Proteste contro Netanyahu: si sta preparando una rivoluzione?

Orly Noy

20 luglio 2020 – Middle East Eye

Le recenti manifestazioni in Israele mostrano il potenziale sostanziale della sinistra ebraica per imporre un cambiamento radicale

Le vaste proteste di piazza della scorsa settimana di fronte al complesso residenziale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme sono iniziate quasi come una festa: percussioni all’aperto, gente che ballava nelle strade attorno a piazza Paris – una specie di Hyde Park, dove oratori si sono spontaneamente alternati su un palco improvvisato per fare i loro discorsi.

Parecchie ore dopo, prima della conclusione definitiva, verso l’una, l’assembramento è degenerato in duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con il blocco per un lungo periodo di tempo sia di una importante arteria che della metropolitana leggera di Gerusalemme. La polizia a cavallo ha caricato la folla, mentre altri usavano cannoni ad acqua per cercare di disperdere i dimostranti, decine dei quali sono stati arrestati.

La strenua resistenza dei manifestanti e la loro volontà di scontrarsi con la polizia hanno sorpreso molti. Alcuni commentatori hanno suggerito che in realtà ci siano state due diverse dimostrazioni: una protesta “perbene” contro la corruzione, seguita da disordini da parte di radicali, anarchici di sinistra che si sarebbero “impadroniti” della protesta originaria. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Sì, la prima parte della protesta è stata più calma e più “rispettabile”, ma solo un cieco e sordo potrebbe non aver individuato l’intensità della rabbia presente fin dall’inizio in quella piazza di fronte alla residenza di Netanyahu.

In quanto veterana manifestante di sinistra a Gerusalemme, non riesco a ricordare di aver mai visto in città un profilo tanto diverso di dimostranti: giovani e anziani, laici e religiosi, persino ultra-ortodossi. In un periodo in cui il timore del coronavirus fa sì che la gente ci pensi due volte prima di partecipare a riunioni di massa, questa ha attirato persone anziane con deambulatore e altri di gruppi molto radicali, tutti riuniti insieme.

I giovani che in seguito si sono scontrati con la polizia non erano separati dai manifestanti anziani che si sono riuniti lì all’inizio, ma erano piuttosto il loro servizio d’ordine.

Non c’erano palestinesi alla manifestazione, tranne un giovane che è salito sul palco ed ha parlato di apartheid e occupazione ed è stato molto applaudito dalla folla. Il giorno dopo, quando ho parlato con un’amica palestinese a questo proposito, mi ha detto: “Non è la nostra protesta.”

E naturalmente ha ragione: noi, l’opinione pubblica ebraica, siamo responsabili per aver introiettato le dimensioni dell’ingiustizia dell’attuale sistema; spetta a noi lavorare per sostituirlo con un sistema che offra uguale giustizia per tutti. La principale domanda oggi è se l’attuale movimento di protesta cerchi solo dei cambiamenti di facciata o se abbia un potenziale più radicale. Io penso di sì.

Corruzione di Stato

L’ultima manifestazione a Gerusalemme è avvenuta nove anni dopo le proteste sociali di massa del 2011. Quell’estate orde di giovani piazzarono tende lungo corso Rothschild nel centro di Tel Aviv per protestare contro la situazione, soprattutto l’alto costo della vita e i prezzi inaccessibili delle abitazioni. La delusione seguita a quell’ondata di proteste può facilmente suscitare dubbi sulle prospettive di quella attuale, ma ci sono fondamentali differenze.

Cosa più importante, a differenza delle proteste del 2011, che vennero a ragione viste come manifestazioni di giovani privilegiati di Tel Aviv che faticavano ad arrivare a fine mese nella città con gli affitti più elevati del Paese, dove era impossibile comprare anche uno yoghurt al cioccolato a un prezzo decente, l’attuale rivolta è significativamente più vasta in termini sia della sua base che del suo messaggio.

Non riguarda il prezzo del nostro yoghurt gelato preferito. Riguarda la corruzione nelle, e delle, regole generali. Non riguarda più neppure solo Netanyahu. Sì, la richiesta delle sue dimissioni è ancora centrale, ma ora Benny Gantz, il generale che era stato visto come l’alternativa più onesta a Netanayhu, si è unito al governo arrogante e corrotto di quest’ultimo.

Evidentemente ora più israeliani comprendono che il problema non è Netanyahu in sé, ma qualcosa di più profondo e marcio. Nell’emergere di questa consapevolezza c’è, credo, un grande potenziale di radicalizzazione.

Un’altra significativa differenza è che le proteste del 2011, come molte altre in Israele, evitarono accuratamente ogni etichettatura politica, cioè come qualcosa di sinistra, mentre i dirigenti dell’attuale movimento non sono caduti nella trappola della delegittimazione, riproposta dalla destra.

Niente scuse

Dopo i duri scontri con la polizia e i numerosi arresti di martedì, i mezzi di comunicazione e i politici di destra hanno cercato di definire la protesta come disordini di sinistra, anarchici. Come prova, notano tra le altre cose che alcuni degli arrestati quella notte erano rappresentati dalla nota avvocatessa per i diritti umani Leah Tsemel, che spesso difende i diritti dei palestinesi in Israele.

Gli organizzatori della protesta, evitando saggiamente di lasciarsi intrappolare in questo modo, non si sono scusati. Tra gli oratori invitati all’ultima manifestazione c’era Ofer Cassif, un ben noto membro ebraico della Lista Unita, a maggioranza araba, il quale ha parlato sul palco dei rapporti tra la corruzione politica e la corruzione morale dell’occupazione. Non solo il pubblico di Cassif non è rimasto scioccato, ma lo ha applaudito entusiasticamente.

Martedì a piazza Paris ho visto cartelli che chiedevano giustizia per Iyad al-Hallaq [palestinese affetto da autismo, ndtr.], ucciso da poco nella Gerusalemme est occupata, e la gente che li esponeva sembrava una componente assolutamente naturale di quest’ultima manifestazione.

C’è qualcos’altro che vale la pena di notare: con un’iniziativa astuta, invece di chiedere scusa, gli organizzatori dell’ultima dimostrazione sono riusciti a sfruttare la violenza poliziesca contro di loro per portare più persone alla protesta. I gruppi di giovani arrestati includevano più di qualche ben noto attivista di sinistra.

È da notare in modo particolare che sono stati fermati dalla polizia non durante una manifestazione contro l’occupazione a Bilin [villaggio della Cisgiordania occupata noto per le proteste settimanali, ndtr.], ma durante una protesta contro la corruzione nel cuore di Gerusalemme ovest. Il movimento di protesta contro la corruzione ha beneficiato della notevole esperienza nello scontro con le autorità. Ha portato il suo programma di sinistra su un palco davanti a una folla diversa in via Balfour, dove le loro prospettive di essere ascoltati sarebbero state altrimenti molto ridotte. Anche questo ha un notevole potenziale.

Massimo vantaggio

È vero che, rispetto alle manifestazioni dei palestinesi da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, ndtr.], la risposta della polizia contro i dimostranti di via Balfour è stata molto moderata. Il punto è che noi eravamo manifestanti ebrei in un Paese fondato sulla supremazia ebraica.

Alcuni poliziotti a cavallo si sono lanciati in mezzo alla folla, una tattica minacciosa che indubbiamente ha provocato timore, ma non ci hanno sparato né proiettili veri né ricoperti di gomma. Ci hanno sparato contro con cannoni ad acqua, ma era solo acqua, non il disgustoso liquido cosiddetto “puzzola” che usano contro i palestinesi. E la maggior parte degli arrestati è stata rilasciata dopo poche ore.

Senza dubbio una manifestazione palestinese sarebbe finita in modo ben diverso. Ma vedere questa dimostrazione solo e nient’altro che come un ennesimo esempio dei privilegi degli ebrei vorrebbe dire non vedere il potenziale di radicalità dell’attuale momento. Esso è sicuramente presente. La domanda in gioco riguardo a questa protesta è molto semplice: se il nostro obiettivo politico è cacciare Netanyahu per le accuse di corruzione oppure no. La risposta è sì. Non solo perché una società che si rivolta contro la corruzione è una società più sana, ma anche perché praticamente ogni cambiamento per cui si batte la sinistra ebraica inizia dalla rimozione di Netanyahu dal potere.

Il modo in cui Netanyahu ha rafforzato il suo dominio come primo ministro, l’identificazione che ha creato tra se stesso e lo Stato e i suoi continui tentativi di incitare diversi settori della popolazione uno contro l’altro sono cose molto pericolose, e rendono la sua cacciata un compito necessario per ottenere un qualunque cambiamento. Ora è arrivato un momento interessante, in cui il regime stesso sta trasformando in dissidenti politici quelli che sono considerati il “sale della terra”, gli ebrei privilegiati e sionisti convinti.

La questione più impellente ora è se noi, la sinistra ebraica, saremo abbastanza saggi da approfittare al massimo di questo potenziale, spingendo in avanti verso il cambiamento più sostanziale che stiamo cercando di determinare.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Per i giornalisti palestinesi, gli attacchi violenti delle forze israeliane fanno parte del lavoro

Juman Abu Arafeh 

4 luglio 2020 Middle East Eye

Gli abusi nei confronti dei giornalisti, che comprendono aggressioni e arresti, sono aumentati negli ultimi mesi specialmente nella Gerusalemme occupata.

Messa alle corde e impaurita, Sondus Ewies, giornalista palestinese di 23 anni, parlava nervosamente con un gruppo di agenti israeliani radunatisi intorno a lei mentre stava girando un film il mese scorso nella moschea di Al-Aqsa.

“Non ho fatto nulla. Stavo solo filmando e facendo il mio lavoro”, ricorda di avergli detto.

Ewies ha poi tirato fuori il suo tesserino internazionale di giornalista, sperando di evitare la detenzione, ma è accolta con una scrollata di spalle da un agente che le ha risposto: “Questa è una carta fasulla che non riconosciamo.”

Gli agenti israeliani hanno arrestato Ewies e sequestrato il suo telefonino. È stata quindi sottoposta a interrogatorio e le è stato imposto il divieto di visitare il complesso della moschea, situato nella Gerusalemme est occupata, per tre mesi.

Non era il suo primo incontro con le autorità israeliane. Ewies è stata interrotta più volte mentre era in onda ed è stata anche picchiata mentre copriva varie proteste.

A Middle East Eye ha detto di temere più il temporaneo divieto che l’effettiva detenzione.

Ewies vive nel quartiere palestinese di Ras al-Amoud, appena a sud del complesso della moschea Al-Aqsa, avendo fatto di quest’ultima una parte centrale del suo lavoro giornalistico. Dice di aver contato le ore per entrare nel complesso della moschea dopo che era stato chiuso per due mesi a causa della pandemia di coronavirus.

Molti giornalisti palestinesi affrontano arresti e divieti temporanei di accesso al complesso per avervi filmato incursioni dei coloni o forze israeliane che aggredivano i fedeli.

Nel 2016, le autorità israeliane hanno redatto liste nere con i nomi dei palestinesi, giornalisti compresi, a cui è vietato entrare nel complesso.

Dall’inizio di giugno, le autorità israeliane hanno emanato circa 10 mandati di comparizione a giornalisti e fotografi per interrogarli su come informano riguardo ad eventi politici.

Divieti alle agenzie stampa palestinesi

Ewies è una delle tante giornaliste che hanno subìto molestie da parte delle forze israeliane mentre erano in servizio.

La nota giornalista locale Christine Rinawi, di 31 anni, lavorava da 10 anni per Palestine TV, una stazione che opera nell’ambito dell’emittente palestinese pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quando è stata incarcerata nel dicembre 2019.

Il mese prima l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan aveva emanato un decreto per chiudere gli uffici della TV palestinese per sei mesi, sostenendo che la sua attività costituiva una violazione agli accordi di Oslo che vietano la presenza dell’ANP nella Gerusalemme est occupata da Israele. L’ordine è stato rinnovato nel maggio 2020.

Subito dopo la chiusura, il personale dell’emittente di Gerusalemme ha deciso di contestare la decisione e di proseguire il proprio lavoro.

A dicembre, durante la trasmissione del terzo episodio di un programma in diretta, le forze israeliane hanno arrestato la presentatrice Dana Abu Shamsia e il cameraman Amir Abed Rabbo. Rinawi e un altro cameraman, Ali Yassin, furono anch’essi poco dopo arrestati e portati in un centro di interrogatori.

Per Rinawi, la chiusura della Palestine TV fa parte delle restrizioni imposte da Israele sulla documentazione degli abusi israeliani da parte dei media palestinesi.

“Hanno cercato di aggredirci e ci hanno trattati come criminali”, dice a MEE.

L’ufficiale mi ha detto: ‘Vai a lavorare a Betlemme o Ramallah. Ti è proibito lavorare a Gerusalemme, sia in strada che sottoterra o vicino al bagno o in salotto’ “.

Durante l’iniziale chiusura di sei mesi della Palestine TV, i servizi segreti israeliani hanno convocato Rinawi cinque volte per interrogarlo.

La Palestine TV non è il solo centro di informazione palestinese ad essere bandito da Gerusalemme dalle autorità israeliane. Negli ultimi anni, Al Quds, Palestine Today, Qpress e l’Elia Youth Media Foundation [associazione giovanile non profit, ndtr.] sono stati tutti sottoposti a divieti.

Nel corso degli anni, Rinawi ha subito diverse aggressioni mentre svolgeva il suo lavoro. Nel 2019, è stata spinta e strattonata dai soldati israeliani durante una trasmissione in diretta, che è stata interrotta quattro volte.

Nel 2015, schegge di una granata stordente l’hanno colpita agli occhi mentre copriva la situazione nella moschea di Al-Aqsa.

Un anno prima, lei e il suo cameraman erano stati colpiti con proiettili di gomma mentre riferivano degli eventi verificatisi dopo il rapimento e l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir.

Più pericolosa delle armi

Ata Owaisat, di 50 anni, del quartiere di Jabal al-Mukaber a Gerusalemme, ha iniziato la sua carriera come fotoreporter 19 anni fa. Ha lavorato con l’agenzia di stampa Associated Press e l’organizzazione di notizie israeliana Yedioth Ahronot.

Ha detto di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati israeliani hanno rotto la sua attrezzatura fotografica.

“Uno di loro mi ha detto letteralmente ” la tua macchina fotografica è più pericolosa delle armi “, dice a MEE.

“Sono stato picchiato e umiliato mentre svolgevo il mio lavoro, sono stato ostacolato, fermato, perquisito, interrogato e bandito da Al-Aqsa”.

La carriera giornalistica di Owaisat è stata bruscamente interrotta nel 2013, quando ha subito un grave infortunio e il conseguente trauma psicologico, compreso un disturbo post-traumatico da stress. Ha detto che gli è difficile parlare di quel giorno.

L’8 marzo 2013, Owaisat prese la sua macchina fotografica e andò a seguire gli scontri ad Al-Aqsa, dove le forze israeliane stavano sparando granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro i palestinesi che protestavano nel complesso della moschea contro le violazioni israeliane.

Owaisat fu colpito alla bocca da un oggetto metallico che non è stato in grado di identificare, che gli causò una copiosa emorragia.

“Ho perso parte dei miei denti, del labbro superiore e il mio viso era sfigurato”, ha ricordato.

Dopo essere stato colpito, Owaisat ha momentaneamente perso conoscenza ma è stato presto risvegliato da calci e insulti prima di perdere di nuovo conoscenza.

L’equipaggio di un’ambulanza lo portò in ospedale.

“Ho visto la morte negli occhi”, ha detto.

In seguito Owaisat ha avuto difficoltà a mangiare, parlare e persino a sorridere. Ha subito diverse operazioni per ricostruire viso e denti.

Ha anche smesso di lavorare per un anno, dopo di che ha ricevuto un referto medico che specificava il trauma psicologico che gli impedisce di riprendere il suo lavoro.

Restrizioni generalizzate

Oltre ai giornalisti di Gerusalemme, anche i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza assediata sono sottoposti a una pletora di violenze.

Il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) ha segnalato 18 di tali abusi durante il mese di maggio, inclusi attacchi fisici, arresti e la chiusura di uffici in tutti i territori palestinesi.

Anche un recente rapporto della Commissione per le Libertà del Sindacato Giornalisti Palestinesi ha riscontrato che le autorità israeliane hanno commesso 760 violazioni nel 2019.

Nasser Abu Bakr, il presidente del Sindacato, ha commentato la cosa dicendo che Israele concentra le sue restrizioni e l’ostruzionismo sui giornalisti a Gerusalemme, che considera la propria capitale.

Ha aggiunto che tali incidenti sono aumentati negli ultimi mesi, portando il Sindacato ad avvertire la Federazione internazionale dei Giornalisti (IFJ) dell’elevato numero di infrazioni contro i giornalisti a Gerusalemme e invitandola a intervenire.

Abu Bakr ha dichiarato a MEE che una delegazione della Federazione aveva richiesto al governo israeliano di porre fine alle violenze e di riconoscere la tessera stampa internazionale, senza risultato.

“Forniamo supporto più che possiamo. Abbiamo una riunione al sindacato la prossima settimana e la situazione dei giornalisti a Gerusalemme sarà il primo punto dell’ordine del giorno”, ha detto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Silicon Wadi”: al momento l’ultimo progetto israeliano per prendere il controllo della Città Vecchia di Gerusalemme

Aseel Jundi – Wadi Al-Joz, Gerusalemme est occupata

venerdì 3 luglio 2020 – Middle East Eye

Numerose attività economiche palestinesi a Gerusalemme est hanno ricevuto avvisi di espulsione in quanto Israele prevede di installare il suo parco tecnologico della zona

Nonostante lo choc subito quando ha ricevuto da parte del Comune dell’occupazione israeliana a Gerusalemme l’ordine di lasciare la sua officina, davanti ai suoi clienti Mahmoud al-Kurd non ha mai perso il sorriso.

Il trentacinquenne lavora a tempo pieno nell’autofficina, costruita nel 1960 e situata nell’unica zona industriale di Gerusalemme est occupata. Kurd vi ha lavorato quando era ancora un bambino, insieme a suo padre, che aveva affittato il locale, lo ha diretto per decine di anni prima della sua morte e lo ha lasciato ai suoi figli perché provvedano alle necessità delle loro famiglie. Ha ricevuto l’avviso di espulsione il 1 giugno e ha tempo fino alla fine dell’anno per lasciare i locali in cui svolge la sua attività.

Il 3 giugno il Municipio ha annunciato il progetto di parco tecnologico battezzato “Silicon Wadi” (wadi significa valle). Essa sostituirà la zona industriale che si trova nel quartiere palestinese di Wadi al-Joz a Gerusalemme est, nelle immediate vicinanze della Città Vecchia.

Questo progetto, valutato 2,1 miliardi di shekel (circa 542 milioni di euro), prevede 250 000 m² di “uffici per le imprese di tecnologia avanzata”, così come 100.000 m2 divisi tra “negozi” e “hotel”. Si inscrive nel progetto quadro “Centro città di Gerusalemme est”, approvato in aprile dalla commissione israeliana di urbanistica e gestione del territorio.

L’attività di Kurd dovrebbe chiudere per far posto ai progetti di Israele, anche se i dettagli concreti che riguardano il piano non sono ancora noti.

Mahmoud al-Kurd vende ricambi per automobili e si è specializzato nei sistemi elettrici e nei climatizzatori dei veicoli. Nel corso degli anni ha scelto di ignorare le voci che circolavano attorno a lui relative ai progetti del governo israeliano di cacciare lui e le altre attività in una delle strade più animate di Gerusalemme.

Io sono qui come un albero verdeggiante, le cui radici sono profondamente attaccate al suolo,” dichiara a Middle East Eye.

Mi rifiuto di essere sradicato dal Comune (israeliano) e di essere spostato. Penso che la soluzione più semplice sia che il Comnue scelga un altro luogo per mettere in pratica i suoi progetti, lontano dalle nostre fonti di sostentamento,” afferma il giovane, aggiungendo che rifiuta l’idea di ripartire da zero da qualunque altra parte – anche se fosse solo a qualche metro dal luogo a cui lui e i suoi clienti si sono abituati.

Resterò qui fino all’ultimo momento. Questo mestiere è la mia passione. È in questo vecchio spazio che ho avuto successo,” spiega.

Basta che l’anima del mio defunto padre erri attorno a me qui, è lui che ha affittato questo negozio decenni fa e ci ha trasmesso i mezzi per vivere. Mi rifiuto di essere il dipendente di un rivenditore ebreo se siamo trasferiti per lavorare nelle zone industriali israeliane.”

Kurd dice di essere perfettamente cosciente degli obiettivi dell’occupazione israeliana per Wadi al-Joz, un quartiere vicino alla moschea di al-Aqsa e alla Chiesa del Sacro Sepolcro. Sostiene che se il Comune asserisce che la zona industriale è troppo affollata e debba essere riorganizzata, esso lavora da anni a questi progetti per investire su questa zona strategica.

Scenari negativi

A circa 200 metri da lì, Ihab Mshaashaaa aggiunge il tocco finale al lavoro di verniciatura su una delle vetture dei suoi clienti nell’officina che affitta da 30 anni. Non ha ricevuto indicazioni relative allo sgombero del suo laboratorio, ma dice di aspettarselo quando ci sarà una seconda ondata di notifiche d’espulsione.

La mente di Mshaashaaa brulica di prospettive negative sulle responsabilità che gli competono e a cui fa abitualmente fronte grazie ai proventi dell’officina. Si preoccupa dell’eventualità di essere cacciato e di perdere l’unica fonte di reddito della famiglia.

Mshaashaa afferma che l’amministrazione municipale dell’occupazione israeliana non ha incontrato nessuno di quelli che lavorano nella zona industriale per proporre alternative, e che i proprietari delle attività commerciali hanno poche informazioni o nessuna sulla natura dei progetti futuri.

Mohannad Jbara, l’avvocato che difenderà quelli che sono danneggiati dal progetto, spiega a MEE che l’amministrazione municipale propone in genere dei piani strutturali generali per i progetti, con un nome e un numero, senza peraltro fornire piani dettagliati per ogni edificio. Secondo lui, consegnando degli avvisi d’espulsione a certe strutture e negozi della zona, il Comune tenta di sviare l’attenzione dal progetto più ampio del “Centro città di Gerusalemme est”.

Il progetto comprende un grande spazio, a partire dalla zona della porta di Damasco, uno dei punti di acceso alla Città Vecchia di Gerusalemme, passando per le strade di Sultan Suleiman e Salah al-Din, attraverso una parte del quartiere di Sheikh Jarrah e una parte della zona industriale di Wadi al-Joz. Il primo giugno una quarantina di proprietari di attività economiche palestinesi in questa zona ha ricevuto, come Kurd, ordini di espulsione.

Secondo l’avvocato Jbara con questo progetto l’amministrazione comunale evidenzia la sua idea per questa zona, la cui realizzazione sarà completata nel 2025, definendo il panorama organizzativo del centro di Gerusalemme est nei prossimi 30 anni. Ciò crea una situazione per la quale ogni progetto che non corrisponda a questa idea sarà bocciata.

Spiegando le tappe che un progetto deve seguire prima di essere messo in pratica, l’avvocato sostiene che la questione è prima discussa nella commissione municipale, poi è trasmessa a una commissione distrettuale competente per l’approvazione. A quest’ultimo stadio si suppone in genere che gli abitanti dei quartieri presi di mira siano consultati, prima dell’approvazione al terzo e ultimo stadio.

Attualmente i progetti relativi alla zona industriale di Wadi al-Joz sono stati affrontati dalla commissione distrettuale, ma non sono stati presentati all’opinione pubblica per conoscere le obiezioni. L’avvocato Jbara racconta che la commissione distrettuale non ha approvato il progetto perché il Comune di Gerusalemme non ha preso misure per avvertire i proprietari dei negozi e degli edifici. L’amministrazione municipale si è quindi affrettata ad inviare delle notifiche d’espulsione per proseguire nel progetto.

Wadi al-Joz è una zona sensibile e penso che la commissione distrettuale ritenga che questo progetto non sia praticabile perché ignora completamente le officine e cerca di concretizzare il sogno di un parco tecnologico ed edifici di sedici piani,” ritiene l’avvocato.

Quando la municipalità ha inviato gli avvisi di espulsione ha affermato che i commercianti della città utilizzano le strutture in modo improprio, anche se sono state costruite da parecchi anni, e che è giunto il momento di far rispettare la legge contro queste violazioni. Jbara definisce “impudenti” questa affermazione, sottolineando che da cinquant’anni le autorità percepiscono le tasse pagate dai proprietari di queste strutture e sanno che essi lavorano nella manutenzione di veicoli.

L’avvocato assicura ai proprietari di officine a Wadi al-Joz che esistono molteplici risorse giudiziarie a loro favore e che il Comune non li espellerà con la forza, perché non è proprietaria degli edifici in cui essi lavorano. Potrebbe tuttavia accusarli con il pretesto di “utilizzo irregolare”.

Il progetto del Comune a Wadi al-Joz non è che una tessera del puzzle del rafforzamento del controllo israeliano sui quartieri palestinesi che circondano la Città Vecchia, compresi Silwan e Sheikh Jarrah, grazie ad organizzazioni dei coloni che avviano lunghe e costose azioni giudiziarie per espellere i palestinesi dalle loro case e sostituirli con dei coloni.

Questi progetti saranno il chiodo sulla bara del controllo organizzato (di Israele) sul settore immobiliare a Gerusalemme,” dichiara l’avvocato Jbara, aggiungendo che ciò si inscrive nel quadro dell’adeguamento della zona con la “visione finale [israeliana] dello status quo politico di Gerusalemme.”

Secondo i mezzi di comunicazione israeliani il progetto “Silicon Wadi” sarà il più importante di Gerusalemme est, in quanto comprende una superficie di 200.000 m2 di imprese tecnologiche che forniranno delle possibilità di lavoro a 10.000 diplomati e laureati palestinesi. Oltre alle imprese tecnologiche, saranno costruiti negozi e hotel e tredici strade saranno trasformate in “arterie pedonali che nel mese di agosto accoglieranno regolarmente visite guidate e spettacoli di strada.”

Ebreizzazione

Moshe Lion, il sindaco di Gerusalemme, ha dichiarato al giornale Israel Hayom [quotidiano gratuito di destra, ndtr.] che si tratta di una tappa storica per compensare le carenze di Israele nei confronti dei palestinesi di Gerusalemme e che un simile progetto rafforzerebbe la fiducia nell’amministrazione comunale.

Queste dichiarazioni non sono nuove. Dal suo arrivo al potere, Moshe Lion ha messo in pratica una politica comunicativa che intende dipingere il Comune come un alleato dei palestinesi della città, che intenderebbe garantire loro una vita decente.

Ha promosso questi slogan grazie a varie attività di intrattenimento messe in pratica a Gerusalemme est durante il periodo di quarantena a causa del COVID-19 e durante il mese sacro del Ramadan. Tuttavia dal suo arrivo al potere i bulldozer israeliani hanno continuato a demolire edifici palestinesi a Gerusalemme o ad obbligare i palestinesi a demolire le loro stesse case con il pretesto della mancanza di licenze edilizie.

Il presidente del consiglio di amministrazione della Camera Araba del Commercio e dell’Industria di Gerusalemme, Kamal Obeidat, dice a MEE che è ingiusto evacuare queste proprietà, alcune delle quali risalgono al 1957.

Sostiene che il numero di imprese nella zona industriale varia tra le 160 e le 180. La Camera, aggiunge, ha discusso con i proprietari fondiari privati della zona per capire a fondo la natura delle riunioni che il capo di gabinetto del sindaco ha avuto con loro.

Durante il primo incontro il delegato municipale ha fatto pubblicità al progetto ed ha parlato della sua importanza per i palestinesi. Durante il secondo ha fatto appello ad investitori arabi e durante il terzo ha suggerito l’idea che Google potrebbe aderire al progetto.

Kamal Obaidat spiega che la Camera Araba del Commercio e dell’Industria considera il progetto sospetto, ritenendo che saranno imprese israeliane che monopolizzeranno la proprietà e la gestione delle imprese del parco tecnologico, ebreizzando così tutta la zona.

Adel al-Jaaba, uno dei proprietari fondiari che l’amministrazione comunale ha incontrato, afferma di aver assistito a due sedute, durante le quali il Municipio ha presentato l’idea del progetto e l’ha esortato a chiedere un permesso per costruire degli immobili molto alti. I rappresentanti municipali hanno dichiarato che, nel caso in cui lui e gli altri proprietari non fossero in grado di ottenere i permessi e che le imprese di tecnologia avanzata fossero disposte ad affittare gli edifici non appena completati, il Comune si farebbe carico della costruzione.

Jaaba possiede un terreno di 950 m2 su cui ha un negozio di prodotti per l’edilizia. Nel caso in cui il progetto “Silicon Wadi” venga approvato, dovrà demolirlo e chiedere al suo posto un permesso edilizio per un edificio di vari piani. In caso contrario il Comune prenderà l’iniziativa di distruggerlo, insieme a una storica zona industriale di circa 35.000 m2.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Israele: una catastrofe generata da una catastrofe più grande

Azzam Tamimi

1 luglio 2020 – Middle East Eye

L’attuale crisi ha le sue radici negli accordi di Oslo, che hanno trasformato l’OLP in un’entità palestinese collaborazionista

La catastrofe cui faccio riferimento nel titolo di questo articolo non è la Nakba del 1948, quando Israele venne creato su due terzi della Palestina, né la Naksa del 1967, quando i sionisti divorarono il rimanente terzo della Palestina (la Cisgiordania e Gaza) insieme alla penisola del Sinai e alle Alture del Golan.

Sono invece gli accordi conclusi a Oslo, Norvegia, in seguito a negoziati segreti tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Israele. La firma degli accordi di Oslo tra le due parti sul prato della Casa Bianca nel settembre 1993 è stato il maggior successo sionista dalla creazione dell’entità sionista in Palestina.

Mossa disastrosa

Perché è così? Gli accordi di Oslo furono il primo riconoscimento ufficiale della legittimità dello Stato ebraico da parte di Israele.

L’OLP, che avrebbe dovuto guidare la lotta per la liberazione della Palestina – e che era stata fondata prima che la Cisgiordania e Gaza diventassero territori occupati – venne riconosciuta dagli Stati membri della Lega Araba come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. Questa mossa disastrosa venne fatta durante il summit di Rabat nel 1974.

L’implicazione immediata di questa decisione fu trasformare quello che era noto come il conflitto arabo-israeliano in palestinese-israeliano. In pratica ciò significò affidare le chiavi della questione palestinese al leader dell’OLP Yasser Arafat e ai suoi sodali all’interno del movimento Fatah, che dominava l’OLP, esimendo il mondo arabo nel suo complesso da ogni responsabilità riguardo alla Palestina e al suo popolo. Da allora l’OLP ne fu responsabile.

La dichiarazione di Rabat arrivò proprio qualche mese dopo una decisione dell’assemblea non eletta dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese, di approvare quello che divenne noto come il “Programma dei Dieci Punti”, che preparò la strada per negoziare un accordo pacifico che avrebbe finito per riconoscere il diritto all’esistenza di Israele in cambio della fondazione di uno Stato palestinese confinante.

Tuttavia Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, non mostrarono alcun reale interesse nel trattare con l’OLP, nonostante il desiderio di quest’ultima, finché nel dicembre 1987 scoppiò la prima Intifada. Solo quando la legittimità dell’OLP sembrò minacciata come mai prima – non solo dalla nascita di Hamas, ma anche dalla crescente sensazione tra i palestinesi, sia localmente che nella diaspora, che l’organizzazione non parlasse più per loro né agisse per raggiungere il loro sogno di liberazione e ritorno –, americani e israeliani decisero di parlare con la dirigenza dell’OLP.

Reprimere l’Intifada

Sembrerebbe che fin dall’inizio gli israeliani e i loro alleati sapessero quello che intendevano ottenere. È molto difficile dire lo stesso dei loro interlocutori dell’OLP.

Gli israeliani avevano assolutamente bisogno di un partner palestinese per aiutarli non solo a reprimere l’Intifada, ma anche ad aprire le porte della regione e del mondo nel suo complesso per ottenere la legittimità della loro entità. Quello che in sintesi fecero gli accordi di Oslo fu di trasformare l’OLP in un organismo palestinese collaborazionista chiamato Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Concludendo gli accordi di Oslo con Israele, l’OLP ne riconobbe il diritto. Ciò non avvenne in cambio del riconoscimento da parte di Israele del dramma del popolo palestinese, della sua spoliazione ed espulsione, né fu in cambio del riconoscimento del loro diritto a tornare alla loro patria, o del riconoscimento dei crimini che erano stati perpetrati contro di loro.

È stato solo in cambio del riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. Non eletta e senza dover rendere conto a nessuno, la dirigenza dell’OLP da allora poté fare per la causa quello che riteneva “conveniente”.

Questo accordo catastrofico venne venduto come una grande vittoria. A molti palestinesi venne fatto credere che prima o poi da lì sarebbe sorto uno Stato palestinese, che avrebbe preparato la via per il loro ritorno a casa. La comunità internazionale giocò un ruolo in questo inganno, definendo quello che stava avvenendo come un processo che avrebbe portato a quella che divenne generalmente nota come una “soluzione dei due Stati”.

Tuttavia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno fin dal 1993, Israele è riuscito – con la collaborazione dell’ANP – a perpetuare la sua occupazione a un costo molto basso per sé, confiscando nel contempo più terre, costruendo più colonie o espandendo quelle esistenti, demolendo le case dei palestinesi, opprimendoli e perseguitandoli.

Sconfitte su sconfitte

Nel frattempo la causa palestinese ha continuato a incorrere in sconfitte su sconfitte a livello politico e diplomatico. Molte Nazioni, che in precedenza erano filo-palestinesi, colsero l’occasione del riconoscimento di Israele da parte dell’OLP per abbandonare le loro precedenti posizioni di critica o condanna di Israele per la sua occupazione e oppressione dei palestinesi.

Molte Nazioni, compresi Paesi come India e Cina, svilupparono rapporti di cooperazione commerciale, per la sicurezza e persino militare con Israele a spese della causa palestinese. “Non possiamo essere più palestinesi dei palestinesi”, era il pretesto per tali spostamenti radicali, non solo tra i Paesi dell’Asia Meridionale, africani e alcuni latinoamericani, ma anche all’interno dello stesso mondo arabo.

Qualcuno ha persino sostenuto pubblicamente: come osano i palestinesi criticare altri per “aver normalizzato” le relazioni con Israele quando il loro “unico e legittimo rappresentante” collabora in tutto e per tutto con le autorità dell’occupazione?

Ci fu un tempo in cui la maggior parte del mondo equiparava il sionismo al razzismo. Quelli che sostennero quella posizione lo fecero per l’ammirevole risolutezza dei palestinesi nella loro lotta contro questo Stato spudoratamente razzista. Per molti decenni Israele venne paragonato al defunto regime dell’apartheid in Sudafrica, e a ragione. Tuttavia l’apartheid israeliano è riuscito dove ha fallito quello sudafricano: la creazione di un’entità indigena collaborazionista.

È su quel successo che oggi Israele costruisce. La differenza tra dove ci troviamo oggi e dove ci trovavamo 30 anni fa è l’ANP, la cui funzione è stata principalmente contribuire al controllo delle masse palestinesi e bloccare ogni minaccia che essi potessero rappresentare per le autorità dell’occupazione israeliana.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azzam Tamimi è accademico e attivista politico anglo-palestinese. Attualmente è il direttore del canale Alhiwar [televisione satellitare in lingua araba con sede a Londra, ndtr.] e suo capo redattore.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Netanyahu è una finzione. L’apartheid è in atto da decenni

Richard Silverstein

24 giugno 2020 Middle East Eye

L’annessione è una finzione.

Non fraintendetemi: questo non significa che il proposito di annessione della Valle del Giordano da parte di Israele non causerà ulteriori espropriazioni ai palestinesi. Israele ruberà il 30% della terra riservata a uno Stato palestinese sulla base di precedenti proposte di pace fallite, causando ulteriore sofferenza ai palestinesi.

Ma questa particolare proposta di annessione, sulla quale il nuovo governo israeliano si è accordato nel suo programma di coalizione, rappresenta un diversivo, una distrazione dalla natura sistemica dell’espropriazione israeliana nei confronti dei palestinesi. Essa consente ai sionisti progressisti e alla comunità internazionale di focalizzare la loro attenzione sul come annullare questa grave ingiustizia, sollevandoli dalla responsabilità riguardo all’intero regime di apartheid sviluppato da Israele, sia all’interno che all’esterno della linea verde [linea di demarcazione fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti esistente dalla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 -1949 n.d.tr.].

Intolleranza religiosa

Dichiarazioni di leader ebrei britannici, membri del Congresso degli Stati Uniti, funzionari dell’Unione Europea ed esperti in diritti umani hanno ammonito sulle conseguenze dell’annessione. Hanno preso di mira il ventre molle, “moderato”, della coalizione di governo, i membri della Knesset del partito Blu e Bianco [partito di centro, ndtr.], dicendo loro con quanta riprovazione il mondo avrebbe guardato Israele se questa proposta fosse stata approvata.

Ma tutto questo lamentarsi dei progressisti distoglie da un male molto più profondo: un regime di suprematismo ebraico basato sull’intolleranza religiosa e sulla pulizia etnica.

Il problema con lo Stato israeliano non è legato ad una politica particolare, per quanto odiosa. Risale alle stesse fondamenta dello Stato e al pensiero dei suoi fondatori, in primis David Ben-Gurion. Mentre tra i primi leader sionisti esistevano alcune voci che cercavano l’integrazione, o almeno la coesistenza pacifica, con i loro vicini palestinesi, Ben-Gurion era un massimalista che nei suoi diari e lettere ha fatto propria la pulizia etnica molto prima di fondare lo Stato.

Il sine qua non dello Stato era per lui una maggioranza e la superiorità degli ebrei. Gli “arabi” avrebbero potuto rimanere all’interno dei confini della nuova Nazione, ma solo se avessero accettato la loro condizione di inferiorità.

Anche allora Ben-Gurion temeva così tanto la presenza palestinese che lui e la milizia Palmach [“compagnie d’attacco”, forze paramilitari fondate all’epoca del protettorato britannico, ndtr.] organizzarono e condussero il Piano Dalet, [“Piano D”, redatto durante la prima fase della guerra arabo-israeliana del 1948, ndtr.] che provocò la Nakba – l’espulsione di 750.000 palestinesi, in concomitanza con la fondazione di Israele nel 1948.

Le comunità palestinesi sopravvissute alla guerra rimasero sotto la legge marziale per due decenni, sebbene non rappresentassero alcuna minaccia per la sicurezza.

Bollire la rana

Come ebreo americano, sono cresciuto con il sionismo progressista. Mi è stato insegnato sin da piccolo che Israele era uno Stato ebraico e democratico. Mi è stato insegnato ad essere orgoglioso della coesistenza reciproca di quei due termini. Ma la componente religiosa dell’identità israeliana, come è stata definita, preclude la democrazia; non possono coesistere. Mi ci sono voluti decenni per rendermene conto.

Mentre sarebbe sconsigliato tentare di eliminare o reprimere la religione in uno Stato Israele-Palestina veramente democratico, la religione dovrebbe essere separata dalla governance politica se questo Stato dovesse mai diventare normale.

Le religioni dei cittadini ebrei e palestinesi di Israele rimarranno determinanti per loro e per le loro identità. Se praticate in modo appropriato, arricchirebbero il tessuto dello Stato senza pregiudicare un gruppo religioso o etnico rispetto a un altro. Ma l’attuale regime israeliano ha molto in comune con la repubblica islamica iraniana, il protettorato islamico dell’Arabia Saudita o i talebani afgani piuttosto che con la democrazia occidentale.

Uno degli aspetti astuti dell’espansionismo sionista è quello di perseguire i suoi obiettivi gradualmente, piuttosto che tutti in una volta. La povera rana non si rende conto di essere bollita nella pentola fino a quando non è troppo tardi, perché la fiamma aumenta la temperatura gradualmente e quasi impercettibilmente.

Pertanto, Netanyahu ha già rinunciato alla sua proposta originale di annettere l’intera Valle del Giordano. Ora si sta baloccando con un'”annessione leggera”, che comprenda le principali enclavi di colonie di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, lasciando intatto il resto del territorio. Ciò nasconde il fatto che una volta che questi blocchi diverranno parte di Israele, il territorio circostante risulterà palestinese solo di nome; tutto ciò che rimarrà sarà circondato da recinzioni, strade e infrastrutture israeliane. E Israele potrebbe, in un secondo momento, annettere il resto.

L’unica cosa positiva

In un recente webinar su Middle East Eye, il professor Rashid Khalidi [noto storico americano-palestinese, ndtr.] ha descritto l’annessione come “in gran parte un diversivo”, osservando che essa è in corso in un modo o nell’altro dal 1967, con le leggi israeliane già applicate in tutti i territori occupati.

“Dobbiamo pensare in termini più ampi rispetto al linguaggio strettamente diplomatico che è stato utilizzato. Israele ha iniziato ad annettere, costruendo la realtà di uno Stato unico, dal 1967. Questo [attuale piano di annessione] è solo un piccolo passo nel processo”, ha detto Khalidi, osservando che la proposta più limitata di Netanyahu riguardante le tre enclavi di insediamenti coloniali equivale a una “farsa”.

“Dovremmo parlare in termini molto più essenziali dei problemi strutturali sistemici che sarà necessario affrontare se questo problema deve essere risolto su una base giusta ed equa”, ha affermato.

Se c’è un lato positivo nel piano di annessione, è che i sionisti progressisti, i quali una volta denunciavano il movimento di boicottaggio e chiunque etichettava Israele come uno Stato di apartheid, sono stati costretti a fare i conti con il fallimento della loro visione.

Benjamin Pogrund, attivista anti-apartheid sudafricano, che ha trascorso decenni a combattere l’idea che Israele sia uno Stato di apartheid, ha recentemente dichiarato in un’intervista: “Se annettiamo la Valle del Giordano e le aree coloniali, siamo un’apartheid. Punto. Non ci sono dubbi al riguardo.”

I bantustan sudafricani [enclavi di confinamento razziale del Sudafrica dell’era dell’apartheid, n.d.tr.] “erano semplicemente una forma più raffinata di apartheid per mascherare la realtà”, ha aggiunto Pogrund, osservando che le conseguenze della prevista annessione da parte israeliana “saranno ovviamente estremamente gravi. I nostri amici nel mondo non saranno in grado di difenderci ”.

Crepe e divisioni

Allo stesso modo, anche il partito tedesco pro-Israele Die Linke [La Sinistra, ndtr.] ha chiesto di sanzionare Israele se questo programma andrà avanti. “Se il governo israeliano dovesse decidere di attuare l’annessione – ha affermato in una nota – Die Linke proporrà la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Questo protocollo UE è importante non solo perché offre a Israele scambi senza dazi doganali e privilegi degli Stati membri, ma anche per lo status che conferisce a Israele, sia in Europa che nel mondo. Perdere questi privilegi sarebbe un duro colpo economico e politico.

Come notato dal giornalista Ali Abunimah, la dichiarazione del partito, si avvicina all’abbandono della soluzione dei due Stati, che è il nucleo del sionismo progressista che Die Linke sostiene: “Di fronte all’apparente rifiuto del governo israeliano di un equa soluzione con due Stati, in cui i cittadini di entrambe le parti vivrebbero con pari diritti, Die Linke chiede pari diritti civili per palestinesi e israeliani “, ha affermato il partito.

“Per Die Linke, il seguente principio vale ovunque e sempre: tutti gli abitanti di ogni Paese dovrebbero godere di pari diritti, indipendentemente dalla loro religione, lingua o gruppo etnico.”

È importante non esagerare il significato di questi cambiamenti. Sicuramente segnano delle variazioni nelle fila dei sostenitori progressisti di Israele. Non vi sono, inoltre, dubbi sugli scivolamenti tettonici nella politica americana su Israele / Palestina, che hanno notevolmente ampliato il dibattito. Ma come abbiamo visto in passato, proprio come le placche tettoniche possono rompersi e dividersi, le forze geologiche possono riportarle di nuovo insieme.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato ad esporre gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. I sui lavori sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out [Un tempo per parlare a voce alta, ndtr.] (Verso) ed è autore di un altro saggio della raccolta, Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: punti di vista alternativi sulla governance] (Rowman & Littlefield)

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Achille Mbembe: “La lotta contro l’antisemitismo fallirà se la si usa come arma per praticare il razzismo”

Hassina Mechaï – Parigi, Francia

sabato 27 giugno 2020 – Middle East Eye

Il filosofo, storico, politologo e pensatore post-coloniale camerunense è stato bersaglio di una intensa polemica in Germania. La ragione? Gli è stato rimproverato di aver tracciato un parallelo tra l’apartheid in Sud Africa e la situazione dei palestinesi.

La polemica è iniziata con una lettera aperta di Lorenz Deutsch inviata lo scorso maggio al parlamento del Nord Reno -Westfalia, nell’Est [in realtà nell’ovest, ndtr.] della Germania. In essa il portavoce della politica culturale del gruppo parlamentare FDP (partito liberal-democratico) chiedeva di impedire al filosofo Achille Mbembe di pronunciare un discorso durante la Ruhrtriennale, un importante evento culturale estivo (annullato a causa del COVID-19).

La ragione di questa richiesta? Un passaggio dell’opera di Achille Mbembe intitolata “Politiques de l’inimitié” [Politiche dell’inimicizia. Ed. it.: “Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia”, Laterza, 2019], in cui il docente di storia e scienze politiche all’università di Witwatersrand (Johannesburg, Sudafrica), evocando la politica israeliana di colonizzazione, sostiene che essa “ricorda per certi versi” l’apartheid in Sudafrica. Un parallelo che, secondo il parlamentare tedesco, riguarda l’antisemitismo e il diritto di Israele ad esistere.

Middle East Eye: Le si rimprovera di aver fatto un parallelo tra l’apartheid sudafricano e la situazione di fatto nei territori palestinesi occupati…

Achille Mbembe: No, no, no. Non è vero e molti colleghi tedeschi l’hanno chiaramente capito. Ho scritto nero su bianco, a pagina 72 di “Politiques de l’inimitié”, che la situazione nei territori palestinesi ricorda sotto molti aspetti quella che prevaleva in Sudafrica sotto l’apartheid. Subito dopo ho aggiunto che “la metafora dell’apartheid” non è tuttavia sufficiente a rendere conto di un percorso storico tutto sommato diverso. Questa è sempre stata la mia posizione. Ciò detto, che io abbia tracciato un parallelo o abbozzato un confronto, ciò non equivarrebbe affatto all’antisemitismo. Alcuni ricercatori israeliani hanno fatto anche loro questo genere di analogie. Per coloro che se ne interessano, la comparazione è parte integrante dei metodi utilizzati nelle scienze umane e nelle scienze sociali.

Quando viene fatto in modo corretto non implica alcun giudizio di valore e non ha come scopo mettere su una scala gerarchica avvenimenti diversi. Ciò è indispensabile perché ogni situazione umana e ogni avvenimento sono, per definizione, modellati da una doppia storicità, chiusa e aperta. Come metodo, la comparazione intende giustamente chiarire questa doppia dimensione e rendere più facile la comprensione mutua. Anche questo molti tedeschi lo capiscono.

Questo sordido complotto non ha dunque strettamente niente a che vedere con ciò che io ho detto o scritto, o con il mio lavoro in sé. Ancor meno con chi sono o con le cause che difendo. Tutti quelli che mi hanno anche solo minimamente letto o ascoltato sanno che non sono un propagatore di odio e che non nutro alcun pregiudizio nei confronti di nessuno. Tutto quello che ho detto e scritto e le cause per le quali mi sono battuto riguardano i temi dell’incremento dell’umanità, dell’emergere di una coscienza planetaria e del risanamento del mondo e del vivente.

La verità è che un politico locale, Lorenz Deutch, che pare utilizzi l’antisemitismo come un filone della sua carriera politica, mi ha calunniato senza sapere chi fossi realmente e senza aver letto i miei scritti. La calunnia è stata trasmessa senza alcun esame critico né ricerca seria da un burocrate federale, Felix Klein, che dubito conosca qualcosa dei pensieri – mondo che vengono dal Sud [del mondo].

E il burocrate e il politico hanno visto un negro. Si saranno detti che, nel contesto dell’irrigidimento nazionalista che prevale in Germania, un negro e in più antisemita dovesse necessariamente portare loro dei bei vantaggi politici o di carriera.

Mentre dei veri specialisti nei campi più diversi come gli studi ebraici, gli studi sull’Olocausto, specialisti di studi sui genocidi e sul colonialismo comparato hanno fermamente condannato questa volgare strumentalizzazione dell’antisemitismo, quelli che mi perseguitano hanno messo insieme, pezzo per pezzo, degli argomenti falsi le cui basi non hanno smesso di cambiare, alimentando così una controversia infinita.

MEE: Come ha reagito a questa accusa?

AM: All’inizio ho creduto che si trattasse di una bufala. Ma molto presto ho capito che era un sordido complotto in cui l’antisemitismo non era che un falso pretesto destinato a nascondere dei disegni inconfessabili e, ora ce ne sono prove sufficienti, sostanzialmente razzisti.

Sono profondamente convinto che la lotta contro l’antisemitismo e contro i razzismi sia una causa etica universale. In Germania sono molti coloro che capiscono che questa lotta non è monopolio di chi, avendo commesso i crimini peggiori, vogliono ora presentarsi di fronte al mondo come gli ultimi epigoni del pentimento virtuoso.

Molti sanno anche, nel loro intimo, che non potremo affatto portare a termine questa lotta se la si usa come strumento al servizio della politica di potenza degli Stati.

Inoltre la lotta contro l’antisemitismo fallirà se, coscientemente o senza rendersene conto, se ne fa un’arma per praticare apertamente o di nascosto il razzismo, o un volgare strumento per sporadiche cacce alle streghe. Anche se il loro passato e un pesante senso di colpa impediscono loro di dire tutto ciò a voce alta e in questi termini, alcuni in Germania la pensano proprio così.

Non dovendo rispondere direttamente del passato nazista e avendo per giunta subito le atrocità coloniali dei tedeschi, noi altri siamo nella posizione che ci autorizza a dire due o tre cose essenziali che un tedesco qualunque non si permetterebbe forse di dire. La prima è che la lotta contro l’antisemitismo e i razzismi deve essere messa al servizio della verità, della giustizia e della riparazione del nostro mondo comune.

Secondo, è possibile pensare al rapporto tra i ricordi della sofferenza umana non in modo gerarchico, non in termini di rivalità e di concorrenza, non sulla base delle proprie priorità, ma in termini di risonanza mutua, di condivisione e di solidarietà.

La terza è che se si continua a utilizzare l’antisemitismo come uno strumento per soffocare il grido di quanti ancora aspirano alla giustizia, o per ridurre al silenzio coloro contro cui si provano sentimenti di ostilità di carattere razzista, si finirà per rafforzare i veri antisemiti il cui numero non cessa di aumentare in Germania e altrove in Europa.

MEE: Ma siccome ogni situazione è diversa…

AM: Ancora una volta, ho parlato di “richiamo”, e a ragion veduta. Ricordare o evocare qualcosa o una situazione non significa confrontarla ad altre situazioni. Non significa stabilire dei paralleli. Evocare riguarda la rimembranza. Non riguarda neppure la descrizione. Ricordare è chiamare e far apparire alla mente qualcosa o un avvenimento, ma attraverso le immagini o in modo figurato.

Devo peraltro insistere sul fatto che la comparazione è un esercizio riconosciuto e legittimo in tutti i campi della produzione del sapere. Bisogna davvero ricordare che la comparazione non ha come obiettivo classificare e gerarchizzare delle situazioni e degli avvenimenti, o proclamare che hanno le stesse proprietà e sono identiche?

Ogni situazione ha una storicità sua propria, una propria traiettoria, anche se questa non si forgia che nell’intersezione di relazioni complesse con altre situazioni e traiettorie anch’esse particolari. La questione non è dunque sapere se ho tracciato una comparazione o meno tra la situazione nei territori palestinesi e l’apartheid in Sudafrica. D’altronde se l’avessi fatto non avrei nessuna intenzione di scusarmene.

La vera questione è sapere a cosa si debba la paura della comparazione. Bisogna sapere chi ha interesse a fabbricare degli antisemiti immaginari in un Paese in cui il neonazismo ha il vento in poppa, un Paese in cui l’antisemitismo reale non si limita più agli estremisti, ma tende a diventare la foglia di fico per ogni sorta di sordidi compromessi politici.

Infine ricordo che nessuno dei miei due critici è un esperto o uno specialista in qualcuno dei campi del sapere coinvolti. Da un punto di vista strettamente accademico, non hanno alcuna autorità per giudicare i miei lavori. Questa autorità non la riconosco che ai miei pari che, in base alle norme internazionali in vigore, l’hanno esercitata ogni volta che ho pubblicato articoli sulle riviste scientifiche o libri con editori universitari.

Bisogna che si stia perdendo l’essenziale dei nostri punti di riferimento se, in un Paese democratico, è ormai di competenza dei politici e dei burocrati pronunciarsi in merito ai lavori di ordine scientifico o occuparsi in modo intempestivo della programmazione culturale e artistica.

MEE: Come analizza il meccanismo politico, intellettuale, mediatico che a portato a una simile accusa?

AM: A dire la verità, il meccanismo è relativamente noto e alquanto cinico. Bisogna piuttosto insistere sul contesto globale che rende possibile questa sorta di complotto. Dopo tutto quello di cui l’umanità ha fatto esperienza si sarebbe potuto pensare che nel XXI secolo non sarebbe più stato necessario ripetere che tutte le memorie della Terra, quelle degli esseri umani come di tutti i viventi in generale, senza alcuna distinzione, sono indispensabili per la costruzione di un mondo comune.

Purtroppo c’è chi pensa ancora che non tutti i popoli abbiano diritto alla memoria. Ai giorni nostri c’è ancora chi è convinto che ce l’abbiano solo certi popoli, che non tutte le memorie abbiano lo stesso diritto alla narrazione e ad essere riconosciute. Si sa che questo continuum coloniale, dopo l’epoca moderna, è stato ancorato al razzismo. È così non solo in Germania, ma anche altrove.

Inoltre siamo entrati in pieno in un’epoca in cui contano solo i rapporti di forza e di potere. Ci troviamo ormai a pensare che solo i vincitori abbiano ragione.

In molti contesti prevale l’idea secondo cui si può combattere una causa giusta con metodi perversi, come se combattere una causa etica solo con mezzi immorali non finisse sempre per corrompere la causa stessa. Molti trovano normale porre rimedio a un crimine, se necessario, commettendone un altro a spese di qualcun altro o di qualche altra entità. È questo continuum coloniale e razzista che la Germania deve rompere se, contrariamente ad altre zone d’Europa, vuole contribuire utilmente al dialogo interculturale e universale.

Riguardo al resto, e trattandosi del lato sordido del meccanismo, uno dei rischi in cui incorriamo oggi è la cattura e lo sviamento della lotta contro l’antisemitismo per scopi razzisti, nello stesso momento in cui l’antisemitismo e il razzismo hanno il vento in poppa. Il rischio è che ogni volta che gli ex-colonizzati e i popoli che soffrono tentano di raccontare la propria storia nella propria lingua e si sforzano di interpretarla nelle proprie parole, vengono intimiditi o fatti tacere con l’accusa di paragonare le loro catastrofi all’Olocausto o di essere antisemiti. Il rischio di castrazione di tali memorie non è immaginario.

È la ragione per la quale, per limitarmi alla mia esperienza, le funzioni come quella che occupa Felix Klein esigono da chi le ricopre un massimo di rigore morale, di comprovata competenza intellettuale e di un’alta integrità personale.

In particolare il signor Klein non è sicuramente l’ultimo venuto. Ha una storia. Ha vissuto qualche anno nel mio Paese, il Camerun. Sarebbe utile sapere come ha trattato i camerunensi durante il suo soggiorno in Africa. Avrebbe scritto una tesi – poco nota agli specialisti dell’Africa – sul matrimonio tradizionale in Camerun. La si può leggere? Siccome il concetto di “tradizione” ha giocato un ruolo centrale nell’etnologia colonialista, la tesi di Felix Klein è indenne dai cliché razzisti veicolati da questa disciplina?

MEE: Lei ha ricevuto sostegno accademico e intellettuale. Ciò le sembra sufficiente?

AM: Circa 400 accademici, studiosi, ricercatori, scrittori e artisti di più di una quarantina di Paesi hanno condannato questa manovra. In poche settimane circa 800 intellettuali e scrittori africani hanno firmato una petizione e scritto alla cancelliera tedesca (Angela Merkel) per denunciare queste calunnie. Degli studiosi ebrei e israeliani hanno chiesto le dimissioni di Felix Klein.

Questo giudizio dei miei colleghi pesa ben di più delle parole di un politicante e di un burocrate. In Germania anche voci molto importanti si sono fatte sentire. Alcune persone, a volte con cariche pubbliche, hanno rischiato il proprio posto e mi hanno difeso perché sono convinte che, al di là del mio caso personale, siano in gioco alcune questioni fondamentali. Tutto ciò non solo è importante, è più che mai necessario.

MEE: A parte il suo caso specifico, questo sostegno accademico non è la presa di coscienza di una possibile riduzione della libertà d’espressione e della ricerca su soggetti resi “intoccabili”?

AM: In effetti non si tratta solo del mio caso. Ce ne sono stati molti altri. I bersagli, guarda caso, sono per lo più scrittori e intellettuali originari di Paesi ex-colonizzati o artisti che sono all’avanguardia sulle questioni della giustizia razziale, della brutalità della polizia, dell’inclusione delle minoranze, dell’uguale diritto alla memoria o ancora della decolonizzazione e della riparazione. Si cerca in modo evidente di farli tacere. Si è arrivati fino al punto di accusare eminenti colleghi ebrei di antisemitismo.

Non si tratta solo del fatto che sono in gioco la libertà d’espressione, la libertà accademica e la libertà artistica. È anche la libertà di coscienza che è calpestata. Al ritmo a cui vanno le cose, la Germania sta segnalando che d’ora in avanti il dialogo intellettuale, artistico e culturale tra lei e il resto del mondo si farà soltanto con chi non ha mai criticato alcuni Stati o che rinuncia al principio di comparazione che tuttavia è così fondamentale nelle scienze umane e sociali, e nell’esperienza umana in generale?

MEE: Come interpreta lei, che è un lettore del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, il fatto che questa polemica avvenga in Germania?

AM: Non sono solo un lettore di Walter Benjamin. In realtà sono uno dei pochi intellettuali africani a essersi concentrato con un certo livello di approfondimento su alcune tradizioni del pensiero ebraico.

Durante vari anni ho studiato attentamente testi come quelli (dei filosofi) Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Gershom Scholem, Martin Buber o Emmanuel Levinas. Ciò non fa di me uno specialista del pensiero ebraico. Ma chi mi ha letto attentamente sarà il primo a riconoscere che una parte della mia riflessione si nutre di questa eredità, come di altre eredità del mondo, che faccio dialogare con l’esperienza negra.

La polemica avviene in Germania perché, al di là del suo successo economico, questo Paese attraversa una crisi culturale molto più grave di quanto si voglia riconoscere. Non si può negare che abbia compiuto significativi tentativi di affrontare il suo passato nazista e le sue responsabilità specifiche riguardo all’Olocausto.

Tuttavia, e molti tedeschi sono i primi a dirlo, rimangono altri lati cruciali della sua memoria che si devono affrontare se si vuole davvero arrivare ad essere in sintonia con il mondo. È il caso della memoria del colonialismo e del suo rapporto con le altre catastrofi di questi ultimi due secoli. Del resto questa esortazione non vale solo per la Germania. Riguarda la maggior parte delle potenze europee.

D’altra parte, se vuole davvero dialogare con le altre Nazioni della terra in una posizione di parità, e quindi liberarsi di ogni pregiudizio e altre questioni non precisate, la Germania deve capire una cosa: riconoscere che si è stati il criminale per antonomasia e pentirsi è una buona cosa, ma ciò non concede all’ex-criminale alcuno status morale particolare.

Ciò sicuramente non autorizza a fare mea culpa percuotendo il petto di qualcun altro, o legiferare universalmente su quello che devono essere, ovunque e sempre, i rapporti tra la memoria e la giustizia. Ciò che, per esempio, vale per la Germania non vale necessariamente per il Sud Africa, per la Francia o la Danimarca.

MEE: Più in generale la Germania, come la Gran Bretagna o la Francia (altri Paesi europei), ha adottato la definizione (e gli esempi) di antisemitismo dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA) che suppone che l’antisemitismo, nelle sue forme moderne, arrivi fino all’antisionismo, persino alla critica della politica dello Stato di Israele. Pensa che questa polemica sia anche la conseguenza di questa definizione estesa?

Am: Non posso che ripetermi. Se si vuole gettare discredito su una lotta contro l’antisemitismo a livello planetario è sufficiente metterla al servizio della politica di potere degli Stati. Peraltro non si vinceranno né l’antisemitismo né il razzismo moltiplicando i capri espiatori, per giunta stranieri.

MEE: Questa “sacralizzazione di Israele” non è in fondo la risposta a un antisemitismo europeo rimosso che si risveglia non solo in Germania, ma ovunque in Europa e negli Stati Uniti?

AM: Nessuno mette in discussione il diritto dello Stato di esistere in quanto forma sociale e politica. Ma lo Stato, almeno in un regime democratico, non è un’entità divina. In democrazia, non esiste uno Stato per diritto divino.

La democrazia consiste proprio nella nostra capacità di rimettere continuamente in discussione i fondamenti stessi delle nostre convinzioni e dei nostri atti, del nostro stare insieme e del nostro agire insieme. Ogni Stato può, per definizione, essere sottoposto a una critica e dovrebbe esserlo, perché in materia di genealogia degli Stati l’Immacolata Concezione non vuol dire un granché.

MEE: In Francia gli studi postcoloniali sono a volte sospettati di negare la specificità del genocidio ebraico sollevando la questione di altri genocidi dovuti agli europei nei Paesi del Sud. Perché questo sospetto?

AM: Di cosa si parla esattamente? Di quali autori si parla in particolare? Chi si cerca di criminalizzare e con quale scopo? È un’epoca di confusione e ignoranza volontarie. È attaccata la stessa capacità di verità. Si inventa ogni sorta di mulini a vento e si gioca a spaventarsi. Perché la paura giustifica quasi tutto, compreso il peggio.

MEE: Più in generale, non è anche l’irruzione del Sud nella “narrazione” del mondo e della storia mondiale che è messa in dubbio?

AM: Se è così, allora prima il Nord si sveglierà, meglio sarà senza dubbio per tutti. Il centro di gravità del mondo si sta spostando. Contrariamente a quello di ieri, il mondo del futuro non si costruirà senza di noi. Né contro di noi. O noi lo costruiremo insieme o non durerà. Chi pensa che lo costruirà da solo si sbaglia di grosso.

L’ultima opera di Achille Mbembe, “Brutalisme” [Brutalismo] è stato pubblicato nel febbraio 2020 dalle edizioni La Découverte.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Annessione israeliana: se questa volta Abbas fa sul serio, i palestinesi dovrebbero appoggiare la reazione dell’ANP

Ghada Karmi

18 giugno 2020 – Middle East Eye

Se Israele procederà con la prevista annessione il presidente dell’ANP ha redatto una tabella di marcia per riportare la Cisgiordania occupata ai giorni pre-Oslo

Il mese scorso il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto un duro discorso a Ramallah, denunciando la prevista annessione di Israele e minacciando ritorsioni.

Abbas ha presentato un piano di ritorsioni, ma come nel caso del ragazzo che gridava al lupo, nessuno gli crederà fino a quando non accadrà davvero.

A prima vista, il piano non contiene molto che non sia già stato minacciato, ma che non è mai stato messo in pratica, nemmeno in momenti di gravi provocazioni, come nel 2017, quando Israele ha installato dei metal detector agli ingressi dell’area della moschea di al-Aqsa, o nel 2018, quando l’ambasciata americana fu trasferita a Gerusalemme in violazione del diritto internazionale. Questa volta sarà diverso?

Fine delle relazioni

C’è ragione di crederlo. Il piano di Abbas è più dettagliato delle minacce precedenti, e stabilisce le misure che riporterebbero la Cisgiordania occupata ai giorni precedenti [rispetto agli accordi di] Oslo se Israele procedesse con la progettata annessione.

Prima che nel 1993, con gli accordi di Oslo, fosse creata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), era Israele, in quanto potenza occupante, ad essere responsabile del benessere quotidiano, dei servizi, degli stipendi e della polizia per la popolazione palestinese. Dopo Oslo, [Israele] è stato in grado di scaricare questi oneri sull’ANP, e questa è da allora la situazione. 

Il piano di Abbas prevede di porre fine a quegli accordi, interrompendo tutte le relazioni con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza, chiamandosi fuori da Oslo. Ciò potrebbe includere lo scioglimento dell’ANP, con il suo ruolo ridotto a funzioni civili come la gestione di scuole, ospedali e stazioni di polizia. La soluzione a due Stati, annientata dall’annessione israeliana, non sarebbe più un’opzione.

Ne dovrebbero seguire drastici tagli al bilancio dell’ANP, riducendo gli stipendi di migliaia di persone, impiegate nella sicurezza e altro. Il pagamento mensile di 105 milioni di dollari a Gaza verrebbe tagliato e il trasferimento delle tasse finora raccolte da Israele per conto della ANP si interromperebbe, causando gravi perdite finanziarie e forse addirittura la chiusura totale delle attività del governo.

In altri ambiti, l’ANP cesserebbe di pagare per le cure mediche dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani. Le autorizzazioni per l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele non verrebbero più trattate dall’ANP, che significherebbe la non ammissione e una conseguente perdita di redditi. I lavoratori disperati dovrebbero quindi richiedere i permessi direttamente all’amministrazione militare israeliana dei territori occupati.

Fine al coordinamento per la sicurezza

L’aspetto più significativo del piano, tuttavia, è la minaccia di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele e gli Stati Uniti. Abbas questa volta sembra fare sul serio, e secondo fonti israeliane il processo è già iniziato.

Secondo quanto riferito, la CIA è stata informata dell’intenzione dell’Autorità Nazionale Palestinese che i suoi 30.000 agenti armati della polizia e dell’intelligence cessino di comunicare con le loro controparti israeliane e statunitensi già all’inizio del mese prossimo, essendo l’annessione prevista a partire dal 1 ° luglio. È stato riferito che le forze di sicurezza dell’ANP hanno iniziato a ritirarsi dall’area B, per la maggior parte controllata da Israele ma con un ruolo ridotto dell’ANP.

Se Abbas decide di continuare su questa strada, il prezzo per i palestinesi sarà alto: 80.000 impiegati dell’ANP – il 44 % di tutto il settore pubblico – che lavorano nel settore della sicurezza rimarranno senza stipendio, con tagli di bilancio di circa un terzo del totale delle uscite dell’ANP. La fine del coordinamento per la sicurezza sarà anche un duro colpo per Israele, che per decenni ha fatto affidamento sul subappalto all’ANP delle attività di polizia in Cisgiordania.

Il calcolo di Abbas è che sicuramente la violenza, premeditata o spontanea, sarà fomentata da queste difficoltà e inevitabilmente esploderà nella Cisgiordania occupata, costringendo Israele a controllare nuovamente la popolazione palestinese. Rimane senza risposta il dubbio se ciò accadrà veramente.

Hamas e molti all’interno di Fatah hanno manifestato il proprio appoggio al piano di Abbas, ma esso ha suscitato uno scarso interesse nella società civile palestinese nel suo complesso, che si ricorda di minacce simili in precedenza finite nel nulla. C’è una generale disillusione nei confronti della dirigenza palestinese, vista come incompetente e corrotta. Di conseguenza, nella stampa palestinese ci sono stati pochi commenti e analisi sul piano di Abbas.

Evitare il collasso

Il fatto che le precedenti minacce dell’ANP di porre fine alla cooperazione per la sicurezza con Israele siano state vane è comprensibile. Israele ha il controllo totale sul movimento di persone e beni all’interno dei territori occupati. Lo stesso Abbas deve chiedere il permesso a Israele per viaggiare e le competenze essenziali dell’ANP dipendono dall’autorizzazione di Israele. Senza di essa l’attività economica nella Cisgiordania occupata collasserebbe, paralizzando l’ANP.

Eppure Abbas non ha alternative. Se Israele procede all’annessione, ciò porrà fine alla ragione di esistere dell’ANP. L’Autorità è nata per costruire uno Stato palestinese; l’annessione renderebbe obsoleto questo progetto. In questo contesto la risposta dell’ANP è razionale e l’unico modo per salvare sé stessa dal crollo.

Questo triste ciclo di eventi risale ad Oslo, e prima di questo, all’inesplicabile autorizzazione concessa dal 1967 ad Israele dalla comunità internazionale di colonizzare i territori palestinesi e di imporre il controllo su ogni aspetto della vita dei palestinesi. In questo senso, l’ultima spinta verso l’annessione da parte di Israele non è una sorpresa – e il contro-progetto palestinese arriva semmai troppo tardi.

Ciò lascia aperta una serie di questioni fondamentali: come saranno affrontate le pesanti conseguenze per la popolazione? Che tipo di piano esiste per affrontare la risposta israeliana, che sarà brutale?

Anche con tutto questo, e nonostante tutte le sue lacune, il piano di Abbas merita che i palestinesi mettano da parte il loro scetticismo e lo appoggino, come dovrebbe fare chiunque sia solidale con loro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la sua casa con la sua famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove lei è cresciuta ed ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I punti in comune tra Minneapolis e Gerusalemme sono maggiori di quanto sembri

Jonathan Cook

11 giugno 2020 – Middle East Eye

In un mondo in cui le risorse sono in esaurimento e le economie in contrazione gli Stati si preparano a future rivolte da parte delle classi inferiori in aumento

È difficile ignorare i sorprendenti parallelismi tra le recenti scene di brutalità della polizia nelle città degli Stati Uniti e decenni di violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi.

Alla fine del mese scorso un video diventato virale di un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin, che uccide un uomo di colore, George Floyd, premendo con un ginocchio sul suo collo per quasi nove minuti, ha scatenato due settimane di proteste di massa in tutti gli Stati Uniti e altrove.

Le immagini sono l’ultima inquietante testimonianza visiva di una formazione culturale della polizia degli Stati Uniti per cui essa sembra trattare gli afro americani come un nemico – e rinnova il ricordo di come troppo raramente venga punito il comportamento criminale dei poliziotti.

Il linciaggio di Floyd da parte di Chauvin mentre altri tre agenti osservavano o partecipavano ricorda scene inquietanti e familiari nei territori occupati. I video di soldati israeliani, polizia e coloni armati che picchiano, sparano e esercitano abusi su uomini, donne e bambini palestinesi sono stati a lungo un punto fermo dei social media.

La disumanizzazione che ha permesso l’omicidio di Floyd è stata regolarmente messa in evidenza nei territori palestinesi occupati. All’inizio del 2018 i cecchini israeliani hanno iniziato a utilizzare i palestinesi, compresi minorenni, infermieri, giornalisti e disabili come poco più che bersagli dei poligoni di tiro durante le proteste settimanali presso la barriera perimetrale che circonda Gaza tenendoveli rinchiusi.

Diffusa impunità

E proprio come negli Stati Uniti, l’uso della violenza da parte della polizia e dei soldati israeliani contro i palestinesi raramente porta a procedimenti giudiziari, per non parlare di condanne.

Pochi giorni dopo l’omicidio di Floyd, un uomo palestinese affetto da autismo, Iyad Hallaq, che secondo la sua famiglia aveva un’età mentale di sei anni, è stato colpito con sette colpi dalla polizia a Gerusalemme. Nessuno degli agenti è stato arrestato.

Di fronte all’imbarazzante attenzione internazionale in seguito all’omicidio di Floyd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione inconsueta nei casi di uccisione di un palestinese da parte dei servizi di sicurezza. Ha definito l’omicidio di Hallaq “una tragedia” e ha promesso un’indagine.

I due omicidi, a distanza di pochi giorni, hanno rivelato il motivo per cui gli slogan “Black Lives Matter” e “Palestinian Lives Matter” siano intimamente legati, sia nelle proteste che nei post sui social media.

Ci sono differenze tra i due casi, ovviamente. Oggi i neri americani hanno la cittadinanza, la maggior parte di loro può votare (se riescono a raggiungere un seggio elettorale), le leggi non sono più esplicitamente razziste e hanno accesso agli stessi tribunali – se non sempre alla stessa giustizia – della popolazione bianca.

Non è questa la situazione per la maggior parte dei palestinesi sotto il dominio israeliano. Vivono sotto l’occupazione di un esercito straniero, ordinanze militari arbitrarie governano le loro vite e hanno un accesso molto limitato a qualsiasi tipo di concreto ricorso per adire a vie legali.

E c’è un’altra ovvia differenza. L’omicidio di Floyd ha scosso molti americani bianchi tanto da indurli a partecipare alle proteste. L’omicidio di Hallaq, al contrario, è stato ignorato dalla stragrande maggioranza degli israeliani e apparentemente accettato ancora una volta come prezzo da pagare per il mantenimento dell’occupazione.

Trattati come un nemico

Tuttavia, vale la pena mettere in evidenza i confronti tra le culture razziste delle due polizie. Entrambe scaturiscono da una visione del mondo costruita da società colonialiste, fondate sull’ espropriazione, la segregazione e lo sfruttamento.

Israele vede ancora in gran parte i palestinesi come un nemico che deve essere espulso o costretto a sottomettersi. Nel contempo i neri americani convivono coll’eredità di una cultura bianca razzista che fino a non molto tempo fa giustificava la schiavitù e l’apartheid.

Da tempo palestinesi e afroamericani sono stati depredati della loro dignità; troppo spesso le loro vite sono considerate di scarso valore.

Purtroppo la maggior parte degli ebrei israeliani nega ostinatamente l’ideologia razzista che sta alla base delle loro principali istituzioni, compresi i servizi di sicurezza. In pochi protestano in solidarietà con i palestinesi e quelli che lo fanno sono ampiamente visti dal resto dell’opinione pubblica israeliana come traditori.

Molti americani bianchi, d’altra parte, sono rimasti scioccati nel vedere quanto velocemente le forze di polizia statunitensi, di fronte a proteste diffuse, hanno fatto ricorso a metodi violenti di controllo della folla di un genere fin troppo familiare ai palestinesi.

Tali metodi comprendono la dichiarazione di coprifuoco e la chiusura di zone delle principali città; il dispiegamento di squadre di cecchini contro i civili; l’uso di squadre antisommossa con indosso uniformi o passamontagna senza contrassegno; arresti e aggressioni fisiche di giornalisti chiaramente identificabili; l’uso indiscriminato di gas lacrimogeni e proiettili di acciaio rivestiti di gomma per ferire i manifestanti e terrorizzarli per le strade.

E non finisce qui.

Il presidente Donald Trump ha descritto i manifestanti come “terroristi”, facendo eco al modo in cui gli israeliani definiscono tutte le proteste palestinesi, e ha minacciato di inviare l’esercito americano, il che riproporrebbe con ancora maggiore precisione la situazione affrontata dai palestinesi.

Come i palestinesi, la comunità nera degli Stati Uniti – e ora i manifestanti – hanno registrato esempi degli abusi sui loro telefoni e pubblicato i video sui social media per evidenziare le menzogne delle dichiarazioni della polizia e dei resoconti dei media su ciò che è accaduto.

Testato su palestinesi

Nessuno di questi parallelismi dovrebbe sorprenderci. Per anni le forze di polizia statunitensi, insieme a molte altre in tutto il mondo, hanno fatto la fila alla porta di Israele per imparare dalla sua esperienza decennale nella repressione della resistenza palestinese.

In un mondo caratterizzato dall’esaurimento delle risorse e dalla contrazione a lungo termine dell’economia globale, Israele ha capitalizzato la necessità tra gli Stati occidentali di prepararsi a future rivolte interne da parte di classi inferiori in aumento.

Potendo fare tranquillamente esperimenti nei territori palestinesi occupati, Israele è stato a lungo in grado di sviluppare e testare sul campo sui palestinesi oppressi nuovi metodi di sorveglianza e subordinazione. Essendo le più cospicue classi inferiori degli Stati Uniti, le comunità nere urbane hanno sempre avuto molte più probabilità di trovarsi in prima linea quando le forze di polizia statunitensi hanno adottato nelle loro pratiche un approccio più militarizzato.

Alla fine questi cambiamenti si sono manifestati in modo evidente durante le proteste scoppiate a Ferguson, nel Missouri, nel 2014 dopo che un uomo di colore, Michael Brown, è stato ucciso dalla polizia. Vestita in tenuta antisommossa e sostenuta da camionette blindate, la polizia locale sembrava entrare in una zona di guerra piuttosto che trovarsi lì per “servire e proteggere” [motto di molte polizie locali negli USA, ndtr.].

Addestrati in Israele

È stato allora che le organizzazioni per i diritti umani e altri hanno iniziato a mettere in evidenza in che misura le forze di polizia statunitensi venivano influenzate dai metodi israeliani per assoggettare i palestinesi. Molte forze erano state addestrate in Israele o coinvolte in programmi di scambio.

Soprattutto la famigerata polizia di frontiera paramilitare israeliana [il MAGAV, che non segue la regolare struttura di comando della polizia militare ma risponde direttamente all’agenzia per la sicurezza israeliana, ndtr.] è diventata un modello per altri Paesi. È stata la polizia di frontiera a sparare a morte su Hallaq a Gerusalemme poco dopo che Floyd è stato ucciso a Minneapolis.

La polizia di frontiera svolge la duplice funzione di una forza di polizia e di un esercito, operando contro i palestinesi nei territori occupati e all’interno di Israele, dove esiste una folta minoranza palestinese con diritti di cittadinanza molto ridotti. 

La premessa istituzionale della polizia di frontiera è che tutti i palestinesi, compresi quelli che sono formalmente cittadini israeliani, dovrebbero essere trattati come nemici. È il nucleo della cultura razzista della polizia israeliana, identificata 17 anni fa dal Rapporto Or [frutto del lavoro di una commissione istituita dal governo israeliano nel 2000 durante la seconda Intifada, ndtr.], l’unica analisi seria del Paese riguardo le sue forze di polizia.

La polizia di frontiera sembra sempre più il modello che le forze di polizia statunitensi stanno emulando in città con le vaste comunità di neri.

Molte decine di agenti di polizia di Minneapolis sono stati addestrati da esperti israeliani in tecniche di “antiterrorismo” e di “contenimento” durante un seminario a Chicago nel 2012.

Il soffocamento da parte di Derek Chauvin, con l’utilizzo del ginocchio per fare pressione sul collo di Floyd, è una procedura di “immobilizzazione” molto nota ai palestinesi. In modo inquietante, quando ha ucciso Floyd Chauvin stava addestrando due agenti alle prime armi trasmettendo le competenze istituzionali del dipartimento alla nuova generazione di agenti.

Monopolio della violenza

Queste somiglianze avrebbero dovuto essere previste. Gli Stati inevitabilmente prendono in prestito e imparano gli uni dagli altri sulle questioni più importanti per loro, come reprimere il dissenso interno. Il compito di uno Stato è garantirsi il mantenimento del monopolio della violenza all’interno del proprio territorio.

È la ragione per cui diversi anni fa nel suo libro War Against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017, ndtr.] lo studioso israeliano Jeff Halper ammoniva che Israele è stato fondamentale nello sviluppo di quella che egli chiamava l’industria della “pacificazione globale”. I solidi muri tra i militari e la polizia si erano sgretolati, creando quelli che lui definiva “poliziotti guerrieri”.

Il pericolo, secondo Halper, è che a lungo termine, man mano che la polizia diventerà più militarizzata, è probabile che verremo tutti trattati come i palestinesi. Ecco perché è necessario mettere in evidenza un ulteriore legame tra la strategia degli Stati Uniti nei confronti della comunità nera e quella di Israele nei confronti dei palestinesi.

I due Paesi non stanno solo condividendo tattiche e metodi di polizia contro le proteste una volta scoppiate. Hanno anche sviluppato congiuntamente strategie a lungo termine nella speranza di smantellare la capacità delle comunità nere e palestinesi sotto la loro oppressione di organizzarsi in modo efficace e sviluppare la solidarietà con altri gruppi.

Perdita di direzione storica

Se un insegnamento è chiaro, è quello che l’oppressione può essere meglio contrastata attraverso la resistenza organizzata da un movimento di massa con richieste chiare e una visione coerente di un futuro migliore.

In passato dipendeva da leader carismatici con un’ideologia pienamente sviluppata e ben articolata in grado di ispirare e mobilitare i sostenitori. Si basava anche su reti di solidarietà tra gruppi oppressi di tutto il mondo che condividevano la loro conoscenza ed esperienza.

Una volta i palestinesi erano guidati da figure che avevano il sostegno e il rispetto nazionali, da Yasser Arafat a George Habash e allo sceicco Ahmed Yassin. La lotta che essi conducevano era in grado di galvanizzare i sostenitori di tutto il mondo.

Questi leader non erano necessariamente uniti. Ci furono discussioni sul fatto che il colonialismo di insediamento israeliano sarebbe stato minacciato meglio attraverso la lotta secolare o la forza religiosa, trovando alleati all’interno della Nazione degli oppressori o sconfiggendola usando i suoi metodi violenti.

Questi dibattiti e disaccordi hanno formato ampi strati della comunità palestinese, hanno chiarito la posta in gioco per loro e fornito il senso di una direzione e uno scopo nella storia. E questi leader sono diventati punti di riferimento per la solidarietà internazionale e la passione rivoluzionaria.

Ciò è scomparso da tempo. Israele ha perseguito una politica implacabile di incarcerazioni e assassinii di leader palestinesi. Nel caso di Arafat, è stato confinato dai carri armati israeliani in un complesso a Ramallah prima di essere avvelenato a morte in circostanze fortemente sospette. Da allora, la società palestinese si è trovata orfana, alla deriva, divisa e disorganizzata.

Anche la solidarietà internazionale è stata ampiamente messa a tacere. I popoli degli Stati arabi, già impegnati nelle proprie lotte, appaiono sempre più stanchi della causa palestinese, scissa e apparentemente senza speranza. E, come segnale del nostro tempo, la solidarietà occidentale oggi si impegna principalmente in un movimento di boicottaggio che ha dovuto condurre la sua lotta sul campo di battaglia dei consumi e delle finanze, più favorevole al nemico.

Dallo scontro alla consolazione rassegnata

La comunità afroamericana negli Stati Uniti ha subito processi paralleli, anche se è più difficile accusare i servizi di sicurezza statunitensi in modo così diretto per la perdita, decenni fa, di una leadership nazionale nera. Martin Luther King, Malcolm X e il movimento Black Panther furono perseguitati dai servizi di sicurezza statunitensi. Sono stati incarcerati o abbattuti da assassini, nonostante i loro approcci molto diversi alla lotta per i diritti civili.

Oggi nessuno va in giro a fare discorsi illuminanti e a mobilitare larghi strati di popolazione, americani bianchi o neri, per agire sul palcoscenico nazionale.

Privata di una forte leadership nazionale, a volte la comunità nera organizzata è sembrata essersi ritirata nello spazio più sicuro ma più limitato delle chiese, almeno fino alle ultime proteste. Una politica della consolazione rassegnata sembrava aver sostituito la politica dello scontro.

L’identità al centro

Questi cambiamenti non possono essere attribuiti unicamente alla perdita di leader nazionali. Negli ultimi decenni anche il contesto politico globale è stato trasformato. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica 30 anni fa gli Stati Uniti non solo sono diventati l’unica superpotenza al mondo, ma hanno schiacciato lo spazio fisico e ideologico in cui potrebbe prosperare l’opposizione politica.

L’analisi di classe e le ideologie rivoluzionarie – una politica di giustizia – sono state deviate dai loro percorsi e poste sempre più ai margini del mondo accademico.

Invece gli attivisti politici occidentali sono stati incoraggiati a dedicare le loro energie non all’antimperialismo e alla lotta di classe, ma ad una molto più angusta politica identitaria. L’attivismo politico è diventato una competizione tra gruppi sociali per attirare attenzione e privilegi.

Come per l’attivismo solidaristico palestinese, la politica dell’identità negli Stati Uniti ha condotto le sue battaglie sul terreno di una società ossessionata dal consumo. Gli hashtag e le segnalazioni virtuali sui social media sono spesso apparsi come sostitutivi della protesta sociale e dell’attivismo.

Un momento di transizione

La domanda posta dalle attuali proteste statunitensi è se questo tipo di politica timida, individualista e mirata ad acquisire vantaggi non stia iniziando a sembrare inadeguata. I manifestanti statunitensi sono ancora in gran parte privi di leader, la loro lotta rischia di essere atomizzata, le loro richieste sottaciute e in gran parte confuse – è più chiaro ciò che i manifestanti non vogliono rispetto a ciò che vogliono.

Ciò riflette un attuale stato d’animo per cui le sfide che tutti noi affrontiamo, dalla crisi economica permanente e dalla nuova minaccia di pandemie all’incombente catastrofe climatica, sembrano troppo grandi, troppo gravi per dar loro un significato. Sembra che siamo intrappolati in un momento di transizione, destinato [a precorrere] una nuova era, buona o cattiva, che non possiamo ancora definire chiaramente.

Ad agosto, ci si aspetta che milioni di persone si dirigano a Washington in una marcia che ricordi quella guidata da Martin Luther King nel 1963. Il pesante fardello di questo momento storico dovrebbe essere portato sulle anziane spalle del reverendo Al Sharpton [religioso, attivista e politico statunitense, ndtr.].

Quel simbolismo può essere appropriato. Sono trascorsi più di 50 anni da quando gli Stati occidentali sono stati per l’ultima volta coinvolti dal fervore rivoluzionario. Ma la fame di cambiamento, che raggiunse il suo apice nel 1968, per la fine dell’imperialismo, della guerra infinita e della dilagante disuguaglianza, non è mai stata saziata.

Le comunità oppresse in tutto il mondo hanno ancora fame di un mondo più giusto. In Palestina e altrove, coloro che soffrono per la brutalità, la miseria, lo sfruttamento e l’indignazione hanno ancora bisogno di un paladino. Guardano a Minneapolis e alla lotta che ne è scaturita come ad un seme di speranza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico che opera a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)