Cosa vuol dire impadronirsi della Statua della Libertà

Centinaia di membri di Jewish Voice for Peace che chiedono un cessate il fuoco a Gaza hanno occupato il piedistallo della statua. Ecco come è successo.

Sophie Hurwitz

7 novembre 2023 – The Nation

Un traghetto pieno di turisti diretto alla Statua della Libertà si è fermato completamente alle 13:15 di lunedì. Le file di visitatori che speravano di entrare nella base della statua si sono bloccate. E’ stato detto loro che a Liberty Island si stava verificando un problema e che non avrebbero visitato la statua finché il problema non fosse stato risolto.

Sull’isola, a poche centinaia di metri di distanza, circa 400 manifestanti di Jewish Voice for Peace occupavano la base della statua. Hanno tenuto quello spazio per poco meno di un’ora e poi sono tornati indietro catturando l’attenzione di tutti sull’isola.

Jane Hirschmann, settantasette anni, era una delle manifestanti più anziane. Ha portato le sue due figlie adulte con lei ad appendere gli striscioni su Lady Liberty. La disobbedienza civile è diventata una sorta di nuova tradizione familiare, ha detto.

“Siamo stati arrestati nella rotonda [dell’edificio del Congresso] a Washington e nella Grand Central”, ha detto, riferendosi alle due azioni di disobbedienza civile di massa nelle ultime due settimane di ebrei che chiedevano la liberazione della Palestina. “A Grand Central avevo con me tutti i miei figli e tutti i miei nipoti. Eravamo un gruppo di 13. I nipoti se ne sono andati, non sono stati arrestati”. I suoi nipoti, alcuni di appena 1 anno, sono un po’ troppo piccoli.

La famiglia di Hirschmann non era certo l’unico gruppo intergenerazionale sull’isola. Intere famiglie si sono unite alla protesta perché, per molti, la loro storia familiare li obbligava a farlo. Hirschmann ha parlato di suo nonno, morto di infarto sulla barca diretta a Ellis Island mentre fuggiva dall’Olocausto. Ha visto la sua famiglia sparpagliata in giro per il mondo, costretta a lasciare le proprie case e, ha detto Hirschmann, “è morto di crepacuore”.

“Non ho mai avuto modo di incontrare quel nonno. Ma il suo ricordo è impresso nel mio cuore”, ha detto. Nello sfollamento di massa e nell’uccisione dei palestinesi, vede gli echi della storia di suo nonno. “Ha capito quando ha visto il fascismo che doveva proteggere la famiglia e fuggire. Ora stiamo andando verso il fascismo, in questo paese, e certamente in Israele. Questo genocidio deve finire”.

Portare centinaia di manifestanti in un pezzo di territorio federale fortemente sorvegliato non è un’impresa da poco. Le persone sono entrate in piccoli gruppi scaglionati in un periodo di diverse ore, giurando di mantenere il segreto assoluto su dove stavano andando. Alle 13:00 tutti e 400 erano riuniti sulla base di Lady Liberty e si sono tolte le giacche per mostrare le loro T-shirt con le scritte.

Alcuni manifestanti indossavano fasce con corona di Lady Liberty in schiuma verde, mentre altri interpretavano il ruolo di turisti in modo meno convincente. (Molti degli ebrei newyorkesi che partecipavano alla protesta hanno sottolineato di non essere stati alla Statua della Libertà da quando erano bambini in gita.)

Ogni giorno circa 10.000 persone attraversano il complesso della Statua della Libertà, rendendolo uno dei monumenti nazionali più frequentati del Paese, quindi ai manifestanti è stata garantita una grande folla di spettatori. Alcuni hanno manifestato la loro opposizione gridando contro il gruppo o mostrando il dito medio. Ma altri, come i visitatori scozzesi David e Sheila Miller, erano entusiasti.

La coppia ha deciso che scattare foto con i manifestanti sullo sfondo era più importante che cercare di inclinare la fotocamera per farsi un selfie con la parte superiore della torcia della statua.

“Penso che sia un ottimo messaggio che stanno inviando”, ha detto Miller. “È fantastico! Penso solo che sia bello essere qui a testimoniarlo. Quando siamo saliti sulla corona, pensavo che sarebbe stato il momento clou della giornata, ma invece è stato questo. Essere testimoni di questo evento in prima linea”.

Joe Biden ha appoggiato l’idea di una “pausa umanitaria” in cui le bombe israeliane smettono di cadere per un breve periodo non specificato per consentire agli aiuti umanitari di entrare a Gaza. Parlando con il primo ministro israeliano Netanyahu, le definisce “pause tattiche”. Biden, tuttavia, non ha sostenuto un cessate il fuoco totale. In caso di pausa umanitaria alla fine le bombe cadranno di nuovo.

Le proteste in tutto il mondo sono continuate quotidianamente dall’inizio dell’incursione israeliana a Gaza. Mentre gli attivisti di tutto il mondo sono stati accusati di antisemitismo per aver definito genocidio le azioni del governo israeliano, funzionari delle Nazioni Unite e studiosi dell’Olocausto hanno usato lo stesso termine per descrivere l’uccisione di massa e lo sfollamento di una popolazione civile imprigionata.

Le Nazioni Unite affermano che non è stato consentito l’ingresso di carburante a Gaza nel mese successivo agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, il che significa che gli ospedali e altri servizi essenziali stanno lentamente chiudendo del tutto. In quel periodo sono stati uccisi oltre 10.000 palestinesi, tra cui più di 4.000 bambini.

La scrittrice Molly Crabapple faceva parte di un gruppo di artisti che hanno partecipato alla protesta vestiti in modo appariscente. Come molti operatori culturali ebrei di New York, è una firmataria della lettera aperta di Writers Against the War on Gaza. E per Crabapple, che ha lavorato a Gaza, questa guerra è anche un fatto personale.

“Ci sono persone a cui tengo che vivono a Gaza”, ha detto Crabapple. “Diecimila persone sono morte. Quattromila di loro sono bambini. Ogni giorno questo genocidio continua, altri bambini e altre brave persone stanno morendo. Questo genocidio deve finire adesso”.

Crabapple, la fotografa Nan Goldin e gli scrittori Raquel Willis e Tavi Gevinson erano tra gli artisti presenti. Si sono uniti alla protesta anche dei politici. Dopotutto la Statua della Libertà è stata teatro di clamorose azioni di disobbedienza civile sin dalla sua inaugurazione nel 1886. Zohran Mamdani membro del consiglio di quartiere dei Queens ha partecipato spesso alle manifestazioni pro-Palestina che si sono tenute in città dall’attacco di Hamas il 7 ottobre e si è unita al gruppo sul basamento della statua.

“Non posso votare sulla questione se debbano o meno essere stanziati altri 14 miliardi di dollari in finanziamenti militari. Ma io, come ogni altro politico locale, ho una piattaforma”, ha detto. “È con quella piattaforma che… ognuno di noi dovrebbe chiarire che non esiste un consenso di massa per l’uccisione di un bambino palestinese ogni 10 minuti. Gran parte della politica federale e della Casa Bianca in questo momento si basa sull’idea che gli americani, in massa, sostengano questo. Sappiamo che il 66% degli americani vuole un cessate il fuoco, la maggioranza di loro si oppone all’invio di ulteriori finanziamenti a Israele”. Ora, ha detto Mamdani, è tempo di fare in modo che la politica statunitense rifletta quella maggioranza.

L’occupazione della Statua della Libertà da parte della JVP è stata solo una delle numerose azioni contro la guerra nella giornata di lunedì. A St. Louis, 75 manifestanti contro la guerra del gruppo Dissenters hanno formato un cordone e bloccato gli ingressi ad uno stabilimento Boeing dove vengono costruite le bombe sganciate su Gaza. E a Tacoma, nello stato di Washington, i manifestanti hanno bloccato l’accesso al porto dove stava attraccando una nave da carico militare che si pensava fosse diretta in Israele. Alcuni attivisti sono addirittura saliti su canoe per fermare il movimento della nave.

Di ritorno a New York, le proteste si sono svolte su un diverso tipo di imbarcazione: un traghetto turistico.

Molti di quelli in fila hanno battuto le mani e scandito: “Cessate il fuoco adesso!” e “Non in nostro nome!”

Il gruppo è uscito lentamente dal complesso della Statua della Libertà verso le 14:30, una grande nuvola di persone in maglietta nera che scandivano: “Fine all’assedio di Gaza adesso!” lungo la via del ritorno su un traghetto. Una volta sulla barca, hanno riappeso i loro striscioni, salutando le persone che guardavano dalla riva. Hanno urlato e pestato i piedi così forte che la barca ha tremato per tutto il tragitto verso Manhattan.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Striscia di Gaza: 371 massacri commessi da Israele contro famiglie palestinesi

Redazione di MEMO

17 ottobre 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’ufficio dei media governativi a Gaza ha affermato che dall’inizio dell’aggressione contro la Striscia di Gaza il 7 ottobre l’occupazione israeliana ha commesso 371 massacri contro famiglie palestinesi, le cui case sono state bombardate mentre vi si trovavano senza un precedente avvertimento o preavviso, provocando 1981 martiri, per la maggior parte minori e donne.

Secondo l’ufficio dei media governativi, il numero dei martiri varia in ogni massacro.

Alcune di queste famiglie sono state completamente cancellate dall’anagrafe, come accaduto per le famiglie Shihab, Al-Najjar, Al-Muqaranah, Nawfal e Al-Dallu, ha aggiunto.

L’ufficio ha spiegato in un comunicato stampa che il grande numero di massacri in questo breve periodo di tempo mostra la brutalità ed il livello criminale dell’occupazione israeliana e l’intensità dei bombardamenti che hanno colpito interi quartieri residenziali. Tale numero rivela anche il fallimento della comunità internazionale, che è rimasta in silenzio di fronte a questi massacri contro civili innocenti e privi di difesa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Middle East Eye

 

Thomas Vescovi – 1 giugno 2018

 

Per gli israeliani il 1948 incarna l’ora della gloria del progetto sionista, il momento in cui gli ebrei ritornano nelle pagine della Storia come attori del loro destino e, soprattutto, riescono a realizzare l’utopia diffusa 50 anni prima da Theodor Herzl: la costruzione in Palestina di uno Stato come rifugio per il “popolo ebraico”.

Per i palestinesi, il 1948 simbolizza l’avvento del processo coloniale che li ha spogliati della loro terra e del loro diritto alla sovranità, la loro “Nakba” (catastrofe).

Le prime voci dissonanti

Con differenti modalità, alcuni israeliani, fin da subito dopo il 1948, hanno testimoniato sugli avvenimenti passati. Durante il conflitto alcuni quadri del movimento sionista chiamano in causa i dirigenti in merito al trattamento della popolazione araba di Palestina, che giudicano indegna dei valori che i combattenti ebrei sostengono di difendere. Altri prendono appunti nell’attesa di testimoniare quando ci sarà il cessate il fuoco.

Yosef Nahmani, ufficiale superiore dell’Haganah [principale milizia armata sionista, legata al partito Laburista, ndt.], la forza armata dell’Agenzia ebraica che diventerà l’esercito israeliano, così scrive nel suo diario, il 6 novembre 1948: “A Safsaf, dopo (…) che gli abitanti hanno sventolato bandiera bianca, (i soldati) hanno riunito separatamente gli uomini e le donne, legato le mani a cinquanta o sessanta contadini e li hanno giustiziati e sepolti tutti in una fossa comune. Hanno anche violentato molte donne del villaggio (…) Dove hanno imparato un comportamento così crudele, simile a quello dei nazisti? (…) Un ufficiale mi ha raccontato che i più spietati sono stati quelli che venivano dai campi [di concentramento].”

In realtà, dal momento in cui la guerra finisce, il racconto dei vincitori si impone e la società civile israeliana affronta numerose altre sfide, molto più urgenti della sorte dei rifugiati palestinesi. Quelli che vorrebbero testimoniare lo fanno attraverso la narrativa e la letteratura.

Così lo scrittore e uomo politico israeliano Yizhar Smilansky fin dal 1949 pubblica Khirbet Khizeh, dove evoca l’espulsione dall’omonimo villaggio arabo. Per l’autore, non c’è nessun bisogno di avere rimorsi su questa parte della storia, questo “lavoro sporco” era necessario per costruire il progetto sionista. La sua testimonianza riflette una sorta di espiazione del peccato: riconoscere i propri torti e svelarli per liberarsi di un peso.

Diventato un successo, il romanzo viene adattato a film per la televisione nel 1977, ma la sua diffusione suscita vivaci dibattiti perché rimette in discussione la versione israeliana di un popolo palestinese partito volontariamente dalle sue terre per non vivere accanto agli ebrei.

Altre opere vengono pubblicate, ma poche danno altrettanta prova di realismo della trilogia di Netiva Ben-Yehuda, pubblicata nel 1984, il cui titolo, tradotto dall’ebraico, è “Il cammino dei legami: romanzo su tre mesi del 1948”. Comandante del Palmach, l’unità d’elite dell’Haganah, evoca le atrocità e le vessazioni commesse contro la popolazione civile araba e fornisce degli elementi sul massacro di Ein Zeintoun, che avvenne intorno al 1^ maggio del 1948.

La focalizzazione su Deir Yassin

Il 4 aprile 1972 il colonnello Meir Pilavski, membro del Palmach, nelle pagine di Yediot Aharonot, uno dei tre principali quotidiani israeliani, si confida sul massacro di Deir Yassin, che ebbe luogo il 9 aprile 1948 e in cui quasi 120 civili persero la vita. Afferma che i suoi uomini si trovarono nei pressi degli avvenimenti, che venne loro consigliato di ritirarsi quando compresero che erano in azione i miliziani dell’Irgun e dello Stern, gruppi di estremisti che si erano separati dall’Haganah.

Da allora le discussioni si concentrano sugli avvenimenti di Deir Yassin, fino al punto di dimenticare le altre circa 70 stragi di civili arabi. La questione è importante per la sinistra sionista: attribuire la responsabilità dei massacri ai gruppi estremisti.

Nel 1987, quando appaiono le prime opere dei “nuovi storici” israeliani, quali quelle di Ilan Pappé, una parte consistente dei battaglioni ebrei del 1948 è messa in discussione. Per chi aveva taciuto durante gli ultimi decenni, è tempo di parlarne pubblicamente.

Anche una parte della società israeliana sembra pronta a capire. Nel contesto della prima Intifada palestinese e dei negoziati che hanno preceduto [gli accordi di pace di] Oslo, gli ambienti pacifisti hanno intenzione di interrogare la loro società sul rapporto con l’Altro e sulla storia nazionale.

Questi spazi di dibattito si chiudono brutalmente con lo scoppio della seconda Intifada, più militarizzata e che si inserisce in un contesto di fallimento dei colloqui di Camp David e di rottura dei negoziati israelo-palestinesi. Il caso Teddy Katz incarna questo cambiamento di contesto.

Il “caso” Teddy Katz

Membro sessantenne di un kibbutz, nel 1985 Teddy Katz decide di riprendere i suoi studi e segue un percorso di ricerca storica all’università di Haifa sotto la direzione di Ilan Pappé. Intende chiarire gli avvenimenti che si sono svolti in cinque villaggi palestinesi, spopolati nel 1948. Realizza 135 interviste a combattenti ebrei, di cui 65 riguardanti la tragedia che avrebbe avuto luogo nel villaggio di Tantura, svuotato dei suoi 1.200 abitanti il 23 maggio 1948 da un battaglione del Palmach.

Dopo due anni di ricerca, nei suoi lavori Katz afferma che da 85 a 110 uomini vennero uccisi a sangue freddo sulla spiaggia di Tantura, dopo aver scavato la propria fossa. La strage continuò in seguito nel villaggio, casa per casa. Una caccia all’uomo si svolse anche nelle strade. Il massacro terminò con l’intervento degli abitanti ebrei del villaggio vicino di Zikhron Yaakov. Alla fine furono uccise più di 230 persone.

Nel gennaio del 2000 un giornalista di Maariv [uno dei principali quotidiani israeliani, considerato indipendente, ndtr.] decide di tornare a visitare alcuni dei testimoni di cui parla Katz. Il principale testimone, Bentzion Fridan, comandante del battaglione del Palmach che ha operato a Tantura, nega tutto e, con altri ufficiali, presenta denuncia contro Katz. Questi deve affrontare una decina di avvocati decisi a difendere l’onore degli “eroi” della Nazione.

Sotto pressione mediatica – che parla di lui come di un “collaborazionista” che racconta la versione del nemico – e giudiziaria, accetta di firmare un documento in cui riconosce di aver falsificato le testimonianze. Benché qualche ora dopo decida di ritrattare e una commissione accademica sia intervenuta in suo favore, la procedura giudiziaria viene chiusa.

Tra il tracollo di Oslo, il ritorno al potere del Likud, il fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba, la seconda Intifada e gli attentati kamikaze, la versione palestinese del 1948 non interessa più ai pacifisti israeliani, troppo impegnati per lo più a rientrare nei ranghi per non subire la condanna di una società ripiegata su se stessa.

Testimoniare per i posteri

Nel 2005 il regista Eyal Sivan e l’Ong israeliana Zochrot lavorano al progetto “Towards a Common Archive” [Verso un Archivio Comune], inteso a raccogliere le testimonianze di combattenti ebrei del 1948. Circa una trentina accetta di testimoniare, senza remore o quasi, su quello che ha fatto e visto durante questo periodo ricco di avvenimenti e in cui le narrazioni si scontrano.

Perché qualche anno dopo dei combattenti accettano di testimoniare? Per Pappé, direttore scientifico del progetto, ci sono tre ragioni. In primo luogo la maggior parte è arrivata alla fine della propria vita e quindi non ha più paura di parlare.

In secondo luogo, questi ex-combattenti ritengono di essersi battuti per un ideale che vedono degradarsi con l’ascesa in Israele degli ambienti religiosi, d’estrema destra e dello choc neoliberista imposto da Netanyahu durante i suoi successivi governi. Infine, si sono convinti che prima o poi le giovani generazioni verranno a conoscenza dell’origine dei rifugiati palestinesi e pensano che la trasmissione di questa storia imbarazzante faccia parte della loro responsabilità.

Le testimonianze di questi combattenti non sono omogenee. Alcuni si lasciano andare apertamente, mentre altri non desiderano affrontare certi argomenti. Tuttavia se tutti concordano sulla necessità, nel 1948, di espellere le popolazioni arabe per costruire lo Stato di Israele, le loro opinioni a volte si scontrano sull’utilità di sparare sui civili.

Tutti affermano di aver ricevuto ordini precisi relativi alla distruzione delle case arabe per impedire ogni volontà di ritorno della popolazione esiliata.

La “pulizia” dei villaggi veniva fatta in modo metodico: mentre si avvicinavano al posto, i soldati tiravano o lanciavano delle granate per spaventare la popolazione. Nella maggior parte dei casi questi atti erano sufficienti a far scappare gli abitanti. A volte, era necessario far saltare in aria una o due case all’entrata del villaggio per obbligare a fuggire i pochi che si ostinavano a non scappare.

Riguardo ai massacri, per alcuni questi atti facevano parte delle operazioni di “pulizia”, dato che la direzione del movimento sionista le aveva autorizzate, in certi casi, ad andare oltre questo limite. Il “limite”, appunto, veniva superato sistematicamente quando la popolazione si rifiutava di andarsene, oppure si trincerava per resistere e combattere.

A Lod più di un centinaio di abitanti si rifugiò così nella moschea, credendo alle voci secondo cui i combattenti ebrei non attaccavano i luoghi di culto. Un tiro di lanciarazzi distrusse il loro rifugio, che crollò su di loro. In seguito i corpi vennero bruciati.

Secondo altri, i dirigenti Yigal Allon, capo del Palmach, e David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, si sarebbero opposti a sparare contro i civili, dando l’ordine di lasciarli andare e poi di distruggere le case.

I combattenti testimoniano anche di un atteggiamento contraddittorio dei palestinesi. Nella maggior parte dei casi sembravano “terrorizzati” e completamente sconcertati dagli avvenimenti, il che accelerava il flusso dei rifugiati. Secondo queste testimonianze, alcuni arabi supplicavano i soldati di non far loro “come a Deir Yassin”.

Altri sembravano convinti di poter tornare a casa loro alla fine dei combattimenti, tanto che un testimone afferma che alcuni abitanti del villaggio di Bayt Naqquba lasciarono ai loro vicini ebrei del kibbutz di Kiryat-Avanim, con cui avevano buoni rapporti, le chiavi delle loro case in modo che potessero controllare che niente venisse saccheggiato.

Questi buoni rapporti tra ebrei e arabi ritornano regolarmente, e sono rare le testimonianze che parlano di astio prima dell’inizio della guerra. Durante un’espulsione presso Beersheba, dei contadini palestinesi andarono a chiedere aiuto agli abitanti del vicino kibbutz, che non esitarono a intervenire e a denunciare le azioni dei soldati sionisti.

Più di 60 anni dopo gli eventi, i combattenti non si dimostrano, o lo sono poco, pentiti.  Secondo loro era necessario liberare lo spazio del territorio promesso dall’ONU per fondarvi lo Stato ebraico e far sparire gli arabi dalla scena.

– Thomas Vescovi è docente e ricercatore di storia contemporanea. È autore di “Bienvenue en Palestine” [Benvenuti in Palestina] (Kairos, 2014) e di “La Mémoire de la Nakba en Israël” [La memoria della Nakba in Israele] (L’Harmattan, 2015).

Le opinioni esposte nell’articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come i media negano l’umanità dei palestinesi

Gregory Shupak

giovedì 31 maggio 2018, Middle East Eye

A partire dall’inizio delle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo, Israele ha ucciso a Gaza almeno 116 palestinesi e ne ha feriti altre migliaia, sparando contro manifestanti disarmati.

Secondo “Medici senza frontiere” Israele ha utilizzato proiettili che provocano “ferite insolitamente gravi alle estremità inferiori…(e) un livello estremo di distruzione di ossa e tessuti molli”. Gli attacchi più pesanti di Israele contro dimostranti disarmati sono avvenuti il 14 maggio, quando le sue forze hanno ucciso 62 palestinesi.

Tuttavia nell’informazione sul massacro del 14 maggio, e più in generale sulle manifestazioni, i media hanno accuratamente disumanizzato i palestinesi e reso invisibili i loro diritti.

Rifiuto di criticare Israele

Se gli editorialisti vedessero i palestinesi come esseri umani, avrebbero condannato senza ambiguità il recente massacro di massa. Invece sul “New York Times” Shmuel Rosner ha apertamente appoggiato il massacro, scrivendo: “È cosa abituale adottare un tono apologetico quando vengono uccise decine di persone, come è successo questa settimana a Gaza. Ma eviterò questo istinto ipocrita e dichiarerò freddamente: Israele aveva un chiaro obiettivo quando ha sparato, a volte per uccidere… Quell’obiettivo è stato raggiunto.”

Nello stesso giornale Thomas Friedman si è rifiutato di criticare Israele, condannando Hamas che avrebbe “favorito le morti tragiche e inutili di circa 60 gazawi incoraggiando la loro manifestazione.”

Possiamo concluderne che questo tipo di appoggio agli squadroni della morte di Israele si estende persino all’uccisione da parte loro di bambini e disabili, dato che i summenzionati giornalisti non hanno niente da ridire in merito.

La più dura critica a Israele da parte di David Brooks del “Times” arriva quando dice che lui “non assolve i palestinesi dalla responsabilità delle loro scelte”, ma “non perdona neppure gli israeliani per la loro incapacità di affrontare in modo corretto l’estremismo.” Con un colpo della sua penna magica, l’uccisione di decine di manifestanti disarmati si trasforma nell’ ”incapacità di affrontare in modo corretto l’estremismo.”

Egli sostiene che quello che è successo durante la “Grande Marcia del Ritorno” è che i palestinesi hanno cercato “di creare una messa in scena del martirio che avrebbe mostrato al mondo quanto (i palestinesi) siano oppressi.” Allo stesso modo Max Boot del “Washington Post” descrive il massacro da parte di Israele come un “possibile errore tattico di valutazione” che “in nessun modo elimina la responsabilità fondamentale di Hamas per questo orrore.”

Uno “spettacolo grottesco”

Invece Bret Stephens del “Times” lamenta: “Ora il mondo chiede che Gerusalemme renda conto di ogni proiettile sparato contro i dimostranti, senza offrire una sola alternativa concreta per affrontare la crisi.” Suggerisce che i palestinesi attribuiscono un’indebita responsabilità a Israele per essere stati colpiti circa 3.500 volte da pallottole israeliane letali. L’idea che i palestinesi siano del tutto umani confonde talmente Stephens che si dimentica ciò che è più assurdamente ovvio: l’alternativa a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati è non sparargli.

Per questi giornalisti i palestinesi non sono umani, ma piuttosto spiriti demoniaci di un culto della morte in grado di impossessarsi degli israeliani e fare in modo che sparino ai palestinesi. Gli esseri umani hanno diritti, ma per questi editorialisti i palestinesi non sono umani – per cui i loro diritti vengono trasformati in minacce per Israele.

Rosner dichiara che “proteggere il confine era più importante che evitare di uccidere, e proteggere il confine è quello che Israele ha fatto con successo.” Boot disumanizza i palestinesi dipingendoli come orde minacciose: “Israele è intrappolato in una situazione senza via d’uscita: non può consentire che il suo confine venga superato – nessuno Stato può farlo -, ma se cerca di difendere il proprio territorio corre il serio pericolo di una tragedia umana e di un incubo nelle pubbliche relazioni.”

Brooks descrive la “Grande Marcia del Ritorno” come “una massiccia invasione del confine” di Israele. Stephens scrive di quello che chiama “il grottesco spettacolo lungo in confine di Gaza durante le scorse settimane, in cui migliaia di palestinesi hanno tentato di violare la recinzione ed entrare a forza in Israele, spesso a costo della propria vita.”

Secondo le idiozie razziste di Stephens, le proteste simbolizzano una “cultura della vittimizzazione, violenza e fanatismo” da cui “non può emergere alcuna società palestinese rispettabile.”

Il diritto al ritorno

Quello che chiamano il “grottesco spettacolo” e “l’attraversamento” di un “confine” è in realtà il fatto che i palestinesi hanno coraggiosamente attirato l’attenzione sulle incredibili ingiustizie che gli sono state fatte ed hanno tentato di esercitare – forse solo simbolicamente – il diritto al ritorno nella loro patria, a lungo negato e previsto dalle leggi, attraversando una linea coloniale di armistizio che nessuna istituzione con una qualche legittimazione riconosce come un “confine” internazionale che Israele abbia il diritto di “proteggere”.

Per i giornalisti di cui ho parlato, gli israeliani sono umani, per cui hanno dei diritti, ma ciò non vale per i palestinesi. Il titolo dell’articolo di Rosner è “Israele deve proteggere i suoi confini. Con qualunque mezzo necessario.” Friedman scrive: “Capisco perché Israele non ha altra scelta che difendere il suo confine con Gaza con la forza bruta.”

Boot dice dell’assedio spietato di Israele contro Gaza: “Per proteggersi, Israele ha posto rigidi controlli di sicurezza attorno a Gaza, ma Hamas usa tunnel per far entrare di contrabbando missili e altri armamenti dall’Egitto.” Stephens sostiene che c’è uno schema in cui i palestinesi si fanno del male da soli e incolpano Israele, e che questo presunto andamento “meriterebbe di essere messo in luce in mezzo al torrente di critiche moralmente cieche e storicamente ignoranti a cui gli israeliani sono soggetti ogni volta che si difendono da un violento attacco palestinese.”

Questi commentatori insistono su quello che vedono come Israele che esercita i propri diritti alla “sicurezza” e all’”autodifesa”, ma, dato che vedono i palestinesi come non umani, è possibile ignorare il diritto dei palestinesi a difendersi da decenni di violenza israeliana arbitraria e far credere che i palestinesi non abbiano il diritto di liberarsi – un diritto che è protetto dalle leggi internazionali e include la lotta armata.

Per gli editorialisti, Israele e il suo protettore, gli USA, hanno il diritto di usare infiniti livelli di violenza per conservare l’occupazione e l’apartheid, ma i palestinesi non hanno diritti – solo l’obbligo di sottomettersi alla propria uccisione, spoliazione e oppressione.

Greg Shupak scrive fiction e analisi politiche e insegna “Studi sui media” all’università di Guelph-Humber [università canadese, ndt.]. Il suo libro, “The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media” [“La storia sbagliata: Palestina, Israele e i media], può essere ordinato da OR Books [casa editrice di New York, ndt.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro della Grande Marcia del Ritorno di Gaza: un punto di svolta?

Nada Elia

29 maggio 2018, Middle East Eye

I palestinesi si devono mobilitare e avere una strategia per fare in modo che il più recente attacco di Israele sia l’ultimo.

L’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme il 14 maggio ha sparso sale su ferite aperte.

Mentre la “consigliera del presidente” Ivanka Trump se ne stava allegramente vicino a un trionfante Benjamin Netanyahu nel cuore della città illegalmente annessa, Israele era impegnato nell’ennesimo massacro a meno di 100 km a sud-est. Decine di persone sono state uccise e migliaia ferite a Gaza nelle sei settimane della “Grande Marcia del Ritorno”, tra il “Giorno della Terra” e quello della “Nakba”, e molti dei feriti languiscono ancora negli ospedali mal equipaggiati di Gaza.

L’assedio di Gaza, la cui popolazione comprende in buona parte profughi, continua a strangolare la regione in quello che è stato descritto come un “genocidio progressivo” [definizione dello storico israeliano Ilan Pappe, ndt.].

Nakba continua

Questo è ciò che intendono i palestinesi quando dicono che la Nakba sta continuando. Le ingiustizie contro di noi non sono state perpetrate solo una volta, nel 1948, continuano fino ai giorni nostri, con sempre più espulsioni, furti di terra e uccisioni di massa.

Come è successo ormai da qualche anno dopo ogni massacro, sono scoppiate proteste in tutto il mondo, mentre un crescente numero di persone di coscienza ha denunciato pubblicamente le azioni di Israele e annunciato il proprio sostegno alla campagna di solidarietà per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Le proteste sono eventi necessari per esprimere solidarietà con i palestinesi e per mostrare ai politici che l’opinione pubblica non approva quest’ultima aggressione. Le denunce pubbliche della criminalità di Israele da parte di artisti sono benvenute e attese da tempo per dichiarare che Israele è uno Stato da emarginare piuttosto che un’attraente destinazione per la cultura e il turismo.

Come la co-fondatrice di Electronic Intifada Laurie King ed io abbiamo chiesto in un editoriale del 2011: perché dovrebbero essere da criticare artisti come Beyoncé, Usher e Mariah Carey – tutti e tre hanno fatto esibizioni private per la famiglia Gheddafi – mentre non si dice niente di gente come Madonna e Lady Gaga che si accompagnano con Netanyahu e a volte si avvolgono letteralmente nella bandiera israeliana, mentre molti altri difendono Israele quando pratica apertamente l’apartheid e la pulizia etnica?

Ma oggi, con le spudorate dichiarazioni di politici israeliani che non ci sono manifestanti innocenti a Gaza e che ogni dimostrante è un bersaglio legittimo e con i cittadini israeliani che dichiarano ripetutamente il proprio appoggio all’uccisione di palestinesi, stiamo finalmente vedendo crepe nella maschera di Israele, nella facciata democratica con cui ha preso in giro buona parte dell’Occidente.

Vecchio ordine imperiale

Tuttavia non possiamo rilassarci proprio adesso. Al contrario dobbiamo continuare a mettere sotto i riflettori Israele, in modo che non si riprenda dalle critiche del momento, come ha fatto in continuazione dopo precedenti massacri e dopo le proteste che li hanno seguiti.

Il massacro del “Giorno della Nakba” e l’inaugurazione della nuova ambasciata USA non costituiscono un’aberrazione. Gli analisti che sostengono che lo spostamento dell’ambasciata USA è la continuazione della sua politica di lunga data in Medio Oriente, a cominciare dal 1967, piuttosto che un allontanamento da essa, hanno ragione.

Aggiungerei che non è solo una continuazione della politica USA, ma di un più antico ordine imperialista – anzi, il vecchio ordine imperialista che ha dato vita agli USA. Il secolo scorso della storia palestinese è stato un doloroso ciclo di estrema ingiustizia imposta a una popolazione indigena, seguita da insurrezioni, a loro volta violentemente represse, finché la gente non si è di nuovo ribellata chiedendo giustizia.

Le rivolte, compresa l’insurrezione del 1936-39 contro il Mandato britannico e le Intifada iniziate nel 1987 e nel 2000, hanno assunto molte forme, dalla ribellione armata alle proteste pacifiche. Sono state invariabilmente affrontate con una violenza sproporzionata da parte dell’oppressore coloniale, a cominciare dall’Inghilterra, che per prima impose la legge marziale e forgiò molte delle misure che Israele utilizza ancora oggi per discriminare i palestinesi, fino ai veri e propri massacri che Israele adesso commette sistematicamente.

Oggi questi massacri sono resi possibili dagli USA, che forniscono ad Israele il necessario appoggio economico e diplomatico per agire con impunità. Nelle conclusioni al suo rivoluzionario libro del 1978 “Orientalismo” Edward Said [intellettuale palestinese e docente universitario alla Columbia University, ndt.] scrisse che la tendenza degli USA a dominare il mondo li ha messi nella posizione che aveva una volta la Gran Bretagna, quando sosteneva in modo arrogante che “il sole non tramontava mai” [frase in realtà attribuita a Carlo V d’Asburgo nel XVI° secolo, ndt.] sull’impero britannico. L’ambasciata USA a Gerusalemme illustra il giudizio di Said, anni dopo la sua prematura morte.

Una prospettiva oltre le proteste

Negli ultimi anni si è evidenziata un’altra caratteristica ricorrente dei massacri, cioè la dichiarazione che “questo è un punto di svolta”. Più di recente, la “Grande Marcia del Ritorno” è stata paragonata all’attraversamento del ponte “Edmund Pettus” [marcia pacifica per i diritti civili dei neri tra Selma e Montgomery violentemente repressa, ndt.] nel Sud degli USA, mentre il massacro del “Giorno della Nakba” è stato descritto come la Sharpeville [manifestazione pacifica contro l’apartheid in Sudafrica contro cui la polizia sparò a bruciapelo, ndt.] palestinese.

Tuttavia la “Grande Marcia del Ritorno” sarà un punto di svolta solo se noi la renderemo tale. Se vogliamo che lo schema cambi dobbiamo organizzarci con una prospettiva oltre le proteste. Per ora la maggior parte delle proteste sono state rivolte spontanee contro l’ingiustizia, con una scarsa progettualità per quello che sarebbe venuto dopo che ci siamo riuniti agli angoli delle strade e nei parchi pubblici per gridare la nostra sofferenza, la nostra indignazione e la nostra solidarietà.

Mentre ci lasciamo alle spalle il centenario della dichiarazione Balfour e il 70^ anniversario della Nakba, tra la rinnovata arroganza degli attuali leader imperialisti, è urgente che ci concentriamo nella progettazione del futuro piuttosto che limitarci a protestare.

In ultima analisi non sono le dimensioni del massacro che determinano se si tratta di un punto di svolta. Semmai è come riusciamo a reggere la nostra mobilitazione e la nostra organizzazione, in modo che non sia solo un ennesimo episodio di una lunga serie di ingiustizie.

Sta a noi onorare la resistenza palestinese non solo leggendo i nomi dei morti, ma mobilitandoci, organizzandoci e ideando una strategia concreta per fare in modo che questo massacro non sia il più recente, ma l’ultimo.

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese, che attualmente lavora al suo secondo libro: “Who You Callin’ ‘Demographic Threat?’ Notes from the Global Intifada” [“Chi definisci ‘minaccia demografica?’ Note dall’intifada globale.”]. Docente (in pensione) di studi sul genere e globali, è membro del gruppo di orientamento della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 maggio 2018 (due settimane)

Il 14 maggio, nella Striscia di Gaza, secondo il Ministero della Salute Palestinese le forze israeliane hanno ucciso 59 palestinesi (tra cui sette minori) e ne hanno feriti 2.900: dalle ostilità del 2014, è il più alto numero di vittime registrato in un solo giorno nei Territori occupati.

I manifestanti palestinesi hanno ferito un soldato israeliano. Tra i feriti palestinesi di quel giorno, 1.322 (il 45%) sono stati colpiti con armi da fuoco. Le vittime rientrano nel contesto delle manifestazioni per “la Grande Marcia del Ritorno”, iniziate il 30 marzo, ed in coincidenza con il trasferimento ufficiale dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

In altre manifestazioni simili, svolte durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi e ferito 1.283. Nello stesso periodo, secondo il Ministero della Salute Palestinese, altri quattro sono morti per le ferite precedentemente riportate. Le proteste dovrebbero protrarsi fino al 5 giugno, data che rievoca l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, avvenuta nel 1967.

Il gran numero di vittime e l’alta percentuale di feriti da armi da fuoco hanno sollevato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. Il 18 maggio, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha condannato “l’uso sproporzionato e indiscriminato della forza” da parte delle forze israeliane e ha chiesto l’istituzione di una “commissione d’inchiesta internazionale indipendente” che indaghi sulle uccisioni di palestinesi durante le proteste. Il 23 maggio, nel suo resoconto presso il Consiglio di Sicurezza ONU, il Coordinatore Speciale per il Processo di Pace, Nickolay Mladenov, ha condannato “le azioni che, a Gaza, hanno portato alla perdita di così tante vite ” ed ha aggiunto che, a sua volta, Hamas “non deve usare le proteste come copertura del tentativo di collocare bombe a ridosso della recinzione e mettere in atto provocazioni”.

Durante le manifestazioni dell’11 e 14 maggio, manifestanti palestinesi hanno fatto irruzione nella parte palestinese del valico di Kerem Shalom (quasi esclusivo punto di ingresso delle merci in Gaza) causando ingenti danni e bloccando le operazioni. La sala di controllo, il nastro trasportatore principale e le tubazioni del carburante e del gas da cucina sono stati incendiati e gravemente danneggiati. Il valico è stato parzialmente riaperto il 16 maggio per le merci imballate ed il 17 maggio per l’ingresso del carburante.

Secondo l’esercito israeliano, il 16 maggio, palestinesi hanno sparato da Gaza con mitragliatrice verso le forze israeliane e verso la città israeliana di Sderot; successivamente le forze israeliane hanno sparato colpi di carro armato ed hanno condotto diversi attacchi aerei contro siti militari. In precedenza, il 12 ed il 14 maggio, le forze israeliane avevano condotto una serie di attacchi aerei mirati ad aree aperte e a siti di addestramento militare, nella città di Gaza e nel nord della Striscia. Secondo fonti ufficiali israeliane, questi ultimi attacchi aerei erano in risposta alle violente attività intraprese durante le manifestazioni lungo la recinzione perimetrale. Nessuno di tali attacchi ha provocato vittime, ma alcuni siti militari di Gaza hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 16 occasioni; ad est della città di Gaza un contadino è stato ferito. In Khan Younis, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, altri due palestinesi sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane avvenuti mentre queste stavano svolgendo operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, le forze israeliane hanno ferito 641 palestinesi, tra cui 126 minori. Circa l’88% di questi ferimenti si sono verificati il 14 ed il 15 maggio, durante scontri scoppiati nel corso di manifestazioni in solidarietà con Gaza, contro il trasferimento dell’ambasciata statunitense e in memoria del 70° anniversario di ciò che i palestinesi chiamano “An Nakba” [“la Catastrofe”: ovvero la proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta nel maggio 1948]. Il maggior numero di feriti si sono avuti negli scontri avvenuti nella città di Nablus; a seguire, gli scontri nei pressi del checkpoint DCO di Ramallah e quello di Huwwara (Nablus). Tredici persone sono rimaste ferite durante operazioni di ricerca-arresto. Oltre il 60% delle lesioni subìte da palestinesi durante il periodo di riferimento, sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche; tra questi un uomo di 58 anni cardiopatico, morto successivamente in un ospedale di Hebron.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 177 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 220 palestinesi. I numeri più alti di operazioni (41) e di arresti (56) si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme.

In concomitanza con il mese mussulmano del Ramadan, iniziato il 17 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Questo comporta la concessione di circa 2.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est ed Israele. Per le preghiere del venerdì, gli uomini sopra i 40 anni, i minori sotto i 12 e le donne di tutte le età saranno ammessi a Gerusalemme Est senza permesso. Per la preghiera del venerdì (18 maggio), a Gerusalemme Est sono stati ammessi circa 39.300 palestinesi, attraverso tre posti di blocco circostanti. Secondo il DCL [Coordinamento e Collegamento Distrettuale] israeliano, il numero di ingressi è in calo: nel primo venerdì di Ramadan del 2017, ne furono registrati 65.000.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, in zona C ed in Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture palestinesi. Tra le strutture prese di mira figura parte di una strada di campagna (finanziata da donatori) che consentiva agli agricoltori del villaggio di Haris (Salfit) di accedere ai loro terreni. Altre due strutture di sostentamento sono state demolite nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est e nel villaggio di Duma (Nablus).

Nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore, cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a. Questa Comunità deve far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni di accesso che, insieme ai frequenti sfollamenti temporanei dovuti all’addestramento militare, destano preoccupazioni circa il rischio di trasferimento forzato dei residenti.

L’11 maggio, nel villaggio di Duma (Nablus), aggressori non identificati hanno dato fuoco a una casa palestinese. I residenti sono riusciti a mettersi in salvo, ma i mobili e la casa hanno subìto danni. Di conseguenza, i cinque membri della famiglia, tra cui due minori, hanno dovuto sfollare. Sul caso, le autorità palestinesi e israeliane hanno aperto due distinte indagini. Due attacchi incendiari analoghi furono compiuti da coloni israeliani nel villaggio di Duma, nel luglio 2015 e nel marzo 2016; nel primo caso morirono un bambino ed entrambi i genitori.

Sono stati segnalati almeno sette attacchi ad opera di coloni israeliani, con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a loro proprietà. In tre distinti casi, a Turmus’ayya (Ramallah), Halhul (Hebron) e Burqa (Nablus), secondo fonti locali palestinesi circa 450 tra ulivi e vitigni sono stati vandalizzati da coloni israeliani. In altri tre episodi, coloni israeliani hanno forato i pneumatici di 30 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di case di Shu’fat (Gerusalemme Est), Wadi Qana (Salfit) e Sarra (Nablus). Sarebbero stati rubati, da coloni, tre cavalli appartenenti a contadini della città di Nablus. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è di cinque casi; nel 2017 la media era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque episodi di lancio di pietre e due episodi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: sono rimasti feriti cinque israeliani, tra cui una donna e sono stati danneggiati tre veicoli privati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Nablus, Ramallah, Betlemme, Hebron e Gerusalemme. Inoltre, nell’area di Shu’fat, a Gerusalemme Est, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

L’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza di circa 7.000 palestinesi che vivono in tre comunità della Cisgiordania, è stato interrotto da restrizioni imposte da Israele. Nella parte di Hebron a controllo israeliano, l’esercito ha chiuso un passaggio di collegamento di un quartiere (As Salayyme) con il resto della città; chiusa, per tre giorni, anche la strada principale tra i villaggi di Madama e Burin (Nablus). Le misure sono state prese in risposta al lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli di coloni israeliani e contro una torretta militare.

Le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura ininterrotta, per tutto il mese del Ramadan, del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto. Dalla sua apertura, avvenuta il 12 maggio, e fino alla fine del periodo di riferimento [di questo Rapporto], 4.865 palestinesi hanno attraversato in entrambe le direzioni. Dal 2014 questa è la più lunga e continuativa apertura del valico di Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 23 maggio, un quindicenne palestinese è morto per le ferite riportate il 15 maggio, nel corso di una manifestazione presso il checkpoint di Beit El / DCO in Al Bireh / Ramallah. Si trattava di una manifestazione commemorativa del 70° anniversario di quello che i palestinesi definiscono “An Nakba” del 1948 e di protesta contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Lungo il confine di Gaza, sparano (anche) ai medici, o no?

Amira Hass

28 maggio 2018, Haaretz

Un’ambulanza al minuto, 1.300 persone colpite in un giorno: l’ospedale Shifa di Gaza affronta un’emergenza che travolgerebbe i migliori ospedali del mondo.

Dati clinici internazionali dicono che qualunque sistema sanitario occidentale collasserebbe se dovesse curare tante ferite da arma da fuoco ogni giorno quante ve ne sono state nella Striscia di Gaza il 14 maggio. Eppure il sistema sanitario di Gaza, che per anni è stato sull’orlo del collasso in seguito all’assedio israeliano ed alle lotte intestine palestinesi, ha sorprendentemente dimostrato di essere all’altezza della sfida. In Israele gli avvenimenti del 14 maggio sono già storia. Nella Striscia, le loro sanguinose conseguenze segneranno la vita di migliaia di famiglie negli anni a venire.

La cosa più scioccante, più dell’alto numero dei morti, è il numero delle persone ferite da armi da fuoco: circa metà delle oltre 2.770 persone che hanno ricevuto cure di emergenza avevano ferite da colpi di arma da fuoco. “Era chiaro che i soldati sparavano soprattutto per ferire e mutilare i dimostranti.” Questa è la conclusione che ho ascoltato dai miei interlocutori, alcuni dei quali con molta esperienza di sanguinosi conflitti internazionali. Lo scopo era di ferire, piuttosto che uccidere, il maggior numero di giovani per renderli per sempre disabili

I preparativi nelle 10 postazioni di smistamento e di traumatologia sono stati impressionanti. Ognuna delle postazioni allestite accanto ai luoghi delle proteste è stata dotata di infermieri e studenti di medicina volontari. Nell’arco di sei minuti in media riuscivano ad esaminare ogni paziente, stabilire il tipo di ferita, stabilizzare il paziente e decidere chi dovesse essere curato in un ospedale. A partire da mezzogiorno circa, è arrivata all’ospedale Shifa di Gaza un’ambulanza ogni minuto. Le sirene non smettevano di suonare. Ogni ambulanza trasportava quattro o cinque feriti.

Dodici sale operatorie hanno lavorato senza sosta. Le prime ad essere curate sono state le persone con ferite ai vasi sanguigni. Centinaia di persone con ferite meno gravi hanno atteso il proprio turno nei corridoi dell’ospedale, tra lamenti e capogiri. Gli unici analgesici disponibili erano destinati per lo più ai gravi mal di testa, non alle ferite da sparo. Anche se l’anno scorso il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania non avesse ridotto le forniture di medicine alla Striscia di Gaza, in seguito alle direttive dei vertici politici palestinesi, c’è da dubitare che l’ospedale avrebbe avuto gli analgesici e gli anestetici necessari per curare i circa 1.300 pazienti con ferite da arma da fuoco ed eseguire le centinaia di operazioni svoltesi il 14 maggio.

Nessun ospedale al mondo dispone di chirurghi vascolari ed ortopedici sufficienti per operare centinaia di vittime di spari in un solo giorno. Sono stati reclutati chirurghi con altre specializzazioni per operare sotto la guida degli specialisti. Nessun ospedale ha sufficienti equipe mediche per curare così tanti pazienti. Dopo le 13,30, quando i familiari dei feriti hanno iniziato ad affluire nel già sovraffollato ospedale, la situazione ha incominciato ad andare fuori controllo. Una squadra di sicurezza armata del ministero dell’Interno controllato da Hamas è stata chiamata per ristabilire l’ordine ed è rimasta là fino alle 20,30. Nella notte, 70 dimostranti feriti stavano ancora attendendo di essere curati ed altri 40 hanno atteso fino al mattino seguente. Una settimana dopo, è arrivato il momento della chirurgia ortopedica e delle terapie di riabilitazione, ma nella Striscia non vi sono abbastanza fisioterapisti, chirurgi ortopedici e attrezzature mediche.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità diffuso il 22 maggio, dal 30 marzo al 22 maggio durante le dimostrazioni lungo il confine con Israele sono state ferite in totale 13.190 persone, compresi 1.136 minori. Di queste, 3.360 sono state ferite da proiettili veri sparati dai nostri eroici e ben protetti soldati; 332 di loro versano ancora in condizioni critiche (due persone sono morte per le ferite nel fine settimana). Sono state eseguite cinque amputazioni degli arti superiori e 27 degli arti inferiori. Soltanto nella settimana dal 13 al 20 maggio i soldati israeliani hanno ferito 3.414 gazawi, 2.013 dei quali sono stati curati in ospedali e cliniche gestiti da organizzazioni non governative, compresi 271 minori e 127 donne; 1.366 avevano ferite da arma da fuoco.

I nostri valorosi soldati hanno sparato anche alle squadre mediche che si avvicinavano alla barriera per soccorrere le vittime. Gli ordini sono ordini, anche quando ciò significa sparare agli infermieri. Di conseguenza i medici lavorano in gruppi di sei: se uno viene ferito, altri due lo portano via per curarlo e i tre rimanenti continuano il lavoro, pregando di non rimanere anche loro feriti.

Il 14 maggio un infermiere della Difesa Civile Palestinese è stato ucciso, colpito mentre andava a soccorrere un dimostrante ferito. Per circa 20 minuti i suoi colleghi hanno cercato di raggiungerlo senza riuscirci, impediti dalla pesante sparatoria. L’infermiere è morto per collasso polmonare. Nella settimana dal 13 al 20 maggio altri 24 operatori sanitari sono stati feriti – otto da proiettili veri, sei da schegge di proiettili, uno da un candelotto lacrimogeno e nove per inalazione di gas lacrimogeni. Dodici ambulanze sono state danneggiate. Tra il 30 marzo e il 20 maggio in totale sono stati feriti 238 operatori medici e danneggiate 38 ambulanze.

Il 23 maggio, dopo aver visitato un ospedale ed un centro di riabilitazione a Gaza, il Commissario Generale dell’UNRWA Pierre Krahenbuhl ha evidenziato le ripercussioni dei recenti avvenimenti: “Sinceramente credo che gran parte del mondo sottovaluti del tutto la portata del disastro in termini umanitari che si è compiuto nella Striscia di Gaza dall’inizio delle marce il 30 marzo…In sette giorni di proteste sono state ferite altrettante persone, o addirittura un po’ di più, di quante lo furono durante l’intero conflitto del 2014. Ciò è veramente sconvolgente. Durante le mie visite, sono anche stato colpito non solo dal numero di feriti, ma anche dal tipo di ferite… La ricorrenza di piccole ferite in entrata e grandi ferite in uscita indica che i proiettili usati hanno provocato gravi danni agli organi interni, ai tessuti muscolari e alle ossa. Gli staff sia degli ospedali del ministero della Sanità di Gaza, sia delle cliniche delle ONG e dell’UNRWA stanno lottando per occuparsi di ferite e di cure estremamente complesse.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




‘Bruciateli, sparategli, uccideteli’: gli israeliani esultano a Gerusalemme mentre i palestinesi vengono uccisi a Gaza

Hind Khoudary, Lubna Masarwa, Chloé Benoist

Lunedì 14 maggio 2018, Middle East Eye

Mentre gli Stati Uniti trasferivano ufficialmente la loro ambasciata a Gerusalemme, le forze israeliane uccidevano decine di manifestanti a Gaza

Lunedì il contrasto tra Gerusalemme e Gaza non poteva essere più stridente, anche se le separano solo 75 chilometri.

Mentre i dirigenti americani ed israeliani inauguravano il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme – una vittoria di Israele rispetto al rifiuto della comunità internazionale della sua pretesa di avere Gerusalemme come propria capitale – le forze armate israeliane sparavano sui manifestanti a Gaza, con un bilancio di morti che è cresciuto inesorabilmente nel corso della giornata.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato con entusiasmo il trasferimento dell’ambasciata come un momento “storico”.

“Amici, che giorno di gloria, ricordatevi questo giorno”, ha detto il leader israeliano lunedì in un discorso trionfante. “Questa è storia. Signor Trump, riconoscendo la storia, voi avete fatto la storia. Tutti noi siamo profondamente commossi e grati. L’ambasciata della Nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti d’America, è stata aperta qui.”

Il genero e principale consigliere di Trump, Jared Kushner, ha tenuto anch’egli un discorso durante la cerimonia, nel corso della quale ha ribadito il sostegno degli USA ad Israele, mettendo a quanto pare da parte le preoccupazioni riguardo alle azioni dell’esercito israeliano a Gaza che avvenivano in concomitanza con il suo discorso.

“Noi stiamo dalla parte di Israele perché entrambi noi crediamo nei diritti umani, nel fatto che la democrazia vada difesa e siamo convinti che questa sia la cosa giusta da fare”, ha detto Kushner.

Nel frattempo, proprio fuori dalla nuova ambasciata, i manifestanti palestinesi a Gerusalemme venivano brutalmente repressi dalle forze israeliane.

MEE è stato testimone di decine di palestinesi disarmati picchiati ed arrestati dalle forze di sicurezza israeliane fuori dalla ambasciata, suscitando gli applausi dei manifestanti israeliani venuti ad appoggiare l’apertura dell’ambasciata.

“Bruciateli”, “sparategli”, “uccideteli”, scandivano gli israeliani.

Intanto l’ex portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner si è lamentato sui social media, sottintendendo che le morti di palestinesi a Gaza erano un tentativo di rovinare la festa a Israele.

Ma a Gaza i palestinesi hanno manifestato la propria profonda rabbia e incredulità per i festeggiamenti che si tenevano a Gerusalemme mentre a centinaia venivano indiscriminatamente colpiti dalle forze israeliane.

Alle 19,30 ora locale erano stati uccisi dalle forze israeliane 52 palestinesi e feriti 2.410, l’epilogo sanguinoso delle 6 settimane della “Grande Marcia per il Ritorno” a Gaza, che era già costata 49 vite prima di lunedì.

Dal 30 marzo durante le manifestazioni a Gaza sono stati uccisi in totale 101 palestinesi.

Lo scenario a Gaza nella zona vicina alla barriera di separazione tra la piccola enclave palestinese ed Israele è stato di caos e sangue fin dal mattino, con numerosi dimostranti colpiti alla testa, al collo o al petto.

Molti corpi sono rimasti bloccati nei pressi della barriera, poiché il fuoco dell’esercito era troppo intenso perché le ambulanze potessero raggiungerli.

“Moltissimi palestinesi sono morti oggi in nome della protesta pacifica dei palestinesi e noi non rinunceremo a lottare per il sangue che hanno versato”, ha detto a Middle East Eye il cinquantaduenne Wadee Masri. “Sono venuto qui per partecipare alla marcia, per dimostrare che sono una persona che ha diritto a ritornare nella sua terra.

Gli odierni festeggiamenti a Gerusalemme mi rattristano per ciò che gli USA hanno fatto contro i palestinesi”, ha aggiunto. “Non c’è pace senza Gerusalemme. Noi vivremo e moriremo lottando per Gerusalemme.”

Associazioni internazionali hanno descritto la situazione a Gaza come un “bagno di sangue”.

Human Rights Watch ha dichiarato: “La politica delle autorità israeliane di aprire il fuoco contro i manifestanti palestinesi a Gaza, imprigionati da dieci anni e sotto occupazione da mezzo secolo, prescindendo dal fatto che vi sia una minaccia immediata alla vita, ha condotto ad un bagno di sangue che chiunque avrebbe potuto prevedere.”

Jamal Zahalka [deputato del parlamento israeliano del partito arabo israeliano di sinistra Balad, ndt.], un leader politico dei palestinesi cittadini di Israele, ha detto a MEE che Israele e gli USA sono i responsabili della violenza a Gaza.

“È una violazione del diritto internazionale. Trump e gli USA sono responsabili di tutto il sangue che è stato versato a partire dalla decisione degli Stati Uniti”, ha detto Zahalka.

“Quelli che oggi stanno festeggiando (l’inaugurazione dell’ambasciata USA) hanno le mani sporche di sangue.”

Ma nonostante il trauma della giornata più sanguinosa a Gaza dalla guerra del 2014, Samira Mohsen, una manifestante ventisettenne della zona est di Gaza, nonostante il pesante bilancio delle manifestazioni della giornata continua ad avere un atteggiamento di sfida.

“Un giorno festeggeremo a Gerusalemme, pregheremo là, nessuno ce lo impedirà”, ha detto a MEE. “Il mio sogno è di vedere Gerusalemme. Gerusalemme è la capitale della Palestina e Trump e gli USA non possono decidere di consegnare la nostra terra ai sionisti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come se Israele non avesse fatto niente di cui vergognarsi prima dell’avvento degli smartphone

Amira Hass

16 aprile 2018, Haaretz

I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, ricordate o credete.

La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi. La vergogna è necessaria, è triste che così poche persone la provino. Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti. In rari casi filtrano attraverso il muro dell’insabbiamento e della menzogna innalzato dall’esercito israeliano e attraverso la corazza del “sono comunque tutti terroristi” che gli israeliani indossano volontariamente.

Dalla vergogna a lungo rimandata possiamo intuire che ci sono israeliani che credono che i soldati dell’esercito abbiano iniziato solo poche settimane fa a sterminare palestinesi disarmati. Cioè credono che solo da quando sono comparsi gli smartphone, con la loro possibilità di smascherare pubblicamente in tutta la loro nuda vergogna i soldati e i loro superiori, i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai loro soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. In altre parole, che fino a poco tempo fa, finché non sono arrivati gli smartphone, la purezza delle armi venisse scrupolosamente rispettata e non ci fosse spazio per la vergogna. E quindi che sia così anche oggi, in tutti i casi in cui soldati e poliziotti uccidono e feriscono palestinesi quando non ci sono telefonini a riprenderli. Gli israeliani che si vergognano credono che l’esercito menta solo quando c’è una prova fotografica della bugia. In sua assenza l’esercito israeliano e la polizia dicono la verità, i palestinesi e un pugno di persone di sinistra sono quelli che mentono.

La vergogna è demoralizzante per un’altra ragione: ci ricorda della debolezza della parola scritta quando non si basa sulla versione degli avvenimenti del regime, ma piuttosto sulla testimonianza delle vittime del regime. Prima che ci fossero cellulari con videocamera e telecamere di sicurezza ad ogni angolo, raccoglievamo le testimonianze di decine di testimoni oculari. Incrociavamo le loro versioni, verificavamo, esaminavamo, facevamo domande – spesso eravamo sul posto quando avvenivano gli incidenti – e scrivevamo e pubblicavamo. Ma era sempre la nostra parola contro quella dell’essere assolutamente puro: l’ufficio del portavoce dell’esercito.

L’immagine che si voleva trasmettere dell’esercito e del governo era fabbricata sulle scrivanie delle redazioni e nelle strade di Tel Aviv e di Kfar Sava. Ogni giorno e in ogni operazione, il superpotere palestinese risorge per distruggerci e per attaccare la piccola Israele e i suoi teneri figli diciottenni che sono apparsi nel territorio della superpotenza. Non è così: i soldati israeliani che uccidono palestinesi disarmati non sono spuntati fuori per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete o non ricordate o non credete.

Alla vostra attenzione

Ma ditemi, voi che vi vergognate, e a ragione, non vi vergognate del fatto che Israele rubi l’acqua ai palestinesi e imponga loro limitate quote di consumo? Non vi vergognate del rifiuto di Israele di collegare migliaia di palestinesi della Cisgiordania e del Negev israeliano al servizio idrico?

E quando Israele espelle gli abitanti di Umm al-Hiran dalla loro baraccopoli del Negev, non morite di vergogna per lo Stato e per la bella comunità modello, basata su valori ebraici, che sarà costruita sulla terra degli espulsi? Non vi vergognate dello Stato che in tutti questi anni ha impedito il collegamento di Umm al-Hiran alla rete idrica ed elettrica, o dei giudici della Corte Suprema che hanno permesso le espulsioni? Non provate vergogna quando un pugno di israeliani scende dalle proprie colonie e dagli avamposti per attaccare ripetutamente i villaggi palestinesi dei dintorni? Non arrossite, né sbiancate, alla vista dei soldati che stanno a guardare e lasciano che essi aggrediscano, distruggano, sradichino e taglino? E quando la polizia non fa nessuna ricerca dei responsabili, persino quando sono stati filmati e il loro luogo di residenza è noto, non vi vergognate ancora di più? Non provate vergogna per il solo fatto di sapere che questo metodo di violenza dei coloni – incoraggiato dal silenzio delle autorità – è vecchio tanto quanto la stessa occupazione?

Il seguente fatto – 2,5% della terra dello Stato è destinata al 20% della popolazione (i cittadini palestinesi di Israele) – non fa sì che voi, per la vergogna, vogliate che la terra si apra e vi inghiotta?

E cosa ne dite dei pochi abitanti di Gaza a cui è permesso di viaggiare all’estero attraverso il ponte di Allenby [posto di confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, ndt.] che sono obbligati a promettere per iscritto di non tornare per un anno? E dei palestinesi della Cisgiordania a cui non è consentito incontrarsi con amici e parenti che vivono nella Striscia di Gaza? E del divieto di vendita dei prodotti di Gaza in Cisgiordania e di esportarli, tranne pochi camion che trasportano una ridotta quantità di beni? E cosa dite del fatto di tener imprigionate 2 milioni di persone dietro il filo spinato e il controllo militare e le torri da cui sparare? Secondo voi tutto questo non meriterebbe di essere incluso nell’elenco delle disgrazie collettive degli ebrei?

Israele non si è mai spaventato e non si spaventa ora ad uccidere civili palestinesi – individualmente, separatamente e in massa. Ma uccidere palestinesi non è un fine in sé. Al contrario i 70 anni di esistenza di Israele dimostrano che l’appropriazione della terra palestinese è un obiettivo supremo del nostro Stato, e che l’appropriazione si unisce alla riduzione del numero di palestinesi su quella terra.

Espellere palestinesi dalle loro case, dalla loro patria e dal loro Paese in tempo di guerra è un mezzo collaudato per ridurre il numero di una popolazione. Quando questo non è fattibile, concentrare i palestinesi in affollate riserve (su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra lo Stato di Israele e la Giordania prima dell’occupazione della Cisgiordania, ndt.]) è un altro metodo, di routine e continuo. Chiunque abbia trovato ciò difficile da credere prima del 1993 ha ottenuto la prova definitiva negli accordi di Oslo: sotto l’ombrello del processo di pace il principale obiettivo dei governi (laburisti e del Likud) e delle loro burocrazie è stato di dimostrare la giustezza delle accuse secondo cui nel profondo siamo davvero un’entità coloniale. Ciò vi fa sentire orgogliosi?

(traduzione di Amedeo Rossi)




In questi giorni essere un israeliano è un dramma

Nehemia Shtrasler

13 aprile 2018, Haaretz

Solo un cuore malvagio potrebbe non capire che chiunque dia un ordine di sparare proiettili letali su dimostranti disarmati sta dando un ordine palesemente illegale.

Va bene, ho capito. Non puoi dire: “Mi vergogno di essere israeliano.” Dopo aver detto questo, devi scusarti per evitare di essere licenziato [si riferisce al caso di un conduttore radiofonico che, dopo aver postato quella frase, ha dovuto chiedere scusa per non essere licenziato, ndtr.].

Se è così, posso dire di essere rimasta scioccata? Che non riuscivo a credere a ciò che sentivo? Che ho provato una fortissima nausea nel sentire il numero di persone uccise e ferite durante le dimostrazioni palestinesi vicino al confine tra Israele e Gaza?

E’ legittimo ordinare all’esercito di impedire ai dimostranti di entrare in Israele dalla Striscia di Gaza, ma deve essere fatto con mezzi non letali: idranti, gas lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per colpire alle gambe i dimostranti. Ma non con proiettili veri e certamente non con proiettili veri con l’intenzione di uccidere.

Chiunque dia un ordine di sparare proiettili veri contro dimostranti disarmati che non stanno mettendo a rischio la vita dei soldati, sta dando un ordine palesemente illegale, su cui sventola una bandiera nera. Solo un cuore malvagio potrebbe non capirlo.

Questa settimana è stato pubblicato un video scioccante. Mostrava un cecchino che sparava ad un palestinese che non rappresentava affatto un pericolo. Il palestinese con la maglietta rosa si trovava ad una distanza notevole dalla barriera di confine, per cui non vi era ragione al mondo di sparargli.

Nel video lo si vede in piedi per un istante e poi cadere, colpito ad una gamba. E poi si sentono le voci di incitamento e di tripudio dalla nostra parte: “Wow, che video fantastico, figlio di puttana, sta scappando con la gamba sollevata, via di qui, figli di puttana.”

Il ragazzo in rosa non sapeva nemmeno di essere nel mirino del cecchino. Lo si vede aggirarsi senza paura. Non sapeva che Israele aveva dichiarato una “zona di guerra” da 80 a 100 metri all’interno del territorio sovrano di Gaza e che chiunque vi entri può essere ucciso.

Parlando di questo incidente, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto: “Il cecchino merita una medaglia…L’esercito israeliano è l’esercito più morale al mondo.” Una medaglia per cosa? Per possedere un fucile sofisticato con mirino telescopico ed aver sparato a gente inerme come a facili bersagli, mentre lui sta ben nascosto, senza correre alcun rischio? Per un’operazione come questa, l’esercito merita il riconoscimento di esercito più morale al mondo? Dovrebbero fare un remake di “1984” [libro di George Orwell in cui si immagina un futuro totalitario, ndtr.] in stile Lieberman.

I gazawi avevano diversi tipi di “armamenti”. Avevano delle fionde, come Davide contro Golia. Avevano dei pneumatici, che hanno bruciato. Ed avevano anche degli specchi, portati da casa, che hanno usato per tentare di accecare i cecchini, una tattica usata per la prima volta da Archimede contro i romani 2.000 anni fa. Con queste antiche armi sofisticate hanno lottato senza successo contro i cecchini, che hanno ucciso 32 di loro, compreso il fotografo Yaser Murtaja,, che indossava un giubbotto con scritto “stampa” a caratteri grandi. Hanno anche ferito circa 300 persone con proiettili veri, 20 delle quali in modo grave, e circa altre 1.000 con proiettili ricoperti di gomma e gas lacrimogeni.

Sono numeri che la mente non può accettare. Abbiamo evidentemente toccato il punto in cui la vita umana non vale un centesimo.

Ma non è del tutto vero. Dipende dalla persona.

Nel 2009 venne pubblicato il libro “La Torah del re”. Parlava di ciò che la legge dice riguardo all’uccidere non ebrei. Basandosi su “prove” tratte dal Talmud [uno dei testi sacri dell’ebraismo, secondo solo alla Bibbia, ndtr.], sosteneva che il divieto di omicidio della Torah [i primi 5 libri della Bibbia, base dell’insegnamento ebraico, ndtr.] si applica solo agli ebrei; uccidere i non ebrei è consentito.

All’epoca il libro sollevò una tempesta e provocò una forte opposizione, ma oggi a quanto pare verrebbe accettato con totale condivisione. Il fatto è che molti politici ed esperti non sono stati affatto turbati né dai proiettili veri sparati sui dimostranti né dall’alto numero di persone uccise e ferite.

Hanno detto che “i gazawi hanno mandato i loro figli a commettere atti terroristici, per cui è giusto che li abbiamo fermati.” Hanno detto: “Abbiamo lasciato Gaza, perciò non dobbiamo vergognarci di niente.” Hanno descritto i dimostranti come “un’invasione di terroristi il cui scopo era distruggere Israele”, aggiungendo: “Gloria all’esercito israeliano per aver fermato l’invasione senza vittime da parte nostra.”

E le vittime civili disarmate dall’altra parte? E’ tutto a posto. Vedi “La Torah del re.”

E’ un dramma essere un israeliano in questi giorni. Dramma accompagnato da un irrefrenabile disgusto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)