La CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito di avere l’autorità di indagare sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas

Redazione di MEE

5 febbraio 2021 – Middle East Eye

Le conclusioni aprono la strada perché la procuratrice capo prosegua le indagini su presunti crimini di guerra commessi a partire dal bombardamento di Gaza da parte di Israele nel 2014.

Venerdì [5 febbraio 2021] i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) hanno stabilito di avere “giurisdizione territoriale” all’interno delle zone occupate da Israele dal 1967, aprendo la strada per una possibile indagine riguardo a presunti crimini di guerra.

Nel gennaio 2020 un collegio giudicante preliminare presso la corte con sede all’Aia è stato incaricato di stabilire l’ambito di competenza giurisdizionale della CPI riguardo a Israele e Palestina, posto che lo Stato di Israele, a differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non è membro della CPI.

La Palestina ha…accettato di sottomettersi alle condizioni dello Statuto di Roma della CPI e ha il diritto di essere trattato come qualunque altro Stato membro per le materie riguardanti l’applicazione dello Statuto,” ha affermato venerdì la CPI in un comunicato.

Il primo ministro palestinese Muhammad Shtayyeh ha accolto positivamente la decisione, definendo la sentenza della CPI “una vittoria della giustizia e dell’umanità.” Ha anche chiesto alla corte di “accelerare le procedure giudiziarie” riguardo ai casi relativi ai palestinesi.

L’ambito giurisdizionale della CPI includerebbe le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, generalmente considerate illegali in base alle leggi internazionali.

La convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante non può trasferire legalmente parte della propria popolazione nel territorio che occupa, e nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha emanato un parere consultivo affermando che costruendo le colonie Israele ha violato i suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

Israele ha tassativamente rigettato qualunque forma di giurisdizione della CPI sui propri cittadini.

L’iniziativa è stata contestata anche dagli USA, i più stretti alleati di Israele, che venerdì hanno affermato di essere “seriamente preoccupati riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano.”

Una base ragionevole” per avviare un’indagine

La corte ha preso in considerazione la questione della giurisdizione territoriale dopo che la procuratrice generale, Fatou Bensouda, ha annunciato che esistevano i presupposti per aprire un’indagine complessiva riguardo a presunti crimini di guerra commessi all’interno dei territori occupati.

All’epoca Bensouda aveva sottolineato che, avendo stabilito che c’era “una base ragionevole per avviare un’inchiesta sulla situazione in Palestina,” era comunque necessario che prima la corte definisse la giurisdizione. La sua decisione era arrivata dopo cinque anni di indagini preliminari ed analisi delle prove.

Venerdì, pur notando che problemi di confine e questioni di sovranità non rientrano nell’ambito di competenza della corte, la CPI ha autorizzato Bensouda a procedere con un’indagine esaustiva.

Un’inchiesta complessiva della CPI potrebbe portare a incriminazioni di singole persone, ma non di Stati.

Ora si prevede che Bensouda inizi a indagare funzionari e politici israeliani e di Hamas riguardo a presunti crimini di guerra nei territori occupati a iniziare dal 2014, durante il quale i bombardamenti aerei israeliani contro la Striscia di Gaza provocarono la morte di 2.251 palestinesi, in maggioranza civili. Durante lo stesso periodo vennero uccisi anche 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Nel 2015 un rapporto di una commissione ONU stabilì che durante il conflitto sia Israele che gruppi armati palestinesi potrebbero aver commesso crimini di guerra.

Il rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) affermò che, mentre sia israeliani che palestinesi erano stati “profondamente colpiti” dalla guerra, a Gaza “le dimensioni delle devastazioni erano state senza precedenti”. Sostenne che tra i morti c’erano 551 minori palestinesi e se ne contavano altre migliaia tra gli 11.231 feriti dalle azioni israeliane.

Tra gli israeliani che potrebbero essere indagati dalla CPI ci potrebbero essere: il primo ministro Benjamin Netanyahu, gli ex-ministri della Difesa Moshe Yaalon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, gli ex-capi di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] Benny Gantz e Gadi Eisenkot, l’attuale capo di stato maggiore Aviv Kochavi e sia l’ex che l’attuale capo del servizio di sicurezza interno Shin Bet, rispettivamente Yoram Cohen e Nadav Argaman.

Gli USA sanzionano funzionari della CPI

In giugno anche un gruppo di palestinesi della Cisgiordania occupata ha presentato una denuncia alla CPI, chiedendo un’indagine contro importanti politici israeliani e statunitensi che hanno autorizzato il piano “Pace verso la Prosperità” dell’ex-presidente USA Donald Trump.

All’epoca un rappresentante del gruppo ha affermato che c’erano “prove ragionevoli” in base alle quali importanti funzionari USA, compreso Trump, erano stati “complici di azioni che potrebbero rappresentare crimini di guerra riguardanti il trasferimento di popolazione nei territori occupati e l’annessione di territorio sotto la sovranità dello Stato di Palestina.”

Israele e gli USA sono due dei pochi Stati ad essersi opposti alla nascita della CPI, mentre 123 Paesi ne hanno accettato la giurisdizione.

A settembre gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno imposto sanzioni contro Bensouda e Phakiso Mochochoko, un altro importante funzionario della procura, per le inchieste su Afghanistan e Palestina. All’epoca Trump sottolineò che la corte non aveva “giurisdizione sul personale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati,” in riferimento ad Israele.

L’amministrazione Biden ha affermato che prevede di rivedere le sanzioni contro i funzionari della CPI. “Per quanto siamo in disaccordo con le azioni della CPI relative ai casi afghano e israelo-palestinese, le sanzioni saranno comunque riesaminate mentre decideremo i nostri prossimi passi,” ha affermato in un comunicato il portavoce del Dipartimento di Stato durante la prima settimana del mandato di Biden.

Il portavoce ha aggiunto che la nuova amministrazione appoggia riforme “che aiutino la corte a realizzare più efficacemente la propria principale missione di punire e scoraggiare atrocità” e in “casi eccezionali” potrebbe collaborare con la CPI.

In seguito alla decisione di venerdì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli USA sono “seriamente preoccupati” riguardo ai tentativi della CPI di stabilire la propria giurisdizione su personalità israeliane.

Non crediamo che i palestinesi siano uno Stato sovrano e di conseguenza non sono legittimati a ottenere l’ammissione come Stato o a partecipare in tale veste ad organismi, entità o incontri internazionali, compresa la CPI,” ha affermato Price.

Gli Stati Uniti hanno sempre adottato la posizione secondo cui la giurisdizione della corte dovrebbe essere riservata ai Paesi che vi aderiscono o che sono indicati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele deve essere sanzionato per aver rifiutato ai palestinesi le vaccinazioni contro il Covid-19.

David Hearst

14 gennaio 2021 – Middle East Eye

La politica di Israele sul vaccino contro il coronavirus lo pone in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dovrebbe portare a sanzioni

Israele da tempo ha abbandonato l’argomentazione, tanto spesso sentita durante la costruzione del muro, secondo cui la sua espansione in Cisgiordania oltre i suoi confini del 1967 sia un atto di autodifesa.

L’annessione da parte di Israele, culminata lo scorso anno nella dichiarazione del progetto di annettere fino al 60% della Cisgiordania, oggi è inquadrata come l’adempimento di una profezia biblica, secondo cui gli ebrei espulsi dalla terra di Israele sono destinati a ritornarvi. Questo fondamentalismo si propaga in una miriade di modi ben oltre la comunità dei coloni e la destra nazional-religiosa.

Annessione e sovranità

Dalla frase “L’anno prossimo a Gerusalemme” cantata alla fine del Seder pasquale [festa rituale che segna l’inizio delle festività della Pasqua ebraica, ndtr.] ai tentativi di stabilire l’identità delle antiche pietre intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme attraverso l’archeologia, all’uso delle parole bibliche Giudea e Samaria per definire la Cisgiordania, il piano per costruire uno Stato i cui confini riconosciuti si estendano un giorno dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo orientale, ndtr.] è più che mai condiviso.

Secondo questa logica, il territorio che la comunità internazionale riconosce come occupato dovrebbe invece essere definito conteso. Solo una piccola parte dei profughi palestinesi espulsi da questa terra verrebbe riconosciuta come tale.

L’annessione non è altro che un’estensione della sovranità.

Le parole politicamente marginali nel corso di un decennio sono diventate opinione corrente nel successivo. I sionisti progressisti [lala di centro-sinistra del movimento sionista, ndtr.] hanno reagito con orrore alla nomina di Tzipi Hotovely [del partito nazionalista e di destra Likud, sotto la guida di Netanyahu, ndtr.] come attuale ambasciatrice di Israele nel Regno Unito. L’ex ministra delle colonie ha detto, tra le altre cose: “Questa terra è nostra. È tutta nostra. Non siamo venuti qui per scusarci”. Ma Hotovely dall’estrema destra sta solo dicendo ad alta voce ciò che molti, sia laici che religiosi, ora credono sia un dato di fatto.

A sinistra non c’è una figura, dal defunto Amos Oz in poi, che sfidi la Legge del Ritorno [emanata in Israele nel 1970, stabilisce che qualsivoglia persona nel mondo può stabilirsi in Israele e acquisire così la cittadinanza israeliana se è in grado di dimostrare di essere ebrea, ndtr.], la quale alimenta questa spinta verso est, o che la veda come qualcosa di diverso da un atto di rinascita ebraica. Nessuna forma di binazionalismo liberale potrebbe funzionare, ha detto Oz, “tranne che in sei luoghi: Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera e … Svizzera”.

Ma le convinzioni fondamentaliste sul destino di Israele non sono applicate universalmente come a prima vista sembrerebbe.

La politica sul Covid-19

Ci sono momenti in cui ai ministri israeliani conviene rinunciare a qualsiasi discorso sull’estensione della sovranità sui palestinesi. Fanno anzi il contrario rimuovendola. Questo è uno di quei momenti.

Il ministero della Salute israeliano non sembra avere alcun piano né alcuna responsabilità per la vaccinazione dei palestinesi che sono sotto occupazione o nelle loro prigioni. Il Covid distingue nei fatti tra palestinesi e israeliani. Al 9 gennaio, ha riferito l’OLP [Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndtr.], c’erano 165.000 casi attivi in ​​Palestina e Gerusalemme Est e 1.735 morti.

Mustafa Barghouti, un medico che fa parte del comitato sanitario palestinese sul Covid-19 ed ex ministro, ha scritto: “Ogni giorno vengono registrati più di 1.800 nuovi casi. Il tasso di contagio tra coloro che vengono sottoposti al test è nelle due aree [Palestina e Gerusalemme Est, ndtr.] del 30%, rispetto al 7,4% in Israele “.

Essendo diventato il primo Paese al mondo a vaccinare con la prima delle due dosi di somministrazione il 20% della sua popolazione, una percentuale dieci volte superiore a quella del Regno Unito e degli Stati Uniti, Israele si sta affermando come leader mondiale. Ma questa fretta si ferma davanti al muro, quando si tratta dei palestinesi sotto il suo controllo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che il ministero della Salute israeliano ha respinto una richiesta avanzata, in occasione di “contatti informali”, di vaccinare gli operatori sanitari palestinesi in prima linea. “Il ministero della Salute israeliano ha affermato che avrebbe esaminato questa opzione, ma che al momento non era in grado di fornire vaccini a causa della loro carenza in Israele”, ha detto Gerald Rockenschaub, funzionario dell’OMS, nelle vesti di inviato dell’organismo internazionale per i palestinesi.

Anche il ministro della Pubblica Sicurezza israeliano ha inizialmente deciso di non vaccinare i prigionieri palestinesi che sono detenuti in condizioni di affollamento con scarsa o nessuna protezione contro il virus. Ci sono 4.400 palestinesi nelle prigioni israeliane, tenuti in celle sovraffollate, con scarsa igiene, umidità e mancanza di aria fresca.

Condizioni in cui è impossibile praticare il distanziamento sociale, lavarsi le mani, indossare indumenti protettivi o disinfettare le celle. “Questo ha reso i prigionieri palestinesi estremamente vulnerabili. Dallo scoppio della pandemia 189 prigionieri sono risultati positivi. I prigionieri infettati dal virus hanno segnalato cure pessime, isolamento, un antidolorifico e un limone”, afferma il rapporto dell’OLP.

Giovedì, sotto la pressione del presidente israeliano Reuvin Rivlin, il ministro della Salute Yuli Edelstein ha ceduto, riferendo a NPR [National Public Radio è un’organizzazione indipendente no-profit comprendente oltre 900 stazioni radio statunitensi, ndtr.] che i prigionieri palestinesi avrebbero ricevuto il vaccino la prossima settimana. Rivlin gli ha detto che privare i prigionieri del vaccino violerebbe i valori democratici.

‘I nostri vicini’

Tuttavia questa stessa responsabilità da parte dello Stato di Israele non sembra valere per i palestinesi [che vivono] nelle aree sotto la sua occupazione. Edelstein li chiama, invece, “vicini” che dovrebbero in realtà imparare a prendersi cura di se stessi.

Edelstein ha dichiarato lunedì a Sky News: “Penso che abbiamo aiutato i nostri vicini palestinesi sin dalle prime fasi di questa crisi, comprese le attrezzature sanitarie, comprese le medicine, compresi i consigli, comprese le forniture”.

“Non credo che ci sia nessuno in questo Paese, qualunque sia la sua opinione, che possa immaginare che io, con tutta la buona volontà, sottragga ad un cittadino israeliano un vaccino per consegnarlo ai nostri vicini”.

L’uso della parola “vicino” per descrivere i palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme è un’assurdità legale. Per stabilirlo, mi sono rivolto a Sir Geoffrey Bindman, avvocato della Corona [titolo giuridico onorifico britannico, ndtr.], uno degli esperti giuristi britannici in materia di diritti umani. Bindman ha esaminato le implicazioni legali internazionali della responsabilità di Israele di fornire il vaccino per il Covid-19 ai palestinesi sotto sua occupazione.

Egli ha sostenuto che sarebbero obbligati a farlo ai sensi dell’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, che stabilisce che Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Egli ha dichiarato a MEE: “Israele ha degli obblighi su due livelli: l’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra impone obblighi al governo israeliano in quanto potenza occupante. L’etica medica richiede a tutti i membri della sua comunità professionale di non discriminare tra coloro che devono curare e di occuparsi di tutti i pazienti al meglio delle loro capacità“.

Bindman ha contestato la definizione dei palestinesi sotto la sua responsabilità come “vicini” da parte del ministro della Sanità israeliano.

“Non sono vicini di casa. Sono persone sotto occupazione e questo significa che Israele ha l’obbligo, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, di assicurarsi che siano adeguatamente curati. Israele ha violato la Convenzione di Ginevra in tutti i modi”.

Compromessa

L’Autorità Nazionale Palestinese, come sempre, è compromessa, divisa tra il suo desiderio di evidenziare le responsabilità di Israele e il suo evidente fallimento nel portare avanti le proprie. Le scadenze per l’arrivo del vaccino sono arrivate e passate, ma tale vaccino deve ancora materializzarsi. La ministra della Salute palestinese, Mai al-Kaila, ha annunciato che il suo ministero ha approvato il vaccino russo Sputnik V per l’uso d’emergenza in Palestina e che “non appena arriverà” sarà distribuito agli operatori sanitari, ai malati e agli anziani.

E il MOH [ministero della Salute palestinese] ha già ricevuto una lettera formale da AstraZeneca secondo cui i vaccini arriveranno “tra la metà e la fine” di febbraio. Dichiarazioni vaghe, ma ancora nessun piano per un programma di vaccinazione di massa. Il MOH afferma che sta lavorando con l’OMS e le società private per garantire il maggior numero di vaccini possibile, ma il divario tra parole e azioni non è mai stato così evidente.

Con l’indifferenza della comunità internazionale, ciò è destinato a persistere. I membri palestinesi della Knesset hanno fatto appello a Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite, riguardo la responsabilità di Israele di distribuire vaccini nell’area che l’ONU designa come Territori Palestinesi Occupati (TPO).

“Nello specifico il governo israeliano dovrebbe rendere noto il numero di dosi riservate ai palestinesi nei territori occupati, fornire una tempistica specifica per il loro trasferimento, garantire che i vaccini assegnati alle popolazioni palestinesi siano della stessa qualità di quelli distribuiti ai cittadini israeliani, facilitare l’ingresso nei TPO di vaccini e dispositivi medici e revocare il blocco della Striscia di Gaza per garantire che il sistema sanitario palestinese possa funzionare correttamente”, ha scritto a Lynk il dottor Yousef Jabareen, a capo del comitato per le relazioni internazionali della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

La comunità internazionale non solo ha accettato che Israele rimanga impunito rispetto al diritto internazionale, ma ne è diventata complice. La terza agenzia per la fornitura di aiuti sanitari ai palestinesi è l’UNWRA, i cui finanziamenti si sono prosciugati per opera del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ma anche dei suoi alleati arabi.

Gli aiuti degli Emirati Arabi Uniti all’UNWRA – $ 52 milioni [43 milioni di euro, ndtr.] nel 2018, sono stati ridotti a $ 1 milione [830.000 euro, ndtr.] nel 2020. Anche l‘Arabia Saudita ha tagliato, tra il 2018 e il 2020, i suoi finanziamenti di $ 20 milioni [17 milioni di euro, ndtr.].

Bindman lamenta la mancata applicazione del diritto internazionale e suggerisce che la risposta giusta della comunità internazionale sarebbe costituita dalle sanzioni da parte dei Paesi membri delle Nazioni Unite. “L’applicazione del diritto internazionale è estremamente debole perché dipende dalla volontà delle Nazioni che lo stanno violando di correggere i propri errori”.

Alla domanda se la saga del Covid sarebbe motivo valido per delle sanzioni contro Israele, Bindman ha risposto: “Assolutamente sì”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è il redattore capo di Middle East Eye. Ha lavorato per The Guardian [quotidiano britannico indipendente, nato a Manchester nel 1821, con sede a Londra, ndtr.] come capo redattore agli esteri. Nel corso di una carriera durata 29 anni, ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato da parte dell’IRA, Esercito Repubblicano Irlandese, nei confronti del primo ministro Margareth Thatcher avvenuto il 12 ottobre 1984 al Grand Brighton Hotel di Brighton, in Inghilterra, in cui la Thatcher rimase illesa ma morirono 5 esponenti del suo partito, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulle reazioni lealiste in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del Nord, sui primi conflitti dopo la scissione dall’ex Jugoslavia di Slovenia e Croazia, sulla fine dell’Unione Sovietica, sui fatti della Cecenia con lo scoppio dei relativi focolai di guerra. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per Guardian Europe, quindi è passato nel 1992 alla sede editoriale di Mosca, prima di diventare capo redattore nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nella redazione esteri, è diventato editorialista europeo e poi editorialista associato per il settore esteri. È entrato a far parte di The Guardian da The Scotsman [giornale scozzese con sede ad Edimburgo, ndtr.], dove ha lavorato come corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La chiesa ortodossa di Gerusalemme accusata di voler vendere terreni come ‘lotti da colonizzare’

Qassam Muaddi, Betlemme, Cisgiordania occupata

5 gennaio 2021 – Middle East Eye

Se venduta, la terra collegherebbe la colonia di Gilo nell’area di Betlemme a Gerusalemme, mette in guardia un importante gruppo di base cristiano palestinese

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha suscitato indignazione per la recente rivelazione dei piani di vendita di circa 27 acri [circa 11 ettari, ndtr.] di proprietà della chiesa a due società israeliane che mirano a collegare una colonia [sita] nell’area di Betlemme a Gerusalemme.

Il Consiglio centrale ortodosso in Palestina (OCCP), un’organizzazione di base cristiano- palestinese, ha criticato la decisione martedì scorso, che coincideva per la chiesa ortodossa con la vigilia di Natale, nel corso di una conferenza stampa.

L’OCCP ha riferito che il patriarca di Gerusalemme – uno dei nove patriarchi della chiesa ortodossa orientale – è pronto a vendere la proprietà della chiesa a due società israeliane che presumibilmente intendono utilizzarla per progetti turistici e abitativi.

La proprietà in questione è annessa al monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], situato su una collina che domina la zona sud di Betlemme.

“Si tratta di un progetto recente, che risale allo scorso settembre, [che] mira al completamento di una cintura di colonie israeliane, estesa dall’insediamento di Gilo vicino alla città palestinese di Beit Jala fino a Talpiot a Gerusalemme”, riferisce a Middle East Eye il portavoce dell’OCCP Jalal Barham.

Barham ammonisce sul fatto che una volta fatto l’acquisto il progetto territoriale israeliano “distruggerà l’economia di Betlemme fondata sul turismo”.

Le colonie israeliane sono considerate illegali sulla base del diritto internazionale.

Mettere a tacere chi si oppone

L’operazione, secondo l’OCCP, vale 125 milioni di shekel (32 milioni di euro). Le due società israeliane intenzionate ad acquistare il terreno sono state identificate come Talpiot Hadasha e Broeket Habsaga, società appaltatrici che operano nella Gerusalemme est occupata.

Barham afferma che l’OCCP è stato in grado di accedere ai dettagli dell’accordo tramite un casellario giudiziario israeliano, “che chiunque può consultare via internet”.

Ma un funzionario dell’Alto Comitato presidenziale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per gli affari delle chiese (HCC) ha detto a MEE che “i documenti prodotti dall’OCCP sono da mettere in dubbio”. L’HCC è l’organo palestinese ufficiale incaricato delle relazioni tra il governo palestinese e le chiese cristiane.

Tuttavia Barham sostiene che le affermazioni dell’HCC contrarie alla validità dei documenti raccolti sulla vendita sono inventate, e nel menzionare i documenti giudiziari israeliani pubblicamente disponibili riferisce a MEE che tali documenti “non provengono da fonti segrete”.

L’OCCP è stata avversata nei suoi interventi contro l’accordo sulla [vendita della] terra attraverso l’annullamento della sua prima conferenza stampa programmata da parte di autorità ignote.

Barham afferma che l’ufficio del governatore di Betlemme inizialmente aveva riferito al gruppo che la sua conferenza stampa era stata annullata da “alti funzionari”.

“Abbiamo contattato il governo palestinese a Ramallah e ci hanno detto che nessuno aveva dato un ordine di vietare la conferenza stampa e che avevamo il pieno diritto di organizzarla”, dice Barham.

“Deduciamo – aggiunge – che la pressione rivolta ad impedire la conferenza stampa sia arrivata dal Comitato presidenziale superiore per gli affari delle chiese“.

“L’HCC ha esercitato in passato pressioni nei nostri confronti per impedirci di denunciare la complicità ortodossa nell’insediamento coloniale israeliano di Gerusalemme”, afferma.

L’HCC nega tuttavia di aver tentato di bloccare la conferenza stampa, e riferisce a MEE che i suoi avvocati “stanno seguendo tutti i casi di vendita di proprietà della chiesa ai coloni”, ma che non avrebbero tentato di mettere a tacere nessun altro riguardo l’analisi di tali procedure.

Una polemica secolare

Sebbene gli accordi controversi sulle terre del patriarcato ortodosso siano diventati negli ultimi anni un tema scottante tra i palestinesi, le tensioni tra la gerarchia della chiesa ortodossa di Gerusalemme e i membri palestinesi della congregazione sono vecchie di secoli.

“La questione ortodossa in Palestina è il risultato dell’egemonia greca sulla chiesa di Gerusalemme, che risale al 1534, quando l’impero ottomano rimosse l’ultimo patriarca autoctono arabo di Gerusalemme, Atallah II, e lasciò che la chiesa greca nominasse il suo sostituto,” riferisce a MEE Alif Sabbagh, membro del Consiglio centrale ortodosso in Israele.

“Da allora – afferma – la chiesa greca controlla la comunità ecclesiastica e tutte le sue proprietà“.

Nel frattempo l’OCC ha insistentemente richiesto il diritto di “arabizzare la chiesa” nominando un patriarca locale.

“Questo è del tutto comprensibile”, dice Sabbagh.

“Tutti i vescovi del mondo sono cittadini appartenenti al loro stesso popolo, tranne che in Palestina. La gerarchia ecclesiastica è estranea alla popolazione e alla loro causa, motivo per cui non riesce a vedere il problema nella vendita di proprietà ai coloni israeliani”.

Le proprietà della chiesa ortodossa a Gerusalemme e nella sua diocesi, che comprende tutto il mandato palestinese, sono amministrate dalla “Confraternita del Santo Sepolcro”, in prevalenza greca, costituita nel XVI secolo.

“La costituzione della Confraternita è completamente laica e si occupa solo dell’amministrazione della proprietà, che considera esplicitamente come appartenente alla ‘Nazione greca’, e quindi può fare di quella proprietà qualunque cosa gli piaccia”, spiega Sabbagh.

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha realizzato in passato degli accordi su grandi estensioni di terre, compreso, nel 1951, un contratto di affitto, per un periodo di 99 anni, di un terreno di proprietà della chiesa [situato] a Gerusalemme ovest, al Fondo Nazionale Ebraico [ente no-profit, con poteri para-statali, dell’Organizzazione sionista mondiale fondato nel 1901 a Basilea per comprare e sviluppare terre nella Palestina ottomana per l’insediamento degli ebrei, ndtr.]. Oggi, il terreno ospita la maggior parte delle istituzioni statali israeliane, inclusa la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana.

Nel frattempo, il patriarca ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, dovrebbe arrivare a Betlemme giovedì per celebrare la messa di mezzanotte di Natale secondo il calendario orientale, una visita che l’OCCP e gruppi scout della chiesa palestinese hanno invitato a boicottare.

Il boicottaggio delle visite natalizie del patriarca Teofilo III è in corso da quattro anni consecutivi, in segno di denuncia del coinvolgimento del patriarca nella vendita e affitto di immobili appartenenti alla chiesa ortodossa a società appaltatrici delle colonie israeliane.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un rave, una DJ e un dibattito: i palestinesi scandalizzati da un tecno-party in un luogo sacro

Akram Al-Waara – Ramallah, Cisgiordania occupata

31 dicembre 2020 – Middle East Eye

Nonostante fosse stata concessa l’autorizzazione per l’evento, il governo palestinese ha arrestato la famosa DJ palestinese Sama Abdulhadi e la tiene in carcere da quindici giorni

* Nota redazionale. Oggi 4 gennaio Sama Abdulhadi è stata scarcerata su cauzione ma rimane inquisita e non può lasciare la Palestina per Parigi dove abita.

Una festa organizzata sabato ha suscitato una polemica all’interno della società palestinese e scatenato un acceso dibattito sulla cultura e la religione. Questo clamore fa seguito alla diffusione di video che mostrano gente che fa festa bevendo e ballando nell’antico sito di Nabi Moussa, un luogo sacro musulmano situato nella Cisgiordania occupata, che secondo la tradizione islamica sarebbe il luogo di sepoltura di Mosè.

In un video ampiamente diffuso giovani palestinesi ballano sotto giochi di luce al suono di una musica tecno all’interno di un’antica costruzione a Nabi Moussa, tra Gerico e Gerusalemme.

In un altro video si vede un gruppo di giovani interrompere la festa gridando ai partecipanti: “Fuori! Subito! Uscite!”. Uno dei partecipanti risponde che hanno il permesso del Ministero del Turismo palestinese.

Ciononostante i giovani insistono nel disperdere i festaioli e si avvicinano alla DJ di fama internazionale Sama Abdulhadi – ritenuta la prima donna DJ professionista palestinese -, che fa filmare un video sul sito. 

Si sente Sama Abdulhadi pregare le persone che le si avvicinano: “Siamo desolati, siamo desolati, ce ne andiamo. Vi giuro che ce ne andiamo.”

Lunedì le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno arrestato Sama Abdulhadi e l’ hanno fermata per interrogarla, pur se i responsabili non hanno specificato i motivi del suo arresto. Martedì un giudice ha deciso di prorogare la sua detenzione di quindici giorni.

Una festa “immorale” e “irrispettosa”

Il video ha suscitato l’indignazione di molti palestinesi per i quali questa festa è un affronto all’islam e una “profanazione” del luogo sacro. Il giorno seguente fedeli palestinesi si sono recati a Nabi Moussa e hanno organizzato una manifestazione per pregare nella moschea del sito e condannare una festa “immorale” e “irrispettosa”.

Contemporaneamente si è visto sulle reti sociali uno slancio di solidarietà da parte di utenti di internet palestinesi e stranieri in difesa di Sama Abdulhadi, mentre una petizione per la sua liberazione è stata firmata da migliaia di fan e simpatizzanti.

Nei giorni successivi alla festa, dei video di palestinesi che esprimevano la propria indignazione hanno inondato Twitter, TikTok e Facebook; alcuni di loro chiedevano che i partecipanti alla festa, gli organizzatori ed i rappresentanti del governo che hanno concesso il permesso fossero ritenuti responsabili.

Ciò che è accaduto a Nabi Moussa è abbastanza sconvolgente per noi, in quanto palestinesi: è qualcosa che non possiamo accettare”, confida a Middle East Eye Alaa al-Daya, una studentessa di 23 anni originaria di Gerusalemme.  

Secondo me non è una bella cosa fare questo genere di feste in un luogo che ha tanta importanza religiosa e culturale per le persone”, sostiene.

La giovane spiega che il concetto di rave party, per di più nel luogo di un’antica moschea, non è accettato da una gran parte della comunità palestinese.

Secondo i partecipanti e gli organizzatori della festa l’evento aveva lo scopo di celebrare e preservare la cultura palestinese, precisa.

Ma io non sono d’accordo. Fare festa e bere non sono cose condivise da tutti i palestinesi. Ci sono altri modi per celebrare e proteggere la nostra cultura”, afferma.

Se si fosse trattato di un festival di dabkeh (danza tradizionale araba) o di musica tradizionale palestinese, forse le persone non vi avrebbero visto un problema così grave.”

Invece lo zio di Sama Abdulhadi, Samir Halileh, ha dichiarato che sua nipote faceva un video e intendeva ricreare un’ambientazione caratteristica della musica tecno. Ha aggiunto che le voci sulla presenza di droga erano infondate.

Affermazioni contraddittorie

I responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono affrettate a smentire ripetutamente le affermazioni secondo cui il Ministero del Turismo aveva rilasciato un’autorizzazione per l’evento. Analogamente, il Ministero degli Affari Religiosi e quello del Turismo hanno subito dichiarato di non essere stati informati dell’evento.

Osama Estetia, responsabile dei musei del Ministero del Turismo, ha però dichiarato mercoledì che, quando avevano ricevuto la richiesta per filmare il sito allo scopo di promuoverlo in rete, i suoi servizi non erano stati informati del tipo di musica che sarebbe stata suonata.

L’impiegato che ha ricevuto la richiesta ha risposto trasmettendo un elenco di condizioni, in particolare il rispetto dei regolamenti del sito, delle procedure di pubblica sicurezza, della rilevanza religiosa e della privacy del santuario”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla rete televisiva Al-Watan.

Osama Estetia ha declinato ogni responsabilità riguardo ai fatti, affermando che il ministero aveva chiesto agli organizzatori di coordinarsi con il governatorato di Gerico, in quanto il ministero non era responsabile della gestione del sito stesso.

Secondo lui erano stati gli organizzatori a proporre quel luogo, affermazione contraddetta dal capo della Commissione palestinese indipendente per i diritti umani, Ammar Dweik, che ha affermato il contrario.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato la creazione di una “commissione d’inchiesta” per scoprire ciò che è avvenuto e anzitutto perché la festa sia stata organizzata a Nabi Moussa.

Mahmoud al-Habbash, consigliere del presidente Mahmoud Abbas per le questioni religiose, ha pubblicato un comunicato in cui afferma di provare “disgusto e rabbia per quel che è avvenuto alla moschea di Nabi Moussa.”

Non so ancora chi sia responsabile di questo peccato, ma, chiunque sia, la sanzione sarà all’altezza dell’atrocità commessa. Una moschea è una casa di dio, il suo carattere sacro è il carattere sacro della religione stessa”, ha dichiarato.

Sama è un capro espiatorio”

Secondo lo zio di Sama Abdulhadi l’evento ha avuto luogo con l’approvazione del ministero e il problema sta nella definizione del sito stesso, cioè se si tratti di un sito sacro religioso o di un sito turistico che ospita un albergo, delle piazze e una moschea.

È chiaro che Sama è stata vittima di questo contrasto sulla definizione del luogo. Noi non accettiamo l’idea di aver urtato delle sensibilità religiose o profanato un luogo sacro e la disputa sulla natura del sito deve essere definita dal governo.”

Samir Halileh sostiene che sua nipote, che è disposta a collaborare, dovrebbe essere liberata e che dovrebbe essere doverosamente condotta un’inchiesta.

L’insieme del sito occupa 5.000 m2 e la moschea 60 m2. Ci siamo assicurati presso il Ministero del Turismo che fosse possibile organizzarvi una festa”, ha dichiarato alla tv Al-Watan [rete televisiva palestinese accusata da Israele di essere vicina ad Hamas, ndtr.].

Ci hanno detto che il sito comprendeva grandi cortili e che i turisti vi avevano accesso.”

Poco dopo il suo arresto ha iniziato a circolare una petizione per la liberazione di Sama Abdulhadi. Giovedì scorso contava circa 76.000 firme. Secondo la petizione l’incidente avvenuto a Nabi Moussa ha provocato “una feroce campagna di disinformazione sulle reti sociali, che ha alimentato reazioni violente e attacchi personali contro Sama.”

La petizione sottolinea anche il fatto che gli organizzatori hanno sicuramente ricevuto un’autorizzazione scritta dal Ministero del Turismo, che controlla il sito, ma altresì che la festa si è svolta nella zona del “bazar” e non dentro la moschea.

Il ministero era a conoscenza del genere di musica che sarebbe stata suonata durante il concerto – la musica tecno – e che il concerto sarebbe stato filmato in questo sito archeologico (…) allo scopo di promuovere i siti rilevanti del patrimonio palestinese e la musica tecno palestinese presso il pubblico musicale di tutto il mondo.”

Sama Abdulhadi e gli organizzatori del concerto non si sono forse resi conto che questo genere di musica non era consono al sito e alle sue implicazioni storiche, religiose e culturali, ma ciò non toglie che il Ministero del Turismo abbia l’intera responsabilità della decisione di autorizzare lo svolgimento del concerto”, specifica la petizione.

Tra i firmatari della petizione figura l’avvocata ed attivista palestinese-americana Noura Erakat, che ha dichiarato in un post su Facebook di aver firmato la petizione in quanto ritiene che Sama Abdulhadi sia “un capro espiatorio dell’Autorità Nazionale Palestinese.”

Per Alaa al-Daya, la giovane studentessa, gli organizzatori avrebbero dovuto essere informati meglio e Sama non avrebbe dovuto essere arrestata; secondo lei la vera responsabilità è del governo.

È chiaro che adesso il governo cerca di salvare la faccia e di addossare la colpa a qualcun altro, dopo aver visto le reazioni negative che tutto ciò ha provocato”, afferma.

L’hanno arrestata solo per dimostrare di aver preso misure contro la festa. Sama non dovrebbe essere in carcere. È la persona che ha autorizzato la festa che dovrebbe esserci.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La verità che sta dietro la propaganda israeliana sull’ “espulsione’ degli ebrei arabi

Joseph Massad

15 dicembre 2020 – Middle East Eye

La vergognosa montatura di Israele riguardo all’immigrazione degli ebrei arabi in Israele negli anni ’40 e ’50 è un tentativo di mascherare le ingiustizie inflitte ai palestinesi

La propaganda israeliana riguardo all’“espulsione” di ebrei arabi da Paesi arabi alla fine degli anni ’40 e all’inizio dei ’50 prosegue senza sosta. Secondo un articolo di Ynet [sito di notizie del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, ndtr.] all’inizio di questo mese l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan ha informato il segretario generale dell’ONU Antonio Gutterres di aver intenzione di “sottoporre una bozza di risoluzione in cui si chiede all’istituzione internazionale di tenere ogni anno una commemorazione delle decine di migliaia di ebrei esiliati da Paesi arabi a causa della creazione dello Stato di Israele.”

Le falsificazioni israeliane riguardo all’immigrazione di ebrei arabi in Israele sono talmente vergognose che ogni anno il 30 novembre il Paese tiene una commemorazione. Questa data, guarda caso, coincide con la pulizia etnica della Palestina da parte delle bande sioniste, iniziata il 30 novembre 1947, il giorno dopo che l’Assemblea generale dell’ONU adottò il piano di partizione [della Palestina, ndtr.]. La scelta della data intende coinvolgere gli ebrei arabi nella conquista della Palestina, mentre la maggioranza di loro non ebbe nessun ruolo in essa.

Erdan sostiene che, dopo la fondazione della colonia di insediamento israeliana, i Paesi arabi “lanciarono un attacco generalizzato contro lo Stato di Israele e contro le fiorenti comunità ebraiche che vivevano nel mondo arabo.” Le falsità israeliane, con cui Israele spera sempre di obbligare gli Stati arabi a pagare a Israele miliardi di dollari, hanno un altro importante obiettivo: assolvere Israele dal suo peccato originale per aver espulso i palestinesi nel 1948 e aver rubato le loro terre e proprietà.

Tranelli ideologici

Nel dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ordinò che ai rifugiati palestinesi venisse consentito di tornare alle loro case e che venissero compensati per la distruzione e il furto delle loro proprietà da parte di Israele. Israele non solo vuole tenersi tutte quelle terre, ma anche estorcere ad alcuni Paesi arabi il pagamento di altri miliardi.

È un’ulteriore ironia degli intrighi israeliani: Israele ha sempre insistito che la Palestina, e in seguito Israele, sono la patria dell’ebraismo mondiale, sostenendo nel contempo che gli ebrei arabi che immigrarono in Israele siano “rifugiati”. La definizione giuridica e universalmente accettata di rifugiato, tuttavia, è una persona che è stata espulsa o è scappata dalla propria patria, non che vi è “tornata”.

A parte questo sotterfugio ideologico, la storia dell’emigrazione degli ebrei arabi in Israele non  riguarda l’espulsione da parte dei regimi arabi, ma piuttosto le azioni criminali israeliane che obbligarono gli ebrei di Yemen, Iraq, Marocco, Egitto e di altri Paesi ad andarsene in Israele.

Nel 1949 il governo israeliano stava lavorando assiduamente con le autorità coloniali britanniche ad Aden e con funzionari yemeniti per organizzare un ponte aereo verso Israele. Secondo il libro dell’illustre storico israeliano Tom Segev “1949: i primi israeliani”, mentre la Lega degli Stati arabi aveva deciso di vietare l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele fin dal febbraio 1949, con l’aiuto degli emissari sionisti e di mazzette israeliane per i governanti provinciali yemeniti l’imam dello Yemen consentì agli ebrei di andarsene.

Alcuni dei governatori provinciali chiesero che almeno 2.000 ebrei rimanessero, in quanto era un dovere religioso dei musulmani proteggerli, ma l’emissario sionista insistette che per loro era un “comandamento” religioso ebraico andare nella “Terra di Israele”. Secondo Segev ed altre fonti, il fatto che il primo ministro israeliano dell’epoca fosse David Ben Gurion suggerì anche a molti che Israele “fosse il regno di David”. Decine di migliaia di ebrei vennero spinti ad abbandonare le proprie case e ad andare in Israele.

Discriminazione istituzionalizzata

Riguardo agli ebrei che scelsero di rimanere, l’emissario ebreo ad Aden, Shlomo Schmidt, chiese il permesso di proporre che le autorità yemenite li espellessero, ma esse non lo fecero.

Secondo Segev ed altre fonti, alcuni dei bagagli degli ebrei che partirono, compresi antichi rotoli della Torah, gioielli e indumenti ricamati, che erano stati incoraggiati a portare con sé, sparirono lungo il tragitto e misteriosamente “finirono nei negozi di antichità e souvenir in Israele.”

Dal 1949 e il 1950 circa 50.000 ebrei yemeniti vennero sostanzialmente portati via dallo Yemen dagli israeliani e in Israele dovettero affrontare la discriminazione istituzionalizzata da parte degli ashkenaziti [ebrei di origine europea e classe dirigente in Israele, ndtr.]. Ciò incluse la sottrazione di centinaia di bambini yemeniti ai loro genitori, a cui venne detto che erano morti. A quanto pare i bambini furono poi affidati in adozione a coppie ashkenazite.

I sionisti si attivarono anche per mettere in atto l’emigrazione degli ebrei marocchini in Israele. All’epoca il Marocco era sotto occupazione militare francese, per cui l’Agenzia Ebraica dovette trovare un accordo con il governatore francese del Marocco per organizzare l’emigrazione degli ebrei marocchini, che secondo Segev e altre fonti dovettero affrontare terribili condizioni sulle navi israeliane. Secondo l’inviato dell’Agenzia Ebraica, alcuni dei 100.000 ebrei che se ne andarono dovettero essere di fatto “presi a bordo delle navi con la forza.”

Nel contempo il governo irakeno di Nuri al-Said, uomo forte dei britannici nel Medio oriente arabo, venne ingiustamente accusato dalla propaganda israeliana di perseguitare gli ebrei, mentre in realtà si trattava di invenzioni israeliane. Agenti sionisti iniziarono a svolgere attività in Iraq, facendo passare clandestinamente ebrei in Israele attraverso l’Iran, il che portò a procedimenti giudiziari contro un pugno di sionisti.

Poi iniziarono gli attacchi contro gli ebrei iracheni, compreso quello presso la sinagoga Masuda Shemtov di Baghdad, in cui vennero uccisi 4 ebrei e un’altra decina venne ferita. Alcuni ebrei iracheni credettero che questo fosse il lavoro di agenti del Mossad, inteso a spaventare gli ebrei fino a fargli lasciare il Paese. Le autorità irachene accusarono e giustiziarono attivisti dei gruppi clandestini sionisti.

Tra la campagna globale di Israele per fare pressione sull’Iraq perché consentisse agli ebrei di andarsene, che portò ai tentativi israeliani di bloccare i crediti della Banca Mondiale all’Iraq, e le pressioni americane e britanniche, il parlamento iracheno cedette ed emanò una legge che consentiva agli ebrei di andarsene. Agenti sionisti in Iraq telegrafarono al loro responsabile a Tel Aviv: “Stiamo portando avanti la nostra solita attività per far passare la legge più rapidamente.” I 120.000 ebrei iracheni vennero quindi rapidamente trasferiti in Israele.

Prendere di mira interessi europei

Nella relativamente ridotta comunità ebraica egiziana un numero ancora più esiguo era composto da ashkenaziti (per lo più alsaziani e russi), arrivati fin dagli anni ’80 dell’Ottocento. Ma la comunità più numerosa era composta da ebrei sefarditi che erano arrivati nello stesso periodo da Turchia, Iraq e Siria, oltre ad una piccola comunità di ebrei karaiti [originari della Crimea, ndtr.]. In tutto erano meno di 70.000, metà dei quali non aveva la nazionalità egiziana.

L’attivismo sionista tra la piccola comunità di ebrei ashkenaziti in Egitto portò alcuni ad andare in Palestina prima del 1948, tuttavia fu dopo la fondazione di Israele che molti ebrei della classe alta egiziana iniziarono a andarsene verso la Francia, non in Israele. Ciononostante la comunità rimase essenzialmente intatta fino a quando nel 1954 Israele intervenne, reclutando ebrei egiziani per una cellula terroristica che piazzò bombe in cinema egiziani, nella stazione ferroviaria del Cairo e in strutture educative e biblioteche americane e britanniche.

Gli israeliani speravano che, prendendo di mira interessi occidentali in Egitto, avrebbero potuto guastare gli allora amichevoli rapporti tra il presidente egiziano e gli americani.

L’intelligence egiziana scoprì la cellula terroristica israeliana e processò gli imputati in un’udienza pubblica. Secondo il libro di David Hirst The Gun and the Olive Branch [Il fucile e il ramo d’ulivo] ed altre fonti, gli israeliani montarono una campagna internazionale contro l’Egitto e il presidente Gamal Abdel Nasser, che venne definito l’“Hitler del Nilo” dalla stampa israeliana ed internazionale, mentre agenti israeliani spararono contro il consolato egiziano a New York.

Unita alla nuova campagna socialista e nazionalista di egittizzazione degli investimenti nel Paese, molti ricchi uomini d’affari iniziarono a vendere le proprie attività economiche e ad andarsene.

Nel momento in cui, alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 iniziò la nazionalizzazione, la maggior parte delle attività nazionalizzate era di fatto di proprietà di egiziani musulmani e cristiani, non ebrei. Fu in questo contesto e in quello dell’ira dell’opinione pubblica contro Israele che molti ebrei egiziani ebbero paura e se ne andarono dopo il 1954 negli USA e in Francia, mentre i poveri finirono in Israele (come raccontato nel libro di Joel Beinin Dispersion of Egyptian Jewry [La dispersione degli ebrei egiziani]).

Quando Israele si unì alla cospirazione franco-britannica per invadere l’Egitto nel 1956 [la guerra per il canale di Suez, ndtr.] e dopo la sua occupazione militare della penisola del Sinai, ne seguì un’ondata di rabbia contro la colonia di insediamento. Secondo Beinin, il governo egiziano arrestò circa 1.000 ebrei, metà dei quali cittadini egiziani, e la piccola comunità ebraica egiziana iniziò ad andarsene in massa. Nel 1967, all’epoca della seconda invasione dell’Egitto, nel Paese rimanevano solo 7.000 ebrei.

Inviti formali

Nonostante la responsabilità israeliana nel provocare l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi, il governo israeliano continua ad accusare i governi arabi. Riguardo alle loro proprietà, in effetti, essi devono tornarne in possesso e/o essere indennizzati, non in conseguenza di una qualche narrazione di espulsioni inventate che serve agli interessi dello Stato di Israele, ma a causa del loro reale diritto di proprietà.

Contrariamente alla propaganda israeliana secondo cui si trattò di uno scambio di popolazione, è significativo che, mentre agli ebrei europei ed arabi che emigrarono in Israele vennero date gratis terre e proprietà di palestinesi espulsi, secondo lo storico israeliano Benny Morris e altre fonti, i palestinesi non ottennero le proprietà degli ebrei arabi che emigrarono in Israele.

Certamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che nel 1947 venne riconosciuta dalla Lega Araba e dall’ONU come “l’unica legittima rappresentante del popolo palestinese”, era ben consapevole di questa strategia israeliana. Conscia del fatto che l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele era stato un vantaggio per il colonialismo di insediamento israeliano, in un memorandum del 1975 molto pubblicizzato dai governi arabi la cui popolazione ebraica era andata in Israele, l’OLP chiese che essi emettessero inviti formali e pubblici perché gli ebrei arabi tornassero alle loro case.

Cosa rilevante, nessuno dei governi e regimi del 1975 lo era al potere quando gli ebrei se ne erano andati, tra il 1949 e il 1967. Inviti pubblici ed espliciti vennero puntualmente emanati dai governi di Marocco, Yemen, Libia, Sudan, Iraq ed Egitto perché gli ebrei arabi tornassero, soprattutto alla luce delle discriminazioni razziste istituzionalizzate degli ashkenaziti che avevano subito in Israele. Né Israele né le comunità ebraiche arabe risposero a questi inviti.

Crimini ricompensati

A parte tutto ciò, c’è la questione degli incessanti tentativi di Israele di equiparare le perdite finanziarie degli ebrei arabi con quelle dei rifugiati palestinesi. Una prudente stima ufficiale israeliana che confronta le perdite di proprietà palestinesi con quelle degli ebrei arabi dà una differenza di 22 a 1 a favore dei palestinesi, nonostante la notevole sovrastima delle perdite degli ebrei arabi e una sottostima persino superiore delle perdite palestinesi.

Stime prudenti delle perdite dei rifugiati palestinesi ammontano a più di 300 miliardi di dollari [245 miliardi di euro, ndtr.] in prezzi del 2008, escludendo i danni per pene e sofferenze psicologiche, che incrementerebbero in modo notevole la somma totale. Ciò esclude le perdite in terre e proprietà subite dai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 e quelle dei palestinesi nella Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est, occupate dal 1967.

Mentre nessuno dei regimi arabi del periodo in cui gli ebrei arabi emigrarono in Israele è attualmente al potere, lo stesso regime israeliano di colonialismo di insediamento che espulse il popolo palestinese e architettò l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi lo è ancora.

Eppure nella sua lettera Erdan lamenta che “fa rabbia vedere che l’ONU celebra un giorno speciale e dedica molte risorse alla questione dei ‘rifugiati palestinesi’, mentre abbandona ed ignora centinaia di migliaia di famiglie ebraiche deportate da Paesi arabi e dall’Iran.” L’ironia della lettera di Erdan è che chiede che il regime israeliano venga economicamente e moralmente risarcito per i crimini che ha commesso negli ultimi 70 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’avvocato israeliano “antiterrorista” fu condannato per aggressioni contro i palestinesi

9 dicembre 2020 – Middle East Eye

Aviel Leitner, che lavora per Shurat HaDin, venne incarcerato in seguito a delle aggressioni commesse negli anni ’80 a Gerusalemme est e in Cisgiordania e attribuite al partito di estrema destra Kach

Middle East Eye è in grado di rivelare che un avvocato impegnato in un’organizzazione israeliana che sostiene di essere dedita alla “lotta contro il terrorismo” nel corso degli anni ’80 venne egli stesso condannato per attacchi violenti contro civili e proprietà palestinesi nella Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania.

Aviel Leitner, che lavora per lo Shurat HaDin di Tel Aviv, noto anche come Israel Law Center [ONG israeliana dedita ad intentare cause nei confronti di chi critica le politiche israeliane, ndtr.] faceva parte di un gruppo legato al partito di estrema destra Kach [partito di estrema destra razzista dei coloni fondato dal rabbino statunitense Meir Kahane, ndtr.], accusato di aver compiuto sei attacchi nel 1983 e nel 1984. Tra questi una sparatoria vicino a Ramallah contro un autobus che trasportava lavoratori palestinesi, in cui rimasero ferite sei persone.

Leitner, marito di Nitsana Darshan-Leitner, fondatrice di Shurat HaDin, fu infine condannato nel 1986 a 30 mesi di prigione, dopo che le autorità israeliane furono costrette a chiedere la sua estradizione dagli Stati Uniti, dove era fuggito mentre si trovava libero su cauzione.

Le rivelazioni giungono alla vigilia della partecipazione di Shurat HaDin a una conferenza annuale organizzata questo giovedì dalla organizzazione lobbistica filo-israeliana NGO Monitor [associazione filo-israeliana che controlla e calunnia le ong solidali con i palestinesi, ndtr.] di Gerusalemme. Il titolo della conferenza è “Leader del terrorismo attivisti per i diritti umani: smascherare la facciata”.

Tra i relatori alla conferenza via internet ci sono Darshan-Leitner e Noam Katz, il vicedirettore generale e responsabile della diplomazia pubblica per il Ministero degli Affari esteri israeliano.

Sia NGO Monitor che Shurat HaDin sono noti per aver attaccato organizzazioni che documentano le violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità israeliane e che forniscono sostegno alla società civile palestinese.

Shurat HaDin si descrive come “in prima linea nella lotta al terrorismo e nella salvaguardia dei diritti degli ebrei in tutto il mondo” e “dedito alla protezione dello Stato di Israele”. Sostiene di lavorare con “le agenzie di intelligence (e) le forze dell’ordine occidentali” e utilizza “i sistemi giudiziari di tutto il mondo per passare all’offensiva contro i nemici di Israele”.

Un’affermazione comune in questi casi è che gli attivisti palestinesi per i diritti umani avrebbero collegamenti diretti o indiretti con il terrorismo.

Secondo Human Rights Watch dal 1967 centinaia di organizzazioni palestinesi sono state proscritte dalle autorità di occupazione israeliane con regolare condanna dei palestinesi per reati di terrorismo nei tribunali militari.

Shurat HaDin sostiene di non essere affiliata al governo israeliano. Ma in un cablogramma diplomatico statunitense trapelato nel 2007 Darshan-Leitner dichiarava ai funzionari statunitensi che “nei suoi primi anni” Shurat HaDin “ha preso indicazioni dal GOI [governo di Israele] su quali casi perseguire”.

Il cablogramma cita Darshan-Leitner che affermava: “L’ufficio legale [israeliano] del Consiglio di sicurezza nazionale (NSC) ha individuato l’uso dei tribunali civili come un modo per fare cose che esso non è autorizzato a compiere”.

Membro del partito Kach

Gli attacchi per i quali Leitner – quando era conosciuto come Craig Arthur Leitner – e altri furono condannati sono stati documentati in una serie di rapporti resi pubblici.

Un rapporto sulla condanna di Leitner pubblicato nel 1986 sul quotidiano ebraico Maariv lo descriveva come attivo nel partito Kach, un movimento di estrema destra fondato dal rabbino Meir Kahane, attivista anti-arabo e politico israeliano noto per le sue opinioni radicali.

In Israele il partito Kach venne bandito nel 1994 dopo che il membro del partito Baruch Goldstein uccise 29 fedeli palestinesi nella moschea Ibrahimi di Hebron.

Secondo un libro del 2011, Jewish Terrorism in Israel [Terrorismo ebreo in israele, ndtr.], degli accademici israeliani Ami Pedahzur e Arie Perliger, Leitner, nato negli Stati Uniti, si trasferì in Israele dopo aver partecipato ai campi estivi della Jewish Defense League (JDL) nei monti Catskill nello Stato di New York, dove “i giovani assorbivano gli insegnamenti di Kahane e imparavano a usare la pistola”.

Il JDL, che venne co-fondato da Kahane, in un rapporto del 2000/2001 è stato descritto dall’FBI come una organizzazione “terrorista di destra”, i cui membri hanno una lunga storia di violenza anti-palestinese.

Secondo la documentazione giudiziaria degli Stati Uniti relativia al suo successivo caso di estradizione, Leitner e altri membri del partito Kach vennero accusati di aver compiuto “sei atti di terrorismo”, tra cui lancio di bombe molotov e attacchi incendiari contro case e veicoli palestinesi a Gerusalemme est e ad Hebron e contro la sede di un giornale a Gerusalemme est.

Nel marzo 1984 tre membri del gruppo, tra cui Leitner, furono arrestati subito dopo un attacco a fuoco che aveva preso di mira, vicino a Ramallah, i lavoratori palestinesi a bordo di un autobus.

L’imputato fu attivo nella pianificazione dell’attacco. Guidò i partecipanti sul luogo dell’attacco e mentre un complice sparava sull’autobus con un fucile M-16, ferendo sei civili arabi, l’imputato li aspettava per portarli via”, si legge in un memorandum.

‘Ricercato in Israele’

Dopo il suo arresto, e nonostante fosse divenuto un testimone di accusa, Leitner fuggi da Israele negli Stati Uniti. Lì, nel gennaio 1986, Leitner fu arrestato a New York all’interno del campus della facoltà di giurisprudenza della Pace University. Un articolo del New York Times sull’arresto lo descriveva come “ricercato in Israele con l’accusa di aver pianificato e condotto attacchi armati contro gli arabi”.

Nell’agosto del 1986, a seguito di vari procedimenti legali, tra cui il rifiuto di concedergli la libertà provvisoria, Leitner tornò in Israele dopo aver accettato un patteggiamento.

Secondo il resoconto di Maariv [popolare quotidiano israeliano, ndtr.], i pubblici ministeri israeliani accettarono di non perseguirlo per la fuga dal Paese e per la violazione di un accordo su una sua testimonianza d’accusa in cambio del suo ritorno volontario in Israele e della sua dichiarazione di colpevolezza relativa a tutte le sei accuse.

Leitner venne condannato a 30 mesi di prigione, ridotti di 13 mesi per il tempo intercorso tra il suo arresto e la fuga negli Stati Uniti.

L’attività di Leitner presso Shurat HaDin non è citata sul sito web dell’organizzazione e la sua pagina LinkedIn attesta che egli sarebbe un “consulente”.

Ha parlato a nome dell’organizzazione in recenti notizie relative a una causa intentata da Shurat HaDin contro la Cina, per la sua presunta negligenza nel trattare e contenere la pandemia da coronavirus.

In un’intervista su un programma audio religioso americano su internet, The Land and the Book [La Terra e il Libro, ndtr.], nel maggio 2019 Leitner è stato presentato come “uno dei fondatori dello Shurat HaDin Israeli Law Center“.

Ha riferito all’intervistatore che Shurat HaDin venne istituito tra il 2001 e il 2002 in risposta agli attacchi contro israeliani da parte dei palestinesi durante la Seconda Intifada.

“In mezzo a tutto quel caos, come gruppo di giovani avvocati abbiamo pensato che probabilmente avremmo potuto svolgere un ruolo”, ha dichiarato.

Tutti nella società pensano che gli avvocati non abbiano la forza per [impegnarsi in] cose così grandi, ma questo è qualcosa che gli avvocati possono fare e tra di noi stavamo cercando di pensare a quale ruolo avremmo potuto assumere … nel contrattacco. Così siamo andati avanti per quasi 20 anni “.

MEE ha contattato Shurat HaDin e NGO Monitor per un commento ma, al momento della pubblicazione, nessuno dei due ci ha risposto.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nella Cisgiordania occupata Israele traccia enormi strade che preparano la via a un’annessione di fatto

Clothilde Mraffko

Lunedì 7 dicembre 2020 – Middle East Eye

In un nuovo rapporto l’Ong israeliana Breaking the Silence svela circa 25 progetti israeliani di strade nella Cisgiordania occupata destinate a servire alla colonizzazione e a incoraggiarla nei prossimi anni. Middle East Eye vi ha avuto accesso in anteprima.

Da mesi i bulldozer mordono la montagna nei pressi di Betlemme. Il cantiere è gigantesco, si scavano tunnel e ponti a tutta velocità. Lo scopo? Costruire nuove strade per trasformare questo asse viario intasato mattina e sera in un’autostrada con un traffico scorrevole.

Il tratto di strada è percorso solo dai coloni israeliani che fanno ogni giorno il tragitto da Gush Etzion, gruppo di colonie situate a sud di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, fino a Gerusalemme, dove lavorano.

Invece i palestinesi non possono accedere a questo tratto: le loro strade passano dall’altra parte del muro di separazione che dal 2002 Israele ha costruito a Betlemme. In totale, entro 5 anni dovrebbero emergere dalla terra 37 km di tunnel, ponti e svincoli.

L’allargamento di questa “strada dei tunnel” fa parte di un progetto più grande, svelato questa settimana da Yehuda Shaul, cofondatore e importante membro dell’Ong israeliana “Breaking the Silence” in un nuovo rapporto scritto insieme alla nuova organizzazione che ha fondato, “The Israeli Centre for Public Affairs” [Il Centro Israeliano per le Questioni Pubbliche, ndtr.].

Secondo lui, mentre il mondo aveva gli occhi puntati sulle voci di un’annessione israeliana di una parte della Cisgiordania quest’estate, Israele procede da anni a un’annessione di fatto, imponendo cioè una serie di fatti sul terreno difficili da cancellare.

L’obiettivo è avere un milione di coloni israeliani entro dieci-venti anni,” spiega a Middle East Eye, aprendo con attenzione una cartina davanti a sé. Oggi più di 600.000 israeliani vivono a Gerusalemme est e in Cisgiordania, in totale violazione del diritto internazionale, e la loro presenza compromette gravemente la formazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile.

Incoraggiando la colonizzazione, Israele tende ormai a persuadere i coloni israeliani ad insediarsi sempre più in profondità nella Cisgiordania occupata. Estendendo la presenza israeliana, i dirigenti sionisti sperano di rendere impossibile qualunque spostamento di popolazione e di liquidare così definitivamente la soluzione a due Stati.

Ma per fare ciò ci vogliono delle strade. Per il momento la maggioranza dei coloni continua a lavorare in Israele, dall’altra parte della Linea Verde (il tracciato dell’armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi), dove si trovano le principali opportunità di lavoro. Fanno ogni giorno i pendolari su assi viari diventati troppo piccoli per assorbire la crescita delle colonie e della popolazione palestinese.

Galvanizzati da Trump

L’ultima volta che c’è stato un piano di sviluppo completo in Cisgiordania era il 1991. In seguito ci sono stati gli accordi di Oslo,” commenta Yehuda Shaul, che percorre instancabilmente le strade dei territori palestinesi per valutare l’avanzamento di questo “grande progetto”.

Nel rapporto pubblicato questo lunedì elenca circa 25 cantieri avviati o previsti per estendere le reti viarie nella Cisgiordania occupata e per migliorare i collegamenti tra le colonie e Israele.

I progetti infrastrutturali di Israele in Cisgiordania rafforzano il controllo israeliano sulla terra, frammentano il territorio palestinese e costituiscono un ostacolo importante per ogni soluzione che includa in futuro la pace e l’uguaglianza,” conclude il rapporto.

Negli ultimi anni gli eletti nei consigli dei coloni in Cisgiordania hanno fatto pressione, arrivando fino a scatenare nel 2017 uno sciopero della fame simbolico per ottenere più finanziamenti. I primi progetti sono stati presentati nel 2014, ma la presidenza Trump ha chiaramente galvanizzato le ambizioni israeliane.

Un grande progetto è una visione, non vuol dire che venga effettivamente realizzato, soprattutto per questioni di bilancio,” frena l’attivista di Breaking the Silence.

In particolare l’allargamento della strada dei tunnel verso Betlemme dovrebbe costare circa 850 milioni di shekel, circa 214 milioni di euro. Tutto attorno a Gerusalemme l’allargamento degli assi stradali che portano alle grandi colonie o la costruzione di nuove strade dovrebbero costare in totale circa 5 miliardi di shekel, 1.26 miliardi di euro.

Questi lavori servono innanzitutto agli interessi dei coloni israeliani e rafforzano la segregazione in atto in Cisgiordania. In qualche caso, come conseguenza dell’effetto di rimbalzo, queste strade favoriranno anche i palestinesi, esclusi dai grandi cantieri israeliani, riducendo il traffico su alcune strade.

La maggior parte dei progetti studiati da Breaking the Silence riguarda le tangenziali. Queste strade, sviluppate dalla metà degli anni ’90, permettono ai coloni di spostarsi tra colonie o verso Israele senza attraversare città o villaggi palestinesi.

Ormai Israele intende investire per trasformare la maggior parte delle strade in autostrade, oppure costruire dei prolungamenti.

Dopo la realizzazione di questi 25 progetti nessun colono, salvo ad Hebron (dove i coloni vivono all’interno della città), dovrà guidare nelle zone dove vivono i palestinesi,” spiega Yehuda Shaul.

In totale per i palestinesi saranno costruiti due assi stradali. L’idea è di permettere loro di aggirare la colonia di Maale Adumim, situata a 7 km ad est di Gerusalemme, per riservare ai coloni israeliani una strada che colleghi la colonia alla città santa senza posti di controllo, come se facesse parte della periferia naturale di Gerusalemme.

Ovviamente i palestinesi che non sono autorizzati ad entrare a Gerusalemme non potranno transitare su questa strada. Nel gennaio 2019 un tratto, soprannominato la “strada dell’apartheid”, era già stato aperto, con da una parte la carreggiata riservata ai palestinesi e dall’altra quella per quanti dispongono di una vettura con una targa israeliana, separate tra loro da un alto muro sormontato da una barriera.

La prova che questi progetti servono allo sviluppo israeliano è che seguono degli assi est/ovest, dalla Cisgiordania verso i luoghi di lavoro in Israele. Lo sviluppo naturale palestinese invece ha luogo attraverso le colline, da nord a sud,” commenta il coautore del rapporto.

L’ampiamento delle strade si accompagna anche all’“espropriazione di una notevole quantità di terreni. Vede queste linee? Sono le linee degli espropri,” sottolinea, al bordo di una strada che si dirige verso Hebron, nel sud della Cisgiordania.

Da ogni lato dei piccoli bastoni neri piantati profondamente nella terra si mangiano grandi porzioni di campi.

Non è consentito costruire ai bordi delle autostrade,” continua Yehuda Shaul.

Queste strade impediranno anche lo sviluppo delle enclave palestinesi. Così l’ingrandimento della strada dei tunnel impedirà ogni possibilità di espansione di Betlemme verso nord. Cambia anche il rapporto tra le città e i villaggi palestinesi, tagliati fuori le une dagli altri dai grandi assi viari che non servono a loro e li obbligano a delle deviazioni.

Nel 2019, in un’intervista al giornale israeliano Israel Hayom [quotidiano israeliano gratuito di destra, ndtr.] l’ex-ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich, del partito di estrema destra [dei coloni, ndtr.] Yamina, ha annunciato chiaramente: “Se si vuole portare un altro mezzo milione di abitanti in Giudea e Samaria (nome biblico che gli israeliani utilizzano per evitare di dire “Cisgiordania”), si deve essere sicuri che ci siano delle strade. Le colonie seguono le strade e i trasporti pubblici.”

Con questi 25 progetti, denunciano gli autori del rapporto, Israele accelera la sua politica di annessione di fatto, contribuendo a “definire ancor di più la situazione di uno Stato unico con disparità di diritti,” in spregio al diritto internazionale.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)