco di tempo per ottenerle, e la qualità delle cure è molto bassa”. Amany Dayif, da tempo impegnata per i detenuti che necessitano di cure mediche nelle carceri israeliane, dice che nessuno sa quanti palestinesi detenuti da Israele abbiano bisogno di cure o quali siano le loro condizioni, perché manca la supervisione del Ministro della Salute israeliano.
“Il risultato è che il servizio penitenziario israeliano non ha alcun tipo di standard per le cure mediche. Per esempio, non si raccolgono regolarmente statistiche sulle patologie o sulla necessità di cure da parte dei detenuti, cose che sono considerate fondamentali nei sistemi sanitari degni di questo nome”. In base alla sua esperienza, dice, le autorità carcerarie israeliane gestiscono male il sistema sanitario carcerario, “principalmente perché si tratta di un’organizzazione della sicurezza che vede le cure mediche come l’ultima delle priorità”. Middle East Eye ha inviato un’email al servizio penitenziario per un commento sulle cure ai detenuti palestinesi, ma, fino a questa pubblicazione, non abbiamo ottenuto risposta.
(Traduzione di Elena Bellini)