Il contrastato disegno di legge sulla Cisgiordania non viene approvato al primo voto – un colpo alla coalizione governativa di Israele.

Redazione

6 giugno 2022 – Haaretz

Due membri della coalizione di Bennett rompono i ranghi e votano contro l’estensione dei regolamenti di “emergenza” che applicano la legge israeliana alla Cisgiordania.

La coalizione di governo israeliana lunedì non è riuscita a far approvare un disegno di legge che prolunghi la durata della normativa che estende la legge israeliana ai coloni in Cisgiordania: 58 deputati hanno votato contro la legislazione e 52 l’hanno approvata.

Il disegno di legge aveva lo scopo di estendere la normativa “di emergenza” in vigore dal 1967 e rinnovata da allora ogni cinque anni.

La coalizione di governo può provare a riproporre il disegno di legge ad un altro voto entro il primo luglio, dopodiché decadrà.

Il governo aveva considerato di porre la fiducia per costringere tutti i deputati della United Arab List e la deputata di Meretz Ghaida Rinawie Zoabi a sostenere il disegno di legge. Alla fine, la legge è stata sottoposta a una votazione normale [senza la fiducia, ndt.]

Fonti governative hanno fatto sapere che la coalizione aveva deciso di non permettere a Rinawie Zoabi di raggiungere alcun risultato politico significativo nella speranza di convincerla a dimettersi dalla Knesset, aggiungendo che questa decisione deriva dal suo comportamento nelle ultime settimane e dalle sue ripetute minacce di non votare con il resto della coalizione, inclusa l’estensione della normativa in questione.

Il deputato Idit Silman – le cui improvvise dimissioni dalla coalizione ad aprile la hanno privata della sua esigua maggioranza – era assente dal voto e Rinawie Zoabi ha votato contro la legge.

Rinawie Zoabi in seguito ha dichiarato di aver votato contro il disegno di legge poiché “è mio dovere essere dalla parte giusta della storia delegittimando l’occupazione e sostenendo il diritto fondamentale del popolo palestinese a fondare un paese accanto allo Stato di Israele”.

Se la misura decadrà alla fine di giugno gli israeliani che commettono crimini in Cisgiordania saranno portati davanti ai tribunali militari israeliani e sconteranno la pena in Cisgiordania. Inoltre la polizia israeliana non potrà più indagare su presunti crimini commessi da israeliani in Cisgiordania, né su coloro che hanno commesso crimini all’interno di Israele e sono fuggiti in Cisgiordania.

Inoltre gli israeliani che vivono in Cisgiordania probabilmente non avranno più diritto alla Sanità statale, all’appartenenza all’Ordine degli avvocati israeliani o a godere di altri diritti e privilegi a cui hanno diritto per la legge israeliana. La mancata estensione della normativa avrebbe conseguenze anche sull’ingresso in Israele, sul reclutamento militare, sulla tassazione, sul registro della popolazione, sull’adozione di bambini e altre questioni.

Il partito Yamina del primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che i deputati ebrei ortodossi e arabi hanno unito le forze contro i residenti [i coloni, ndt.] della Cisgiordania, aggiungendo che “il Likud vedrà il paese in fiamme per gli interessi di Bibi” chiamando il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu con il suo soprannome.

Commentando la fallita votazione il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato: “Abbiamo meno di un mese per assicurarci che la Cisgiordania non si trasformi nel selvaggio West a causa di interessi politici” e ha invitato tutti i membri della Knesset ad agire in modo responsabile e a “mettere Israele al primo posto”.

Il leader della Lista Araba Unita e membro della coalizione Mansour Abbas, anch’egli assente dal voto, ha affermato che “ogni coalizione affronta delle sfide, ma per noi è importante andare avanti”. “Ci sono buone probabilità che il governo non cada, è troppo presto per definirlo un esperimento fallito”, ha aggiunto.

Il ministro delle finanze Avigdor Lieberman ha twittato che, mentre Netanyahu ha “abbandonato” i coloni, la coalizione continuerà a sostenerli “e farà qualsiasi cosa in nostro potere per approvare la legge la prossima settimana”.

Il deputato di destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: ” Questa sera il governo ha dimostrato ancora una volta che si appoggia agli antisionisti e che non può prendersi cura dei bisogni e dei valori più elementari dei cittadini israeliani”.

(traduzione dall’ Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Mansour Abbas non intende far cadere il governo israeliano, per il suo stesso bene

Sama Salaime

19 aprile 2022 – +972 magazine

Il leader di Ra’am ha congelato l’adesione del suo partito al governo in seguito alla violenta repressione ad Al-Aqsa. Ecco perché andarsene non è un’opzione.

La decisione dello scorso fine settimana del partito Ra’am [Lista Araba Unita, ndtr.] di congelare temporaneamente, ma non cancellare, la sua adesione al governo israeliano a seguito delle rinnovate violenze nel complesso di Al-Aqsa [la moschea al-Aqā fa parte del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme noto sia come Monte Majid o al-aram al-Sharīf da parte dei musulmani, Har ha-Bayit dagli ebrei, ndtr.] è tanto singolare quanto necessaria. Non c’è nessun politico palestinese in Israele che vorrebbe trovarsi in questo momento nei panni di Abbas. Il suo partito è stato in grado di resistere per 10 mesi come membro di una coalizione debole e in bilico, e ha subito attacchi feroci sia dall’opposizione che dalle fazioni più a destra del governo, in primo luogo dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, lo stesso del primo ministro Bennett, ndtr.].

Di volta in volta la Lista Araba Unita ha resistito, nonostante le critiche mossele, tra l’altro, durante la vicenda riguardante la legge sulla cittadinanza [il 10 marzo la Knesset ha ripristinato una legge che vieta ai palestinesi sposati con cittadini israelo-palestinesi di ottenere la cittadinanza israeliana e di riunire le loro famiglie in territorio israeliano, ndtr.], i tentativi di approvare un bilancio nazionale nonché le demolizioni di case, gli attacchi ai beduini nel Naqab/Negev, la sua posizione sui diritti LGBTQ. Ha perso il deputato Said al-Harumi, uno dei suoi parlamentari più popolari, morto per un attacco cardiaco, così come la fiducia dei suoi elettori dopo che non è stata in grado di affrontare efficacemente i crimini violenti che continuano ad affliggere la società palestinese in Israele.

Nonostante tutte queste crisi, Ra’am è stata in grado di resistere e di promettere ai suoi elettori – e alla comunità araba in generale – che tutto sarebbe andato bene. Ma poi è arrivato il Ramadan.

È difficile sostenere che i vertici del Movimento islamico siano rimasti sorpresi dalla tempistica del mese santo, durante il quale Israele avrebbe dovuto esibire agli occhi dei palestinesi e del resto del mondo gesti senza precedenti a favore dei fedeli musulmani del Paese, inclusi più permessi per lavoratori da Gaza in Israele e l’allentamento del controllo dei movimenti per coloro che desiderano viaggiare dalla Cisgiordania a Gerusalemme occupate.

Abbas e soci non potevano prevedere i quattro attacchi omicidi contro cittadini israeliani che hanno avuto luogo lo scorso mese. La Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani laici, all’opposizione, ndtr.] ha condannato duramente le uccisioni. Mentre l’ondata di attacchi si è placata, almeno per ora, le operazioni militari israeliane nelle città della Cisgiordania sono diventate di giorno in giorno più letali. Tredici palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, tra cui un ragazzo di 17 anni e una vedova di 47 anni madre di sei figli.

Ra’am ha fatto parte di un governo che ha commesso crimini di guerra contro i palestinesi, e il suo imbarazzo è cresciuto sempre più davanti a ogni immagine di minorenni arrestati o di shaheed [“testimone” in arabo, spesso tradotta con il termine “martire”, ndtr.] sepolti a Hebron o a Betlemme. Ma durante questo Ramadan tutti gli occhi sono puntati [su quello che accade, ndtr.] alla moschea di Al-Aqsa, dalle percosse subite da giovani palestinesi e giornalisti da parte degli agenti presso la Porta di Damasco agli attacchi sfrontati e quotidiani presso il complesso di Al-Aqsa durante il fine settimana.

Impossibile nascondere alla vista queste immagini: donne picchiate da agenti di polizia armati di manganelli, anziani spinti e feriti dalle forze di sicurezza, soldati armati fino ai denti che fanno irruzione nella moschea e sparano gas lacrimogeni, attaccano tutto ciò che si muove e arrestano centinaia di persone. Come potrebbe lo stesso movimento che fa l’elemosina ai poveri di Gerusalemme e organizza campi estivi gratuiti per bambini nella moschea fornire il suo sostegno a un governo che un giorno dà ordine di irrompere nella moschea con il pugno di ferro e il giorno dopo di fornire protezione a decine di coloni e attivisti di estrema destra saliti a pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif?

Nel frattempo i social media sono pieni di video satirici su Abbas che vende Al-Aqsa ai coloni. Per molti Abbas e Ra’am avranno le mani sporche del sangue di ogni palestinese che morirà a Gerusalemme.

La critica interna al movimento islamico, che ha proclamato Al-Aqsa una “linea rossa” che Israele non può oltrepassare, non ha fatto che crescere nell’ultimo mese, mettendo Ra’am in un angolo. Non può più rimanere in silenzio quando il presidente della Lista Unita Ayman Odeh, un socialista laico dichiarato, si piazza sui gradini della Porta di Damasco per difendere la santità di Gerusalemme, il presidente di Balad [partito israeliano che si oppone all’idea di uno Stato unicamente ebraico e sostiene la natura bi-nazionale di Israele, ndtr.] Sami Abu Shehadeh corre di studio in studio per spiegare le conseguenze dell’occupazione sui palestinesi, e come tutti questi vari episodi di violenza siano il risultato di questa occupazione, e il presidente di Ta’al [“Movimento arabo per il rinnovamento”, uno dei componenti della Lista Unita, ndtr.] Ahmad Tibi in diretta dal Russian Compound [quartiere di Gerusalemme in cui sorge la Cattedrale russo-ortodossa della Santissima Trinità, ndtr.] annuncia che starà al fianco dei detenuti palestinesi fino alla fine. Alla luce di tutto ciò, cosa restava da fare ad Abbas e al suo partito?

False promesse e sogni irrealizzabili

D’altra parte è chiaro che Abbas non vuole essere l’unico responsabile della caduta del primo governo israeliano che ha accolto cittadini palestinesi nelle sue fila, e non è certo interessato a essere accusato — sia dagli ebrei israeliani che dai palestinesi — del ritorno al potere di Netanyahu.

È proprio per questo che congelare l’adesione del suo partito è il trucco funambolico di cui andava alla ricerca: è un’esibizione di protesta contro un governo che sostiene, priva di qualsiasi minaccia reale di farlo cadere.

Non è ancora chiaro quanto questo patetico tentativo di protesta sia stato coordinato con il primo ministro Naftali Bennett – che ha consentito alla polizia di scatenarsi ad Al-Aqsa – e con colui che dovrebbe succedergli [in base ad un accordo tra i partiti della coalizione di governo, ndtr.], Yair Lapid.

Dal canto loro Bennett e Lapid sanno che devono aiutare il loro partner assediato, almeno fino a dopo il Ramadan. È probabile che nei prossimi giorni vedremo una serie di gesti umanitari rivolti ai palestinesi – in particolare in vista dell’Eid al-Fitr, che segna la fine della ricorrenza – che consentirà loro non solo di pregare a Gerusalemme, ma anche di bagnarsi i piedi nel Mediterraneo. La presenza della polizia nella Città Vecchia probabilmente diminuirà in modo significativo e le ultime preghiere del mese potrebbero trascorrere senza nuove aggressioni verso i palestinesi.

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: questo governo non cadrà a causa dei suoi parlamentari arabi. L’esperienza recente ci insegna che i membri del partito di Bennett rappresentano la più grande minaccia all’esistenza della coalizione. Non sarà Ra’am a rovesciarlo, non perché sia soddisfatta del governo, ma perché il futuro del partito dipende da ciò che l’elettore arabo avrà deciso, alla fine, in merito alla bontà della decisione di entrare nel governo Bennett-Lapid. La scommessa fatta da Abbas deve dare i suoi frutti il ​​prima possibile, finché è ancora al governo, altrimenti il ​​suo partito non avrà diritto di esistere.

Sarà accusato, ancora una volta, di aver smantellato la Lista Unita [di cui faceva parte prima delle ultime elezioni, ndtr.] in nome di false promesse e sogni irrealizzabili. Sarà un suicidio politico e la prova determinante che il nuovo e pragmatico corso del movimento islamico è destinato a fallire, e che Mansour Abbas non è ancora pronto ad ammetterlo.

Samah Salaime è un’attivista e giornalista femminista palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nel corso di un’accesa seduta Israele vota di rinnovare il divieto al ricongiungimento per le famiglie palestinesi

Noa Shpigel, Jack Khoury

10 marzo 2022 – Haaretz

La legge è riuscita a ottenere facilmente l’approvazione durante una votazione in extremis prima della pausa parlamentare nonostante l’opposizione della Lista Araba Unita e del Meretz.

Durante la seduta finale di giovedì prima della pausa della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] la coalizione di governo ha approvato una legge che di fatto esclude i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza sposati con cittadini israeliani dall’ottenere la cittadinanza o la residenza [in Israele].

Il progetto di legge è passato con 45 voti a favore e 15 contrari, nonostante l’opposizione di due dei partiti della coalizione, la Lista Araba Unita (LAU) [coalizione di partiti islamisti che rappresentano una parte degli arabo-israeliani e che si è scissa dalla Lista Unita, ndtr.] e il Meretz, [partito  della sinistra sionista, ndtr.].

Il testo, caldeggiato dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked, sancisce con una legge un emendamento temporaneo rinnovato annualmente dal 2003, che però sarebbe scaduto a luglio se la coalizione non fosse riuscita a ottenere i voti per rinnovarlo, un grave ostacolo iniziale per la coalizione.

La Lista Unita, formata da tre partiti a maggioranza araba e che è all’opposizione, ha nuovamente cercato di provocare una crisi della coalizione chiedendo il voto di fiducia.

La Lista Araba Unita ha detto che avrebbe ancora votato contro, ma Ahmed Tibi, deputato della Lista Unita, ha proposto a Mansour Abbas, leader della LAU, di firmare un accordo per sciogliere la Knesset, provocando un diverbio fra i due ex compagni di coalizione. 

Dopo il passaggio della legge Ayelet Shaked ha dichiarato la vittoria dello ” Stato ebraico e democratico” su uno “Stato di tutti i suoi cittadini.”

Mossi Raz del Meretz [al governo, ndtr.] ha invece definito la legge “razzista,” aggiungendo che 16 parlamentari del suo partito, della Lista Unita [all’opposizione, ndtr.], della Lista Araba Unita e del partito laburista [entrambi al governo, ndtr.] hanno proposto un testo alternativo per abrogarla.

Ai sensi dell’emendamento alla Legge sulla Cittadinanza, il permesso temporaneo di residenza verrà concesso per un periodo di due anni, a differenza dell’originario di un anno, e il ministero dell’Interno sarà obbligato a revocarlo nel caso si provi che il destinatario abbia commesso un’azione che riguardi una violazione della fiducia (terrorismo, spionaggio o tradimento) contro lo Stato di Israele.

Nella stesura finale della bozza, la legge sarebbe valida per 12 mesi, sebbene i suoi promotori sperino possa essere applicata per un tempo più lungo.

Inoltre il permesso temporaneo di residenza che potrebbe essere rilasciato in casi specifici durerebbe due anni, invece di uno come stipulato nella bozza originale. Il testo finale permette al ministro dell’Interno di revocarlo se il titolare è condannato per terrorismo, spionaggio o tradimento.

I promotori della proposta di legge la giustificano adducendo motivi di sicurezza e sostenendo che i militanti palestinesi potrebbero usare il matrimonio per entrare in Israele, mentre i suoi critici affermano che essa ha una motivazione razzista ed è uno strumento per preservare la maggioranza demografica [ebraica]. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cosa c’è dietro la rinnovata guerra della destra israeliana contro i cittadini palestinesi?

Meron Rapoport

10 febbraio 2022 – +972 magazine

Articolo pubblicato in collaborazione con Local Call.

Fallito il tentativo di annettere formalmente la Cisgiordania, la destra israeliana prende nuovamente di mira un suo vecchio bersaglio.

Ascoltando la retorica della destra israeliana dello scorso anno sembra di avere fatto un passo indietro nel tempo e di essere tornati ai giorni precedenti la fondazione di Israele. I fatti violenti del maggio 2021 sono etichettati come “tumulti” e “pogrom,” mentre il commentatore Amit Segal considera piantare alberi nel Negev/Naqab: “un’attività naturale e sionista”, un’attività il cui obiettivo, secondo Avraham Duvdevani, presidente del Jewish National Fund, (JNF) [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] è di “appropriarsi tramite il rimboschimento degli spazi aperti vicino agli insediamenti beduini per bloccare l’occupazione delle terre.” A sentire il giornalista Kalman Liebskind ciò che al momento sta succedendo in tutto il Paese è una “guerra contro il sionismo, la sovranità e la madrepatria.”

Questi tre uomini appartengono tutti all’ala militante del sionismo religioso che, anche se raccoglie al massimo i voti del 10% degli ebrei israeliani, occupa alcune delle cariche più ambite nel cuore dei media e dell’establishment politico israeliano. Segal è il principale commentatore politico di Channel 12 e del quotidianoYedioth Ahronoth [giornale di centro fra i più letti in Israele, ndtr.], Liebskind ha il suo show sull’Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN) [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e Duvdevani è il capo di un’organizzazione che controlla più del 10% della terra del Paese.

Non meno interessante della sproporzionata rappresentanza di quest’ala radicale nella struttura di potere statale è il linguaggio che ideologi e politici di destra hanno cominciato a usare l’anno scorso, in particolare in seguito alle violenze di maggio e dalla formazione del governo Bennett-Lapid: un linguaggio che dà l’impressione che la comunità ebraica in Israele debba ancora conquistarsi il proprio Stato. Fanno sembrare il sionismo come se fosse ancora nella sua fase prestatale, pre-sovrana. Come se nel 1948 Israele non si fosse costituito sulle rovine del popolo palestinese né avesse continuato a stabilirsi in oltre 700 colonie, paesi e città solo per cittadini ebrei. Come se non avesse imposto l’occupazione militare su 4,5 milioni di palestinesi per oltre 50 anni.

Ci sono varie ragioni che hanno fatto emergere questa azione retorica concentrata e deliberata che – pur provenendo dalla destra, è fermamente integrata nel mainstream israeliano – per un ritorno alle “radici del sionismo”, collocate a prima della fondazione di Israele. Esse si possono così riassumere: l’estrema destra teme che il sionismo e lo Stato di Israele abbiano deviato, o stiano per deviare, dalla loro strada e che invece di stabilire uno “ Stato ebraico” il cui unico scopo sia servire la collettività ebraica, il sionismo possa inavvertitamente portare alla creazione di una vera democrazia in cui tutti, inclusi i cittadini palestinesi, abbiano la loro parte di potere.

L’idea stessa di democrazia, uno Stato che sia in ugual misura al servizio dei propri cittadini, è vista come una minaccia imminente. Questo è il messaggio centrale proveniente da quasi tutti gli oratori a una sequela di recenti manifestazioni di destra e pro-Netanyahu a Tel Aviv: lo Stato ebraico deve essere salvato e va evitata ad ogni costo l’istituzione di uno “Stato per tutti i suoi cittadini”. È come se avessero letto il rapporto di Amnesty prima che fosse pubblicato e concordato con la sua diagnosi, ma respinto le conclusioni: Israele è uno Stato di apartheid e deve rimanere tale.

Alla ricerca di una nuova frontiera

La guerra della destra contro uno Stato di tutti i suoi cittadini che si sta rivelando una guerra contro i cittadini palestinesi di Israele è il risultato del fallimento del suo progetto di annessione. Il fallimento dell’annessione formale dei territori occupati, un progetto che la destra ha cullato per oltre un decennio, è un segnale diretto alla base che, almeno per l’immediato futuro, non è possibile espandere i confini della sovranità israeliana in modo sistematico e concordato senza ricorrere alla guerra. Di fatto i coloni hanno visto l’ultima frontiera, il confine definitivo, scomparire davanti ai loro occhi.

Per la destra il sionismo è un movimento in preda a una costante lotta espansionista e perciò sempre bisognoso di trovare “nuove frontiere.” Questo fa da sfondo alla nascita dei Garinim Toranim, i gruppi del movimento dei coloni che in anni recenti hanno cercato di ebraicizzare ulteriormente le “città miste” in Israele.

È anche lo sfondo su cui prospera un’organizzazione come HaShomer HaChadash che afferma di “proteggere la terra, assistere contadini e allevatori e rafforzare il legame del popolo ebraico con la terra, i valori ebraici e l’identità sionista.” Tutto ciò fa parte della “Guerra per il Negev,” oggi lo slogan centrale della battaglia della destra che ha di nuovo conquistato i titoli questa settimana, quando attivisti della destra hanno tentato di fondare una “nuova colonia” per ebrei vicino alla città beduina di Rahat, più o meno con le stesse modalità con cui i coloni stabiliscono avamposti non autorizzati in Cisgiordania.

Ma appena la destra ha distolto lo sguardo dalla Cisgiordania per rivolgerlo su Israele ha scoperto una nuova realtà che non conosceva. Nell’ultimo decennio, e soprattutto durante le ultime quattro tornate elettorali, i cittadini palestinesi in Israele hanno ottenuto un potere su istruzione, economia e specialmente in politica, molto maggiore a quello che aveva nel passato.

Che Mansour Abbas e il suo partito Ra’am [islamista israelo-palestinese, ndtr.] facciano parte del governo israeliano è un diretto risultato del crescente potere dei palestinesi nell’arena politica israeliana. È vero che questa non è la prima volta che un partito arabo fa parte di una coalizione israeliana, ma è difficile negare che il riconoscimento del potere politico dei cittadini palestinesi, e in particolare la legittimità che ha di reggere il timone, è diventato molto ampio.

Questo crescente potere palestinese minaccia di indebolire la storica “divisione del lavoro” fra un “Israele ufficiale,” che afferma di essere democratico e basato sull’uguaglianza fra tutti i suoi cittadini, e un “Israele non ufficiale,” che opera sistematicamente per il beneficio della collettività ebraica in quasi tutti i campi immaginabili. Il JNF che è responsabile della confisca di terre di proprietà araba per piantare alberi nel Negev/Naqab, è uno dei principali agenti di questo Israele non ufficiale.

Per vedere quanto sfacciatamente razzista sia l’Israele non ufficiale basti considerare alcune citazioni del presidente del JNF. A una conferenza agli inizi di dicembre Duvdevani ricorda che quando era alla Jewish Agency [Agenzia Ebraica, ente parastatale israeliano, ndtr.] aveva spinto affinché lo Stato limitasse gli assegni familiari alle famiglie con due o tre figli mentre l’Agency si sarebbe impegnata ad aiutare famiglie più numerose, ma solo se erano ebree. “Siccome l’Agency si concentra solo sugli ebrei,” aveva spiegato che avrebbe potuto funzionare. Oggi comunque non si potrebbe. “Lo Stato è cambiato,” si lamenta, e “oggi si parla di più di uguaglianza e contro il razzismo e uno non può più far niente.” In breve la democrazia danneggia i “veri” sionisti come Duvdevani.

La legge dello Stato-Nazione ebraico è un tentativo di istituzionalizzare questa discriminazione razzista e renderla parte dell’Israele ufficiale, ma sembra che non abbia raggiunto i suoi scopi, almeno secondo la destra: la sua approvazione ha solo propiziato la crescita dell’influenza politica dell’elettorato palestinese, portando alcuni dei suoi rappresentanti al governo.

Qui il rischio per la destra è non solo che la collettività ebraica stia perdendo il suo monopolio assoluto sul potere in Israele o persino che il Movimento Islamico conquisti parte di questo potere per sé e sia in grado di prendere decisioni su politiche riguardanti sia arabi che ebrei. Il vero pericolo è che quelle parti dell’opinione pubblica ebraica, al di là della sinistra radicale, siano ora disponibili a questo partenariato. In altre parole, quello che temono è che troppi ebrei e troppi cittadini palestinesi in Israele possano cominciare a concretizzare la pretesa che Israele sia uno Stato democratico, e farlo veramente diventare “uno Stato per tutti i suoi cittadini.”

Bezalel Smotrich, forse il politico più acuto della destra, ha identificato questo rischio fin da subito e perciò si è rifiutato di entrare in coalizione con Abbas, anche se ciò avrebbe permesso a Netanyahu di restare al potere. Per Smotrich Israele può essere o ebraico o democratico. Non c’è spazio per compromessi. Ha fatto la sua scelta e il resto dell’estrema destra lo ha seguito.

L’obiettivo finale è il conflitto violento

A maggio la violenza fra comunità ha gettato benzina sul fuoco. Non è qui il luogo per un resoconto dettagliato di cosa è successo, ma a destra, anzi non solo a destra, questi eventi sono la prova che il vero nemico è dentro i confini sovrani di Israele, compreso il territorio annesso di Gerusalemme Est. Ci sono pochi dubbi che la destra abbia usato la violenza di rivoltosi arabi ed ebrei nelle cosiddette città miste, Lydda, Ramle, San Giovanni d’Acri e Giaffa, per presentare tutti i cittadini palestinesi di Israele come “il nemico interno.”

Coniare in ebraico l’espressione ‘disordini del 5781’ (alludendo alla rivolta in Palestina del 1929 o del 5689, secondo il calendario ebraico, durante il mandato britannico) ha lo stesso scopo. A chiunque sia cresciuto nel sistema scolastico israeliano-ebraico la parola “Meoraot” (ebraico per “disordini”) immediatamente richiama alla memoria il vero caposaldo del conflitto ebraico-palestinese: gli arabi non ci volevano qui e non ci hanno lasciato altra scelta che combatterli e in ultimo scacciarli, questa è la storia. “Meoraot” catapulta il conflitto a livello della comunità, svincolandolo dall’elemento civile: noi non siamo cittadini dello stesso Stato democratico, noi siamo ebrei e arabi, due comunità eternamente in guerra.

In questo senso lo scopo dei fondamentalisti sionisti è tanto sfacciato quanto semplice: istigare la violenza fra arabi ed ebrei entro i confini di Israele o, più precisamente, istigare un conflitto fra lo Stato e i suoi meccanismi di oppressione (specialmente esercito e polizia) da un lato e i suoi cittadini arabi dall’altro, e neanche lontanamente in senso metaforico, ma in senso molto diretto, fisico.

Il fatto che i rivoltosi della Lod araba questa mattina non contino i propri morti non è perché ci si sia contenuti e moderati. È codardia e volontaria cecità,” ha twittato il giornalista Amit Segal il 12 maggio 2021, due giorni dopo l’inizio degli scontri. “Il fatto che l’ebreo che ha sparato a un manifestante per proteggere la propria famiglia sia ancora in carcere dovrebbe far tremare tutto lo Stato,” aggiunge. Inutile dire che a Lydda l’ebreo che ha sparato e ucciso Musa Hassuna è invece stato subito rilasciato senza accuse: invece gli abitanti arabi di Lydda accusati di aver ucciso l’abitante ebreo Yigal Yehoshua sono stati condannati.

L’ultima settimana di gennaio a una conferenza che aveva organizzato con l’organizzazione di estrema destra Im Tirzu, il parlamentare del Likud Yoav Galant ha chiesto di ampliare la polizia di frontiera paramilitare con “tre battaglioni regolari e una forza di riservisti di alta qualità” per combattere contro la “scatenata criminalità nazionalista.” Galant continua mettendo in guardia che “se noi perdiamo il Negev e la Galilea perderemo anche Tel Aviv e Gerusalemme.” Altri oratori hanno fatto eco a questo sentimento.

I pericoli di questa narrazione, che invoca la soppressione violenta dei cittadini palestinesi in Israele con il debole pretesto di un ritorno alle radici sioniste, non può essere sottostimato, precisamente perché questo discorso, dal piantare boschi a lottare contro i “rivoltosi,” è così profondamente radicato nella coscienza israeliana che è quasi impossibile non prevedere che culminerà nella violenza che cerca di fomentare.

Apartheid formalizzato o una seconda Nakba

Noi dovremmo anche ricordare che a capo dello stesso governo che include il Movimento Islamico siede un uomo della destra con cui la retorica sui pericoli dei “disordini” di maggio e la necessità di difendere la terra della Nazione risuona tanto quanto quello di tutti gli altri. “L’idea è di radunare [i beduini] e concentrarli in una manciata di comunità riconosciute,” ha detto il primo ministro Bennett a Maariv durante il weekend.

Sarebbe una situazione vantaggiosa per tutti, per il sionismo, per lo Stato, per conservare la terra statale,’ continua Bennett. “Noi erigeremo un muro di ferro contro l’ingovernabilità. È una minaccia reale. Lo scoppio di violenza durante Guardian of the Walls (I guardiani delle mura, nome israeliano per l’operazione militare a Gaza del maggio 2021) ci ha scossi tutti. È stato un campanello d’allarme.” Ayelet Shaked, da lungo tempo compagna ideologica di Bennett e attuale ministra degli interni ha aggiunto più tardi nella settimana, parlando della Legge sulla Cittadinanza [che intende impedire ai palestinesi immigrati per ricongiungimento familiare di acquisire la cittadinanza israeliana, ndtr.] che sta cercando di far passare alla Knesset, che “i dati parlano da sé, senza la Legge sulla Cittadinanza noi perderemo il Negev a favore del nazionalismo palestinese.”

Ma c’è il rovescio della medaglia della minaccia. La realtà israeliana del 2022 non è quella delle comunità ebraiche del 1929, 1936, o persino del 1948. Negli anni ’30 l’acquisto di terre condotto da Yosef Weitz per conto dello JNF portò alla cacciata di contadini palestinesi affittuari e alla loro sostituzione con coloni ebrei. Oggi persino se il JNF trasformasse il Negev in una lussureggiante e vasta giungla la possibilità che chiunque a Sawe al-Atrash [villaggio beduino al centro del conflitto sulla riforestazione, ndtr.] lasci le proprie terre è virtualmente nulla. Anche gli abitanti palestinesi-arabi delle “città miste,” sopravvissuti a molti decenni di sfratti, repressione e discriminazioni, non andranno da nessun’altra parte.

Com’è noto Karl Marx disse che la storia si ripete: “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Ci si potrebbe chiedere se il ritorno della destra alla storia del primo sionismo sia poco più di una farsa e, al di là della spacconata, un’ammissione di fallimento. “Noi abbiamo deciso di non raccontare quella battaglia” contro i beduini del Negev, scrive Liebksind nell’articolo che ho citato sopra. E con “noi” egli non vuole dire sé stesso e i suoi camerati della destra. Egli intende l’intera comunità ebraica. La vera chiamata all’azione è ricolma dell’ammissione della sconfitta.

Il motivo per cui Liebskind, Smotrich e compagnia temono che la battaglia sia persa è proprio perché vedono il crescente potere dei palestinesi nella politica israeliana, proprio perché ritengono che parti sempre più vaste della società ebraica come mai prima d’ora stiano mettendosi l’anima in pace in merito alla legittimità della presenza palestinese nel governo israeliano, proprio perché capiscono le implicazioni di lungo termine di questa presenza, sia per la democrazia israeliana che per il futuro dell’occupazione.

Le sole due opzioni rimaste alla destra sono l’apartheid formalizzato o una seconda Nakba [Catastrofe in arabo, l’espulsione dei palestinesi dal territorio in cui nacque lo Stato di Israele, ndtr.], nessuna delle quali appare particolarmente probabile in un prossimo futuro. Smotrich, fra l’altro, sembra spingere per entrambe: da un lato cercando di privare del potere i cittadini palestinesi di Israele e dall’altro ribattendo ai parlamentari arabi con la battuta: “Tu sei qui solo perché nel ’48 (il primo ministro David) Ben-Gurion non finì il lavoro di cacciarvi.”

È importante capire cosa ci troviamo davanti con l’improvviso revival degli slogan vintage, antecedenti lo Stato sionista, e quello che ci sta dietro. Farlo ci permetterà di comprendere i rischi radicati in questa narrazione, ma anche a essere consapevoli dei suoi limiti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Palestinesi d’Israele. Un duro colpo al mito della “coesistenza”

GRÉGORY MAUZÉ

29 luglio 2021 – Orient XXI

Un partito arabo, il Raam, ha contribuito alla formazione del governo israeliano che in buona misura continua le pratiche di apartheid e la colonizzazione. Le mobilitazioni della primavera scorsa in solidarietà con Gerusalemme est e Gaza hanno tuttavia ricordato la solidità dei rapporti che uniscono tutte le componenti del popolo palestinese.

Il ruolo cruciale giocato dai palestinesi di Israele nella recente crisi ha fatto vacillare molte certezze. Cittadini di serie B, con le loro mobilitazioni hanno evidenziato la situazione di discriminazione materiale e simbolica che colpisce i discendenti degli autoctoni rimasti sulla propria terra quando venne creato Israele. La fiammata di violenza nelle città cosiddette “miste” ha fatto esplodere il mito di una coesistenza armoniosa tra comunità che in realtà non è mai stata pacifica per il gruppo dominato.

Soprattutto ha ricordato le somiglianze tra la loro condizione e quella del popolo palestinese nel suo complesso. Sheikh Jarrah, Al-Aqsa, Gaza: i riferimenti all’oppressione subita nei territori occupati erano sulle bocche di tutti. Questa dinamica di solidarietà, inedita dallo scoppio della Seconda Intifada, è culminata con il grande “sciopero per la dignità” del 18 maggio 2021 dei lavoratori palestinesi, molto partecipato da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.]. Ha sanzionato l’incapacità israeliana di risolvere il problema palestinese all’interno delle proprie frontiere riconosciute. Fin dalla sua creazione quest’ultimo di fatto si è impegnato a reprimere l’affermazione nazionale dei suoi cittadini palestinesi, significativamente definiti “arabi israeliani” per cancellare l’origine colonialista dell’oppressione a cui si trovano di fronte.

Esatto contrario

Questo ritorno imprevisto della centralità della causa nazionale nella minoranza palestinese contrasta con una dinamica quasi simmetricamente opposta all’interno della sua classe politica.

All’inizio del 2021 la Lista Unita, coalizione che dal 2015 raggruppava in modo intermittente i partiti che rappresentano gli interessi della minoranza araba nel parlamento israeliano, è stata indebolita dall’uscita del partito islamista Raam. Infatti il suo leader, Mansour Abbas, ha manifestato in modo sempre più esplicito il suo desiderio di rompere con quello che cementava questa eterogenea alleanza: il legame tra la lotta per i diritti dei palestinesi nei territori occupati e di quelli di Israele. Questi ultimi, ritiene Mansour Abbas, dovrebbero ormai pensare soprattutto a difendere i propri interessi. Liberati dal peso morto che rappresenterebbe la causa palestinese, potrebbero allora prendere in considerazione una collaborazione promettente con una destra nazionalista che, per quanto colonialista e suprematista, è tuttavia stabilmente al potere. Ultima trasgressione, Mansour Abbas ha manifestato in modo evidente la sua complicità con Benjamin Netanyahu, proponendo il suo partito come perno del gioco politico israeliano.

Se questo approccio ha rappresentato un punto di rottura per i suoi ex-alleati, è stato accolto a braccia aperte dal mondo politico e mediatico israeliano. “Mano a mano che la causa palestinese svanisce nel mondo arabo, essa si attenua anche tra gli arabo-israeliani,” scriveva entusiasticamente nel 2020 il Times of Israel [quotidiano israeliano on line in lingua inglese, ndtr.]. Dopo gli accordi di normalizzazione avvenuti qualche mese prima tra Israele e varie monarchie del Golfo, sarebbero dunque i cittadini palestinesi di Israele a dimostrare a loro volta il proprio “pragmatismo”.

Nella posizione di persona decisiva in seguito alle elezioni del 23 marzo 2021, Abbas ha continuato a centrare le proprie esigenze sugli interessi della “sua comunità”, evitando ogni riferimento alla questione palestinese nel suo insieme. Salvo i suprematisti del Partito Sionista Religioso, la classe politica [ebreo-israeliana, ndtr.] ha allora salutato, secondo le parole di un ministro della coalizione di Benjamin Netanyahu, “la vera voce degli arabo-israeliani”. “Una rivoluzione politica,” ha persino intitolato Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.], che ha esortato la popolazione ebraica ad accettare la mano tesa.

L’unità palestinese manifestata durante le rivolte di maggio e aprile non ha impedito a Mansour Abbas e al suo partito, che si sono dissociati per quanto possibile dalle mobilitazioni, anche da quelle pacifiche, di essere conseguenti con la loro logica. La polvere dei bombardamenti a Gaza si era appena depositata quando essi hanno contribuito in modo decisivo alla conclusione di un accordo di governo destinato ad allontanare Netanyahu dal potere. Come previsto, nessuna citazione della questione palestinese da parte sua, ma un piano sostanzioso di investimenti nelle località arabe, il riconoscimento di una manciata di villaggi beduini nel Negev e una sospensione temporanea della distruzione di edifici costruiti senza permesso. In modo altrettanto prevedibile, questa collaborazione arabo-sionista è stata considerata dai commentatori politici un segno dell’apertura della società israeliana e della vitalità della sua democrazia.

Persistenza dell’apartheid

Tra i palestinesi le reazioni sono state nettamente meno entusiastiche. La debole speranza di vita di questo governo, che va dalla sinistra sionista all’estrema destra annessionista, fa sorgere dubbi sul conseguimento effettivo di misure a favore degli arabi, tanto più che esso è in un primo tempo diretto dall’araldo della corrente messianica suprematista ebraica, Naftali Bennett. Cosa ancora più importante, molti hanno criticato l’assenza di risposte alle cause profonde delle diseguaglianze razziali in Israele. Rimangono in vigore norme discriminatorie strutturali come legge sullo Stato-Nazione del 2018, che relega le minoranze non ebraiche in una condizione di secondo piano, o della legge sulla Nakba del 2011, che impedisce di commemorare la grande espulsione dei palestinesi durante la creazione dello Stato di Israele.

Allo stesso modo gli islamisti e la sinistra sionista hanno appoggiato con una relativa facilità il prolungamento del divieto per i palestinesi dei territori occupati di ottenere la cittadinanza israeliana grazie ai ricongiungimenti familiari.

Se l’obiettivo perseguito è l’uguaglianza, non è possibile isolare la questione degli arabi israeliani da quella palestinese nel suo complesso, dal momento che l’oppressione delle diverse componenti del popolo palestinese risponde, in misura variabile, alla stessa filosofia di apartheid,” sostiene Naim Moussa, del centro Mossawa, che promuove l’uguaglianza dei cittadini arabi [di Israele, ndtr.].

Di fatto la rivolta di piazza dei palestinesi dal Giordano al Mediterraneo conferma la constatazione ormai largamente condivisa dalle organizzazioni dei diritti umani: l’esistenza di un regime di supremazia razziale su tutto il territorio controllato da Israele. Il confinamento del 18% dei palestinesi di Israele sul 3% delle terre, l’impossibilità di ottenere un permesso edilizio o l’ebraizzazione a marce forzate da parte di coloni fanatici dei quartieri arabi riecheggiano così clamorosamente la situazione di Gerusalemme est e in Cisgiordania. Allo stesso modo la repressione spietata di queste manifestazioni, a volte con l’appoggio di ausiliari estremisti venuti dalle colonie, e l’ondata di arresti massicci che ne è seguita (più di 2.000 dall’inizio del maggio 2021) evocano i metodi contro-insurrezionali praticati nei territori occupati.

In questo contesto molti temono una risistemazione di facciata che lasci intatte le strutture istituzionali di dominazione. “Quei pochi miglioramenti ottenuti dal Raam non sono molto diversi da quelli ottenuti in modo puntuale grazie al nostro lavoro parlamentare, con la differenza che all’epoca non avevamo da pagare il prezzo del sostegno a un governo che perpetua l’occupazione, le colonie e la discriminazione razziale,” osserva Raja Zaatry, del partito comunista israeliano (Hadash), principale componente della Lista Unita.

Inoltre la tanto celebrata rivoluzione nei rapporti tra ebrei e arabi non lo è affatto. “La storia è piena di cosiddetti dirigenti palestinesi che hanno effettivamente venduto la causa del loro popolo per ottenere un vantaggio personale”, rivela il giornalista e militante Rami Younis, originario di Lod-Lydda, che ricorda la partecipazione di partiti-satellite arabi ai primi governi laburisti o la cooptazione di notabili locali sotto il regime dell’amministrazione militare [israeliana] dal 1948 al 1966.

Come all’epoca, questa collaborazione tra élite senza dubbio non si rifletterà sui rapporti intercomunitari nella società. L’inclusione di Raam è innanzitutto il risultato di un’aritmetica parlamentare che lo ha reso indispensabile. È quindi poco suscettibile di cancellare anni di incitamento all’odio contro la minoranza araba da parte di quegli stessi che oggi incensano l’atteggiamento di Abbas. Del resto, con quattro seggi, il suo partito è certo il primo della sua comunità se si contano separatamente i sei ottenuti dalla Lista Unita, ma nel contesto di un tasso record d’astensione delle località arabe (55,4% contro il 33,6% nel 2020), in grande misura provocato dalla divisione della rappresentanza politica palestinese. Perché l’iniziativa di Abbas ha soprattutto segnato una battuta d’arresto del processo di affermazione di una forza parlamentare palestinese autonoma. Il successo clamoroso della Lista nel 2020 l’aveva in effetti portata a 15 seggi e ridotto i voti arabi per i partiti sionisti al 12%, il livello più basso da sempre, fornendole un’attenzione inedita. Al contrario, la sua scissione nel 2021 consente di opporre con poco sforzo gli “arabi buoni”, che aspirano a partecipare nel posto che gli compete al sogno israeliano, senza rimettere in discussione le disuguaglianze strutturali e il razzismo, agli “arabi sleali”, che reclamano diritti in quanto minoranza nazionale.

Scetticismo riguardo alle elezioni

Peraltro non è detto che la sequenza imposta dalla piazza palestinese favorisca la Lista Unita. Lo scoppio delle rivolte d’aprile e maggio fuori da qualunque quadro centralizzato costituisce di fatto una sconfessione generale per la classe politica palestinese, che fa eco al divorzio tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le mobilitazioni nate spontaneamente in Cisgiordania. A questo riguardo è significativo che le città “miste” nelle quali si sono prodotte siano anche quelle in cui la popolazione araba ha maggiormente disertato le urne il 23 marzo 2021.

Queste mobilitazioni spontanee testimoniano pertanto un profondo scetticismo quanto all’efficacia della partecipazione palestinese al gioco politico israeliano. “I palestinesi si sono fortemente mobilitati nel 2020 per porre la Lista Unita in terza posizione e con il suo risultato migliore unicamente per essere poi rifiutati dal sistema,” spiega Amjad Iraqi sul sito +972 Magazine, in riferimento al dialogo abortito avviato nel 2020 per affrettare la caduta di Netanyahu tra il capo dell’opposizione Benny Gantz e Ayman Odeh, dirigente di Hadash. L’ambizione di quest’ultimo di far progredire una collaborazione ebreo-palestinese basata sull’inclusione della questione palestinese in senso lato e l’impegno a combattere le disuguaglianze nel loro complesso si è scontrata con la persistente ostilità della maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

Mansour Abbas ha fatto lo stesso errore di Ayman Odeh. Questi ultimi 3 anni sono stati un esame per i nostri rappresentanti politici, e purtroppo hanno fallito due volte,” sostiene Rawan Bisharat, militante originaria di Giaffa ed ex-codirettrice dell’associazione per il dialogo ebraico-arabo Sadaka-Reut. “Il fossato tra la nuova generazione che è scesa in piazza e quella precedente che si è dimostrata incapace di comprendere l’escalation a cui abbiamo assistito è oggi evidente. La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non è più il luogo adeguato per far avanzare i nostri diritti e dovremmo prendere in considerazione in modo diverso il nostro contributo per il futuro.

La partecipazione alle elezioni rimane una leva per difendere i diritti del popolo palestinese nel suo complesso, tanto più se ci mobilitiamo in modo consistente,” confida Naim Moussa. Continuare su questa strada richiederà però di tener conto dei cambiamenti della società araba in Israele nella sua diversità. La persistenza a lungo termine delle disuguaglianze tra i più precari li rende da parte loro sensibili alle proposte, per quanto aleatorie, che consistono nel migliorare nell’immediato la loro vita quotidiana, finché non si porrà fine al regime discriminatorio che colpisce il popolo palestinese nel suo complesso.

GRÉGORY MAUZÉ

Politologo e giornalista.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Una sconfitta per Bennett: la Knesset vota contro l’estensione della legge sulla cittadinanza

Michael Hauser Tov

5 luglio 2021 – Haaretz

Nonostante il compromesso raggiunto nella coalizione, scade la legge che vieta il ricongiungimento familiare tra palestinesi sposati con cittadini israeliani. La ministra degli Interni Shaked mette in guardia contro “15.000 domande di cittadinanza” e afferma che vedere i legislatori di estrema destra del Likud che applaudono assieme a quelli della Lista Unita è “follia”

Martedì mattina, dopo una sessione notturna, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] ha votato contro un’estensione dell’emendamento sulla legge sulla cittadinanza, nonostante un compromesso sulla controversa norma raggiunto dalla coalizione di governo. Cinquantanove deputati hanno votato a favore e cinquantanove contro, mentre due membri della Lista Araba Unita [partito arabo islamista che fa parte della maggioranza governativa, ndt.] si sono astenuti.

In risposta, il primo ministro Naftali Bennett ha accusato l’opposizione di danneggiare deliberatamente la sicurezza dello Stato per “amarezza e frustrazione”.

“Chiunque abbia votato contro la legge sulla cittadinanza, da Bibi a Tibi e Chikli, ha preferito la politica politicante al bene dei cittadini israeliani e dovrà renderne conto per molto tempo”, ha detto Bennett, che ha promesso di trovare una nuova soluzione alla questione.

Pochi minuti prima del voto, è stato annunciato che il primo ministro Naftali Bennett aveva dichiarato che il voto era anche un voto di fiducia al governo. Nonostante l’emendamento sia stato respinto, la coalizione è sopravvissuta al voto dato che ci sono state alcune astensioni e non una maggioranza di voti contrari. Amichai Chikli di Yamina [ndtr: alleanza di partiti politici israeliani di estrema destra che fa parte della coalizione di governo] ha votato contro la legge, mentre Mansour Abbas e Walid Taha della Lista Araba Unita hanno votato a favore.

L’emendamento alla legge sulla cittadinanza impedisce ai palestinesi che vivono in Cisgiordania o a Gaza e che sposano cittadini israeliani di vivere permanentemente in Israele con i loro coniugi e nega loro un percorso verso la cittadinanza. La modifica temporanea della legge è stata rinnovata ogni anno dal 2003.

Durante il dibattito sulla proroga della legge, la ministra dell’Interno Ayelet Shaked ha annunciato dal podio che il governo aveva approvato un compromesso. Il suo annuncio ha provocato un prolungamento della sessione per discutere la nuova proposta che si è protratta per tutta la notte.

Dopo il voto, Shaked ha twittato che la vista dei membri del Likud e del sionismo religioso che esultavano accanto ai membri della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeilani di sinistra, all’opposizione, ndtr.] era “follia” e che il fallimento del provvedimento era una “grande vittoria per il post-sionismo”.

“La condotta sconsiderata di Likud e Smotrich [leader della formazione di estrema destra Partito Religioso Sionista, all’opposizione, ndtr.] ha causato la fine della legge sulla cittadinanza e porterà a 15.000 domande di cittadinanza”, ha detto Shaked, aggiungendo che “nemmeno una virgola” era cambiata dalla versione originale della legge, in risposta alle affermazioni contrarie dell’opposizione.

Se la Knesset avesse approvato il compromesso, la proroga sarebbe stata di sei mesi (anziché un anno) e a diverse centinaia di palestinesi sposati con israeliani e che vivono in Israele da molto tempo sarebbe stato offerto lo status di residente non cittadino. Shaked ha detto che i visti A5, che garantiscono i diritti di residenza, sarebbero stati offerti a 1.600 palestinesi, spiegando che questo era il numero approvato dal suo predecessore, Arye Dery [del partito religioso Shas, attualmente all’opposizione, ndtr.]

La Lista Araba Unita in precedenza aveva rifiutato il compromesso e Shaked aveva successivamente avuto colloqui sulla questione con il presidente di quest’ultima, Abbas, poiché era necessario almeno un voto a favore della legislazione da parte del suo partito. Abbas e il suo collega Walid Taha, tuttavia, quando Bennett [primo ministro in carica e leader del partito di estrema destra Yamina, ndtr.] lo ha definito un voto di fiducia al governo, hanno finito per votare a favore dell’emendamento.

Il presidente della Lista Araba Unita ha affermato che “la proposta di compromesso aveva lo scopo di favorire migliaia di famiglie”.

“Ora tutto è nelle mani del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa”, ha detto, invitandoli a “prendere decisioni e fornire una soluzione”.

In una successiva intervista con la radio pubblica Kan Bet, Abbas ha affermato che avrebbero votato “all’unisono” su un bilancio statale che garantirà un “piano quinquennale per affrontare i problemi relativi alla criminalità e alla violenza”.

Il Likud ha festeggiato il risultato del voto, affermando che la proposta di emendamento alla legge era un “accordo marcio, rappezzato nel buio della notte tra Bennett, Lapid, Shaked , LAU e Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.]” che è stato “schiacciato grazie allo sforzo determinato dell’ opposizione guidata da Netanyahu”.

Il parlamentare di Yamina, Amichai Chikli, che ha votato contro l’emendamento, ha chiesto un “governo sionista che funzioni come tale”.

Ha inoltre affermato che “stasera abbiamo avuto la prova delle difficoltà di un governo senza una chiara maggioranza. Un governo che inizia la notte con una proroga di un anno di una legge e la finisce con una proroga di sei mesi, che inizia con 1.500 permessi e finisce con oltre 3.000″.

Secondo le voci precedenti la votazione sui dettagli del compromesso, si sarebbe istituito un comitato per esaminare come rimuovere gli ostacoli burocratici per le rimanenti famiglie a cui non fossero stati concessi i diritti di residenza. Ciò avrebbe riguardato le condizioni per l’Assicurazione Nazionale, le domande per la patente di guida, l’uscita dal Paese e altro ancora. Il comitato avrebbe iniziato immediatamente i suoi lavori al fine di garantire lo stato di avanzamento sufficiente per un compromesso venisse accettato entro i termini di scadenza della proroga di sei mesi.

In vista del voto, il deputato della Lista Unita Ahmed Tibi ha ammonito il suo ex compagno di partito Abbas e lo ha invitato a respingere l’accordo: “Qualsiasi arabo che accetti di approvare la legge in realtà sputa in faccia alle famiglie, ai bambini e ai suoi compatrioti,” aggiungendo che acconsentire al disegno di legge sarebbe stata una “pugnalata alle spalle”.

(Traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La guerra che Israele ha perso

Shir Hever

21 maggio 2021 – Open Democracy

Le forze armate israeliane posseggono armamenti superiori a livello tattico, ma stanno perdendo legittimità internazionale a livello strategico

Nel 2000, Ariel Sharon, politico israeliano di destra, entrò nella moschea di Al-Aqsa accompagnato da un distaccamento di guardie del corpo. La provocazione innescò la seconda Intifada durata fino al 2005. Sharon all’epoca era il leader del Likud, il partito di opposizione. Gli scontri scoppiati dopo la sua visita attizzarono anche le fiamme del populismo e del nazionalismo nel Paese e meno di un anno dopo, nel marzo 2001, il governo del partito laburista di Ehud Barak cadde e Sharon diventò primo ministro.

Gli eventi di questo maggio in Israele-Palestina sono una spaventosa ripetizione di ciò che era successo nel 2000.

I risultati delle elezioni in Israele nel marzo 2021, le quarte in due anni, sono stati inconcludenti. Benjamin Netanyahu (Likud) non è riuscito a raccogliere una maggioranza per formare un governo nel tempo concessogli. L’8 maggio, immediatamente dopo che il presidente aveva dato l’incarico a Yair Lapid, il leader del partito dell’opposizione Yesh Atid, Netanyahu ha inviato la polizia israeliana ad assaltare la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme durante le preghiere della notte di Al-Qadr [‘la notte del destino’, una delle ultime 10 notti del Ramadan, ndtr.]  ferendo 330 palestinesi.

Il 10 maggio, nell’assediata Striscia di Gaza, alcuni gruppi palestinesi (cioè Hamas e Jihad Islamica) hanno lanciato razzi in risposta alla violazione della moschea. I pogrom di Gerusalemme, durante i quali folle inferocite sono andate a caccia di palestinesi da picchiare o uccidere, si sono allargati ad altre città. A Lod e in altre cosiddette “città miste”, i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato i propri gruppi e un ebreo israeliano è stato ucciso. L’aviazione israeliana ha cominciato una brutale campagna di bombardamenti della Striscia di Gaza, ma i razzi lanciati da Gaza non si sono fermati. Quando è iniziato il cessate il fuoco, dopo 11 giorni, erano stati uccisi 232 palestinesi (inclusi 65 bambini) e 12 israeliani.

Una manovra politica

Quattro elezioni consecutive in due anni non hanno raggiunto una chiara maggioranza per nessun candidato. Dai politici ci si aspetta che mostrino lealtà al proprio gruppo identitario piuttosto che a valori e ideali. Gli ebrei ultra-ortodossi sono diffidenti nei confronti degli ebrei secolari di classe media, i nazionalisti religiosi ortodossi detestano la comunità LGBT e naturalmente i palestinesi sono odiati ed emarginati da tutti i partiti sionisti.

In quest’ultima tornata elettorale, comunque, uno dei quattro partiti che formano la Lista Unita che rappresenta la maggioranza dei cittadini palestinesi in Israele e parte della sinistra israeliana ebraica, si è scisso. Ra’am, il partito che se n’è andato, è guidato da Mansour Abbas, un musulmano conservatore. Paradossalmente questa divisione all’interno della rappresentanza politica palestinese ha rafforzato la legittimità palestinese, con Abbas che gioca il ruolo di chi controlla la situazione, che né la destra né la sinistra possono permettersi di inimicarsi.

Quando è scoppiata la violenza, i politici israeliani, specialmente i sostenitori di Netanyahu, hanno intensificato l’istigazione razzista contro i palestinesi (sia a Gaza che in Cisgiordania o in Israele). Un’atmosfera di odio e paura si è impadronita del Paese con la forza. Dato che i partiti impegnati nei negoziati per formare una coalizione senza Netanyahu rappresentano gruppi con identità opposte oltre a Yesh Atid di Lapid, che rappresenta gli ebrei secolari di classe media, e Ra’am c’è la Nuova Destra di Naftali Bennet che rappresenta ebrei nazionalisti religiosi – essi potrebbero non cooperare più e i colloqui della coalizione si interromperebbero.

Nel frattempo, Lapid ha omesso di pronunciare una sola parola di critica sull’uccisione dei palestinesi da parte dell’esercito e della polizia. Ha tempo fino al 2 giugno per trovare una maggioranza e formare un governo, altrimenti saranno indette nuove elezioni e Netanyahu resterebbe come primo ministro ad interim.

Due leader di partiti con cui Lapid ha negoziato, Bennet e Gideon Saar (già membro del Likud, scontento della presunta corruzione di Netanyahu), hanno entrambi già insinuato che potrebbero rimangiarsi l’impegno preso durante la loro campagna di non unirsi al governo di Netanyahu. Appena Bennet e Saar hanno cambiato le loro posizioni, Netanyahu ha rapidamente accettato la proposta dell’Egitto di un cessate il fuoco con Hamas.

Per il pubblico israeliano e i media in generale, la manovra di Netanyah è completamente trasparente. Lo stato di emergenza gli dà l’occasione di restare in carica come primo ministro e di bloccare il suo processo per corruzione.

Eppure i politici israeliani che criticano Netanyahu hanno paura di parlare della sua cinica manipolazione della violenza. Se lo facessero, sarebbero marchiati come di “sinistra” o “amanti degli arabi”, entrambi considerati insulti nella politica israeliana. In Israele la paura che la propria lealtà e il proprio nazionalismo vengano mesi in dubbio è più forte della paura dei razzi di Hamas.

Un pesante tributo

A oggi, migliaia di persone sono state ferite e centinaia uccise, mentre i danni economici ammontano a miliardi di dollari, ma la maggior parte delle sofferenze sono state inflitte ai palestinesi, specialmente nella Striscia di Gaza.

Provocazioni e populismo stanno colpendo pesantemente la società israeliana. Molti giovani israeliani non si arruolano più nell’esercito, non per un’opposizione politica alle azioni dell’esercito, ma semplicemente per priorità personali. La corruzione è rampante nel governo, quindi perché dei cittadini qualunque dovrebbero impegnarsi di più e sacrificare anni delle proprie vite all’esercito?

Con questa mentalità di “ognuno per sé”, le istituzioni pubbliche stanno collassando. La polizia si è rivelata incapace o riluttante a fermare i pogrom, a proteggere i manifestanti o ad arrestare ebrei facinorosi e violenti. Quando il capo della polizia ha invocato la calma e parlato di “terroristi da entrambe le parti,” è stato immediatamente rimproverato da Amir Ohana, il ministro della Pubblica Sicurezza, del Likud, che l’ha bollato come personaggio di sinistra.

Analogamente, l’esercito non agisce in modo organizzato, ma come una torma indisciplinata e inferocita. Il brutale bombardamento di Gaza è stato coordinato male e persino la qualità della propaganda che l’esercito israeliano produce per giustificare i bombardamenti è più scadente del solito.

Il 14 maggio l’ufficio stampa dell’esercito israeliano ha ingannato i media stranieri dichiarando che le truppe di terra israeliane stavano marciando dentro Gaza per costringere i combattenti di Hamas a rifugiarsi nei tunnel che sono stati prontamente bombardati. La bugia non è stata creduta perché l’ufficio stampa dell’esercito non ha mandato la stessa disinformazione ai giornali israeliani. I combattenti di Hamas hanno scoperto il trucco ed evitato di entrare nei tunnel.

I servizi di sicurezza israeliane avrebbero potuto prepararsi contro i razzi da Gaza o le proteste in Cisgiordania e in Israele, ma non l’hanno fatto. La loro unica strategia è stata la deterrenza, per causare abbastanza morte e sofferenza in modo da convincere i palestinesi a restare docili per paura. Ma quando i palestinesi superano le proprie paure, come hanno fatto nelle ultime settimane, la deterrenza è inutile.

Una dimostrazione di forza

Il 18 maggio lo sciopero generale dei palestinesi in tutto il territorio israelo-palestinese ha dimostrato un livello di unità senza precedenti evidenziando anche quanto sia divisa l’opinione pubblica israeliana.

La sorprendente forza militare di Hamas nella Striscia di Gaza, la furiosa sollevazione dei palestinesi dopo decenni di discriminazioni e umiliazioni, l’allargarsi delle proteste in Cisgiordania, i palestinesi delusi dalla decisione di annullare le elezioni attese per quest’anno, tutto ciò ha creato il panico nel discorso pubblico israeliano, specialmente sui media.

I giornalisti israeliani critici sono stati zittiti, alcuni hanno ricevuto minacce di morte e hanno cercato la protezione di addetti alla sicurezza. Altri giornalisti, al contrario, hanno invocato più violenza, persino il massacro dei palestinesi. (Sui media, un eufemismo usato spesso per un massacro è “foto della vittoria” un’immagine simbolica di distruzione che negherebbe ai palestinesi l’opportunità di dichiarare vittoria.)

A livello tattico, le forze armate israeliane sono dotate di armi superiori, ma a livello strategico stanno perdendo legittimità internazionale. La parte israeliana è completamente prevedibile. Le operazioni militari sono dettate dagli interessi politici di Netanyahu a breve termine. Gli israeliani sono divisi internamente e paralizzati politicamente. La paura di perdere la faccia impedisce loro di cercare dei compromessi.

La parte palestinese, al contrario, è unita, ma imprevedibile e ha molte alternative su come procedere. L’operazione militare, soprannominata da Israele: “Guardiano delle Mura” è finita con un cessate il fuoco. Ma sembra che, nonostante il tremendo bilancio delle vittime palestinesi, la parte israeliana abbia perso.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La polizia non è in grado di arginare la violenza nelle città miste israeliane

AfifAbuMuch

17 maggio 2021 – Al-Monitor

Lo Shin Bet è stato chiamato ad affiancare la polizia israeliana nel compito di contrastare le rivolte nelle città arabe e miste ebraico-arabe.

L’Alto Comitato di Follow-up per i cittadini arabi di Israele [organizzazione extraparlamentare che rappresenta i cittadini arabo-israeliani, ndtr.] ha proclamato per domani uno sciopero generale nelle città e nelle comunità arabe in seguito all’aggressione nella moschea di Al-Aqsa e alle violenze dei coloni nelle città miste. I membri del Comitato si sono incontrati ieri con gli abitanti di Giaffa e Lod per ascoltare i loro pareri e preoccupazioni.

L’incontro si è tenuto mentre per la seconda settimana di seguito nelle città miste ebraico-arabe le tensioni continuavano a crescere. La scorsa settimana scontri e tensioni a Gerusalemme est durante il Ramadan, immagini angoscianti dalla moschea di Al-Aqsa che mostrano la polizia israeliana mentre irrompe nella moschea, proteste violente in tutta Gerusalemme e la battaglia in corso nel quartiere di Sheikh Jarrah hanno creato una situazione esplosiva caratterizzata dal lancio di razzi verso Gerusalemme da parte di Hamas. E mentre Israele scatenava sulla Striscia di Gaza una valanga di bombardamenti aerei contro Hamas, in città miste come Lod, Giaffa e Ramie esplodevano scontri interni tra gli abitanti arabi e i loro vicini ebrei.

Durante il Ramadan ci sono stati anche diversi violenti scontri nelle città arabe e proteste per i fatti di Gerusalemme. Tali incidenti, tra cui lanci di pietre, disordini, l’incendio di una sinagoga, aggressioni a cittadini ebrei da parte di arabi e a cittadini arabi da parte di ebrei e distruzioni di proprietà private e pubbliche, hanno provocato molti feriti. A Lod un uomo è stato ucciso. Mousa Hassouna, 32 anni, è stato colpito a morte da un ebreo che è stato arrestato.

Il caos ha indotto il presidente Reuven Rivlin a chiedere alla leadership araba di far sentire la propria voce contro la violenza montante. Egli ha definito il suo silenzio “vergognoso, tale da offrire supporto al terrorismo e alle rivolte e incoraggiare la frattura della società in cui viviamo e in cui continueremo a vivere una volta che tutto questo sarà passato”. Ha anche invitato il governo israeliano a “perseguire i rivoltosi con mano ferma e ripristinare la sicurezza e l’ordine durante la battaglia senza compromessi contro il terrorismo proveniente da Gaza”. Il presidente ha poi tenuto un incontro con tutti i sindaci delle città arabe ed ebraiche del Negev per chiedere loro di calmare la loro gente e porre fine alla violenza.

A testimonianza della portata delle violenze lo Shin Bet [l’intelligence interna israeliana, ndtr.] ha fatto l’insolito annuncio che, alla luce dell’escalation, l’agenzia agirà a fianco della polizia israeliana all’interno delle città per fermare la violenza tra arabi ed ebrei. Con la presenza dello Shin Bet, la situazione è sembrata modificarsi, e c’è stata una drastica diminuzione degli scontri e dei disordini causati da ebrei o arabi.

Fermare gli scontri è un compito troppo arduo per la polizia, proprio come la lotta alla violenza e alla criminalità nella comunità araba, la quale perde più di 100 vite all’anno in seguito ad omicidi? È Lo Shin Bet la risposta a entrambe le sfide?

Uno degli aspetti positivi è che la leadership israeliana sembra aver finalmente capito che il gran numero di armi circolanti nella comunità araba potrebbe un giorno essere rivolto contro gli ebrei. Coloro che in passato hanno chiesto la confisca di armi illegali sono scoraggiati e affermano che il governo e le forze dell’ordine non si preoccupano della questione fintanto che gli arabi continuano a sparare agli arabi.

Ieri il leader del partito arabo Raam ,[ di tendenza islamista, ndtr.] Mansour Abbas ha visitato Lod, invitando entrambe le parti a riportare la calma. Durante la visita Abbas ha incontrato per la prima volta la famiglia di Hassouna e ha poi visitato il sito della sinagoga che è stata data alle fiamme dai rivoltosi.

Il Paese sta ora affrontando anche la crisi politica in atto, aggravata dalle tensioni interne e dall’operazione militare a Gaza. Il presidente di Yamina [alleanza di partiti politici israeliani di destra ed estrema destra nata in occasione delle elezioni del settembre 2019, ndtr.] Naftali Bennett ha annunciato di aver interrotto i negoziati riguardanti il cosiddetto Change Bloc per la formazione di un governo a rotazione con il leader di Yesh Atid [partito politico israeliano centrista e laico, ndtr.] Yair Lapid, che attualmente detiene il mandato di formare un governo. Bennett è tornato a negoziare con il Likud e il primo ministro Benjamin Netanyahu, affermando che la sicurezza deve avere priorità sulle questioni civili. Sembra che Bennett abbia detto: “A causa della situazione di emergenza nelle città miste, non è un ‘governo di cambiamento’ così come era stato pianificato a potersene occupare. Abbiamo bisogno della forza, per mettere in campo i militari e fare arresti. Queste cose non possono essere fatte se dipendiamo da Mansour Abbas [che avrebbe dovuto appoggiare il governo di Lapid, ndtr.]”.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




La “crisi politica” di Israele si aggrava in quanto Netanyahu non riesce a formare un governo entro la scadenza

Sheren Khalel, Lubna Masarwa

4 maggio 2021 Middle East Eye

Il primo ministro di lungo corso ha tentato di formare un governo di unità nazionale per mantenere il suo partito al potere

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo entro la scadenza di mezzanotte, il che potrebbe segnare l’inizio della fine del suo record di 12 anni consecutivi al potere.

Netanyahu ha avuto un mese di tempo dal presidente Reuven Rivlin per formare una coalizione di maggioranza in base ai risultati delle elezioni generali del 23 marzo – quarto inconcludente voto in Israele in meno di due anni.

Il Likud, partito di destra del primo ministro, ha ottenuto 30 seggi, più di ogni altro partito. Ma non sono sufficienti per ottenere la maggioranza in un parlamento di 120 seggi.

Dato il fallimento di Netanyahu, Rivlin può ora revocare il mandato a Netanyahu e darlo a un altro parlamentare o chiedere alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di scegliere un candidato per formare un governo.

Rivlin potrebbe anche dare a Netanyahu altre due settimane per cercare di raggiungere un accordo, come ha fatto nell’aprile 2020. Gli analisti affermano però che è improbabile: Netanyahu sembra lontano dal trovare gli appoggi di cui ha bisogno per arrivare ai 61 seggi.

Invece un probabile candidato è Yair Lapid, ex presentatore televisivo, dato che il suo partito di centro Yesh Atid è arrivato secondo alle elezioni di marzo.

Lunedì Lapid ha detto che se Netanyahu non onorerà la scadenza “ci troveremo di fronte a due opzioni: un governo di unità nazionale israeliano, solido, dignitoso e laborioso, o una quinta elezione”.

Naftali Bennett, ex protetto di Netanyahu e leader del partito dei falchi Yamina [La Destra, partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], è un altro possibile nome che Rivlin potrebbe indicare.

L’analista israeliano Meron Rapoport afferma che c’è chi ipotizza che Bennett e Lapid possano formare un governo di coalizione con Bennett in qualità di premier.

Sottolinea tuttavia che questa rimane un’assoluta incognita.

“La crisi politica in Israele continua e non siamo affatto vicini a una soluzione. Questa crisi riflette una crisi molto più profonda nella destra israeliana, che non riesce a mettersi d’accordo su nulla”, ha detto Rapoport a Middle East Eye.

La nomina a primo ministro di uno dei due pretendenti metterebbe il partito Likud di Netanyahu all’opposizione per la prima volta dal 2009. 

Se nessun altro è in grado di formare un governo, Rivlin dovrà chiedere al parlamento di trovare una via d’uscita a questa situazione di stallo. In caso contrario, si potrebbe chiedere agli israeliani di tornare alle urne per la quinta volta.

I tentativi di Netanyahu 

In vista della scadenza di martedì [4 maggio, ndtr.], Netanyahu, 71 anni, ha tentato di riunire alleati improbabili sollecitando l’estrema destra ebraica a cooperare con la Lista Araba Unita [lista islamista della minoranza araba con cittadinanza israeliana, ndtr.].

Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita, si è detto disposto a collaborare con Netanyahu se il primo ministro acconsentisse a migliorare gli standard di vita dei palestinesi che vivono in Israele – circa il 20 % della popolazione.

Il partito israeliano di [estrema] destra Sionismo Religioso, tuttavia, ha rifiutato di aderire a un governo che sia sostenuto dal partito politico palestinese conservatore.

Rapoport ha detto a MEE che il dibattito ha portato maggiore chiarezza sul rifiuto della destra israeliana nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele e della loro leadership.

“È interessante in questa crisi che ora è molto chiaro come il problema sia specificamente se accordarsi o meno con gli arabi “, ha detto Rapoport a MEE. “In passato, usavano la definizione di anti-sionisti per indicare con chi non potevano collaborare. Ma ora la questione è chiaramente se sono disposti a lavorare con gli arabi o no […] Insomma, la destra non può raggiungere un accordo perché vuole uno stato ebraico e uno stato ebraico non può essere sostenuto dagli arabi”, sostiene.

Lunedì Netanyahu ha detto di aver offerto a Bennett la possibilità di essere primo ministro prima di lui, sperando che la destra possa mantenersi al potere.

Bennett, tuttavia, non sembra affatto essersi commosso all’offerta, e ha detto di non averlo mai chiesto a Netanyahu.

“Gli ho chiesto di formare un governo, cosa che, purtroppo, non può fare”, ha detto Bennett.

Quando è diventata evidente l’improbabilità che riuscisse a formare una coalizione, Netanyahu ha anche lanciato l’idea di approvare una legge che avrebbe consentito l’elezione diretta di un primo ministro – una misura improponibile che avrebbe richiesto 61 voti alla Knesset.

La battaglia di Netanyahu per mantenere il potere è una lotta non solo per la sua eredità politica, ma probabilmente anche per la sua libertà. Sta affrontando accuse di corruzione, che lui nega, che potrebbero portarlo in prigione nel caso sia ritenuto colpevole.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




I risultati finali delle elezioni israeliane confermano la situazione di stallo

26 marzo 2021 – Al Jazeera

Il conteggio definitivo mostra il partito Likud del premier Benjamin Netanyahu e i suoi alleati otto seggi sotto la maggioranza per la guida del Paese.

I risultati finali delle elezioni hanno mostrato che Israele si trova ancora una volta in una situazione di stallo politico, dato che il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi oppositori non hanno raggiunto la maggioranza necessaria per governare.

Il voto di martedì, le quarte elezioni parlamentari in due anni in Israele, è stato generalmente visto come un referendum sull’adeguatezza di Netanyahu a governare in concomitanza con il processo per corruzione.

Egli ha posto al centro della sua campagna il grande risultato della campagna di vaccinazioni in Israele, ma è stato criticato per i precedenti passi falsi durante la pandemia e per aver rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato.

Giovedì la commissione elettorale israeliana ha dichiarato che con il 100% dei voti scrutinati il partito di destra Likud di Netanyahu e i suoi alleati naturali hanno conquistato 52 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano. Uno schieramento ideologicamente diversificato di partiti impegnati nel volerlo rimpiazzare ha conquistato 57 seggi.

Un partito di destra [Nuova Destra, ndtr.], guidato dall’ex alleato di Netanyahu Naftali Bennett, ha conquistato sette seggi e un partito arabo islamista [Lista Araba Unita, ndtr.] guidato da Mansour Abbas ne ha ottenuti quattro. Nessuno dei due partiti è legato a una coalizione, ma, date le molte rivalità in parlamento, non è chiaro se uno dei due possa concedere i propri voti per la maggioranza richiesta.

Ma giovedì il dirigente del Partito Sionista Religioso [di estrema destra, alleato di Netanyahu, ndtr.] Bezalel Smotrich ha sostenuto che “non ci sarà un governo di destra con il sostegno di Abbas”, chiudendo di fatto la porta a una possibile alleanza tra il partito islamista israeliano e quelli ebraici religiosi.

Gideon Saar, un transfuga del Likud di Netanyahu che ora è a capo di un partito con sei seggi [Nuova Speranza, ndtr.] impegnato a cacciarlo dal potere, ha dichiarato che “è chiaro che Netanyahu non ha la maggioranza per formare un governo sotto la sua guida. Ora occorre fare in modo che si possa formare un governo per il cambiamento”.

Il Likud, che ha conquistato un numero di seggi maggiore rispetto a tutti gli altri partiti, ha reagito dicendo che un tale veto sarebbe “antidemocratico”. Ha paragonato gli oppositori di Netanyahu alla dirigenza religiosa dell’Iran, acerrimo nemico di Israele, che controlla i candidati alle alte cariche.

Yohanan Plesner, presidente dell’Israel Democracy Institute [centro indipendente di ricerca e impegno dedicato al rafforzamento delle basi della democrazia israeliana, ndtr.], ha descritto la situazione di stallo come la “peggiore crisi politica israeliana degli ultimi decenni”.

“È evidente che il nostro sistema politico trova molto difficile esprimere un risultato definitivo“, ha detto Plesner.

Ha aggiunto che le debolezze intrinseche del sistema elettorale israeliano sono aggravate dal “fattore Netanyahu”: un primo ministro popolare che lotta per rimanere al potere mentre è posto in stato di accusa.

“Su tale questione gli israeliani sono divisi a metà.”

Molti degli oppositori di Netanyahu hanno iniziato a discutere la presentazione di un disegno di legge per impedire che un politico sotto accusa possa essere incaricato di formare un governo, una misura volta a escludere il primo ministro di lunga data dall’incarico. Un disegno di legge simile è stato presentato dopo le elezioni del marzo 2020, ma non è mai stato approvato.

Netanyahu è sotto processo per frode, abuso di fiducia e per tre casi di corruzione. Ha negato qualsiasi addebito e ha respinto le accuse in quanto si tratterebbe di una caccia alle streghe da parte di magistrati e organi d’informazione faziosi.

Nonostante le accuse contro di lui il partito Likud di Netanyahu ha ricevuto circa un quarto dei voti, che ne fa il più grande partito in parlamento.

In tutto 13 partiti, il numero più elevato dalle elezioni del 2003, hanno ottenuto voti sufficienti per entrare alla Knesset e rappresentano una molteplicità di tendenze ultra-ortodosse, arabe, laiche, nazionaliste e progressiste.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)