“Sparare per menomare”: come Israele ha creato una generazione con le stampelle a Gaza

Dania Akkad

29 marzo 2019, Middle East Eye

Medici dicono a MEE che le ferite invalidanti, soprattutto agli arti inferiori, dei manifestanti palestinesi sono state inflitte deliberatamente.

Medici in prima linea hanno detto a Middle East Eye che cecchini israeliani hanno intenzionalmente mutilato palestinesi che protestavano a Gaza lo scorso anno, creando una generazione di giovani disabili e sconvolgendo il già disastrato sistema sanitario del territorio.

Secondo l’inchiesta delle Nazioni Unite resa pubblica questo mese, oltre l’80% dei 6.106 manifestanti della Grande Marcia del Ritorno feriti nei primi nove mesi è stato colpito agli arti inferiori.

Il rapporto ne conclude che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato a civili e potrebbero aver commesso crimini di guerra con la loro durissima risposta alle proteste tenutesi periodicamente a Gaza dal 30 marzo 2018.

Operatori sanitari affermano che le caratteristiche ricorrenti delle ferite mostrano che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato per menomare i manifestanti, molti dei quali sono giovani ventenni e ora hanno necessità di cure mediche a lungo termine.

“Il soldato sa esattamente dove sta sparando il proiettile. Non è casuale. È del tutto intenzionale, è decisamente pianificato,” dice Ghassan Abu Sitta, professore di chirurgia dell’Università Americana di Beirut (UAB), che lo scorso maggio per tre settimane ha curato manifestanti feriti all’ospedale Al-Awad di Gaza.

“Quando hai un numero così alto di ferite praticamente identiche, quando molti pazienti erano a 150 metri di distanza, non a diretto contatto con i soldati israeliani, ti rendi conto che questa è una politica intenzionale piuttosto che un danno involontario,” dice a MEE Abu Sitta.

Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di Medici senza Frontiere (MSF) concorda: “È ovvio. Quando hai quasi il 90% di persone ferite agli arti inferiori, significa che c’è la decisione politica di prendere di mira gli arti inferiori,” afferma.

MEE ha chiesto all’esercito israeliano se i soldati hanno intenzionalmente ferito i manifestanti. Sottolineando le condizioni nelle quali i soldati operano – che includono il fatto di essere sotto tiro, i tentativi dei manifestanti di entrare in Israele, i copertoni bruciati, il lancio di pietre e di bottiglie molotov – un portavoce ha detto a MEE via posta elettronica: “”L’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] usa proiettili veri solo come ultima risorsa e in base a regole che rispettano le leggi internazionali.” Il portavoce ha anche indicato a MEE una pagina di “Domande Frequenti” [nel sito dell’IDF, ndt.] sulle proteste.

Tra i più di 6.000 palestinesi feriti ci sono un calciatore la cui carriera è finita, uno studente di giornalismo a cui è stata amputata la gamba destra e una studentessa di 16 anni che quando è stata colpita stava sventolando una bandiera palestinese.

Secondo gli ultimi dati del ministero della Sanità di Gaza almeno 136 di loro hanno subito l’amputazione di arti, 122 dei quali solo agli arti inferiori.

Ma i dati non danno il quadro completo delle difficoltà che i manifestanti feriti, che soffrono di lesioni dolorose, e i loro familiari devono affrontare, in quanto la grande maggioranza vive in povertà, dice Bassem Naim, che è stato ministro della Sanità di Gaza dal 2006 al 2012.

“Sinceramente è una catastrofe. Molti dei feriti rimarranno per sempre disabili,” dice Naim. “Portarli da casa all’ospedale ogni giorno per la riabilitazione o le cure? È un onere veramente pesante.”

“Vivo al nono piano e praticamente ogni giorno non c’è elettricità da dodici a sedici ore. Si può immaginare cosa vuol dire per un giovane senza una gamba?”

Non è cambiata solo la vita di migliaia di manifestanti e delle loro famiglie, ma anche il sistema sanitario di Gaza in difficoltà è sottoposto a forti tensioni in seguito alle cure intensive necessarie per il trattamento delle ferite alle gambe.

Il personale sanitario teme che, con manifestazioni di massa previste questo fine settimana per commemorare un anno dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, il collasso del sistema possa essere imminente.

Caratteristiche ricorrenti delle ferite

Il 30 marzo 2018 decine di migliaia di palestinesi hanno protestato lungo il confine di 65 km con Israele, rivendicando il diritto di tornare alle case da cui le loro famiglie scapparono nel 1948 e la fine dell’assedio di 11 anni contro il territorio costiero palestinese.

Praticamente appena le proteste sono iniziate, i soldati israeliani hanno cominciato a sparare ai manifestanti a corta distanza con fucili di precisione. Alla fine di quel primo giorno di proteste sono rimasti uccisi 16 palestinesi e almeno altri 400 sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Da allora quella che era prevista come una campagna di sei settimane si è prolungata per un anno, durante il quale almeno 197 palestinesi sono stati uccisi e 29.000 feriti. Secondo l’ONU nello stesso periodo due israeliani sono rimasti uccisi e 56 feriti.

Uno ogni quattro palestinesi feriti è stato colpito con proiettili veri, e la grande maggioranza alle gambe.

Uno di loro è stato il trentunenne Mohammed al-Akhras.

Akhras, che lavorava come fabbro, dice di aver deciso di unirsi alle proteste in seguito al fatto di essere stato torturato durante sei anni di detenzione in prigioni israeliane.

Quando le forze israeliane lo hanno arrestato e accusato di essere coinvolto in operazioni militari con fazioni armate palestinesi aveva 19 anni e stava cacciando uccelli sul confine orientale di Rafah, nel sud di Gaza.

È stato rilasciato nel 2013, ma il vivo ricordo e la frustrazione derivanti dal suo arresto e dalla sua detenzione lo hanno spinto a manifestare, dice.

Akhras racconta che il 18 maggio stava protestando come altri attorno a lui e non stava facendo niente di speciale quando due proiettili esplosivi – che scoppiano all’impatto squarciando i tessuti e le ossa – hanno colpito la sua gamba sinistra.

Aveva bisogno di un’operazione urgente, ma ci sono voluti due mesi prima che potesse essere operato – in Egitto.

Le autorità israeliane non gli hanno consentito di viaggiare attraverso il valico di Erez per essere operato in Giordania a causa del fatto che in precedenza era stato un detenuto.

“Dopo vari tentativi sono riuscito a andare in Egitto, e dopo che la tumefazione della mia gamba ha raggiunto il punto limite,” dice. A quel punto i dottori sono stati obbligati ad amputarla.

Secondo il rapporto dell’ONU e come sottolineato dal portavoce dell’esercito israeliano, le regole d’ingaggio delle forze di sicurezza israeliane consentono ai soldati di sparare ai manifestanti “come ultima risorsa nel caso di imminente pericolo di vita o di ferite di soldati o civili israeliani.”

Ma medici internazionali e palestinesi che hanno parlato con MEE affermano di aver visto colpire manifestanti anche quando questi non minacciavano i soldati.

L’ex ministro della Sanità di Gaza Naim dice di essere stato presente alla protesta l’8 febbraio con suo figlio di 14 anni e un gruppo di amici. Lì vicino un amico del ragazzo stava masticando semi di girasole e guardando la manifestazione a circa 100 o 150 metri dalla barriera con Israele.

“Improvvisamente hanno visto un ragazzino che cadeva, e quando sono corsi da lui lo hanno trovato in una pozza di sangue ed era stato colpito al collo,” dice.

“Ti posso mandare ore di video di attività culturali (durante le proteste) e al contempo vedrai qualcuno, soprattutto giovani, che cercano di lanciare pietre o di attraversare la barriera. Bene, ma posso dire che nel 99,9% dei casi non c’era alcuna minaccia per i soldati.”

Pur non essendo più direttamente coinvolto in campo medico, Naim sostiene di credere che i soldati israeliani abbiano intenzionalmente mutilato manifestanti – sia in base a quello che ha visto durante le manifestazioni di quest’anno che alla sua esperienza come medico durante la Seconda Intifada.

Durante quella rivolta all’inizio degli anni 2000, quando lavorava all’ospedale Naser di Khan Younis, Naim dice che c’erano evidenti caratteristiche costanti delle ferite inflitte dai cecchini israeliani.

“Un giorno c’erano solo gambe, un altro solo glutei, un terzo giorno solo toraci,” dice.

“Se vogliono spezzare la forza di volontà di un popolo, allora sparano con l’obiettivo di uccidere. Ma a volte, se non vogliono che le cose sfuggano al controllo, sparano, ma cercano di evitare di uccidere persone colpendo le gambe, le mani.”

Naim crede che i cecchini abbiano utilizzato, circa due decenni dopo, la stessa precisione ora sulla frontiera di Gaza.

“Ne posso essere certo perché alcuni venerdì ci sono uno, due o tre martiri, e a volte ce ne sono 50 o 25, perché vogliono esercitare più pressione,” dice.

Sistema sanitario al collasso

Oltre alle crescenti questioni sconvolgenti riguardo alle tattiche dell’esercito israeliano, la Grande Marcia del Ritorno ha messo sotto rinnovata pressione il sistema sanitario in difficoltà, in quanto migliaia di manifestanti feriti vi sono regolarmente portati per cure urgenti.

Il dottor Medhat Abbas, direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, descrive il 14 maggio dello scorso anno come uno dei giorni peggiori che l’ospedale abbia mai vissuto.

Ore dopo che il presidente USA Donald Trump aveva aperto la nuova ambasciata USA a Gerusalemme e sono scoppiate manifestazioni di rabbia in seguito al suo spostamento, sono arrivati all’Al-Shifa circa 500 palestinesi feriti, quasi quanti ne può ospitare l’ospedale, con 760 letti.

I pazienti giacevano a terra e nei corridoi mentre i chirurghi, troppo pochi e con mezzi insufficienti, hanno lavorato 24 ore al giorno in tutte le 14 sale operatorie dell’ospedale.

“È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” dice Abbas a MEE, rispondendo alle domande con messaggi registrati di WhatsApp nelle ore più strane, troppo impegnato per un’intervista telefonica.

Nel campo di rifugiati d Jabaliya Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut, lavorava all’ospedale Al-Awda proprio perché era uno dei principali luoghi della manifestazione.

“Sapevamo che quel numero [di pazienti] che vedevamo ogni venerdì sarebbe aumentato il giorno dello spostamento dell’ambasciata,” dice.

Non era solo lo Shifa ad essere sovraffollato: tra le 16 e le 20 di quel giorno 3.400 manifestanti vennero feriti, 1.000 in più del numero totale dei letti negli ospedali di Gaza, dice Abu Sitta.

Alla fine della giornata 68 persone erano state uccise o avevano subito ferite mortali a causa delle quali in seguito sono decedute.

Il sistema sanitario di Gaza era già indebolito in seguito all’assedio di 11 anni che ha limitato l’afflusso nel territorio di apparecchiature mediche, rifornimenti e medici, in particolare quelli specializzati in chirurgia.

Ma l’alto numero di vittime in giorni come il 30 marzo o il 14 maggio ha lasciato negli ospedali di Gaza un peso duraturo. Ferite da arma da fuoco alle gambe, soprattutto quelle provocate da pallottole dei cecchini sparate a corta distanza, possono richiedere fino a nove interventi chirurgici per essere curate, dice Abu Sitta.

Cosa succede quando proiettili di cecchini colpiscono le gambe

Il danno provocato da un proiettile dipende dalla velocità alla quale si muove la pallottola, con la velocità cinetica che si trasferisce ai tessuti, dice Ghassan Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut.

“Quando usi un fucile di precisione – che è un fucile da guerra ad alta velocità – si tratta del proiettile più veloce che ci sia perché può percorrere fino a 3 km,” afferma.

“Perciò quando spari a qualcuno a 50 o 100 metri, la maggioranza dell’energia cinetica è ancora nel proiettile.”

Secondo Medici Senza Frontiere, in metà dei casi di ferite alle gambe che hanno trattato a Gaza dallo scorso marzo, i pazienti avevano fratture esposte complicate, cioè l’osso è esposto all’aria e c’è il rischio che si infetti.

Molti hanno anche gravissimi danni ai tessuti e ai nervi e perdono parti importanti delle ossa delle gambe.

Un medico di MSF dice che in metà dei casi che ha visto l’osso “era letteralmente polverizzato”.

Questo tipo di ferite richiede una serie di interventi chirurgici, a volte fino a nove, dice Abu Sitta.

“Ciò significa mesi e forse anni di cure. Quindi ciò vuol dire che hanno molto dolore, stanno soffrendo molto,” afferma Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di MSF a Gerusalemme.

La maggioranza di quelli che sono feriti avranno effetti collaterali per il resto della loro vita, compresi irrigidimento degli arti, paralisi e, per alcuni, amputazione.

“Pensi al numero di interventi chirurgici ortopedici e plastici necessari per fare una chirurgia ricostruttiva sull’80% dei 6.500 (pazienti feriti),” afferma.

“Supera le capacità di risorse umane di Gaza. Supera il numero di ore di sala operatoria a disposizione, in termini di materiali, di medicazioni, di riabilitazione. E lo scopo è di sovraccaricare totalmente il sistema. C’è l’intenzionalità di menomare.”

Se i medici non possono spostarsi rapidamente per aiutare i feriti, questi possono patire complicazioni per il resto della loro vita, dice Ingres di MSF.

“Siamo in difficoltà perché temiamo che, se non si reagisce con sufficiente impegno, migliaia di persone potrebbero rimanere disabili,” sostiene.

“Già 200 persone hanno subito amputazioni, e se non siamo in grado di curarle domani, cioè tra i giovani, molti di loro saranno disabili perché non siamo riusciti a salvare le loro gambe, e ciò si potrebbe fare.”

Le ferite alle gambe hanno anche suscitato preoccupazioni riguardo alla resistenza agli antibiotici a Gaza. Ingres afferma che MSF stima che almeno 1.200 persone possono aver sviluppato infezioni alle ossa, che richiedono sei settimane di ospedalizzazione e antibiotici di alto livello prima di ogni operazione.

“Quindi sappiamo già che il trattamento sarà lungo e molto costoso,” dice.

Il tributo di una generazione

Oltre ai vari livelli di crisi sanitaria a Gaza, dicono i medici, ci sono le conseguenze a lungo termine di una generazione di disabili palestinesi, molti dei quali ventenni.

“I media diranno ‘oggi due, tre palestinesi morti, 500 feriti’. Ma in realtà questi 500 sono condannati a una vita di disabilità, di disoccupazione e ad anni di dolorose operazioni chirurgiche,” afferma Abu Sitta.

“È anche un problema psicologico,” aggiunge Ingres, “perché ora i giovani capiscono che sarà molto difficile per loro.”

“La maggioranza voleva solo manifestare per mostrare che hanno il diritto di esistere come chiunque altro al mondo. E oggi, dopo un anno, cos’hanno ottenuto? Non hanno niente.”

Ingres sostiene che lo spettro di una grande manifestazione per commemorare il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno è preoccupante.

“Ad essere sinceri, se ci sarà un nuovo massiccio numero di feriti nessuno riuscirà a gestire Gaza,” dice. “Sarà un disastro.”

Ma pur avendo una chiara comprensione dei rischi in cui incorrono per protestare vicino alla frontiera, i giovani palestinesi hanno continuato a protestare, con l’invito a un milione di persone perché sabato si uniscano alla marcia di commemorazione.

Akhras, il trentunenne colpito a una gamba lo scorso maggio, potrebbe essere tra i manifestanti, nonostante il fatto che la sua vita sia drammaticamente cambiata da quando è stato ferito.

Non più in grado di guadagnarsi da vivere come fabbro, Akhras ha ricevuto uno stipendio dall’Autorità Nazionale Palestinese per persone ferite fino a due mesi fa, quando è stato sospeso e lui è rimasto in condizioni economiche difficili.

Sua moglie, Haneen al-Qutati, di 23 anni, contribuisce al sostentamento della coppia con il suo lavoro di infermiera, e il loro primo figlio nascerà a breve. Nel frattempo, grazie a un’organizzazione che aiuta persone disabili, Akhras si sta formando come falegname.

Dice di sentire spesso il dolore della ferita, ma non vuole prendere antidolorifici per il timore di diventarne dipendente. Non ha ancora una gamba artificiale e per spostarsi usa le stampelle.

“Alla sera ho forti dolori, ma cerco di far vedere a mia moglie che non mi fa male,” dice. “Qualcuno mi guarda con compassione. È una sensazione penosa per mia moglie.”

Ciononostante durante molti degli ultimi venerdì è uscito per unirsi alle proteste nei pressi di Rafah, ancora deciso a manifestare.

“Voglio che i giovani dimostrino una grande volontà,” afferma. “L’occupazione li prende deliberatamente di mira e vuole che una giovane generazione di palestinesi cammini con le stampelle.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Attachi israeliani contro Gaza

Israele lancia attacchi contro Gaza, mettendo a rischio il ‘cessate il fuoco’

Fonti ufficiali israeliane hanno messo in discussione le affermazioni dei dirigenti di Hamas secondo cui è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine alle violenze di questa settimana

 

Middle East Eye

 

Della Redazione di MEE

26 Marzo 2019

 

Israele ha colpito alcuni obiettivi nella Striscia di Gaza assediata, rompendo potenzialmente il cessate il fuoco che secondo Hamas sarebbe stato negoziato tra Egitto e Israele.

Secondo Haaretz, che ha citato un portavoce dell’esercito israeliano, Israele ha attaccato un complesso di edifici e un deposito di armi di Hamas nel distretto di Khan Younis.

Martedì sera l’esercito israeliano ha affermato che un razzo da Gaza ha colpito la regione israeliana di Ashkelon senza causare vittime o danni.

Martedì notte gli attacchi di Israele sono avvenuti un giorno dopo che un razzo da Gaza ha colpito una casa a nord di Tel Aviv.

Contrariamente alle affermazioni di Hamas, i mezzi di informazione israeliani Haaretz e Ynet martedì hanno informato che non è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine al riacutizzarsi della violenza nella Striscia di Gaza durante questa settimana.

Durante la giornata di lunedì l’esercito israeliano ha bombardato alcuni obiettivi a Gaza, compresi l’ufficio del dirigente di Hamas Ismail Haniyeh e la casa di una famiglia palestinese nel centro di Gaza City.

La violenza è iniziata dopo che un razzo lanciato dal territorio palestinese assediato ha colpito una città nel centro di Israele, ferendo sette persone.

Israele ha subito accusato Hamas di essere dietro l’attacco, ma il gruppo palestinese ha negato ogni responsabilità.

Lunedì una fonte non identificata a Gaza ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] che il razzo potrebbe essere stato lanciato inavvertitamente a causa del “cattivo tempo”.

Mentre montavano i timori di una guerra totale israeliana, il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum lunedì sera ha detto che era stato raggiunto un cessate il fuoco.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza sette palestinesi sono rimasti feriti durante la notte da attacchi aerei israeliani.

Secondo Haaretz martedì pomeriggio un razzo lanciato da Gaza è caduto in una zona disabitata in Israele, facendo scattare le sirene di allerta. Il razzo non ha causato nessun danno né feriti, afferma il giornale israeliano.

Un funzionario anonimo di Gaza ha detto alla Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] che l’attacco con i razzi di martedì è stata un’azione individuale, non approvata da Hamas o da qualunque altro gruppo armato nel territorio palestinese.

 

“Faremo quello che è necessario”

Invece fonti ufficiali israeliane hanno chiesto una dura risposta contro Hamas.

Parlando martedì all’annuale conferenza del gruppo lobbystico filo-israeliano AIPAC in un video filmato da Israele, Netanyahu ha detto che è stata usata una “grande forza” per rispondere ad Hamas.

“Nelle ultime 24 ore (l’esercito israeliano) ha distrutto importanti installazioni terroristiche di Hamas a un livello mai più visto dalla fine dell’operazione militare a Gaza di quattro anni fa [operazione “Margine protettivo”, ndt.] … E vi posso dire che siamo pronti a fare molto di più,” ha detto il primo ministro israeliano.

“Faremo quanto necessario per difendere il nostro popolo e il nostro Stato.”

Le sue dichiarazioni arrivano a due sole settimane dalle elezioni israeliane, in cui [Netanyahu] deve affrontare un’importante sfida con l’ex-generale dell’esercito israeliano Benny Gantz.

Il ministro dell’Educazione israeliano di estrema destra, Naftali Bennett, un alleato di Netanyahu, ha invitato l’esercito del Paese a utilizzare la forza bruta per “neutralizzare” Hamas, mettendo in guardia contro il fatto di prendere una posizione debole contro il gruppo palestinese.

Secondo Haaretz martedì egli ha detto: “Se tu fuggi dal terrorismo, il terrorismo ti inseguirà.”

 

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cessate il fuoco a Gaza annunciato da Hamas

Hamas dice che è stato raggiunto un cessate il fuoco dopo attacchi aerei sulla Striscia di Gaza

Un portavoce di Hamas afferma che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza

 

Middle East Eye

MEE e agenzie – 25 marzo 2019

 

Un portavoce di Hamas ha affermato che, dopo che l’esercito israeliano ha compiuto una serie di attacchi aerei contro la Striscia di Gaza assediata, è stato raggiungo un cessate il fuoco con Israele.

Come informano i media locali, in una breve dichiarazione [rilasciata] lunedì sera, il portavoce di Hamas Fawzi Barhom ha detto che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza.

Al momento Hamas non ha fornito alcun ulteriore dettaglio sull’accordo.

Il cessate il fuoco, di cui hanno riferito per primi i mezzi di informazione di Hamas, è giunto dopo che le forze israeliane hanno lanciato una serie di attacchi contro quelli che ha descritto come “obiettivi del terrorismo di Hamas” nella Striscia di Gaza.

Gli attacchi aerei sono stati lanciati alcune ore dopo che un missile sparato dal territorio palestinese assediato ha colpito una cittadina nel centro di Israele.

L’aumento della violenza ha suscitato timori che potesse essere imminente una campagna di bombardamenti israeliani su vasta scala.

Citando un anonimo funzionario di Hamas, la Reuter [agenzia di notizie britannica, ndt.] ha informato che la tregua è entrata in vigore alle 22 ora locale.

“Grazie alla mediazione dell’Egitto è stato raggiunto un accordo su un cessate il fuoco tra le fazioni palestinesi e Israele,” ha detto il funzionario alle agenzie di stampa.

La Reuter ha affermato che al momento Israele non ha commentato le informazioni sul cessate il fuoco.

Nel primo pomeriggio di lunedì la Reuter ha informato che un attacco aereo israeliano aveva preso di mira l’ufficio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Gaza.

Era improbabile che Haniyeh vi si trovasse, in quanto normalmente Hamas evacua i propri edifici quando si aspetta attacchi israeliani, afferma l’agenzia di stampa. Un portavoce militare israeliano ha rifiutato di commentare l’informazione.

Il movimento Hamas ha negato l’accusa dell’esercito israeliano di aver effettuato lunedì mattina un attacco con il razzo che ha ferito sette persone nella cittadina israeliana di Meshmeret.

Funzionari della sicurezza palestinese e i mezzi di comunicazione di Hamas hanno affermato che gli attacchi aerei israeliani hanno colpito una postazione navale di Hamas a ovest di Gaza City e anche un grande campo di addestramento nella parte settentrionale di Gaza.

È probabile che entrambe le postazioni siano state evacuate, in quanto Hamas ha avuto ore di preavviso che stavano per cominciare attacchi israeliani. Testimoni hanno detto che tre missili hanno colpito l’obiettivo a nord.

Mohamad Ghazali, un capofamiglia palestinese di Gaza City, che si trova nella parte centrale della Striscia, ha affermato che un soldato israeliano lo ha chiamato per telefono dicendogli che lui e la sua famiglia avevano solo qualche minuto per evacuare la loro casa.

“Hanno affermato che nessuno doveva rimanere nella zona. Abbiamo risposto: ‘Abbiamo bambini piccoli, dove li dovrei portare?’” ha detto Ghazali a MEE.

Ghazali racconta che la sua famiglia se n’è andata senza nient’altro che i vestiti che avevano addosso e che qualche momento dopo una serie di missili ha colpito la loro casa.

Ha aggiunto di non capire perché la casa sia stata presa di mira, in quanto non ci sono gruppi armati nel quartiere.

In un comunicato prima del presunto attacco al suo ufficio Haniyeh ha affermato che “l’attuale situazione palestinese sta subendo un attacco su vasta scala a tutti i livelli: a Gerusalemme, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno delle carceri israeliane.”

Ha sostenuto che i palestinesi “non si arrenderanno all’occupazione israeliana”, promettendo che “se l’occupante israeliano attraverserà la linea rossa, la resistenza palestinese risponderà di conseguenza.”

Ciò è stato ripetuto da Ziyad al-Nakhleh, segretario generale della Jihad islamica, un gruppo armato che opera a Gaza, che ha affermato che “risponderà duramente a ogni aggressione israeliana contro Gaza.”

Yahya Sinwar, il capo di Hamas, che governa l’enclave costiera assediata, ha annullato un evento pubblico previsto per lunedì pomeriggio, e funzionari di Hamas hanno parlato di “sviluppi”.

Nel contempo lunedì mattina, parlando a Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele “farà tutto il necessario per difendere il suo popolo. Israele non tollererà attacchi con razzi sul suo territorio.”

Anche il presidente USA Donald Trump ha detto che Israele “ha il diritto di difendersi.”

 

Razzi colpiscono a nord di Tel Aviv

Di prima mattina una casa è stata completamente distrutta e almeno un’altra e alcune automobili sono state gravemente danneggiate dopo che razzi sono caduti sulla comunità agricola israeliana di Mishmeret, a circa 20 km a nord-est di Tel Aviv.

L’attacco è avvenuto qualche minuto dopo che l’esercito israeliano aveva attivato le sirene di allarme aereo nella zona e detto che un razzo era stato lanciato dalla Striscia di Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato che il razzo era stato sparato da una postazione di Hamas nei pressi di Rafah, a sud di Gaza.

Ma lunedì non era ancora chiaro da dove sia partito il razzo.

“Nessuno dei movimenti di resistenza, compreso Hamas, ha interesse a sparare razzi dalla Striscia di Gaza verso il nemico,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] un anonimo ufficiale, evocando la possibilità che sia stato il “cattivo tempo”.

Almeno in una precedente occasione in cui Hamas e altri gruppi di miliziani hanno negato di aver lanciato razzi su Israele, essi hanno ipotizzato che un temporale avesse attivato il lancio di un razzo.

Non è tuttora chiaro se l’ufficiale intervistato dall’AFP lunedì alludesse a una simile eventualità.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha informato che comunque lunedì mattina il portavoce dell’esercito israeliano Ronen Manelis ha detto che due brigate si stavano dirigendo a sud verso Gaza e che l’esercito stava mobilitando migliaia di riservisti, compresi quelli dell’aviazione.

L’ospedale dove sono in cura le vittime ha affermato che sette israeliani, tra cui un neonato, un bambino di tre anni, una ragazzina di 12 e una donna sessantenne, sono rimasti leggermente feriti da bruciature e schegge. Sei di loro sono membri della stessa famiglia.

L’attacco di lunedì mattina è giunto in un momento di tensioni in aumento in seguito all’ anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza del fine settimana e mentre Netanyahu si trova in visita a Washington nell’ambito della campagna in corso per un quinto mandato nelle elezioni del 9 aprile in Israele.

Netanyahu ha detto che in seguito all’attacco avrebbe interrotto il suo viaggio negli Stati Uniti, dove era previsto che parlasse alla conferenza dell’associazione lobbystica filo-israeliana AIPAC.

“Alla luce degli avvenimenti riguardanti la sicurezza ho deciso di interrompere la mia visita negli USA,” ha detto Netanyahu, definendo l’attacco un crimine efferato che porterà a una forte risposta israeliana.

Tuttavia, prima di tornare ha incontrato Trump alla Casa Bianca, dove la coppia ha tenuto una conferenza stampa per annunciare che Trump ha firmato un ordine esecutivo che riconosce la “sovranità” israeliana sulle Alture del Golan siriane.

Analisti statunitensi hanno affermato che l’annuncio potrebbe servire a rafforzare le prospettive di Netanyahu nelle elezioni del mese prossimo.

Il principale rivale di Netanyahu nelle imminenti elezioni, l’ex-generale Benny Gantz, che era anche lui a Washingron per partecipare lunedì alla conferenza dell’AIPAC, dopo l’attacco con il razzo ha accusato Netanyahu di aver “mandato in bancarotta la sicurezza nazionale.”

 

Evacuazioni in tutta Gaza

In seguito all’attacco con un razzo a Mishmeret, la marina israeliana ha impedito ai pescatori palestinesi di salpare dalle spiagge di Gaza.

[Gli israeliani] hanno anche chiuso sia il valico di Karam Abu Salem che di Beit Hanoun, che sono utilizzati per il trasporto rispettivamente di beni e persone.

L’esercito israeliano ha inoltre dichiarato numerose aree nel sud di Israele zone militari chiuse, mentre il Comune di Tel Aviv ha aperto al pubblico alcuni rifugi antiaerei.

Nel contempo lunedì edifici governativi, scuole, prigioni, stazioni di polizia e della sicurezza palestinesi a Gaza sono stati evacuati in previsione di potenziali bombardamenti israeliani.

Il quartier generale della televisione Al-Aqsa è stato chiuso per timore che anch’esso potesse essere preso di mira dagli aerei da guerra israeliani.

Fonti hanno anche detto a Middle East Eye che alcune ong con sede a Gaza hanno evacuato il loro personale internazionale.

Durante l’offensiva israeliana contro Gaza nel dicembre 2008 i primi obiettivi di Israele sono stati i commissariati di polizia.

Il ministero della Salute di Gaza ha emanato un’allerta ai cittadini perché lunedì “dimostrino la massima attenzione e cautela”, aggiungendo che gli ospedali – già gravati dall’assedio e dall’alto numero di feriti in un anno di proteste – sono in stato di allerta.

 

Imminenti elezioni

Mishmeret si trova a più di 80 km dalla Striscia di Gaza ed è raro che un lancio di razzi dall’enclave palestinese possa raggiungere quella distanza.

Tel Aviv, la capitale economica di Israele, e le comunità della sua periferia sono finite l’ultima volta sotto simili attacchi durante la guerra del 2014 con Hamas.

Il 14 marzo sono stati lanciati alcuni razzi verso Tel Aviv ma non hanno provocato né vittime né danni, afferma Israele.

Israele accusa Hamas del lancio di questi razzi, benché al momento un ufficiale anonimo della sicurezza di Gaza affermi che il lancio, che ha mancato ogni area edificata, era stato fatto partire per sbaglio.

Israele considera Hamas, il partito che governa di fatto a Gaza, responsabile di ogni lancio di razzi che arriva dal piccolo territorio palestinese, benché nella zona operino anche altre fazioni armate.

Israele sottopone la Striscia di Gaza ad un blocco durissimo, che per chi lo critica rappresenta una punizione collettiva dei due milioni di abitanti dell’enclave impoverita.

Anche l’Egitto mantiene un continuo assedio, limitando i movimenti di entrata ed uscita da Gaza sul suo confine.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Fascismo n°5: la ministra israeliana recita in una bizzarra campagna pubblicitaria per un profumo

Redazione di Middle East Eye

19 marzo 2019, Middle East Eye

Secondo la candidata di estrema destra Ayelet Shaked il profumo fascista “odora come la democrazia”

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked recita in una propaganda elettorale satirica del suo partito di estrema destra in cui compare un profumo chiamato “Fascismo” che, dice, “odora come la democrazia”.

Shaked, che partecipa alle elezioni generali del 9 aprile per il partito “Nuova Destra”, sembra prendere in giro i timori di sinistra che il suo partito stia cercando di danneggiare il sistema giudiziario a favore del governo dominato dalla Destra.

In un videoclip in bianco e nero con una musica di pianoforte in crescendo, Shaked indossa gioielli, sta in piedi di fianco a un quadro e scende al rallentatore dalle scale prima di spruzzarsi il profumo “Fascismo”, mentre una voce fuori campo sussurra le frasi “riforma giudiziaria”, “separazione dei poteri”, “governo” e “limitazione della Corte suprema”.

Poi Shaked dice agli spettatori: “Per me ha il profumo della democrazia.” Alla fine del clip di 44 secondi, mentre si allontana dalla telecamera la pubblicità afferma: “La prossima rivoluzione sta arrivando.”

L’annuncio, diffuso in ebraico, può essere visto come un esplicito sostegno al fascismo, ma colpisce per la particolare somiglianza con una scenetta di “Saturday Night Live” [programma comico di una televisione americana, ndt.] che ha ospitato Scarlett Johansson [attrice americana, ndt.] che recitava il ruolo di Ivanka Trump [figlia del presidente americano Donald Trump, ndt.] nella pubblicità di un profumo chiamato “Complicit”, in quanto il programma satirico americano voleva attirare l’attenzione sulla Trump per quelle che considera le sue responsabilità nel governo del padre.

Lunedì il co-fondatore di “Nuova Destra” e ministro dell’Educazione, Naftali Bennett, ha condiviso il video di Shaked con la didascalia: “Il profumo che a quelli di sinistra non piacerà molto.”

La campagna elettorale di Shaked e Bennett promette di contrastare il movimento palestinese Hamas e la Corte Suprema israeliana con lo slogan: “Shaked sconfiggerà l’Alta Corte di Giustizia, Bennett sconfiggerà Hamas.”

Membri del partito hanno accusato la Corte Suprema, formata da 15 persone, di limitare la capacità dei soldati israeliani di “sconfiggere il terrorismo”.

Nel 2017 Shaked ha fatto pressione con successo per la nomina alla Corte di tre giudici di destra, compreso un colono.

Domenica la corte ha escluso dalle elezioni del prossimo mese un candidato ebreo di estrema destra e approvato la candidatura di un partito arabo, una decisione che Shaked ha liquidato come un’“interferenza sbagliata nel cuore della democrazia israeliana.”

Shaked, che si definisce una politica laica, ha co-fondato il partito “Nuova Destra” a dicembre. Ora il partito ha tre seggi nel parlamento israeliano.

I sondaggi prevedono un massimo di sette seggi per il partito “Nuova Destra” nelle imminenti elezioni.

Shaked è stata costantemente criticata da parte di organizzazioni per i diritti umani per le sue virulente posizioni di estrema destra. Nel 2015 avrebbe affermato che le madri palestinesi allevano “piccoli serpenti” e chiesto che vengano uccise.

Ma in un’atmosfera politica di estrema destra in Israele molti politici competono per chi esprime la posizione più intransigente nei confronti dei palestinesi.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha alternativamente definito il suo principale oppositore nelle prossime elezioni, Benny Gantz, “debole” e “di sinistra” per il suo presunto atteggiamento disponibile a compromessi verso i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas reprime le proteste per le condizioni di vita a Gaza

Kaamil Ahmed

16 marzo 2019, Middle East Eye

I palestinesi di Gaza hanno protestato per tre giorni contro il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse

Pare che le forze di Hamas abbiano represso le proteste per migliori condizioni di vita nella Striscia di Gaza assediata, incolpando delle dimostrazioni la rivale Autorità Nazionale Palestinese. 

Le proteste sono proseguite sabato per il terzo giorno consecutivo, per denunciare le misere condizioni economiche, il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse.

Le manifestazioni si sono svolte in tutta Gaza, ma si sono concentrate a Deir al-Balah, una cittadina a sud di Gaza City.

Riprese dal vivo postate sui social media da Deir al-Balah sembrano mostrare forze di sicurezza di Hamas in assetto antisommossa che picchiano i manifestanti con bastoni.

Dei testimoni, che in gran parte filmavano dalle loro case, hanno gridato vedendo altri abitanti inseguiti, compreso un uomo che sembrava chiedesse agli altri manifestanti di smettere di lanciare oggetti contro la polizia.

La giornalista di Gaza e corrispondente di MEE Hind Khoudary ha detto che i manifestanti, comprese le donne, sono stati picchiati e che le forze di sicurezza hanno fatto incursione nelle case intorno al luogo della protesta. Ha aggiunto che durante le dimostrazioni si è sentito il rumore di proiettili veri.

L’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha criticato le “gravi aggressioni” ai manifestanti, inclusi tre membri dell’associazione di Gaza per i diritti ‘Commissione indipendente per i diritti umani’.

“Le aggressioni contro di loro sembrano indicare che i servizi di sicurezza a Gaza volevano impedire che conducessero il loro lavoro a favore dei diritti umani, e ostacolare il loro monitoraggio e la documentazione delle violazioni e le relative conseguenze sulla situazione dei diritti umani”, ha detto sabato Al-Haq in una dichiarazione.

L’organizzazione ha affermato che centinaia di manifestanti si erano radunati in diverse città, esponendo cartelli che chiedevano sia al governo de facto di Hamas che al suo rivale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) capeggiata da Fatah con sede nella Cisgiordania occupata, di migliorare le condizioni di vita.

Gaza ha subito per oltre un decennio un blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele ed Egitto, che limita il movimento sia di merci che di persone. Nello stesso periodo vi è stata una contrapposizione tra Hamas e Fatah, dopo che il primo ha assunto il controllo di Gaza nel 2007 in seguito alle elezioni legislative del 2006 in cui la vittoria di Hamas è stata contestata da Fatah. 

Dal 2017 il leader di Fatah e presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha cercato di aumentare la pressione su Hamas, tagliando la fornitura di elettricità a Gaza e bloccando il pagamento dei salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Dopo il ritiro dell’ANP da Gaza nel 2007, essa ha continuato tuttavia a pagare quei dipendenti a condizione che non lavorassero per Hamas. Nelle drammatiche condizioni dell’enclave assediata, i salari dell’ANP sono stati spesso un’ancora di salvezza per molte famiglie di Gaza.

Una dichiarazione di Hamas di sabato attribuisce la colpa delle condizioni economiche del territorio all’assedio e alle misure dell’Autorità Nazionale Palestinese, definendole un “crimine nazionale, morale ed umanitario” finalizzato a seminare divisione tra i palestinesi.

Dopo le proteste di venerdì, l’ufficio ONU per l’Alto Commissario dei diritti umani ha detto di essere “scioccato dalla risposta violenta delle forze di sicurezza di Hamas nel disperdere le dimostrazioni nella Striscia di Gaza”.

“Personale della sicurezza in borghese, tra cui molti armati di bastoni, ha fatto irruzione nelle manifestazioni e impedito con la forza ai partecipanti di filmare o fotografare anche i casi di pestaggi e ricoveri in ospedale di molti manifestanti. Un numero imprecisato di dimostranti è stato arrestato e detenuto dalle forze di sicurezza”, si afferma nella dichiarazione.

Le proteste per le condizioni di vita a Gaza sono iniziate nel momento in cui venerdì per la prima volta è stata annullata la protesta della ‘Grande Marcia del Ritorno’, dopo che aerei israeliani hanno fatto incursioni notturne nell’enclave e sono stati lanciati razzi su Tel Aviv.

La ‘Grande Marcia del Ritorno’, una serie di manifestazioni periodiche iniziata il 30 marzo 2018, chiedeva la fine dell’assedio e la concretizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi le cui famiglie furono espulse al momento della nascita dello Stato di Israele. Dall’inizio della marcia le forze israeliane hanno ucciso a Gaza più di 255 palestinesi e ne hanno feriti oltre 29.000. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

La sospensione della ‘Grande Marcia del Ritorno’ avviene nel momento in cui pare che l’Egitto stia facendo da intermediario in un accordo di tregua tra Israele e Hamas – nel timore che, se non si fa nulla, le attuali tensioni possano sfociare in una vera e propria guerra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




GERUSALEMME. Tensioni ad Al-Aqsa, nuovo punto di rottura

Ben White

Middle East Eye, 21 febbraio 2019

Roma, 25 febbraio 2019, Nena News –  Passate inosservate sui media occidentali, le tensioni nella Gerusalemme occupata si sono intensificate. La scorsa settimana è nato un nuovo scontro sulla questione del complesso della Moschea di Al-Aqsa, nel contesto degli sforzi sempre più intensi che le autorità israeliane e i coloni stanno mettendo in campo per cambiare lo status quo e impossessarsi delle proprietà palestinesi nella Città Vecchia e dintorni.

Il governo giordano ha recentemente deciso di allargare la struttura della Waqf – l’istituzione incaricata di gestire il complesso di Al-Aqsa – per includere un certo numero di “pezzi grossi” palestinesi, oltre ai consolidati membri giordani.

Accessi chiusi 

La mossa è giunta in risposta a quella che Ofer Zalzberg, dell’Unità di Crisi Internazionale, ha descritto ad Haaretz come “l’erosione dello status quo” nella zona, che include anche la tolleranza, da parte delle forze di occupazione israeliane, di un “tranquillo pregare” degli ebrei all’interno del complesso – “uno sviluppo alquanto recente”, nota il giornale.

Giovedì scorso, il comitato appena allargato ha fatto un sopralluogo, e pregato, nell’edificio situato alla Porta della Misericordia (Bab al-Rahma), chiuso dalle autorità israeliane di occupazione dal 2003. Al tempo, la chiusura venne motivata sulla base di ipotetiche attività politiche e legami con Hamas, ma l’edificio da allora è rimasto chiuso.

Domenica notte le forze israeliane hanno messo nuovi lucchetti ai cancelli metallici che portano all’edificio. Quando i fedeli palestinesi hanno cercato di aprire i cancelli, sono scoppiati scontri, e diversi palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Martedì sera ci sono stati altri scontri e arresti, mentre un tribunale israeliano, mercoledì, ha vietato a una decina di palestinesi di entrare nel complesso. Sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che Hamas hanno condannato tali sviluppi, e hanno lanciato l’allarme sulla precarietà della situazione.

Una nuova realtà dei fatti

Ciò che è successo al complesso di Al-Aqsa dev’essere considerato all’interno del più ampio scenario di Gerusalemme, e in particolare di ciò che l’ong israeliana Ir Amir ha definito una “rapida e sempre più intensa catena di nuovi avvenimenti”, tra cui “un crescente numero di campagne, sostenute dallo Stato, per gli insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi”.

Un’espressione di tali campagne è lo sfratto di famiglie palestinesi dalle proprie case, in modo che i coloni possano prenderne possesso.  Domenica scorsa, la famiglia di Abu Assab è stata espulsa dalla propria casa nel quartiere musulmano della Città Vecchia, un destino che attende altre centinaia di famiglie palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Ciò che si sta concretizzando a Gerusalemme è una “campagna organizzata e sistematica dei coloni, con il sostegno degli enti governativi, per espellere intere comunità da Gerusalemme Est e per stabilire insediamenti al loro posto”, secondo le parole di un supervisore israeliano degli insediamenti.

“Ciò che vogliono è evidente: una maggioranza ebraica qui e a Gerusalemme Est”, ha dichiarato recentemente all’Independent Jawad Siyam, un attivista di Silwan. La sua comunità è rovinata dalla presenza dell’insediamento coloniale “Città di David”, destinato a ricevere un nuova spinta dalle autorità israeliane di occupazione, sotto forma di un progetto per una stazione di teleferica.

Gerusalemme è stata per un bel po’ assente dai titoli dei giornali, visto che la gran parte dell’attenzione, per motivi più che comprensibili, è stata riservata alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza e ai tentativi, arenati, di ottenere la liberazione dal blocco. Ci sono all’orizzonte anche le elezioni israeliane, e continuano le congetture su cos’abbia in serbo l’amministrazione Trump con il cosiddetto ‘piano di pace’.

In sottofondo, comunque, l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane a Gerusalemme Est potrebbe portare a un nuovo punto di rottura.

Attivismo di base 

La Waqf ha dichiarato di mirare all’apertura del sito di Bab al-Rahma, una richiesta che potrebbe diventare il punto fondamentale di quel genere di proteste di massa che si sono viste nell’estate del 2017. Allora, i metal detector introdotti dalle forze israeliane di occupazione fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa innescarono manifestazioni spontanee, e alla fine vennero rimossi.

Che il Waqf decida o meno di procedere, potrebbe ritrovarsi con le mani legate dalla pressione dell’attivismo di base; c’è parecchia preoccupazione, tra i palestinesi, che il governo israeliano – insieme al cosiddetto “Movimento del Tempio” – si stia adoperando per una divisione dello spazio del complesso di Al-Aqsa, con l’instaurazione al suo interno di preghiere ebraiche formalizzate.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno procedendo alla chiusura del loro Consolato a Gerusalemme Est e allo spostamento degli “affari” palestinesi in un ufficio all’interno della nuova Ambasciata: un segnale potente, se ce ne fosse bisogno, del fatto che la visione dell’amministrazione Trump traccia una netta separazione anche dalla semplice finzione di una “soluzione dei due Stati”, e del suo timbro di approvazione su Israele come unico Stato di fatto.

Gli eventi di questa settimana, comunque si svilupperanno, costituiscono un monito: mentre Israele e gli Stati Uniti vedono in Gerusalemme una facile preda per un rapido processo di colonizzazione e di maggiore imposizione della sovranità israeliana, i residenti palestinesi della città sono navigati guastafeste dei piani israeliani e potrebbero presto riprendere questo ruolo

Traduzione di Elena Bellini/ Nena News




I minori palestinesi temono per il loro futuro in quanto Israele intende chiudere scuole

Zena Tahhan

29 gennaio 2019, Middle East Eye

Le strutture educative per i palestinesi a Gerusalemme est sono già tutt’altro che adeguate. Ora potrebbero essere molto peggiori

Campo profughi di Shuafat, Gerusalemme est occupata –Nel trascurato campo profughi di Shuafat, nella Gersualemme est occupata, l’atmosfera è sempre tesa.

Qui i bambini giocano nelle strade piene di spazzatura e acque reflue, mentre giovani adolescenti sono obbligati ad abbandonare la scuola per lavorare in autorimesse e ristoranti per aiutare in casa ad arrivare a fine mese.

Almeno 24.000 persone – la maggioranza delle quali profughi le cui famiglie vennero espulse nel 1948 – vivono in questo angolo di illegalità, rinchiuso tra due posti di controllo e un muro di cemento altro 8 metri che circonda il campo.

Notizie riguardo ai progetti di Israele di chiudere qui le due scuole per rifugiati delle Nazioni Unite hanno solo soffiato sul fuoco.

Le scuole, benché carenti come organizzazione e qualità necessarie, sono gratuite e offrono un piccolo ma significativo barlume di speranza in un contesto difficile.

“Tutte le mie amiche sono nella mia scuola. Amo i miei insegnanti. Passiamo più tempo a scuola che a casa,” dice Zuhoor al-Tawil, una studentessa quattordicenne della scuola femminile di Shuafat, gestita dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA.

“Perché non aspettano che ci diplomiamo e poi la chiudono?” chiede a Middle East Eye.

Con l’ennesimo colpo ai profughi palestinesi e al sistema educativo nella Gerusalemme est occupata, la scorsa settimana i media israeliani hanno informato che Israele chiuderà le scuole dell’ONU che forniscono servizi ai campi profughi palestinesi in tutta la città.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, dall’inizio del prossimo anno scolastico il Consiglio della Sicurezza Nazionale di Israele revocherà i permessi alle scuole gestite dall’UNRWA.

Le scuole dirette dall’agenzia ONU verrebbero sostituite da scuole alle dipendenze del Comune di Gerusalemme, e seguirebbero il curriculum di studi del ministero dell’Educazione di Israele.

In attività dal 1949, l’UNRWA gestisce sei scuole a Gerusalemme, fornendo servizi a circa 3.000 studenti. L’agenzia gestisce anche centri sanitari e associazioni di donne e giovani, e offre anche servizi di assistenza e protezione.

In merito alla questione, l’UNRWA ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di non essere informata della decisione di chiudere le scuole.

“In nessun momento dal 1967 le autorità israeliane hanno contestato le basi su cui l’agenzia mantiene e gestisce strutture a Gerusalemme est,” afferma la dichiarazione.

Ipotesi B’

Sebbene l’UNRWA sia preoccupata, sta cercando di non parlare di un’“ipotesi B” se Israele decidesse di chiudere le scuole o di limitare l’operatività dell’agenzia, ha detto il portavoce Sami Mshasha a MEE.

“Ci sono 60.000 rifugiati palestinesi a Gerusalemme. Gran parte di loro vive al di sotto del livello di povertà. C’è un altissimo tasso di disoccupazione, la qualità della vita di queste persone si ridurrà drasticamente e ne soffriranno.”

Mohannad Masalameh, direttore esecutivo del Comitato Popolare del campo di Shuafat, afferma che, mentre le scuole dell’ONU stanno affrontando una grave riduzione del personale a causa dei recenti tagli [ai finanziamenti all’UNRWA, ndtr.] da parte del governo USA, le loro strutture rimangono migliori di altre scuole.

L’amministrazione comunale israeliana di Gerusalemme gestisce una serie di scuole nel campo, dove, nonostante ripetuti tentativi da parte del governo israeliano di introdurre il proprio programma, vengono seguiti i programmi dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

“Tu vai in una scuola municipale e non c’è neppure un’atmosfera da scuola. Le scuole dell’UNRWA sono molto più grandi e migliori. C’è un grande cortile. La maggior parte delle scuole municipali è in edifici affittati,” dice Masalameh a MEE.

“Sebbene non sia stata presa nessuna decisione, se un simile progetto venisse messo in pratica avrà conseguenze molto negative. L’UNRWA ha fornito lavoro a circa 85 dipendenti nelle scuole: perderanno il loro lavoro.” E aggiunge: “Penso che la gente si rifiuterà di mettere i propri figli nelle scuole municipali con un programma di studi israeliano. In quanto palestinesi, alcuni potrebbero rifiutarsi di imparare un programma di un altro Paese che è in conflitto con il proprio patriottismo.”

Strutture fatiscenti

Il fatto che Israele prenda di mira le scuole dell’UNRWA è solo uno dei modi in cui le sue politiche hanno un impatto negativo sull’educazione dei palestinesi a Gerusalemme.

In base alle leggi israeliane e internazionali, Israele ha l’obbligo di fornire un’educazione adeguata a tutti i bambini palestinesi della città.

Tuttavia” Ir Amim”, una Ong israeliana che monitora la vita dei palestinesi in città, informa che sarebbero necessarie più di 2.500 aule per fornire servizi adeguati ai minori palestinesi.

Oltretutto si stima che circa 70 aule dovrebbero essere costruite ogni anno per rispondere all’aumento della popolazione palestinese, ma in media Israele ne costruisce annualmente 37.

“Fino a poco tempo fa il Comune di Gerusalemme e il ministero dell’Educazione attribuivano la crescente mancanza di aule alla carenza di terreni disponibili su cui costruire strutture scolastiche a Gerusalemme est,” affermava un rapporto dell’associazione pubblicato nel 2017.

“Di fatto, la scarsità in questione non è una reale mancanza di terreni, quanto piuttosto una mancanza di aree edificabili destinate a edifici pubblici – un risultato diretto della pianificazione urbanistica discriminatoria a Gerusalemme est.”

Israele conquistò Gerusalemme est, l’annesse e mise i suoi quartieri sotto la giurisdizione israeliana nel 1967, con un’iniziativa che violava le leggi internazionali e che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Da allora ha destinato il 2,6% di tutta la terra a Gerusalemme est per strutture pubbliche. Al contrario, circa l’86% di Gerusalemme est è stato destinato ad uso dello Stato di Israele e dei coloni.

La mancanza di spazi per l’espansione naturale e la ghettizzazione dei quartieri palestinesi a Gerusalemme est hanno gravemente soffocato il settore dell’educazione.

Ziad al-Shamale, presidente dell’Unione dei Comitati dei Genitori a Gerusalemme est, afferma che la mancanza di spazio è il problema maggiore, con il muro israeliano di separazione tra la città e la Cisgiordania occupata che blocca lo sviluppo.

“Gerusalemme è chiusa dal muro, e le scuole sono già sovraffollate. Il governo israeliano non concede nessun permesso o autorizzazione per costruire una scuola – né lo fa l’Autorità Nazionale Palestinese, né il Waqf [ente religioso musulmano che gestisce i luoghi sacri, ndtr.] islamico di Gerusalemme – nessuno,” dice Shamale a MEE.

“Israele non vuole che il nostro settore educativo si sviluppi. Vogliono persone senza educazione, gente che abbandona la scuola,” continua. “Le persone non possono trovare case in cui abitare, per cui come ci si può aspettare che trovino scuole?”

Almeno il 33% degli studenti palestinesi di Gerusalemme abbandona prima di aver completato i 12 anni di scuola. Secondo il rapporto di “Ir Amir”, ogni anno più di 1.000 studenti lasciano le scuole

L’alta percentuale di abbandoni, dice Shamale, è in parte dovuta alla mancanza di strutture adeguate nelle scuole palestinesi di Gerusalemme.

“Ci sono più di 40 o 45 studenti in ogni classe, con un solo insegnante. C’è una grave carenza di campi sportivi, zone per giocare, aule con i computer e persino libri da leggere per i bambini,” dice.

Una guerra contro i programmi palestinesi

Dopo decenni di disinteresse per la scolarità dei palestinesi, nel maggio 2018 il governo israeliano ha deciso di investire 450 milioni di shekel (oltre 100 milioni di €) nell’educazione a Gerusalemme est.

Tuttavia il denaro è prevalentemente destinato a migliorare la tecnologia e le lezioni di ebraico e per convincere le scuole pubbliche municipali a passare ai programmi israeliani.

Zaid al-Qiq è un insegnante in una scuola privata e ricercatore su questioni educative. Dice che il governo israeliano sta già cercando di convincere i genitori palestinesi e i loro figli a studiare nelle scuole municipali con programmi israeliani.

“Il Comune vuole convincerli a prendere il Bagrut (esami di diploma nelle scuole superiori israeliane) o a fare esami psicometrici (esami di ingresso all’educazione superiore) invece degli esami palestinesi,” dice Qiq a MEE.

Per i palestinesi della città fare gli esami di diploma israeliani significa essere in grado di andare alle università israeliane e l’accesso ad un mercato del lavoro più vasto. Fino a poco tempo fa, quelli che volevano studiare all’Università Ebraica di Gerusalemme dovevano sottoporsi a un programma pre-univesritario di due anni con un esame psicometrico.

Nel contempo il principale campus dell’unica università palestinese di Gerusalemme – la “Al Quds” – è tagliato fuori dalla città dal muro di separazione. Chi desidera accedervi deve viaggiare per una distanza doppia e attraversare un checkpoint.

Qiq afferma che sotto l’occupazione israeliana il settore educativo palestinese è tutt’altro che indipendente: “Persino nelle scuole private il Comune interferisce sull’assunzione di alcuni insegnanti e sugli argomenti che insegniamo,” sostiene.

“Oggi stanno facendo una guerra contro i programmi palestinesi e ora vi stiamo assistendo con le scuole dell’UNRWA.”

Shamale, presidente del comitato dei genitori, è d’accordo.

“Temiamo che un domani il settore educativo ricada tutto sotto i programmi israeliani. Impartiranno ai nostri figli la narrazione israeliana. Dopo 10 o 15 anni questa generazione sarà palestinese di nome, ma non per la sua identità,” dice. “Gli studenti palestinesi sono le vittime di questo sistema.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu vuole espellere gli osservatori internazionali da Hebron

MEE e agenzie

lunedì 28 gennaio 2019, Middle East Eye

Benjamin Netanyahu afferma che non rinnoverà il mandato degli osservatori TIPH dall’infiammabile città della Cisgiordania.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di espellere un posto di osservazione internazionale inteso a garantire i palestinesi di Hebron, una città nella Cisgiordania occupata, accusando la missione di attività anti-israeliane.

Non consentiremo la continuità di una forza internazionale che agisce contro di noi,” ha affermato lunedì Netanyahu in una dichiarazione riguardo alla Temporary International Presence in Hebron [Presenza Internazionale Temporanea ad Hebron, ndtr.] (TIPH).

Netanyahu non ha specificato il presunto comportamento scorretto della TIPH, che schiera personale da Norvegia, Italia, Svezia, Svizzera e Turchia, né ha detto quando pensa di espellerla.

L’accordo per il dispiegamento di osservatori della TIPH ad Hebron venne raggiunto tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, dopo che un colono israeliano aveva ucciso 29 fedeli nella moschea di Ibrahim, un luogo santo sia per i musulmani che per gli ebrei, che la definiscono la “Tomba dei Patriarchi”.

Tuttavia il gruppo non iniziò il proprio lavoro in città fino al 1998, dopo che l’esercito israeliano rifiutò di lasciare Hebron in seguito alla fondazione di una colonia israeliana illegale nel cuore della città.

Lunedì il giornale israeliano Haaretz ha informato che l’ultimo mandato della TIPH – schierata per un tempo di sei mesi rinnovabili – dovrebbe terminare il 31 gennaio

Il gruppo non ha ancora commentato la decisione di Netanyahu.

Violazioni dei diritti umani da parte israeliana a Hebron

Associazioni per i diritti umani hanno a lungo criticato le politiche israeliane ad Hebron, una città nel sud della Cisgiordania che ha sia zone sotto il controllo dell’ANP che parti controllate dall’esercito israeliano.

Da quando coloni israeliani hanno fondato un insediamento nel centro della città in seguito al massacro dei fedeli 35 anni fa, Israele ha sottoposto i palestinesi di Hebron a gravi restrizioni negli spostamenti, costruito una serie di posti di controllo militarizzati e ha di fatto paralizzato quello che una volta era un florido centro di attività commerciali.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che a Hebron Israele “ha imposto una segregazione fisica e giuridica tra le centinaia di coloni e le migliaia di abitanti palestinesi.”

Ciò, insieme alla violenza dei coloni e delle forze di sicurezza, ha reso la vita intollerabile ai palestinesi, portando ad un esodo di massa e al collasso economico della zona centrale.” Da quando è stata attivata, la TIPH ha “osservato e registrato violazioni degli accordi e delle leggi umanitarie internazionali e di quelle per i diritti umani,” sostiene l’associazione nel suo sito in rete.

Lunedì i palestinesi hanno denunciato la decisione di Netanyahu di espellere gli osservatori internazionali.

La decisione del governo israeliano significa che ha abbandonato l’applicazione degli accordi firmati sotto garanzia internazionale ed è venuto meno ai propri impegni in base a questi accordi,” ha detto alla Reuters [agenzia di stampa britannica, ndtr.] Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese Haaretz ha informato che un’inchiesta della TIPH con “rapporti su 40.000 incidenti” ha mostrato che Israele ha violato le leggi internazionali limitando i movimenti dei palestinesi in città.

Le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali in base alle leggi internazionali.

Tuttavia Netanyahu ha giocato le sue credenziali a favore dei coloni in quanto cerca di essere rieletto nelle votazioni del 9 aprile.

Sempre lunedì il primo ministro israeliano ha visitato Gush Etzion, una striscia di colonie e avamposti nel sud della Cisgiordania e si è impegnato a continuare il sostegno del suo governo ai coloni israeliani che vi vivono.

Ci vogliono sradicare da qui. Non ci riusciranno,” ha detto Netanyahu, come riferito dall’ufficio stampa del governo.

C’è una linea di pensiero che afferma che il modo per raggiungere la pace con gli arabi è essere cacciati dalla nostra terra. Questo è il cammino sicuro per raggiungere il contrario di questo sogno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la repressione contro i prigionieri palestinesi?

Yara Hawari

venerdì 25 gennaio 2019, Middle East Eye

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto

Questa settimana le guardie della prigione militare israeliana di Ofer hanno messo in atto pesanti attacchi contro i prigionieri palestinesi.

Le celle sono state messe a soqquadro, effetti personali sono stati distrutti e sono state effettuate perquisizioni corporali invasive. Per molti prigionieri l’aspetto peggiore è stato la confisca di foto, lettere e semplici doni dei membri della famiglia raccolti nel corso degli anni – un’ancora di salvezza per quanti devono scontare decenni di carcere.

I prigionieri sono stati anche obbligati a togliersi i vestiti e ad attendere l’ispezione all’aperto con un freddo intenso.

Non si tratta di nuove tecniche o tattiche, ma piuttosto di quelle che vengono utilizzate periodicamente come forma di punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi.

Punizione collettiva.

L’ultima repressione nel carcere di Ofer si è scontrata con la resistenza collettiva dei prigionieri, che si sono rifiutati di collaborare con le forze israeliane. In seguito a ciò, sono stati attaccati con lacrimogeni, taser, pestaggi, cani poliziotto e persino proiettili di acciaio ricoperti di gomma sparati da breve distanza.

Più di 150 hanno dovuto ricevere cure mediche, sei prigionieri hanno subito fratture e più di 40 sono stati feriti alla testa. Molti hanno patito per le gravi conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni in seguito al fatto che sono stati lanciati candelotti lacrimogeni nelle celle chiuse.

Di conseguenza “Addameer”, l’associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri, ha emesso un comunicato in cui chiede al Comitato Internazionale della Croce Rossa di avviare un’inchiesta su queste “gravissime violazioni” delle leggi internazionali e di fornire protezione ai prigionieri palestinesi.

In risposta a queste azioni e in solidarietà con i prigionieri sono state organizzate manifestazioni sia a Ramallah [in Cisgiordania, ndtr.] che ad Haifa [in Israele, ndtr.]. Durante quest’ultima dimostrazione due attivisti palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Torture e maltrattamenti

In effetti nella società palestinese il problema dei prigionieri è importante, e colpisce molte persone. Dal 1967 il 40% della popolazione maschile adulta in Cisgiordania e a Gaza – ossia circa 800.000 persone – è stato sottoposto a una qualche forma di detenzione da parte di Israele. 

La maggior parte delle comunità e delle famiglie è intimamente consapevole di cosa significhi avere un proprio caro in prigione. Attualmente, secondo i dati di “Addameer”, ci sono 5.500 prigionieri politici palestinesi.

Il sistema carcerario dell’esercito israeliano destinato specificamente ai palestinesi dei territori occupati nel 1967 è ingiusto e viola le leggi internazionali. I prigionieri sono sottoposti a torture, molestie sessuali, prolungati periodi in isolamento – a volte per un tempo fino a 10 anni – cure mediche inadeguate e condizioni di vita inumane, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, con la negazione dei diritti fondamentali dei detenuti.

Un altro meccanismo utilizzato dal regime israeliano è la detenzione amministrativa, che consente di trattenere i detenuti a tempo indeterminato senza un’imputazione o un processo. La detenzione più lunga di questo tipo è durata otto anni.

Tutto il sistema è essenzialmente destinato a sconvolgere e punire la società palestinese, con una percentuale del 99% di sentenze a lunghe pene detentive.

Violenza di genere

Anche nella prigione di Damon le prigioniere hanno dovuto affrontare la repressione. All’insaputa dei più fuori e dentro la Palestina, lo scorso mese il gruppo di detenute palestinesi (54 persone) è stato spostato dal carcere di Hasharon a quello di Damon, una struttura nei pressi di Haifa. Le condizioni sono significativamente peggiorate, con celle sovraffollate e docce all’esterno e al freddo, e a molte sono stati negati gli effetti personali che avevano nella prigione precedente.

La violenza di genere di Israele contro le detenute è ben documentata da ong e gruppi per i diritti umani palestinesi. Le strategie utilizzate contro di loro includono minacce, molestie sessuali, negazione di assorbenti igienici e umiliazioni generalizzate.

Israele è probabilmente l’unico Paese al mondo che processa metodicamente minorenni nel sistema dei tribunali militari. Migliaia di minori palestinesi sono stati arrestati e giudicati dai tribunali militari durante gli ultimi due decenni.

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto. Il loro movimento è limitato a determinate aree e sono costantemente sotto sorveglianza. Praticamente ogni aspetto della loro vita è controllato da Israele, mentre il sistema di incarcerazione continua a violare impunemente le leggi internazionali.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In migliaia scioperano in Cisgiordania per protestare contro la legge dell’ANP sulla sicurezza sociale

Akram Al-Waara

martedì 15 gennaio 2019, Middle East Eye

Negozi e attività commerciali nelle principali città della Cisgiordania hanno chiuso le porte contro la legge che molti temono vedrà i fondi utilizzati male

Betlemme, Cisgiordania occupata – Migliaia di palestinesi nella Cisgiordania occupata hanno manifestato contro la discussa legge sulla sicurezza sociale dell’Autorità Nazionale Palestinese, per timore che i fondi vengano gestiti male.

Martedì a Betlemme, Ramallah, Nablus e nelle altre principali città della Cisgiordania negozi e attività commerciali hanno chiuso le porte mentre centinaia di palestinesi protestavano a Ramallah, il centro amministrativo dell’ANP.

Questo sciopero è un modo per dire all’ANP che la maggioranza del popolo palestinese è contro questa legge e rifiuta di rispettarla,” ha detto Muhammad Zghayyer, un portavoce del comitato di attivisti che ha organizzato le proteste.

Nonostante il 90% degli esercizi commerciali, di organizzazioni e università in tutta la Palestina abbia fatto una serrata di protesta e le continue manifestazioni negli ultimi mesi, il governo si rifiuta di ascoltare il popolo,” ha detto Zghayyer a Middle East Eye.

Il fondo viene pagato dai contributi dei lavoratori, con gli impiegati pubblici che pagano il 10% di un salario con cui secondo molti stanno già faticando a sopravvivere.

Molti temono anche che il fondo venga utilizzato in modo improprio, o possa persino essere confiscato da Israele.

Proteste sporadiche sono scoppiate contro la legge negli ultimi mesi, con molte dimostrazioni che nel novembre 2018 hanno avuto luogo a Ramallah.

Benché la legge debba ancora essere messa in pratica a causa delle proteste e del generale malcontento, martedì ha segnato il primo giorno in cui le imprese palestinesi con più di 200 dipendenti avrebbero dovuto registrarsi per aderire alla Palestinian Social Security Corporation [Compagnia Palestinese della Sicurezza Sociale] (PSSC), come previsto dalla normativa.

La legge, che Mahmoud Abbas ha emanato nel 2016 con decreto presidenziale, fissa l’età per il pensionamento a 60 anni sia per gli uomini che per le donne.

In modo problematico, richiede che i dipendenti del settore privato contribuiscano poco al di sopra del 7% dei loro salari mensili e che le imprese del settore privato apportino il loro contributo per oltre il 10%.

Questi soldi andrebbero poi ad un fondo per la sicurezza sociale creato dal PSSC e sarebbero restituiti ai dipendenti in forma di pensioni di anzianità. Tuttavia alcuni aspetti della legge, come la richiesta che anche i lavoratori che guadagnano lo stipendio minimo contribuiscano al fondo della sicurezza sociale, si sono dimostrati controversi.

Lo stipendio minimo in Palestina è di 1.450 shekel, solo circa 345 €, al mese,” dice Zghayyer a MEE. “Le persone che lavorano per questo salario possono a malapena permettersi di pagare le spese essenziali, per non parlare della sicurezza sociale.”

Se il governo vuole applicare questa legge sulla sicurezza sociale, dovrebbe aumentare lo stipendio minimo,” dice.

Altri hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo al dubbio se le famiglie di palestinesi uccisi da Israele avrebbero accesso alle pensioni di anzianità dei loro parenti deceduti.

Il funzionario palestinese Majed el-Helo, che controlla il programma di sicurezza sociale, dice che “importanti modifiche” sono state introdotte nella legge per affrontare le preoccupazioni di chi la critica.

Ha detto all’agenzia di notizie palestinese “Wafa” che le prestazioni della sicurezza sociale si estenderanno alle vedove dei pensionati dopo la loro morte – indipendentemente a come è morta la persona. Ha anche detto che l’ANP sta lavorando per offrire prestiti a tasso agevolato per il programma di sicurezza sociale di imprese che rispondano a certi criteri.

Timori che il fondo venga utilizzato male

Tuttavia, dice Zghayyer, molti palestinesi temono che l’ANP non voglia rispettare l’ultima modifica dell’accordo e che distribuisca effettivamente le pensioni come promesso.

In tutto il mondo la sicurezza sociale è una cosa importante (per) i cittadini per proteggere il loro futuro,” dice Zghayyer a MEE, “ma quando non c’è fiducia tra un cittadino e il suo governo, come in Palestina, queste leggi non possono funzionare.”

Citando la corruzione rampante all’interno dell’ANP e la politica israeliana di trattenere i fondi fiscali dell’ANP, Zghayyer afferma di non fidarsi che il governo difenda i fondi.

Cosa succederebbe se l’occupante israeliano decidesse che i soldi del PSCC sostengono i ‘terroristi’ e di impossessarsi in qualche modo del controllo dei fondi?” chiede.

Chi può garantire di proteggere il mio denaro? Sicuramente non l’ANP.” Zghayyer dice a MEE che, da quando hanno iniziato a protestare contro la legge, lui e altri attivisti hanno ricevuto minacce di morte da gente che chiama da numeri telefonici anonimi.

Molti dei miei compagni di lotta, compreso me, sono stati personalmente destinatari di messaggi minatori ai nostri telefoni,” dice.

Persino mio padre è stato minacciato, dicendo che avrebbero ucciso suo figlio se avesse continuato a lavorare contro la legge.”

Ciononostante, dice Zghayyer, le persone continueranno a protestare finché le loro richieste verranno accolte.

Sono i lavoratori che costruiscono un Paese e aiutano un governo a sopravvivere,” afferma. “Senza l’appoggio dei lavoratori, un governo non è niente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)