Coronavirus: i lavoratori palestinesi affrontano una difficile scelta tra garanzie di sussistenza e isolamento

Akram Al-Waara da Betlemme, nella Cisgiordania occupata

18 marzo 2020 – Middle East Eye

Per migliaia di palestinesi che lavorano in Israele le restrizioni legate alla pandemia hanno comportato la rinuncia al reddito necessario o il rischio di restare separati per mesi dalle loro famiglie

Quando nella città di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, è stato confermato il primo caso del nuovo coronavirus o COVID-19, un improvviso sentimento di panico ha travolto la piccola città.

Mentre scuole, università e aziende iniziavano a chiudere, migliaia di cittadini si sono rifugiati nelle loro case in previsione di quello che sarebbe successo dopo.

Ma quando i confini della città sono stati chiusi e i vicini posti di controllo con Israele hanno iniziato ad rimanere bloccati, ha cominciato a manifestarsi un nuovo senso di ansia, questa volta per le migliaia dei cittadini lavoratori che operano all’interno di Israele.

“Lo stato di emergenza è stato annunciato giovedì (5 marzo) e alla conclusione del fine settimana tutto era cambiato”, ha riferito a Middle East Eye Kareem A., un operaio edile di 51 anni di Betlemme.

La diffusione del coronavirus sia in Israele che in Cisgiordania ha avuto un profondo impatto sulla forza lavoro palestinese all’interno di Israele – con le ultime restrizioni che costringono i lavoratori palestinesi a scegliere tra mesi di separazione dalle loro famiglie – o il crollo economico.

Nuove restrizioni

Kareem ha saputo che Israele aveva chiuso il posto di controllo 300, il principale punto di ingresso dell’intera Cisgiordania meridionale in Israele per migliaia di lavoratori palestinesi.

“Ho deciso di provare a passare comunque”, dice, “sperando che avrebbero fatto delle eccezioni per i lavoratori”. Ma Kareem e centinaia di suoi colleghi sono stati fermati e rimandati a casa.

“Abbiamo sperato che fosse solo una cosa temporanea, fino a quando non avessero trovato un modo per far entrare i lavoratori di Betlemme”, afferma, “ma sembra che sarà un problema molto più duraturo”.

Mentre i lavoratori di Betlemme dal 5 marzo sono rimasti bloccati a casa, decine di migliaia di lavoratori palestinesi degli altri distretti della Cisgiordania hanno attraversato la Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] in modo relativamente incontrollato.

Il primo caso di coronavirus al di fuori di Betlemme è stato confermato la scorsa settimana nel distretto settentrionale di Tulkarem. Il paziente era un manovale che lavorava in Israele.

Mentre il virus continuava a diffondersi in Israele e in Cisgiordania, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno iniziato a porre sempre maggiori restrizioni agli spostamenti all’interno e tra i territori.

Martedì il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett, che ha preso la decisione iniziale di chiudere i posti di blocco intorno a Betlemme, ha annunciato una serie di restrizioni ancora più pesanti nei riguardi dei lavoratori palestinesi provenienti da altre parti della Cisgiordania.

Bennett ha limitato l’ingresso ai lavoratori che ha classificato come impegnati in settori “essenziali”, come l’edilizia, l’assistenza sanitaria e l’agricoltura. Tutti gli altri, nell’immediato futuro, dovrebbero rimanere a casa.

Con una mossa sconvolgente Bennett ha annunciato che qualsiasi lavoratore che avesse deciso di continuare a lavorare in Israele sarebbe stato costretto a rimanere lì e non avrebbe potuto tornare a casa per almeno uno o due mesi.

Ai lavoratori palestinesi sono stati concessi tre giorni per prendere una decisione: andare al lavoro e restare separati dalle loro famiglie a tempo indeterminato o rimanere a casa, impossibilitati a guadagnarsi da vivere. Indipendentemente da ciò che avessero deciso, dopo tre giorni i confini sarebbero stati chiusi da entrambe le parti.

Non è apparso chiaro se le stesse eccezioni sarebbero state estese ai lavoratori di Betlemme, dal momento che i posti di controllo tra Israele e la città rimangono chiusi.

La notizia è stata uno shock sia per i funzionari israeliani che la considerano una grave “minaccia alla sicurezza”, sia per i palestinesi, i cui permessi di lavoro di solito non consentono loro di rimanere in Israele durante la notte.

“Ho deciso di correre il rischio e venire a stare qui perché non ho davvero altra scelta”, dice a MEE Wael A, un lavoratore di Betlemme.

Wael ha attraversato illegalmente [il confine con] Israele da Betlemme la scorsa settimana, insieme a un amico e ad alcuni altri lavoratori.

“Non sapevamo quanto sarebbe durata la quarantena a Betlemme”, sostiene, “e dovevamo dar da mangiare alle nostre famiglie” aggiungendo che i lavoratori, in genere quelli senza permesso, spesso rimangono illegalmente in Israele durante la notte per evitare il rischio di passare quotidianamente attraverso i punti di controllo.

In quel momento Wael non poteva immaginare che Israele avrebbe permesso ai lavoratori di rimanere per un lungo periodo di tempo nel Paese con un alloggio adeguato fornito a spese del datore di lavoro.

Wael e il suo amico hanno dormito nel cantiere dove lavorano, ma sperano di poter legalizzare “in modo retroattivo” il loro soggiorno e trovare una sistemazione adeguata.

Tuttavia afferma di temere che se le autorità israeliane leggessero “Betlemme” sulle loro carte d’identità, verrebbero rimandati a casa.

“Devo pagare la casa, l’auto e ho tre bambini da nutrire”, dice. “Non posso permettermi di rimanere bloccato a Betlemme in questo momento.”

“Israele ha bisogno di noi”

I rischi [insiti nel] consentire ai palestinesi di lavorare in Israele e quindi tornare a casa possono sembrare agli osservatori esterni troppo elevati nel corso di una pandemia.

Ma per i palestinesi la decisione non è affatto sorprendente.

“Israele non può sopravvivere a questa [pandemia] senza i lavoratori palestinesi”, afferma Kareem a MEE. “La loro economia è troppo dipendente da noi per non consentire ai lavoratori di entrare”.

Si stima che 120.000 palestinesi, con e senza permesso, lavorino in Israele, costituendo una forza lavoro consistente e a basso costo principalmente nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

“Mentre gli israeliani stanno nelle loro case, “prosegue Kareem”, ci stanno mettendo al lavoro in modo che il sistema non crolli”.

Kareem afferma di ritenere che Israele rischierebbe “senza alcun dubbio” la salute della forza lavoro palestinese “in nome della salvaguardia della sua economia”.

“Stanno permettendo ai palestinesi di mettere a repentaglio le proprie vite mentre dicono agli israeliani di rimanere a casa e di stare al sicuro”.

Un disastro economico e nessuna rete di salvataggio

Per gli operai ancora bloccati a Betlemme il futuro sembra ogni giorno più incerto.

“Ogni giorno senza lavoro è un altro che ci avvicina al disastro economico”, sostiene Kareem a MEE dalla sua casa in un campo profughi locale.

Kareem, sposato e padre di quattro figli, è l’unico a mantenere la sua famiglia di sei persone. In un mese buono Kareem guadagna circa 250 shekel (61 euro) al giorno, il 20%  dei quali va ai pasti quotidiani e al trasporto per e dal suo [posto di] lavoro alla periferia di Tel Aviv.

Ma, osserva, “i mesi appena trascorsi sono stati segnati da festività ebraiche e dal maltempo, quindi non abbiamo avuto molto lavoro nei cantieri”.

“Quindi non è come possedere dei risparmi su cui poter contare per arrivare alla fine del mese”, dice. “Niente lavoro significa niente soldi.” Come conseguenza della sua impossibilità di recarsi al lavoro, Kareem riferisce di aver ricevuto dal suo datore di lavoro israeliano dei messaggi che minacciavano di assegnare il suo lavoro a qualcun altro, revocandogli, quindi, il permesso.

“Vogliono continuare a fare soldi e non possono farlo con i lavoratori di Betlemme”, ha detto, aggiungendo che un certo numero di datori di lavoro ha licenziato i lavoratori di Betlemme e li ha sostituiti con lavoratori palestinesi di altre parti della Cisgiordania.

Egli teme che, se un numero sufficiente di lavoratori facesse la scelta di andare in Israele e restarci per i prossimi due mesi, il suo lavoro sarebbe ancora di più a rischio.

“Li ho pregati di non levare il mio nome dall’elenco dei dipendenti, ma non so cosa faranno.”

Preoccupazioni per la salute

Anche con un rischio così elevato per i lavoratori e le loro famiglie, la preoccupazione principale per la maggior parte dei palestinesi rimane la loro salute personale e quella della loro comunità.

Prima dell’annuncio di martedì scorso da parte di Bennett molti in Cisgiordania avevano paura del rischio che i lavoratori potessero portare il virus da Israele, che ha un tasso significativamente più alto di infezioni da coronavirus rispetto al territorio palestinese.

“Come lavoratore, è stato spaventoso sapere che stavamo andando in Israele”, ha detto Wael a MEE. “Ovviamente nessuno vuole ammalarsi e quindi rischiare di portare [l’infezione] alle proprie famiglie e alla propria comunità”.

Ma sarebbe un rischio che Wael dice di essere costretto a correre.

“Né il nostro governo né il governo israeliano proteggono i nostri diritti di lavoratori in Israele”, afferma. “Preferirei ammalarmi piuttosto che lasciare che la mia famiglia muoia di fame o che la banca ci perseguiti.”

Con le nuove misure annunciate martedì, tuttavia, gli esperti locali della salute sperano che la pressione economica sui lavoratori palestinesi possa essere parzialmente alleviata mantenendo rigide linee guida sulla salute pubblica.

“Siamo scettici sul fatto che gli operai si debbano recare in Israele per lavorare, perché questo aumenta le possibilità che portino qui il virus e lo diffondano”, sostiene a MEE il dott. Imad Shahadeh, capo della divisione di Betlemme del Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ma,  afferma, consentire ai lavoratori di rimanere all’interno di Israele in alloggi appositi riduce alcuni di questi rischi.

“Prevenire la diffusione del virus”, dice Shahadeh, “è una buona misura”, aggiungendo di sperare che i lavoratori siano al sicuro dal virus, “attraverso la riduzione al minimo dei loro rapporti con israeliani e con non lavoratori”.

Shahadeh aggiunge che l’Autorità Nazionale Palestinese starebbe già pianificando di attuare una serie di misure in occasione del ritorno dei lavoratori dopo uno o due mesi, tra cui controlli sanitari ai posti di blocco e ai punti di ingresso e l’imposizione di un’auto-quarantena obbligatoria per 14 giorni dopo il rientro in Cisgiordania.

Per Kareem, le misure adottate dai governi israeliano e palestinese non sarebbero ancora sufficienti e non coprirebbero i rischi.

“Permettere ai lavoratori di dormire in Israele sta mettendo a rischio la salute di tutti i lavoratori”, dice, affermando che qualcuno “inevitabilmente” prenderà il virus, che “non fa distinzione tra palestinesi e israeliani”.

“Anche se tutti saranno sottoposti a screening e messi in quarantena, metteranno comunque a rischio la comunità al loro arrivo”, sostiene. “E se si ammaleranno in Israele, ci possiamo davvero fidare che il governo israeliano dia la priorità delle cure ai lavoratori palestinesi?”

Nonostante non sia d’accordo con le iniziative dei governi, Kareem afferma di non giudicare alcun lavoratore per le sue decisioni.

“So come si sentono. Hanno un disperato bisogno di prendersi cura delle loro famiglie “, dice. “Quindi, se stanno sacrificando la loro salute per salvare le loro famiglie, li capisco.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Bibi ti sta guardando: Israele schiera le sue spie per combattere il coronavirus

Yossi Melman da Tel Aviv, Israele

Mercoledì 18 marzo 2020 – Middle East Eye

Le misure di sorveglianza proposte da Benjamin Netanyahu con il pretesto della pandemia minacciano un sistema di governo democratico già in crisi

Con il pretesto della pandemia di coronavirus e del peggioramento che ne è seguito della stabilità politica nel Paese, il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha fatto pressione a favore di misure estreme destinate a compromettere ancor di più diritti democratici e libertà civili già fragili.

Lunedì sera Netanyahu, che, dopo tre elezioni in quindici mesi che hanno portato a una paralisi, attualmente dirige un governo ad interim, ha autorizzato la polizia e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, a sorvegliare le persone sospettate di aver contratto il virus.

Il piano del primo ministro consiste nel trasformare in armi contro la pandemia le stesse tecnologie utilizzate oggi dai servizi di sicurezza e, in misura minore, dalla polizia per lottare contro i miliziani armati e i delinquenti comuni.

Grande Fratello

Nel giro di una quindicina d’anni i servizi di intelligence israeliani hanno sviluppato uno degli strumenti di sorveglianza più avanzati al mondo per controllare e spiare i militanti palestinesi e le persone considerate nemiche dello Stato. Queste tecnologie consentono in particolare di localizzare i computer e di frugare dentro i telefoni effettuando verifiche incrociate sulla posizione delle antenne e dei segnali trasmessi.

Insieme alle telecamere di sorveglianza installate agli angoli delle strade delle “città sicure” (cioé molto sorvegliate) e al controllo sulle attività in rete, in particolare su Google, Twitter, Facebook e YouTube, esse rendono “visibile” la gente e la “mettono a nudo”.

Utilizzando i dati raccolti, queste tecnologie possono seguire e registrare gli spostamenti e il luogo in cui si trovano le persone, non solo in rete ma anche nella vita reale, e può anche recuperare questi stessi dati che le riguardano per un lasso di tempo di due o tre settimane.

Questa tecnologia, che Israele utilizza da anni nelle guerre e per seguire dei delinquenti, non è esclusiva di questo Paese. Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Iran all’Italia, dal Qatar alla Russia, passando per l’Arabia Saudita, è presente e largamente utilizzata, incarnando perfettamente il concetto di Grande Fratello.

Tuttavia Israele è il primo Paese a riconoscere pubblicamente la sua intenzione di utilizzarla per cercare di arginare la propagazione del coronavirus.

Saltare la coda

Nessuno può mettere in discussione l’importanza di contenere e bloccare il virus per “appiattire la curva” [dei contagi, ndtr.], cosa che è ancora più importante oggi per Nazioni come Israele e l’Italia, i cui cittadini si sono fatti, e a ragione, la fama di Paesi dal comportamento caotico e poco inclini a seguire le regole.

C’è qualcosa di più israeliano che saltare la coda?

Così, in un momento in cui ci si chiede di tenerci lontani, di unirci solo in piccoli gruppi, di evitare le strette di mano e di controllare la nostra igiene personale, in realtà è difficile per le autorità israeliane imporre queste norme di comportamento.

Di fronte a queste difficoltà e alla crescente preoccupazione dei responsabili locali dei servizi sanitari, che temono che Israele, con “solo” 304 casi di coronavirus (al 17 marzo) fortunatamente finora non letali, debba ben presto affrontare un’esplosione esponenziale che colpirebbe decine di migliaia di persone, il governo ha introdotto il sistema di spionaggio in ambito civile, presentandolo come una cosa assolutamente necessaria.

Un’intrusione nella vita privata

Il governo di Netanyahu ha fornito garanzie riguardo al fatto che le tecnologie verranno utilizzate unicamente con lo scopo di localizzare ed identificare gli individui che senza saperlo sono stati in contatto con una persona trovata positiva al coronavirus.

Inoltre la decisione è stata approvata dal procuratore generale, con l’impegno che dopo 30 giorni le informazioni raccolte verranno distrutte.

Tuttavia molti israeliani si oppongono per vari motivi a queste misure. In primo luogo, chi le critica indica l’esempio di Taiwan, dove la sorveglianza informatica è stata utilizzata per impedire la propagazione dell’epidemia, ma in modo un po’ diverso. Il governo di Taiwan ha distribuito dei telefoni specificamente destinati ai casi sospetti, al fine di evitare di sorvegliare i telefoni privati dei cittadini.

Numerosi israeliani rifiutano questa decisione solo per principio. Secondo loro le democrazie non devono spiare i propri cittadini e queste nuove misure rappresenterebbero una palese violazione dei diritti umani, che aprirebbe la strada a un’invasione della loro vita privata (quello che i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana conoscono bene).

Ma la maggiore preoccupazione deriva dal modo in cui la decisione è stata presa.

La Knesset ignorata

Per formulare la sua decisione come una misura legale, Netanyahu e il suo governo hanno attivato delle leggi d’emergenza inizialmente adottate dal governo del mandato britannico che controllò la Palestina dal 1918 al 1948.

Nel 1939, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, le autorità britanniche promulgarono queste leggi d’emergenza per combattere la Germania nazista. Ma dopo l’indipendenza d’Israele nel 1948 sono state utilizzate principalmente contro i palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gaza, ma raramente contro cittadini israeliani e sicuramente non in modo massiccio, come avviene ora.

Cosa ancora più inquietante, queste leggi d’emergenza intese a sorvegliare i cittadini sono state promulgate senza l’approvazione né la supervisione della Knesset, il parlamento israeliano.

In effetti una sottocommissione della commissione Affari Esteri e Sicurezza, che controlla i servizi di intelligence e che è diretta dall’ex-capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gabi Ashkenazi, ha rifiutato di approvare il progetto di legge senza una discussione approfondita. Netanyahu ha approfittato della confusione politica per ignorare la Knesset e imporre le leggi d’emergenza.

Il mese scorso il partito “Blu e Bianco” diretto da Benny Gantz, un altro ex-capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha paragonato le iniziative di Netanyahu a quelle del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

In seguito alle ultime elezioni in Israele, tenutesi due settimane fa, Gantz, con l’appoggio dei deputati israelo-palestinesi della Knesset, gode in parlamento di una maggioranza molto risicata (61 a 59). Tuttavia, a causa delle lotte intestine nel suo partito, gli risulta difficile formare un governo di coalizione per sostituire Netanyahu.

Un passo ulteriore

Nel frattempo le leggi d’emergenza non sono che una nuova pietra dell’edificio di comportamenti e di tendenze che minacciano il sistema democratico israeliano.

Netanyahu e suo figlio Yair non smettono di attaccare i media, definendo “di sinistra” i giornalisti nella speranza di far chiudere i giornali e le catene televisive indipendenti che, in realtà, non fanno che prendersi la briga di controllare le loro azioni.

Il duo padre-figlio, circondato da ministri accondiscendenti, ha anche attaccato senza sosta il sistema giudiziario del Paese.

Con il pretesto del coronavirus, il ministro della Giustizia Amir Ohana, fedele seguace di Netanyahu, ha ordinato la chiusura dei tribunali da sabato scorso a mezzanotte, per impedire l’inizio del processo a Netanyahu per corruzione, che doveva iniziare questo mercoledì.

Con tante misure prese per erodere la democrazia, gli israeliani temono in effetti che Netanyahu sia già ben incamminato per guidare Israele allo stesso modo in cui un certo numero di uomini forti di destra, da Erdogan a Vladimir Putin, passando per Jair Bolsonaro, governano le rispettive Nazioni.

All’ombra del coronavirus, la democrazia israeliana, già in crisi, si batte per salvare la sua anima e garantirsi la sopravvivenza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Per la prima volta nella storia di Israele, tra la popolazione ebraica si profila un vero campo della pace

Jonathan Cook

giovedì 5 marzo 2020  Middle East Eye

Nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu e l’estrema destra siano i grandi vincitori del voto di lunedì, un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembra aver sostenuto la “Lista Unita”

Gli ci sono forse voluti un anno e tre elezioni per riuscirci, ma martedì Benjamin Netanyahu ha iniziato ad assomigliare al grande Houdini – il re dell’evasione – della politica israeliana.

La coalizione di Netanyahu, composta da partiti di coloni ed estremisti religiosi, ha ottenuto 58 seggi sui 120 del parlamento, e quindi gli mancano 3 seggi per avere la maggioranza assoluta.

Ma, cosa ancor più importante, il suo Likud ha ottenuto tre seggi in più del suo principale rivale, Benny Gantz, ex-generale dell’esercito che guida il partito laico di destra “Blu e Bianco”.

Netanyahu ha vinto, anche se il procuratore generale recentemente lo ha incriminato per una serie di accuse di corruzione. Il suo processo deve iniziare tra due settimane.

I palestinesi vanno a votare

Eclissato dalla trama principale, che si è giocata tra Netanyahu e Gantz, l’altro argomento importante di queste elezioni è l’ondata di sostegno alla “Lista Unita”, la fazione che rappresenta la grande minoranza palestinese d’Israele.

Ha ottenuto quindici seggi – due deputati in più che in settembre – cioè la sua rappresentanza più numerosa alla Knesset. La “Lista Unita” è ora di gran lunga il terzo più grande partito del Paese.

Benché sia troppo presto per sapere con certezza perché il tasso di partecipazione a favore della Lista sia aumentato, ci sono tre probabili spiegazioni.

Una di queste è che i cittadini palestinesi, ossia un quinto della popolazione israeliana, sembrano avere per la prima volta l’impressione che il loro voto sia importante, o almeno che dovrebbe esserlo.

Lo scorso aprile, alle prime elezioni dell’attuale serie [di votazioni], meno della metà degli elettori di questa minoranza era andata alle urne, facendo ottenere alla Lista 10 seggi. È probabile che questa volta abbiano votato circa i due terzi.

Ciò è in parte legato al piano Trump, che favorisce quello che viene chiamato uno “scambio di terre”, un obiettivo della destra guidata da Netanyahu. Questo scambio permetterebbe a Israele di annettere delle colonie e in cambio circa 250.000 palestinesi sarebbero privati della cittadinanza israeliana e assegnati allo “Stato (palestinese) in attesa” ridotto a brandelli.

Questa minaccia – la pulizia etnica attraverso un gioco di prestigio – ha molto probabilmente fatto infuriare molti cittadini palestinesi d’Israele che in precedenza avevano boicottato le elezioni o che erano troppo disillusi per andare a votare. Volevano dimostrare che il fatto che siano cittadini non può essere ignorato, né da Trump né da Netanyahu.

Un nuovo potere

Ma la rimonta della “Lista Unita” è precedente al piano Trump. In settembre il tasso di partecipazione della minoranza era salito a circa il 60%.

Fino a poco tempo fa – e sicuramente dopo lo scoppio della seconda Intifada, vent’anni fa -, la sensazione era che la politica israeliana fosse una faccenda esclusivamente ebraica. La maggioranza sionista era d’accordo sulle questioni politiche fondamentali, e i cittadini palestinesi non credevano di poter cambiare le cose. La loro voce non aveva la minima importanza.

Ma le ultime tre elezioni suggeriscono un lieve cambiamento. È vero che questa minoranza continua a non essere ascoltata. Di fatto gli oppositori di Netanyahu, che si tratti di “Blu e Bianco” di Gantz o della nuova coalizione guidata dai laburisti, hanno attivamente preso le distanze dalla “Lista Unita”, dato che Netanyahu ha ribattuto loro che sarebbe immorale contare sui deputati “arabi” per governare.

Quello che hanno invece dimostrato le tre elezioni è che, con il suo voto, la minoranza potrebbe bloccare il cammino di Netanyahu verso il potere e vendicarsi così del suo costante incitamento all’odio contro di loro e i loro rappresentanti in quanto traditori e nemici dello Stato ebraico.

Infatti, se il tasso di partecipazione dei cittadini palestinesi fosse stato sensibilmente minore, Netanyahu avrebbe probabilmente ottenuto i 61 seggi di cui ha bisogno.

È precisamente il suo timore del voto dei palestinesi che ha portato Netanyahu a moderare le sue provocazioni contro la minoranza durante le ultime tappe della campagna elettorale. Precedenti considerazioni, del tipo che “gli arabi ci vogliono annientare tutti, uomini, donne e bambini,” durante le ultime elezioni di settembre gli si sono rivoltate contro, facendo salire la partecipazione della minoranza.

Tuttavia questa nuova sensazione di potere potrebbe non durare. Deriva dal fatto che Netanyahu ha profondamente diviso l’elettorato ebraico. Senza di lui potrebbe ristabilirsi rapidamente un consenso sionista, che tratta i palestinesi come semplici pedine da spostare a piacere sullo scacchiere ebraico.

Scomparsa del campo della pace

L’altra spiegazione probabile, e ottimistica, di questa ondata è che un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembrano aver sostenuto la “Lista Unita”.

La Lista comprende quattro partiti politici, di cui uno solo – il socialista “Hadash” – si presenta come un partito di arabi ed ebrei. L’unico posto che riservava di solito a un parlamentare ebreo in una posizione nella sua lista che ne permettesse l’elezione rifletteva il fatto che pochissimi ebrei israeliani sostenevano il partito.

La riduzione del sostegno degli ebrei non ha fatto che aumentare quando “Hadash” è stato obbligato da una nuova legge che ha imposto una soglia di sbarramento ad entrare nell’accordo della “Lista Unita” in tempo per le elezioni del 2015. Ha dovuto stare insieme a un partito islamista e a un partito liberale che rifiuta esplicitamente Israele in quanto Stato ebraico.

E allora, perché questo palese cambiamento in queste elezioni?

Gli ebrei che si identificano come parte del campo della pace si sono sentiti abbandonati dai loro partiti tradizionali di “sinistra sionista” – laburisti e Meretz. Nel momento in cui l’opinione pubblica ebraica si sposta sempre più a destra, i due partiti della “pace” si sono affrettati a seguirla. Né l’uno né l’altro ormai parlano più di uno Stato palestinese o della fine dell’occupazione.

Il colpo finale è stato durante queste elezioni quando, per salvarsi dall’oblio elettorale, il Meretz, il partito sionista più a sinistra, è entrato in una coalizione formale non solo insieme al partito Laburista, di centro, ma con “Gesher”, la cui dirigente Levy-Abekasis è una transfuga del partito di estrema destra di Lieberman, “Israel Beytenu [Israele Casa Nostra, ndtr.].

I laburisti, partito fondatore di Israele, e il Meretz speravano che questa decisione li avrebbe rafforzati. Al contrario, segna un altro importante passo verso la loro scomparsa. Insieme dovrebbero ottenere sette seggi, uno in più di quelli che i laburisti avevano conquistato da soli lo scorso aprile – il peggior risultato del partito fino ad allora.

Una vera sinistra”

Il centro israeliano è schiacciato da ogni lato: i sostenitori più guerrafondai del partito Laburista si sono rivolti verso “Blu e Bianco”, mentre i pacifisti del Meretz sembrano attratti dalla “Lista Unita”.

Può darsi che si tratti di un piccolo numero, ma è uno sviluppo incoraggiante – quasi rivoluzionario. Ciò suggerisce che per la prima volta nella storia d’Israele nella popolazione ebraica si profila un vero campo della pace. Non un campo alla ricerca di un’illusoria soluzione a due Stati, fondata sui privilegi degli ebrei, ma un campo pronto a sedersi a fianco dei partiti palestinesi in Israele e a sostenerli, anche se come partner di minoranza.

Il capo della “Lista Unita”, Ayman Odeh, martedì ha festeggiato questo cambiamento, dichiarando: “È l’inizio della nascita di una vera sinistra.”

Questo potrebbe dimostrarsi l’aspetto positivo in un quadro molto più cupo di queste elezioni, nelle quali gran parte della popolazione ebrea israeliana ha chiaramente indicato non solo che, ancora una volta, non si interessa affatto delle violenze contro i palestinesi, sotto occupazione o cittadini [d’Israele, ndtr.], ma che ora è diventata insensibile all’autoritarismo e agli abusi contro ciò che resta delle loro istituzioni democratiche.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Le elezioni di Israele al tempo del coronavirus danno Netanyahu in ottima salute

Lily Galili da Tel Aviv

3 marzo 2020 – Middle East Eye

La composizione del prossimo governo israeliano e le prospettive di altre elezioni sono poco chiare. Ma una cosa è certa: il primo ministro ha messo a segno un colpaccio

Le elezioni di lunedì, ai tempi del coronavirus, in cui migliaia di israeliani in quarantena hanno votato in seggi speciali anti-contagio, non sono state solo il terzo turno di votazioni. Sono state un referendum sul primo ministro Benjamin Netanyahu, accusato di corruzione e truffa, e sullo stato di diritto e sulla democrazia.

Netanyahu, che sarà processato il 17 marzo, ha vinto.

I risultati non sono ancora definitivi, ma, in base al 90% dei voti scrutinati, il Likud supera “Blu e Bianco” con 36 seggi a 32.

La sua alleanza di destra ultra-ortodossa ottiene 59 [al 99% dei voti scrutinati il blocco guidato da Likud scende a 58 e Blu Bianco sale a 33 ndt] dei 120 seggi al parlamento israeliano, la Knesset. Nel contempo il blocco di centro-sinistra è ridotto a 54 seggi, con il partito Laburista- Meretz che ha ottenuto solo sei deputati.

La sinistra sionista, per come la conoscevamo, è scomparsa. Abbandonata dagli ebrei israeliani, ora si deve alleare con i cittadini palestinesi di Israele per sopravvivere.

Benché l’Israele democratica e liberale abbia perso, in un certo modo gli israeliani hanno vinto. Con la più alta affluenza alle urne in 20 anni (circa il 72%) questa volta gli israeliani hanno mandato un chiaro messaggio e forse hanno persino evitato la cosa che più temevano: una quarta tornata elettorale.

Più che votare per un candidato, gli israeliani hanno votato per se stessi. I circa 250.000 elettori – ebrei e arabi – che avevano scelto di starsene a casa durante le elezioni di settembre questa volta sono andati alle urne. La maggior parte dei nuovi voti sono andati al Likud di Netanyahu, anche se un numero considerevole [di voti] è andato alla coalizione “Lista Unita” dei partiti palestinesi.

Stando così le cose, sembra probabile che questi nuovi elettori abbiano evitato di essere di nuovo chiamati al voto. Hanno anche garantito il fatto che la “Lista Unita” sia il terzo maggiore partito, passando da 13 a 14 seggi. [15 a fine scrutinio ndt]

Ma soprattutto hanno incoronato Bibi.

Sotto attacco

Se non importano la corruzione e la totale mancanza di limiti e di moralità del leader, allora questa scelta ha senso.

Se non importa che l’annessione delle colonie nella Cisgiordania occupata sia immorale e cambi la vita sia degli israeliani che dei palestinesi, allora Netanyahu è certamente la scelta giusta.

Se non importa il razzismo che si diffonde più rapidamente del coronavirus, questa scelta è pienamente giustificata. Mentre le acque si stanno calmando, gli strateghi concordano: la frase che Netanyahu ha ripetuto in continuazione – “Gantz non può governare senza Tibi”, in riferimento ad Ahmad Tibi, il leader della “Lista Unita” – si è dimostrata estremamente efficace.

Tibi è stato usato da Netanyahu non solo come slogan, ma come simbolo della minaccia collettiva che il primo ministro accusa ogni arabo di rappresentare per lo Stato ebraico.

Benny Gantz, il principale sfidante di Netanyahu e capo del partito “Blu e Bianco”, ha scelto di essere messo in un angolo, impegnandosi a formare un governo solo di ebrei e definendo la “Lista Unita” un partner illegittimo.

Così facendo ha reso ancor più sfumato il confine tra il suo partito e il Likud e non ha fornito nessuna ragione per votarlo.

Netanyahu, giustamente definito il miglior personaggio nelle campagne elettorali della storia politica di Israele, ha condotto da solo la campagna elettorale più sporca, vergognosa e di livello più basso di sempre. Ha vinto.

Ciò dice molto di lui e ancor di più di quello che Israele è diventato.

Il processo democratico è servito come strumento per creare un Israele ancora meno democratico, più razzista e rancoroso. Ora è un Paese in cui gli arabi sono partner illegittimi, chi si oppone agli obblighi religiosi (come gli immigrati dai Paesi dell’ex-Unione Sovietica) è antisemita e chi è di sinistra e crede nella soluzione dei due Stati con i palestinesi è etichettato come nemico dello Stato.

Ogni istituzione democratica è sotto attacco.

Un percorso verso l’immunità?

Una delle prime questioni poste ai parlamentari del Likud durante la notte è stata se la vittoria di Netanyahu porterà al licenziamento di Avichai Mandelbit, il procuratore generale che lo ha messo sotto accusa. Questa domanda rimane senza risposta, benché alcuni analisti di destra siano ansiosi di dichiarare che a Netanyahu è stata concessa dal popolo l’immunità morale.

Martedì mattina il deputato del Likud Miki Zohar, ardente difensore di Netanyahu, ha annunciato alla radio che i risultati dicono forte e chiaro che il primo ministro non affronterà un processo. Queste dichiarazioni non hanno alcun valore giuridico, ma sono realmente pericolose.

Il sistema giudiziario israeliano consente a un primo ministro accusato di corruzione e truffa di rimanere in carica fino alla condanna definitiva, ma la questione se sia legale sceglierlo per formare un governo rimane irrisolta.

Si tratta semplicemente di una situazione senza precedenti nella storia del Paese, potenzialmente esplosiva per la società israeliana.

Per il blocco di destra e ultra-ortodosso di Netanyahu, e per i suoi elettori, le elezioni di ieri sono state un referendum su questo problema ed ogni interferenza giuridica potrebbe persino portare a una risposta violenta.

Nonostante l’evidente vittoria di Netanyahu, il futuro rimane complesso. I 59 [ 58 ndt] seggi del suo solido blocco non sono sufficienti per formare un governo. A Netanyahu ne sono necessari altri, e in fretta.

Da ieri Israele si muove su due strade: quella politica, nel tentativo di formare un governo funzionante, e quella dei problemi giudiziari di Netanyahu. In due settimane, con l’inizio del processo, i due percorsi si incroceranno.

Netanyahu è impaziente di formare il suo governo prima del 17 marzo in modo da arrivare in tribunale come primo ministro e non solo come politico incaricato di formare un governo. Questo obiettivo sarà difficile da raggiungere. Molti fattori potrebbero interferire in questo processo. Quello più immediato è il voto dei soldati che sarà conteggiato e preso in considerazione solo mercoledì sera. Vale 5-6 seggi e può fare una grande differenza. Nel voto di settembre la maggioranza dei soldati aveva scelto “Blu e Bianco”.

L’altro fattore ignoto è di nuovo Avigdor Lieberman, capo del partito “Yisrael Beitenu” [Israele casa nostra, partito di estrema destra laica votato soprattutto da ebrei dell’ex-Unione Sovietica, ndtr.]. Come dice il proverbio, non è finita finché non canta la grassona, e con i suoi sei seggi Lieberman è meno grasso che a settembre, quando ne aveva ottenuti otto, ma molto dipende ancora da lui.

Se sceglie di unirsi alla coalizione di destra perde la faccia, ma garantisce la creazione di un solido governo di destra. Per farlo deve superare il suo disprezzo per Netanyahu, le sue idee contrarie agli ortodossi e smentire tutte le sue promesse elettorali.

Lunedì notte, nella prima dichiarazione dopo gli exit-poll, è sembrato cauto. “Riguardo al blocco ortodosso-messianico scegliamo di attendere i risultati finali,” ha affermato nel suo quartier generale tutt’altro che in festa. “Siamo un partito di principi, non ci allontaneremo di un millimetro da quello che abbiamo promesso nella nostra campagna.”

Quello che hanno promesso è: niente Bibi, niente arabi, niente alleati ortodossi. Finché non importerà un elettorato israeliano del tutto nuovo, non potrà stringere nessuna alleanza senza infrangere le sue “promesse”.

Costruzione di una coalizione

Confuso? Proprio così. Una previsione contraddice l’altra.

In alcune interviste prima del voto, Netanyahu ha insinuato – ammiccando – che si aspetta disertori da altri partiti che gli consentano di formare una coalizione stabile di 61-62 seggi. Dopo gli exit poll, i collaboratori di Netanyahu hanno continuato a riproporre questo scenario.

Teoricamente ci sono tre possibili riserve di voti: deputati scontenti in fondo alla lista di “Blu e Bianco”, membri del partito di Lieberman e Orly Levy, che una volta era di Yisrael Beitenu e ora è alleata del partito Laburista e del Meretz. La sua storia politica la indica come l’anello più debole. Finora nessuno di questi scenari sembra particolarmente realizzabile.

L’altra possibilità è un governo di unità.

Parlamentari e ministri del Likud la ritengono possibile. Politicamente avrebbe senso. Non ci sono reali differenze ideologiche tra i due principali partiti, a parte il fatto che “Blu e Bianco” si è impegnato a non stare con Netanyahu finché è imputato di truffa e corruzione.

Meir Cohen, un parlamentare di “Blu e Bianco”, martedì durante un’intervista radiofonica ha insistito che non ci saranno disertori e che un’alleanza con Netanyahu è da escludere.

Dato che Netanyahu è riuscito a perfezionare il concetto “L’etat c’est moi” [Lo Stato sono io, frase attribuita a Luigi XIV di Francia ed assurta a simbolo dell’assolutismo monarchico, ndtr.] è difficile separare il suo destino da quello del futuro governo.

Realisticamente 60-61 seggi sono sufficienti per governare, ma non per salvare Netanyahu dal primato del sistema giustiziario. A questo punto la sua mossa migliore sarebbe la legge francese sull’immunità concessa a chi governa che rimanda il processo fino al giorno dopo la fine del mandato.

Ha bisogno di una maggioranza più ampia per far approvare quella legge. Se non ci riesce, insisterà per essere primo ministro e al contempo essere processato.

Suona come una quarta tornata elettorale? Probabilmente no, benché non si veda ancora un’altra soluzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Duro colpo per la censura filoisraeliana – Le voci a favore della Palestina non saranno messe a tacere

Nada Elia

27 febbraio 2020 – Middle East Eye

Con la pubblicazione di un parere legale sulla Harvard Law Review [rivista indipendente pubblicata dagli studenti della facoltà di Legge dell’Università di Harvard, ndt], cresce l’opposizione contro la censura ai discorsi pro-Palestina, sia nel mondo accademico che nella società in generale.

Per gli attivisti per i diritti della Palestina, l’editoriale del comitato di redazione della Harvard Law Review secondo cui il BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, campagna globale di boicottaggio contro Israele, ndt] non costituisce una pratica discriminatoria e non dovrebbe pertanto essere vietato, giunge come un balsamo lenitivo su una ferita aperta.

L’Università di Harvard è una delle più prestigiose istituzioni accademiche del mondo, e il comunicato pubblicato dalla redazione della Law Review è ampiamente documentato, motivato e assertivo. “Questa Nota smonta l’accusa secondo cui il BDS costituirebbe una fattispecie di discriminazione,” scrive la redazione nel commento introduttivo, aggiungendo che “le leggi anti BDS non poggiano su un ragionevole interesse anti-discriminatorio.”

Si può solo sperare che questa dichiarazione metterà fine al bavaglio imposto ai discorsi antisionisti e pro-BDS, nonostante due precedenti episodi che nel 2020, poco prima che uscisse il comunicato, hanno fatto notizia.

Il primo è stato il licenziamento di un’insegnante americana in base ad alcune [sue] dichiarazioni sui social media: il secondo, l’allontanamento di una giornalista da una conferenza dopo che questa aveva rifiutato di firmare un impegno anti BDS.

JB Brager, una queer [si definisce queer una persona che non vuole identificarsi come gay, etero o altri generi o orientamenti sessuali, ndt] ebrea insegnante di storia all’ Ethical Culture Fieldston, scuola d’élite della città di New York, è stata licenziata due settimane fa dopo aver pubblicato commenti antisionisti su Twitter.

E alla giornalista e regista Abby Martin è stato impedito di tenere un discorso ad una conferenza stampa dopo che ha rifiutato di firmare l’impegno a non boicottare Israele. La Martin ha appena diretto il documentario “Gaza Fights for Freedom” [“Gaza lotta per la libertà”, ndt], con riprese di soldati israeliani che sparano a manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno.

Antisemitismo versus antisionismo

Questi due episodi – e l’energica risposta contro il bavaglio ai discorsi antisionisti – dimostrano quanto stia crescendo la lotta contro la censura, ma anche quanto stiano diventando profonde le divisioni all’interno delle comunità ebraiche sul sostenere il sionismo in modo incondizionato o criticarlo.

All’amministrazione della Fieldston è stata spedita una lettera a sostegno di Brager, firmata da centinaia di ex allievi, queer, ebrei e simpatizzanti, in cui si esprime indignazione per il licenziamento e si chiede il reintegro della Brager.

La lettera afferma che la stessa comunità di Fieldston è divisa sul sostegno a Israele, con “un gruppetto di genitori conservatori” che cerca di mettere a tacere le voci progressiste, e [la lettera, ndt.] critica la scuola per essersi allineata alla parte sbagliata nel licenziare Brager.

Alla lettera ha fatto seguito un’altra lettera di sostegno, firmata da decine di leader spirituali e insegnanti ebrei, che fanno appello all’amministrazione di Fieldston perché reintegri Brager, presenti pubbliche scuse e chiarisca la differenza tra antisemitismo e antisionismo.

Secondo la lettera, “licenziando la Prof. Brager, state mandando un messaggio forte ai vostri studenti: che bisogna temere il dissenso, che il manifestare il proprio diritto alla libertà di parola ha delle limitazioni, che opinioni diverse non verranno tollerate, che esiste una sola versione autorizzata della storia e che c’è solo un tipo di ebreo.” Nel momento in cui scrivo, tuttavia, la Brager non è stata riassunta a scuola.

Nel frattempo, secondo la Martin, in Georgia la controversia sulla sua esclusione dalla Critical Media Literacy Conference, e il supporto da parte dei colleghi al diritto di parola della giornalista nonostante la legge georgiana anti-BDS, ha portato alla cancellazione dell’intera conferenza.

Mentre la censura in sé, come il dissenso verso di essa espresso con petizioni e lettere, non è una novità, l’opposizione sta assumendo una nuova dimensione, da quando una manciata di professori è andata all’attacco denunciando che le istituzioni li stavano imbavagliando. Questi professori stanno lottando per conservare il proprio diritto di parola, sia nelle istituzioni accademiche che sui social media.

Ambiente ostile

L’anno scorso, la Prof. Rabab Abdulhadi ha denunciato la San Francisco State University, in cui è titolare del programma formativo Arab and Muslim Ethnicities and Diasporas [Etnie arabo-musulmane e Diaspora], perché avrebbe creato un ambiente ostile che le ha impedito di portare a termine il proprio programma accademico, tra cui gruppi di ricerca in Palestina.

Nella querela, la Abdulhadi chiede un’ingiunzione per finanziare il programma, come previsto dal contratto, e per implementare le misure istituzionali contro l’islamofobia, il razzismo antiarabo e antipalestinese, oltre ai danni patrimoniali. Per ora non è stata fissata alcuna udienza.

In seguito, sempre l’anno scorso, Rima Najjar, docente in pensione, ha querelato Quora, una piattaforma social di “domanda-e-risposta” da cui era stata bannata definitivamente perché aveva espresso critiche contro il sionismo, cosa che Quora ha considerato una violazione delle sue linee guida riguardo all’“essere gentili e rispettosi”.

Najjar chiede la riattivazione del proprio account e una diffida a Quora affinché la smetta di discriminare gli utenti di origine palestinese o di opinioni antisioniste. Il legale della prof.ssa Najjar dice che non si aspettano una risposta prima dell’inizio di marzo.

MEE ha parlato con Najjar, che ha spiegato che aveva deciso di iniziare a scrivere nel forum quando aveva notato che le risposte date dal sito apparivano in evidenza nelle ricerche di notizie in rete su Palestina e Israele, ma spesso contenevano informazioni non corrette. Nel tentativo di rimediare a questa tendenziosità, ha iniziato a pubblicare sul sito, diventando una prolifica partecipante dal 2016 alla metà del 2019, quando è stata bannata definitivamente e sono state cancellate tutte le sue risposte ben approfondite e ben documentate.

I social media possono sembrare lontani anni luce dal mondo accademico, ma per molti professori sono semplicemente un’altra tribuna educativa, in grado di raggiungere molte migliaia di persone in più rispetto alla ventina di studenti che hanno in aula. Come ha dichiarato Najjal a MEE: “I social media sono importanti perché hanno il potere di influenzare l’opinione pubblica e, di conseguenza, i movimenti sociali e politici e le politiche.”


Sanzioni a chi critica Israele

Ha fatto riferimento alla campagna israeliana di influenza globale, che “da anni utilizza i social media per sfornare una narrativa che ritrae, in modo falso, il sionismo come forma di resistenza antirazzista e giustizia per gli ebrei in tutto il mondo, mentre nega l’identità nazionale palestinese. Questa attività è accompagnata, nel mio caso, da una vasta campagna di vessazione e censura da parte di sionisti e israeliani.”

L’impatto dei social media sul dibattito pubblico su Israele e Palestina è riconosciuto dagli amministratori scolastici e dell’università, che sanzionano il corpo docente per quel che pubblica online.

Brager è stata licenziata dalla Fieldston in seguito ai post su Twitter più che per qualsiasi altra cosa che possa aver detto in classe. Gli amministratori scolastici utilizzano l’accusa di antisemitismo, o di mancanza di “garbo”, come un’arma per censurare e sanzionare le critiche contro Israele.

Ma la discussione non si può chiudere qui, e non c’è modo di nascondere il senso di estraneità che un numero sempre maggiore di ebrei progressisti sente relativamente a Israele e al sionismo. La voglia degli ebrei progressisti di dissociarsi apertamente dal sionismo, e di manifestare il proprio sostegno per i diritti dei palestinesi, diventa sempre più evidente ad ogni nuova norma contro il BDS e ad ogni tentativo di censura del discorso critico verso Israele.

Sempre più determinazione

Il pullman Palestinian Freedom 2020, che trasporta un gruppo di studenti organizzati da Jewish Voice for Peace Action [Voce Ebraica per la Pace-Azione, gruppo di ebrei antisionisti, ndtr.], sta attualmente facendo il giro del Paese al seguito dei candidati presidenziali democratici, con il messaggio che una massa critica di ebrei sostiene i diritti dei palestinesi. Come ha twittato Brager: “Rifiuto di ‘riaffermare il valore’ del colonialismo etno-nazionalista dei coloni, io sostengo il BDS e la sovranità palestinese e lo farò per tutto il resto della mia vita.”

Invece di zittire le critiche contro Israele, il bavaglio alla libertà di parola ha catalizzato e fatto aumentare la determinazione – da parte dei palestinesi, degli ebrei e dei simpatizzanti tra il corpo docente e gli studenti che sostengono i diritti dei palestinesi – a non essere messi a tacere, e a condannare in modo più categorico la legislazione che difende il sionismo e criminalizza la solidarietà con gli oppressi. E con il sostegno legale fornito da gruppi come Palestine Legal e il Center for Constitutional Rights, quest’anno possiamo aspettarci più denunce contro la censura.


Il punto di vista espresso in questo articolo appartiene all’autore e non rispecchia necessariamente la linea editoriale di Middle Eas Eye.

Nada Elia
Nada Elia è una scrittrice palestinese della diaspora e una commentatrice politica. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Who You Callin’ ‘Demographic Threat’?, Notes from the Global Intifada.” [“Minaccia demografica a chi? Appunti dall’Intifada mondiale”, ndt.]. Docente (in pensione) di Gender e Global Studies, è membro della Comitato Direttivo USACBI – US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel [Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ndt].

(traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Governanti arabi e leader israeliani: una lunga e segreta storia di collaborazione

Joseph Massad

18 febbrario 2020 – Middle East Eye

I regimi del mondo arabo hanno sempre anteposto i propri interessi alle sorti del popolo palestinese

Nell’ultimo mese i leader israeliani hanno attivamente cercato di stabilire alleanze e relazioni più strette con i paesi arabi, compresi gli Stati del Golfo, il Marocco e il Sudan.

Questi Stati, ci viene detto, hanno finalmente visto la luce e capito che Israele, a differenza dell’Iran, è loro amico, non loro nemico.

La cosa è presentata come un cambiamento radicale da parte dei regimi arabi, che sembrava avessero sempre evitato relazioni con Israele in difesa degli interessi palestinesi.

È sempre stata un’invenzione. La maggior parte dei leader e delle famiglie arabe al potere nel XX secolo intrattennero relazioni cordiali con Israele e, prima ancora, con il movimento sionista.

Narrazione falsa

Questa falsa narrazione di resistenza è stata raccontata sia dai regimi arabi che dagli israeliani. È stata creata da intellettuali arabi filoisraeliani, che sostengono che quei regimi hanno ingiustamente rifiutato Israele o addirittura gli hanno fatto la guerra per volere dei palestinesi, piuttosto che per i loro interessi nazionali e di potere.

Questo ragionamento si conclude con l’affermazione che ora, finalmente, è venuto il momento in cui i governi arabi antepongono ai palestinesi i propri interessi – come se prima avessero dato priorità agli interessi palestinesi.

Questo è stato affermato recentemente dal comandante militare sudanese Abdel Fattah al-Burhan dopo un incontro in Uganda, due settimane fa, con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non era certo il primo di simili incontri tra funzionari sudanesi e Israele.

C’erano stati contatti segreti già negli anni ’50, quando il Sudan era ancora governato da britannici ed egiziani e il partito Umma cercava di ottenere il sostegno israeliano all’indipendenza sudanese.

Dopo l’indipendenza, il primo ministro sudanese Abdullah Khalil e Golda Meir, quarto primo ministro israeliano, ebbero un incontro clandestino a Parigi nel 1957.

Negli anni ’80 il presidente sudanese Gaafar Nimeiri incontrò gli israeliani e agevolò il trasporto israeliano di ebrei etiopi in Israele perché diventassero coloni e si insediassero nella terra dei palestinesi.

Più recentemente, nel gennaio 2016 e con Omar al-Bashir ancora in carica, il ministro degli Esteri Ibrahim Ghandour ha cercato di far revocare le sanzioni economiche statunitensi contro il Sudan offrendosi di aprire rapporti diplomatici formali con Israele. Interrogato sul recente incontro con Netanyahu e sulla normalizzazione delle relazioni, la risposta di Burhan è stata che le relazioni con Israele sono alla base di “sicurezza e interessi nazionali” del Sudan, che vengono per primi.

La storia dei rapporti fra i leader del Sudan e Israele non è affatto unica. In effetti, la cooperazione araba con il movimento sionista risale agli inizi dell’arrivo di funzionari sionisti in Palestina.

Rapporti cordiali

Il 3 gennaio 1919, due settimane prima dell’inizio della Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal Ibn al-Hussein, allora re del regno di breve durata di Hejaz e in seguito re dell’Iraq, firmò un accordo con il presidente della Organizzazione Sionista Mondiale Chaim Weizmann. Faisal acconsentì alla creazione di una maggioranza coloniale ebraica in Palestina, in cambio di poter diventare re di un regno arabo vasto e indipendente esteso in tutta la Siria. 

Ma a Faisal il trono siriano fu negato dall’acquisizione coloniale francese, e l’accordo, che i sionisti usarono alla Conferenza di pace di Parigi per sostenere che i loro piani di insediamento coloniale in Palestina avevano l’accordo dei leader arabi, finì in nulla.

Per non essere surclassato dal fratello, Emir Abdullah della Transgiordania si avventurò in un duraturo rapporto di cooperazione con i sionisti, nella speranza che gli fosse permesso di essere re di Palestina e Transgiordania; sotto il suo regno [i sionisti] avrebbero potuto realizzare i loro obiettivi. Questa collaborazione si concluse con il suo assassinio nel 1951.

Suo nipote, re Hussein di Giordania, autorizzò i primi incontri segreti nel 1960 a Gerusalemme tra uno dei generali del suo esercito e gli israeliani. Nel 1963, egli stesso incontrava segretamente gli israeliani nello studio del suo medico a Londra. A metà degli anni ’70 i suoi incontri segreti con i leader israeliani si sarebbero svolti regolarmente in Israele.

Durante il funerale di Rabin nel 1994 fu evidente la lunga amicizia di  Hussein con il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (che nel 1948 aveva espulso personalmente la popolazione palestinese dalla città di Lydda e nel 1987 avviata la politica di “rompiamogli le ossa” contro i palestinesi di Cisgiordania e Gaza).

La giustificazione che Hussein addusse per i suoi contatti segreti con gli israeliani fu la conservazione del trono, assimilata all’interesse “nazionale” della Giordania, di fronte alla pressione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e poi a quella dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Alleanze sioniste

Oltre ai principi e re hashemiti, dalla metà degli anni ’40 la chiesa maronita del Libano, così come leader maroniti fascisti di destra come i falangisti, si allearono con i sionisti. Questa alleanza continua fino ai giorni nostri, con lo scopo di creare una Repubblica religiosa cristiana in Libano, modellata sul colonialismo di insediamento ebraico.

Agli inizi degli anni ’50 sarebbero poi stati i nazionalisti tunisini del nuovo partito Destour a incontrarsi con i rappresentanti israeliani alle Nazioni Unite, perché li aiutassero ad ottenere l’indipendenza dai francesi – ignorando la natura coloniale degli insediamenti israeliani. Il dittatore tunisino Habib Bourguiba avrebbe mantenuto relazioni amichevoli con Israele fino alla fine del suo potere, nel 1987.

Negli anni ’60, Israele avrebbe sostenuto gli sforzi dell’Arabia Saudita per mantenere un imam al potere in Yemen contro i repubblicani – gli israeliani inviarono ai monarchici yemeniti armi e denaro che furono molto ben accolti.

Le migliori relazioni in Nord Africa diventeranno quelle tra Israele e il defunto re Hassan II del Marocco.

I leader israeliani incontrarono i funzionari marocchini alla fine degli anni ’50, ma l’apertura di rapporti cordiali avvenne quando re Hassan salì al trono. Dal 1960 in poi gli israeliani, a seguito di accordi segreti con il Marocco, portarono in aereo ebrei marocchini per farli diventare coloni di insediamento sulla terra dei palestinesi.

L’affare marocchino

Nel 1963, il ministro marocchino Mohamed Oufkir concluse un accordo con gli israeliani per l’addestramento degli agenti dell’intelligence marocchina. Israele aiutò anche il Marocco a localizzare i leader dell’opposizione, tra cui Mehdi Ben Barka, che fu catturato e ucciso dall’intelligence marocchina nel 1965. E difatti nel 1976 Yitzhak Rabin fu invitato dal re Hassan ad andare segretamente in Marocco.

Nel 1986 non c’erano più ragioni di segretezza e Shimon Peres visitò il Marocco in pompa magna. Nel 1994, Marocco e Israele hanno aperto rispettivamente sedi ufficiali di contatto.

Nel 2018, Benjamin Netanyahu si è incontrato segretamente alle Nazioni Unite con il ministro degli Esteri del Marocco per colloqui. Nelle ultime settimane, gli israeliani hanno offerto ai marocchini il loro aiuto per garantire il riconoscimento degli Stati Uniti della sovranità del Marocco sul Sahara occidentale, in cambio della normalizzazione formale delle relazioni fra Marocco e Israele e del sostegno al cosiddetto “affare del secolo” di Donald Trump.

Per quanto riguarda la grande storia d’amore tra le classi politiche e commerciali egiziane con Israele, la relazione è pubblica dalla fine degli anni ’70.

Dal 1991, abbiamo visto leader, funzionari e atleti israeliani recarsi apertamente nella maggior parte dei paesi del Golfo, tra cui il Qatar, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e in segreto anche l’Arabia Saudita, per non parlare dell’apertura di uffici di contatto o commerciali in tutti quei Paesi.

Nemico pubblico numero uno

Le relazioni, ostili o amichevoli, degli arabi con Israele non sono mai state improntate agli interessi del popolo palestinese, ma piuttosto ad interessi di regime, spesso identificati falsamente come interessi “nazionali”.

Infine l’ultima parte della loro storia d’amore con Israele è coincisa dal 1991 con la Conferenza di Pace di Madrid e gli Accordi di Oslo, che hanno trasformato la leadership nazionale palestinese e l’OLP in un ente dell’occupazione militare israeliana; questo è il lascito degli incessanti sforzi di Israele di cooptare le élite politiche, economiche e intellettuali arabe. È anche la testimonianza di come queste élite siano disponibili e lo siano sempre state.

Israele ha avuto per lo più successo con le élite politiche e commerciali, ha fallito miseramente nel coinvolgere la classe degli intellettuali arabi, ad eccezione di quelli sul libro paga dei regimi del Golfo e delle ONG finanziate dall’Occidente. Non ha conquistato affatto il favore delle masse arabe, per le quali, diversamente che dai regimi, gli interessi nazionali e la colonizzazione delle terre palestinesi non sono affatto separabili, e per le quali Israele rimane il peggior nemico di tutti gli arabi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Joseph Massad è professore di Politica Araba Moderna e Storia Intellettuale alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli accademici e giornalistici. Fra i suoi libri: Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], Desiring Arabs [Arabi deisderanti], The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi] e, più recentemente, Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in decine di lingue.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’ONU ha reso nota una lista di imprese che hanno rapporti con le illegali colonie israeliane

Areeb Ullah

12 febbraio 2020 – Middle East Eye

Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola sono tra le 112 imprese citate dal Consiglio per i Diritti Umani

Il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) ha pubblicato una lista a lungo attesa di imprese che operano nelle illegali colonie israeliane.

Nel documento sono elencate più di 100 aziende, comprese 18 imprese internazionali, che stanno lavorando nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Le imprese internazionali inserite nel documento includono Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola Solutions. 

Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i diritti umani, ha affermato che la lista è stata stilata “dopo un approfondito e accurato processo di controllo”.

Sono consapevole che questo problema è stato e continuerà ad essere molto controverso,” ha affermato Bachelet in un comunicato.

Tuttavia, dopo un approfondito e accurato processo di controllo siamo convinti che questo rapporto basato su dati di fatto rifletta la seria attenzione che è stata dedicata a questo incarico senza precedenti e molto complesso, e che risponda in modo adeguato alla richiesta del Consiglio per i Diritti Umani contenuta nella risoluzione 31/36.”

Imprese che l’ONU mette in relazione con le illegali colonie israeliane

Impresa

Paese coinvolto

1

Afikim Public Transportation Ltd.

Israele

2

Airbnb Inc.

Stati Uniti

3

American Israeli Gas Corporation Ltd.

Israele

4

Amir Marketing and Investments in Agriculture Ltd.

Israele

5

Amos Hadar Properties and Investments Ltd.

Israele

6

Angel Bakeries

Israele

7

Archivists Ltd.

Israele

8

Ariel Properties Group

Israele

9

Ashtrom Industries Ltd.

Israele

10

Ashtrom Properties Ltd.

Israele

11

Avgol Industries 1953 Ltd.

Israele

12

Bank Hapoalim B.M.

Israele

13

Bank Leumi Le-Israel B.M.

Israele

14

Bank of Jerusalem Ltd.

Israele

15

Beit Haarchiv Ltd.

Israele

16

Bezeq, the Israel Telecommunication

Corp Ltd.

Israele

17

Booking.com B.V.

Olanda

18

C Mer Industries Ltd.

Israele

19

Café Café Israel Ltd.

Israele

20

Caliber 3

Israele

21

Cellcom Israel Ltd.

Israele

22

Cherriessa Ltd.

Israele

23

Chish Nofei Israel Ltd.

Israele

24

Citadis Israel Ltd.

Israele

25

Comasco Ltd.

Israele

26

Darban Investments Ltd.

Israele

27

Delek Group Ltd.

Israele

28

Delta Israel

Israele

29

Dor Alon Energy in Israel 1988 Ltd.

Israele

30

Egis Rail

Francia

31

Egged, Israel Transportation Cooperative Society Ltd.

Israele

32

Energix Renewable Energies Ltd.

Israele

33

EPR Systems Ltd.

Israele

34

Extal Ltd.

Israele

35

Expedia Group Inc.

Stati Uniti

36

Field Produce Ltd.

Israele

37

Field Produce Marketing Ltd.

Israele

38

First International Bank of Israel Ltd.

Israele

39

Galshan Shvakim Ltd.

Israele

40

General Mills Israel Ltd.

Israele

41

Hadiklaim Israel Date Growers Cooperative Ltd.

Israele

42

Hot Mobile Ltd.

Israele

43

Hot Telecommunications Systems Ltd.

Israele

44

Industrial Buildings Corporation Ltd.

Israele

45

Israel Discount Bank Ltd.

Israele

46

Israel Railways Corporation Ltd.

Israele

47

Italek Ltd.

Israele

48

JC Bamford Excavators Ltd.

Regno Unito

49

Jerusalem Economy Ltd.

Israele

50

Kavim Public Transportation Ltd.

Israele

51

Lipski Installation and Sanitation Ltd.

Israele

52

Matrix IT Ltd.

Israele

53

Mayer Davidov Garages Ltd.

Israele

54

Mekorot Water Company Ltd.

Israele

55

Mercantile Discount Bank Ltd.

Israele

56

Merkavim Transportation Technologies Ltd.

Israele

57

Mizrahi Tefahot Bank Ltd.

Israele

58

Modi’in Ezrachi Group Ltd.

Israele

59

Mordechai Aviv Taasiot Beniyah 1973 Ltd.

Israele

60

Motorola Solutions Israel Ltd.

Israele

61

Municipal Bank Ltd.

Israele

62

Naaman Group Ltd.

Israele

63

Nof Yam Security Ltd.

Israele

64

Ofertex Industries 1997 Ltd.

Israele

65

Opodo Ltd.

Regno Unito

66

Bank Otsar Ha-Hayal Ltd.       

Israele

67

Partner Communications Company Ltd.

Israele

68

Paz Oil Company Ltd.

Israele

69

Pelegas Ltd.

Israele

70

Pelephone Communications Ltd.

Israele

71

Proffimat S.R. Ltd.

Israele

72

Rami Levy Chain Stores Hashikma Marketing 2006 Ltd.

Israele

73

Rami Levy Hashikma Marketing Communication Ltd.

Israele

74

Re/Max Israel

Israele

75

Shalgal Food Ltd.

Israele

76

Shapir Engineering and Industry Ltd.

Israele

77

Shufersal Ltd.

Israele

78

Sonol Israel Ltd.

Israele

79

Superbus Ltd.

Israele

80

Supergum Industries 1969 Ltd.

Israele

81

Tahal Group International B.V.

Olanda

82

TripAdvisor Inc.

Stati Uniti

83

Twitoplast Ltd.

Israele

84

Unikowsky Maoz Ltd.

Israele

85

YES

Israele

86

Zakai Agricultural Know-how and inputs Ltd.

Israele

87

ZF Development and Construction

Israele

88

ZMH Hammermand Ltd.

Israele

89

Zorganika Ltd.

Israele

90

Zriha Hlavin Industries Ltd.

Israele

91

Alon Blue Square Israel Ltd.

Israele

92

Alstom S.A.

Francia

93

Altice Europe N.V.

Olanda

94

Amnon Mesilot Ltd.

Israele

95

Ashtrom Group Ltd.

Israele

96

Booking Holdings Inc.

Stati Uniti

97

Brand Industries Ltd.

Israele

98

Delta Galil Industries Ltd.

Israele

99

eDreams ODIGEO S.A.

Lussemburgo

100

Egis S.A.

Francia

101

Electra Ltd.

Israele

102

Export Investment Company Ltd.

Israele

103

General Mills Inc.

Stati Uniti

104

Hadar Group

Israele

105

Hamat Group Ltd.

Israele

106

Indorama Ventures P.C.L.

Thailandia

107

Kardan N.V.

Olanda

108

Mayer’s Cars and Trucks Co. Ltd.

Israele

109

Motorola Solutions Inc.

Stati Uniti

110

Natoon Group

Israele

111

Villar International Ltd.

Israele

112

Greenkote P.L.C.

Regno Unito

Il rapporto evidenzia anche che 60 imprese sono state tolte da un precedente elenco compilato dall’OHCHR.

La lista è stata pubblicata dopo che nel 2016 il Consiglio per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione 31/36 ed ha richiesto informazioni su imprese “coinvolte in alcune specifiche attività legate alle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.”

Anche l’ex alto commissario ONU Zeid Raad al-Hussein ha confermato che la lista delle imprese è stata ricavata da informazioni di dominio pubblico e da una serie di fonti. Secondo il Consiglio per i Diritti Umani, le imprese elencate hanno agevolato la costruzione di colonie, fornito loro apparecchiature per la sorveglianza o servizi per la sicurezza alle imprese che vi lavorano.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane su terre conquistato da Israele nella guerra del 1967 in Medio Oriente sono considerate illegali.

Altre categorie citate nel rapporto includono la fornitura di macchinari per la demolizione di edifici e la partecipazione ad attività che “danneggiano” le attività economiche palestinesi attraverso l’applicazione di restrizioni agli spostamenti.

Commentando la pubblicazione della lista, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni guidato dai palestinesi ha affermato che l’ONU è stata “significativa” ma “incompleta”.

La banca dati è incompleta. Deve essere aggiunta qualunque impresa che sia complice del regime di apartheid israeliano e delle sue gravi violazioni dei diritti dei palestinesi in base al diritto internazionale, per assicurare il fatto che ne paghi le conseguenze,” ha affermato il BDS in un comunicato. 

Bruno Stagno, vice direttore esecutivo di Human Rights Watch per la difesa ha affermato che l’elenco dovrebbe “mettere in guardia” tutte le imprese che intendano lavorare con le colonie israeliane. “La pubblicazione a lungo attesa dei dati dell’ONU sulle attività economiche con le colonie dovrebbe mettere in guardia le imprese: avere rapporti economici con colonie illegali significa collaborare con la perpetrazione di crimini di guerra,” ha sostenuto Stagno in un comunicato.

La banca dati segna un notevole progresso negli sforzi internazionali per fare in modo che le attività economiche interrompano ogni complicità con le violazioni dei diritti e rispettino le leggi internazionali. La principale istituzione per i diritti dell’ONU dovrebbe garantire che la banca dati sia regolarmente aggiornata per agevolare le imprese nel rispetto dei loro obblighi in base al diritto internazionale.”

Lo scorso anno molti gruppi per i diritti avevano criticato il ritardo “inspiegabile” e “a tempo indefinito” nella pubblicazione della banca dati dell’ONU. Tuttavia il Consiglio per i Diritti Umani non aveva fornito nessuna ragione che determinava il continuo rinvio della pubblicazione della lista nera.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Una morte lenta”: le dighe israeliane hanno inondato i campi di Gaza prima del raccolto

Maha Hussaini dalla Striscia di Gaza

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

I contadini palestinesi accusano Israele di condurre deliberatamente una guerra contro il settore agricolo di Gaza

Per 5 mesi i contadini palestinesi come Naim al-Khaissi hanno coltivato e irrigato i loro terreni nella Striscia di Gaza assediata, in attesa della fine di gennaio per raccogliere ortaggi nelle coltivazioni a est, situate nei pressi della barriera di separazione con Israele.

Ma dopo un duro lavoro i coltivatori palestinesi hanno scoperto che le autorità israeliane avevano vuotato il vicino invaso per la raccolta dell’acqua piovana allagando di fatto i campi di Gaza pochi giorni prima della stagione del raccolto.

Secondo il ministero palestinese dell’Agricoltura, il fatto che Israele abbia aperto le paratie della diga ha provocato solo in gennaio più di 500.000 dollari di perdite in oltre 332 ettari di terre.

I terreni agricoli nella “zona di sicurezza” imposta da Israele nei pressi della barriera di separazione rappresentano la fonte di sussistenza per centinaia di famiglie palestinesi e costituiscono la principale fonte di frutta e verdura della Striscia.

L’allagamento si è accompagnato ad altre misure che secondo i palestinesi sono state deliberatamente messe in atto dalle forze israeliane per colpire la riserva di cibo del territorio assediato e impoverito e cacciare i contadini dalle loro terre.

Terre coltivate allagate

Khaissi, 75 anni, è coltivatore dal 1962. Prima del 2005, quando Israele evacuò i coloni dalla Striscia di Gaza, era proprietario di circa 10 ettari di terre. Ma vide la grande maggioranza dei suoi terreni rientrare nella zona di sicurezza e non essere più raggiungibile.

Sono cresciuto contadino, mio padre e mio nonno mi hanno insegnato la professione, ma le cose sono cambiate molto da allora. Abbiamo perso buona parte delle nostre terre e posso a malapena arrivare fino a ciò che ne rimane,” dice a Middle East Eye.

Lo scorso settembre ho seminato molte varietà di ortaggi, compresi cavoli, patate e cipolle, e stavo aspettando la fine di gennaio per raccoglierli. Ma, dopo che lo scorso mese per quattro volte Israele ha aperto il bacino di acqua piovana, le coltivazioni sono state completamente distrutte.” Per Khaissi l’inondazione delle terre palestinesi è stata una mossa deliberata.

Israele ha intenzionalmente allagato in questo periodo dell’anno le terre coltivate, in particolare dopo essersi assicurato che abbiamo fatto tutto il possibile e speso un sacco di soldi per far crescere i nostri ortaggi ed eravamo finalmente pronti a raccoglierli,” dice.

Khaissi dice di aver perso più di 10.000 shekel (circa 2.600 €) per i danni provocati dall’allagamento – ma si considera fortunato rispetto ad altri contadini.

Ho perso molto meno dei miei vicini perché attualmente ho solo due acri (poco meno di un ettaro), ma quelli che hanno cinque o sei acri hanno perso una fortuna,” afferma.

L’agricoltore stima che dal 2004 le pratiche israeliane – come allagare, spianare terre con veicoli dell’esercito e spargere erbicidi chimici – gli siano costate più di 111.000 dollari di danni.

Lo fanno in modo sistematico per obbligarci a rinunciare alle nostre terre e ad andarcene,” dice Khaissi. “Ma non importa quello che fanno, semplicemente non possiamo andarcene. È occuparci della terra che ci tiene vivi.”

Massimo danno”

Gli agricoltori palestinesi hanno detto di aver visto, poco dopo l’allagamento delle terre coltivate, aerei israeliani per i trattamenti agricoli spruzzare all’interno di Gaza prodotti chimici che ritengono fossero erbicidi.

Abbiamo visto soldati israeliani bruciare un copertone nei pressi della barriera per capire la direzione del vento,” dice Aref Shamali, un contadino quarantenne. “Quando hanno visto che il fumo andava verso ovest, per cui i prodotti chimici avrebbero raggiunto vaste aree all’interno di Gaza e provocato il massimo danno, hanno mandato l’aereo a cospargere tutti i campi.”

L’esercito israeliano abitualmente sostiene che gli erbicidi vengano usati per ripulire dalla vegetazione la zona di sicurezza sul lato di Gaza della barriera, per avere una vista senza ostacoli dell’area per ragioni militari. Ma i palestinesi affermano che questa politica infligge notevoli danni agli abitanti di Gaza.

I prodotti chimici e gli erbicidi che spruzzano non danneggiano solo le terre coltivate, ma hanno anche conseguenze catastrofiche se la gente mangia gli ortaggi irrorati,” dice Shamali a MEE. “Pochi giorni fa rappresentanti del ministero dell’Agricoltura sono corsi nei mercati dove alcuni agricoltori vendevano quelli che si pensava fossero ortaggi irrorati e li hanno distrutti prima che la gente potesse comprarli.”

Shamali e i suoi fratelli possiedono circa 24 ettari di terra, quasi tutti danneggiati prima del raccolto di gennaio, con una perdita stimata di 20.000 dollari.

Nessun contadino è stato fortunato o al sicuro,” dice. “Loro (gli israeliani) affermano di aver sparso solo pesticidi, ma chi è così ingenuo da credere che si siano presi cura gratis delle nostre terre coltivate? Questa zona sfama praticamente tutti gli abitanti di Gaza City, e questa è la ragione per cui la prendono sempre di mira,” aggiunge Shamali. “Vogliono cacciare i contadini e dimostrare che la loro fatica non è valsa a niente.”

Effetti a lungo termine

L’agronomo ed esperto ambientale Nizar al-Wahidi afferma che il fatto che Israele danneggi l’agricoltura palestinese ha conseguenze politiche, economiche, ambientali e sociali. Secondo lui, i prodotti chimici spruzzati non danneggiano solo gli ortaggi, ma anche il terreno, i contadini e gli animali e inquinano la falda freatica.

Anche se loro (gli israeliani) volessero spargere profumo (dentro Gaza), non ne avrebbero il diritto senza il coordinamento con la parte interessata e un mutuo accordo sulla sostanza, sulla sua quantità e sul modo in cui viene irrorata,” dice a MEE. “Perché non si mettono d’accordo almeno con la Croce Rossa in modo che i coltivatori e i loro figli non vengano colpiti?” L’esperto afferma che rimane difficile accertare l’esatto contenuto e l’impatto dei pesticidi.

Non possiamo individuare fino a che punto questi prodotti chimici siano velenosi. Questi esami richiedono apparecchiature che non sono disponibili nella Striscia, e Israele proibisce assolutamente ogni tentativo di inviare le sostanze fuori da Gaza perché siano esaminate,” afferma. “La procedura è molto complicata.”

Anche se la correlazione non è stata ufficialmente stabilita, i contadini palestinesi accusano i prodotti chimici dei problemi di salute che affrontano da anni, ed esprimono timori che queste conseguenze negative possano colpire anche quelli che mangiano i prodotti contaminati.

Soffro di problemi respiratori cronici,” dice a MEE il contadino Abu Zor. “Ci sono tante ragioni per cui abbiamo questo tipo di problemi. Per esempio l’ultima volta che sono andato a lavorare la terra con mio figlio, i soldati israeliani hanno sparato un lacrimogeno proprio tra noi due. Non avevamo fatto niente di male, volevano solo che smettessimo di coltivare gli ortaggi nella zona.”

Il quarantaseienne dice che i soldati israeliani schierati lungo la zona di sicurezza spesso aprono il fuoco contro agricoltori per impedire loro di lavorare.

Non c’è bisogno di camminare nei pressi della barriera o di attaccarli per essere presi di mira. Far crescere un albero può essere una ragione sufficiente perché ti sparino,” dice Abu Zor. “Ogni contadino nella Striscia sta patendo le conseguenze delle pratiche israeliane che prendono regolarmente di mira loro e le loro terre coltivate. Il messaggio è chiaro: non vogliono che Gaza sia autosufficiente. Si può dire che gli abitanti sono condannati a una morte lenta.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele blocca le esportazioni agricole palestinesi

Redazione di MEE

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

In seguito alla presentazione dell’“accordo del secolo” Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno intensificato le sanzioni economiche

Sabato l’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha informato che le autorità israeliane hanno bloccato le esportazioni palestinesi verso l’estero che passano dalla Giordania, in quanto le tensioni sono notevolmente cresciute da quando il 28 gennaio il presidente Donald Trump ha presentato la sua tanto criticata proposta per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Mentre secondo il quotidiano israeliano Haaretz è prevista l’applicazione di un divieto ufficiale israeliano alle esportazioni palestinesi a partire da domenica, in un comunicato pubblicato dalla Wafa il ministero dell’Economia dell’ANP ha affermato che parecchi camion carichi di prodotti agricoli palestinesi sono già stati fatti tornare indietro dalle autorità israeliane dal valico con la Giordania.

L’unico posto di frontiera tra la Cisgiordania occupata e la Giordania è presidiato dalle autorità israeliane, che controllano l’entrata e l’uscita di persone e prodotti nei e dai territori palestinesi occupati.

L’iniziativa è arrivata dopo che all’inizio di questa settimana l’ANP ha annunciato che avrebbe vietato l’ingresso sul mercato palestinese di un certo numero di prodotti israeliani, come reazione per la decisione del ministro della Difesa Naftali Bennett del 31 gennaio di interrompere l’importazione in Israele di prodotti della Cisgiordania.

Nel contempo l’ordine di Bennett è una conseguenza del fatto che l’ANP ha boicottato per tre mesi l’importazione di bovini israeliani.

Con tutti i confini controllati da Israele, l’economia palestinese è molto vulnerabile alle sanzioni israeliane. Secondo la Wafa, nel 2018 le esportazioni agricole palestinesi, due terzi delle quali dirette in Israele, sono state del valore di 130 milioni di dollari.

La guerra commerciale arriva in un momento in cui la dirigenza palestinese ha categoricamente respinto il piano di Trump “pace per la prosperità”, che propone che Israele annetta formalmente Gerusalemme est e circa due terzi della Cisgiordania in cambio di uno Stato palestinese frammentato e smilitarizzato con un diritto al ritorno solo ridotto per i rifugiati palestinesi attualmente all’estero.

Chi ha criticato il cosiddetto “accordo del secolo” ha sostenuto che in effetti il piano intende ufficializzare un sistema di apartheid.

Come reazione il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha minacciato di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele, anche se l’ANP deve ancora mettere in atto questa iniziativa.

Da quando gli USA hanno presentato il piano completo, almeno cinque palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Mentre giovedì un palestinese cittadino di Israele è stato ucciso nella Città Vecchia di Gerusalemme dopo che aveva tentato di sparare a poliziotti israeliani, la maggioranza delle vittime stava partecipando a manifestazioni contro le proposte USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)