Un detenuto palestinese entra nel novantaseiesimo giorno di sciopero della fame, nonostante le condizioni di salute critiche.

Redazione di Middle East Monitor

Martedì 7 giugno 2022 – Middle East Monitor

In Israele un detenuto palestinese, Khalil Awawdeh, si trova in gravi condizioni di salute in quanto è arrivato al novantaseiesimo giorno di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione amministrativa, senza processo o accuse.

Khalil, padre di quattro figli, è stato imprigionato il 27 dicembre 2021 e messo in detenzione amministrativa – una norma che permette alle autorità israeliane di tenere in carcere chiunque per un periodo di sei mesi senza accuse o processo e che può essere esteso indefinitamente.

Secondo la Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione non governativa, N.d.T.], il prigioniero palestinese di quaranta anni ha difficolta a parlare e a comunicare. Soffre anche di forti dolori in tutto il corpo, specialmente agli arti inferiori e ai muscoli.

In seguito alla visita alla prigione di Ramleh, nella zona centrale di Israele, un legale della PPS, Jaward Boulos, ha riferito che oltre alle difficoltà alla vista, Khalil sta anche vomitando sangue e ha difficoltà di respirazione.

In precedenza era stato trasferito in ospedale, ma poi, nonostante le sue condizioni di salute, è stato riportato nell’infermeria della prigione di Ramleh.

Ieri i palestinesi hanno organizzato una manifestazione nella Striscia di Gaza per esprimere solidarietà a Khalil e a un altro detenuto in sciopero della fame, Raed Rayan, che sta protestando anche lui per la detenzione amministrativa.

Organizzata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], la manifestazione si è tenuta fuori dall’ufficio della Croce Rossa Internazionale a Gaza City.

Lo Stato di Israele è pienamente responsabile per la vita dei palestinesi in sciopero della fame,” ha detto alla manifestazione Awas Al-Sultan, un membro del FPLP.

Egli ha invitato le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani ad inviare squadre di medici per esaminare le condizioni dei palestinesi in sciopero della fame e “per fare luce sulle sofferenze dei detenuti nelle carceri israeliane”.

Secondo l’organizzazione non governativa Palestine Prisoner Society nelle carceri israeliane ci sono circa 4.700 detenuti, di cui 600 senza accusa o processo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il fallimento della soluzione a due Stati spinge Israele a proporre nuove opzioni

Adnan Abu Amer

7 giugno 2022 – Middle East Monitor

La mancanza di un orizzonte politico tra palestinesi e israeliani a causa delle politiche di colonizzazione sta provocando il fallimento della soluzione a due Stati, che è stata alla base del processo di pace fin dalla conferenza di Madrid del 1991. L’attuale dibattito la descrive come una soluzione impraticabile, che deve essere sostituita da un modello a Stato unico dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]. Il principale argomento è la mancanza di una possibilità concreta di attuare una divisione fisica dei territori palestinesi attualmente occupati. Ciò si deve agli sviluppi sul terreno relativi alle frontiere della Linea Verde e ai confini dell’armistizio tra Israele e i suoi vicini fissati in seguito alle guerre del 1948 e del 1967.

Israele non ha esitato ad annettere grandi aree della Cisgiordania. Ciò ha incentivato i progetti di colonizzazione, accelerando la spinta verso l’idea di uno Stato unico e scartando la soluzione a due Stati. Tuttavia questa idea richiede ancora un’analisi approfondita e solleva dubbi riguardo a quanto il quadro della soluzione di uno Stato unico sia realmente praticabile.

Negli ultimi anni gli israeliani hanno discusso dei possibili modelli per risolvere il conflitto con i palestinesi. Questi modelli includono uno Stato unificato che comprenda tutta la regione geografica senza frontiere interne, uno Stato autogovernato su terra palestinese indipendente e uno Stato unico federale diviso in province ebraiche e palestinesi con ampi poteri, oppure una confederazione. Nel modello confederale c’è una divisione tra due Stati – palestinese ed ebreo – con frontiere aperte precise, con un governo a livello confederale che riunisca elementi israeliani e palestinesi e prenda decisioni su questioni come sicurezza e commercio.

Questi modelli si basano su una prospettiva centrata sugli interessi di Israele. A questo fine si sono esaminati alcuni indicatori riguardo a ogni modello o alternativa: la divisione territoriale; lo status delle colonie; lo status di Gerusalemme; le questioni della nazionalità e della residenza; le autorità di governo e amministrazione; la libertà di movimento; la questione dei rifugiati; le preoccupazioni riguardanti la sicurezza, sociali, economiche e civili; la salvaguardia dell’identità ebraica dello Stato; le ripercussioni sui palestinesi del 1948 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e lo status della Striscia di Gaza. L’analisi di questi parametri solleva questioni sulle possibilità di successo di ciascun modello come soluzione permanente al conflitto.

Alla luce di questa analisi si può concludere che non pare ci sia alcuna concreta possibilità di dar vita a una soluzione permanente e stabile del conflitto israelo-palestinese con uno dei modelli proposti. La ragione principale è che tutti i modelli prospettano contrasti tra palestinesi e israeliani. I palestinesi e gli israeliani continuano con le ostilità a lungo termine per fattori religiosi, culturali, sociali ed economici. Gli israeliani sono seriamente preoccupati che questi contrasti continui provochino instabilità in Israele e lo scoppio di continue ondate di dissenso e conflitto.

L’idea che lo Stato non abbia un’identità ebraica non è accettata dalla grande maggioranza degli israeliani. Perciò quasi tutti i sostenitori della soluzione a uno Stato si riferiscono a uno Stato unico che conservi tale identità, nonostante le difficoltà nel realizzarlo dovute alle dimensioni demografiche. Soprattutto perché l’allargamento della frontiera dello Stato a includere la Cisgiordania vi aggiungerebbe molti palestinesi a detrimento del numero di israeliani [ebrei, ndt.].

La maggior parte delle proposte israeliane di fondare lo Stato unico precisano che la Striscia di Gaza non sarebbe inclusa perché vi vivono due milioni di palestinesi ed è una zona povera e poco sviluppata che richiederebbe molti investimenti. Oltretutto, a differenza della Cisgiordania, non ha un valore né ideologico né strategico per Israele ed è controllata da gruppi palestinesi che non sono disposti a negoziare. Di conseguenza la sua annessione alle terre del futuro Stato richiederebbe la ripresa del controllo con la forza, e senza una soluzione per la Striscia di Gaza non ci sarebbe una soluzione completa del conflitto.

Nel contempo il modello di uno Stato ufficialmente unitario provoca preoccupazioni riguardo alla stabilità di Israele. C’è da aspettarsi che i palestinesi si opporrebbero a far parte di uno Stato ebraico; è nata quindi l’idea di creare una divisione all’interno dello stesso Stato per consentire ai palestinesi un certo livello di autonomia secondo diversi modelli, il primo dei quali è quello dell’autogoverno. In questo caso all’interno dello Stato ci sarebbe una terra palestinese indipendente. Il secondo è il modello federale, in cui ci sarebbe una divisione dello Stato in zone palestinesi ed ebraiche e si affiderebbero le diverse zone all’autorità di governo a livello regionale. Il terzo è il modello confederale, in cui ci sono due Stati, palestinese ed ebraico, con frontiere aperte e un governo confederale che prenderebbe certe decisioni sul territorio.

Allo stesso tempo la destra israeliana propone un’altra alternativa alla soluzione a due Stati. Essa consiste nell’annessione di parti della Cisgiordania, soprattutto dell’Area C, che include più del 60% della Cisgiordania, comprese tutte le colonie e la maggior parte delle zone aperte abitate da circa 100.000 palestinesi. Quest’area avrebbe uno statuto autonomo, o uno Stato con poteri limitati, sempre che Israele continui a controllare le aree circostanti, lo spazio aereo e quello elettromagnetico. Inoltre Israele continuerebbe ad esercitare il controllo sulla sicurezza in caso di necessità, anche se in questa zona si troverebbe la maggioranza delle aree economiche palestinesi.

Riguardo alla cittadinanza e alla residenza, in tutti i modelli proposti come alternativa alla soluzione a due Stati, con l’eccezione di quello confederale, tutti i palestinesi diventerebbero residenti permanenti di Israele. Nel modello confederale ci sarebbe una certa corrispondenza tra cittadinanza e residenza. I palestinesi sarebbero cittadini del loro Stato, pur vivendo sempre in Israele, mentre gli ebrei sarebbero cittadini di Israele, anche se fossero residenti permanenti dello Stato palestinese.

La sicurezza esterna e delle frontiere con l’estero continuerebbero ad essere controllate da Israele. Tuttavia nella federazione ci sarebbe spazio per integrare, per lo meno gradualmente, le forze palestinesi perché collaborino nelle decisioni riguardanti la sicurezza. Le forze di sicurezza israeliane potrebbero operare anche nei territori sotto controllo palestinese per affrontare le minacce alla sicurezza interna. Tuttavia, nel caso dell’autonomia, sarebbe necessario stabilire la distribuzione delle competenze tra le forze di entrambe le parti. In altri casi le operazioni delle forze di sicurezza israeliane nello Stato palestinese si potrebbero limitare a circostanze eccezionali e venire gradualmente eliminate.

Il fatto di proporre questi modelli alternativi alla soluzione a due Stati rivela la preoccupazione israeliana riguardo a una crescente ostilità di entrambe le parti nei confronti di ogni situazione in cui i palestinesi entrino a far parte di uno Stato con un’identità ebraica senza ottenere una propria identità nazionale. Di conseguenza privare i palestinesi dei pieni diritti nello Stato promesso inasprirebbe la sensazione di discriminazione e l’animosità, il che potrebbe portare allo scoppio della violenza e a una guerra civile all’interno dello Stato unico alternativo alla soluzione a due Stati, un avvertimento sollevato recentemente in molti contesti israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Chi sono i vincitori e i vinti dell’israeliana Marcia delle Bandiere? 

Motasem A Dalloul

1 giugno 2022 – Middle East Monitor

Governo israeliano di occupazione, gruppi dell’opposizione e coloni ebrei dell’estrema destra avevano tutti scommesso che, durante il weekend, la provocatoria Marcia delle Bandiere avrebbe causato gravi disordini al suo passaggio attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme. I coloni hanno usato queste marce fin dal 1967 per celebrare l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est. L’attuale governo israeliano, guidato da Naftali Bennett, voleva utilizzare il grottesco sfoggio di razzismo sfacciato per rafforzare la propria sovranità sulla città santa e dimostrare che Israele ha ancora un deterrente contro la resistenza palestinese.

Il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, il cui partito, il Likud, ha il maggior numero di seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha cercato di sfruttare l’evento per scatenare incidenti che avrebbero potuto danneggiare il governo Bennett. Nel frattempo i coloni estremisti hanno insistito sul percorso della marcia proposto da loro e respinto ogni tentativo di deviarlo, nonostante forti pressioni da parte degli alleati di Bennett nel governo di coalizione. Hanno insistito che la marcia doveva svolgersi secondo il loro piano per dimostrare la sovranità di Israele sulla città santa occupata.

Bennett e alti ufficiali dell’esercito hanno insistito che si poteva tenere la marcia nonostante gli avvertimenti non solo da parte di veterani militari e politici, ma anche di gruppi della resistenza palestinese che avevano avvertito che avrebbero reagito contro Israele qualora fosse successo qualche incidente intollerabile.

“Se non fossimo passati per il percorso normale, di fatto non avremmo mai più potuto farlo. Sarebbe stata una rinuncia alla sovranità,” ha detto Bennett. “Abbiamo dimostrato che lo Stato di Israele agisce in base a ciò che è giusto e non in seguito a minacce.”

Netanyahu ha incoraggiato la partecipazione di due fanatici gruppi di ebrei israeliani, La Familia [ultras razzisti della squadra di calcio di Gerusalemme Betar, ndt.] e Lehava [organizzazione di estrema destra suprematista ebraica, ndt.], che per vari anni sono stati collegati a casi di violenze contro gli arabi in Israele e nella Cisgiordania occupata.

Il governo ha impiegato migliaia di agenti per far svolgere la marcia senza infrazioni e garantire che i coloni non avrebbero provocato i palestinesi, innescando così una risposta da parte dei gruppi della resistenza o suscitando critiche a livello internazionale. Ciononostante Netanyahu è riuscito a far sì che alcuni elementi dei gruppi ebrei più estremisti riuscissero comunque a provocare e attaccare i palestinesi e poi a svolgere le proprie cerimonie religiose nei pressi della moschea Al-Aqsa.

Secondo il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, La Familia e Lehava hanno monopolizzato la giornata. “Non possiamo accettare che queste siano le immagini che ci restano alla fine del Giorno di Gerusalemme,” ha detto. “La maggioranza israeliana deve riappropriarsi della Marcia delle Bandiere, di Gerusalemme e dello Stato di Israele. Noi siamo la maggioranza. Loro sono una minoranza estremista.”

È discutibile che la Marcia delle Bandiere “dimostri” la sovranità israeliana come sostiene Bennett. Dopotutto i coloni hanno avuto bisogno di migliaia di forze di sicurezza e del coprifuoco per proteggerli lungo il percorso. Nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di sventolare una bandiera israeliana e sfilare da solo lungo il percorso, nonostante le restrizioni imposte ai palestinesi e gli attacchi contro i fedeli nella moschea di Al-Aqsa.

I coloni ebrei avrebbero potuto restare per ore a Gerusalemme, presso la porta di Damasco e poi tornare a casa, mentre i palestinesi sventolavano le proprie bandiere, nonostante il grosso contingente di polizia israeliana impiegato per fronteggiarli, e loro sono ancora là nonostante l’imponente presenza della polizia. Cosa vuol dire sovranità, se lo Stato non è in grado di controllarla?

Secondo Amichai Attali, reporter per gli affari parlamentari di Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndt.]: “Non c’è sovranità a Gerusalemme durante l’era di Naftali Bennett. Non c’è stata tale sovranità con Netanyahu, Olmert, Sharon o tutti i loro predecessori. Gerusalemme non è mai stata unita perché i leader non hanno il coraggio di prendere decisioni.”

Inoltre qualsiasi fattore di deterrenza che Israele possa aver mai avuto è scomparso da tempo. La forte presenza della polizia, il coprifuoco e le limitazioni dei movimenti dei palestinesi sono tutte prove di questo fatto. Come lo è stato l’attivazione del sistema antimissilistico Iron Dome, [cupola di ferro] su tutto lo Stato occupato nel caso in cui i gruppi di resistenza avessero risposto alle provocazioni e al razzismo anti-arabo dei partecipanti alle marce. L’esercito è stato impiegato in una delle più imponenti esercitazioni militari per essere pronto a un massiccio attacco contro i palestinesi “per ogni evenienza”.

Il corrispondente militare dell’israeliano Channel 13 ha riferito che i soldati erano nascosti lungo la recinzione del confine formale con la Striscia di Gaza e dei veicoli militari vuoti erano parcheggiati in posti visibili per attirare il fuoco dei palestinesi, rendendo inefficace qualsiasi risposta da parte del popolo di Gaza. Dove starebbe in tutto ciò il fattore di deterrenza israeliano?

I gruppi della resistenza palestinesi possono ancora rispondere alle violazioni israeliane a Gerusalemme e durante la Marcia delle Bandiere: non penso che questo capitolo si sia concluso. “La resistenza deciderà come e quando reagire, a seconda delle informazioni che ha e al momento giusto,” ha detto Mohammad Hamada, portavoce di Hamas per gli Affari di Gerusalemme.

Noi sappiamo anche che Israele ha inviato mediatori qatarioti, egiziani e dell’ONU per chiedere a Ismail Haniyeh, leader di Hamas, di dire che il movimento non avrebbe reagito e che entrambe le parti potevano tornare a una vita normale. Il suo consulente per i media ha sottolineato che Haniyeh ha respinto tutte le richieste.

L’incitamento dei fanatici da parte di Netanyahu non è riuscito a raggiungere l’obiettivo e sarà quindi deluso dal risultato. A peggiorare le cose per l’ex primo ministro dell’estrema destra, Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano, sta parlando di mettere La Familia e Lehava sulla lista israeliana delle organizzazioni considerate terroriste.

Perciò, per come la vedo io, gli organizzatori della marcia che volevano dimostrare la sovranità israeliana su Gerusalemme e i politici israeliani che pensavano che avrebbe contribuito a promuovere i propri interessi sabato hanno perso. I vincitori sono i gerosolomitani palestinesi le cui sofferenze sotto lo Stato neo-fascista di occupazione e di apartheid ancora una volta sono state evidenziate cosicché tutto il mondo vedesse; analogamente i palestinesi di Gaza hanno trionfato dato che i gruppi di resistenza hanno preso la saggia decisione di evitare la ben preparata offensive israeliana contro l’enclave costiera.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

C




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ridisegnando l’UNRWA Washington distrugge le basi di una pace giusta in Palestina

Ramzy Baroud

3 maggio 2022 – Middle East Monitor

I palestinesi hanno tutte le ragioni di essere preoccupati perché il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi, UNRWA, potrebbe essere sul punto di terminare. La missione dell’UNRWA, in vigore dal 1949, ha fatto qualcosa in più del semplice aiuto e appoggio urgente a milioni di rifugiati. È stata anche una piattaforma politica che ha protetto e preservato i diritti di varie generazioni di palestinesi.

Benché non sia stata creata di per sé come una piattaforma politica o giuridica, il contesto del suo mandato è stato in larga misura politico, dato che i palestinesi si sono trasformati in rifugiati a seguito di avvenimenti militari e politici: la pulizia etnica del popolo palestinese da parte di Israele e il rifiuto di quest’ultimo di rispettare il diritto al ritorno dei palestinesi stabilito dalla risoluzione 194 (III) dell’ONU dell’11 dicembre 1948.

“L’UNRWA ha l’incarico umanitario e per lo sviluppo di fornire assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi finché si trovi una soluzione giusta e duratura alla loro situazione,” affermava la Risoluzione 302 (IV) dell’Assemblea Generale dell’ONU dell’8 dicembre 1949.

Disgraziatamente non si è raggiunta né una “soluzione duratura” alla difficile situazione dei rifugiati, né una prospettiva politica. Invece di approfittare di questa constatazione per rivedere il fallimento della comunità internazionale nel dare giustizia alla Palestina e per chiamare in causa Israele e i suoi benefattori statunitensi, sono l’UNRWA, e per estensione i rifugiati, che vengono sanzionati.

Con un severo monito, il 24 aprile il capo della commissione politica del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) Saleh Nasser ha affermato che il mandato dell’UNRWA potrebbe essere arrivato alla fine. Nasser ha fatto riferimento a una recente dichiarazione del Commissario Generale dell’organizzazione dell’ONU, Philippe Lazzarini, riguardo al futuro dell’organismo.

La dichiarazione di Lazzarini, pubblicata il giorno precedente, si prestava a varie interpretazioni, anche se risultava chiaro che stava per cambiare qualcosa di fondamentale nello status, nel mandato e nel lavoro dell’UNRWA. “Possiamo ammettere che la situazione attuale è insostenibile e che inevitabilmente darà come risultato l’erosione della qualità dei servizi dell’UNRWA o, peggio ancora, la sua chiusura,” ha detto Lazzarini.

Commentando la dichiarazione Nasser ha detto che questo “è il preludio al fatto che i donatori smettano di finanziare l’UNRWA.”

Il tema del futuro dell’UNRWA è ora una priorità nel discorso politico palestinese, ma anche arabo. Qualunque tentativo di cancellare o ridefinire la missione dell’UNRWA rappresenta una sfida seria, per non dire senza precedenti, per i palestinesi. L’UNRWA fornisce appoggio educativo, sanitario e di altro genere a 5,6 milioni di palestinesi in Giordania, Libano, Siria, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Con un bilancio annuale di 1.600 milioni di dollari questo appoggio e l’enorme rete che l’organizzazione ha creato non possono essere facilmente sostituiti.

Altrettanto importante è la natura politica dell’organizzazione. L’esistenza stessa dell’UNRWA rappresenta il fatto che c’è una questione politica che deve essere affrontata riguardo alla difficile situazione e al futuro dei rifugiati palestinesi. Di fatto quello che ha provocato l’attuale crisi non è stata una semplice mancanza di convinzione nel finanziamento dell’organizzazione. È qualcosa di più grande e molto più sinistro.

Nel giugno 2018 Jared Kushner, genero e consigliere dell’ex-presidente USA Donald Trump, ha visitato Amman (Giordania), dove, secondo la rivista statunitense Foreign Policy, ha cercato di convincere re Abdullah di Giordania a ritirare lo status di rifugiati a 2 milioni di palestinesi che vivono attualmente nel Paese.

Questo e altri tentativi sono falliti. Nel settembre 2018 Washington, sotto l’amministrazione di Trump, ha deciso di cessare di appoggiare finanziariamente l’UNRWA. In quanto principale finanziatore dell’organizzazione, la decisione statunitense è stata devastante, dato che circa il 30% dei soldi dell’UNRWA proviene dagli Stati Uniti. Tuttavia l’UNRWA ha continuato a tirare avanti a fatica aumentando la propria dipendenza dal settore privato e dalle donazioni individuali.

Benché i dirigenti palestinesi abbiano festeggiato la decisione dell’amministrazione Biden di riprendere i finanziamenti all’UNRWA il 7 aprile 2021, si è mantenuta segreta una piccola clausola della misura di Washington, che ha acconsentito di finanziare l’UNRWA solo dopo che questa avesse accettato di firmare un piano di due anni, noto come “Accordo-quadro di Collaborazione”. In sintesi, il piano ha di fatto trasformato l’UNRWA in una piattaforma per le politiche di Israele e degli Stati Uniti in Palestina, in base al quale l’organismo dell’ONU ha accettato le richieste degli Stati Uniti, e quindi di Israele, di garantire che nessun aiuto arrivi a rifugiati palestinesi che abbiano ricevuto un addestramento militare “come membri del cosiddetto Esercito di Liberazione della Palestina”, di altre organizzazioni o che “abbiano partecipato a qualunque azione terrorista.” Oltretutto L’accordo-quadro prevede che l’UNRWA controlli “il contenuto dei piani di studio [nelle scuole] palestinesi.”

Firmando l’accordo con il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti “l’UNRWA si è trasformata da agenzia umanitaria che fornisce assistenza e aiuto ai rifugiati palestinesi in un’agenzia della sicurezza che promuove il programma politico e della sicurezza degli Stati Uniti e, in ultima istanza, di Israele,” ha sottolineato il Centro di Risorse di BADIL per i Diritti dei Rifugiati Palestinesi.

Tuttavia le proteste dei palestinesi non hanno cambiato la nuova situazione, che ha di fatto modificato tutto il mandato affidato all’UNRWA dalla comunità internazionale quasi 73 anni fa. Ancora peggio, i Paesi europei hanno seguito il suo esempio quando lo scorso mese di settembre il parlamento europeo ha presentato un emendamento che condiziona l’appoggio dell’UE all’UNRWA alla pubblicazione e riscrittura dei libri di testo scolastici palestinesi che [ora] “inciterebbero alla violenza” contro Israele.

Invece di concentrarsi unicamente sulla chiusura immediata dell’UNRWA gli Stati Uniti, Israele e i loro sostenitori stanno lavorando per cambiare la natura della missione dell’organizzazione e riscrivere totalmente il suo mandato originario. L’agenzia, che è stata creata per proteggere i diritti dei rifugiati, ora si prevede che protegga gli interessi israeliani, statunitensi e occidentali in Palestina.

Benché l’UNRWA non sia mai stata un’organizzazione ideale, è però riuscita nel corso degli anni ad aiutare milioni di palestinesi preservando nel contempo la natura politica della loro situazione.

Benché l’Autorità Nazionale Palestinese, varie fazioni politiche, governi arabi e altri abbiano protestato contro i disegni israelo-statunitensi contro l’UNRWA, è poco probabile che queste proteste cambino molto le cose, dato che la stessa UNRWA si sta arrendendo alle pressioni esterne. Mentre i palestinesi, gli arabi e i loro alleati devono continuare a lottare per la missione originaria dell’UNRWA, devono sviluppare urgentemente piani e piattaforme alternative che proteggano i rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno perché non diventino qualcosa di marginale ed eventualmente dimenticato.

Se si eliminano i rifugiati palestinesi dalla lista delle priorità politiche relative al futuro di una pace giusta in Palestina non sarà possibile raggiungere né la giustizia né la pace.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri sulla lotta dei palestinesi, tra cui “L’ultima terra: Una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato in Studi Palestinesi presso l’università di Exeter ed è docente non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali dell’Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un giornale studentesco della università di Harvard appoggia il movimento BDS

Redazione di MEMO

1 maggio 2022 – Middle East Monitor

Un quotidiano gestito dagli studenti dell’università di Harvard ha annunciato il supporto e il sostegno per la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro l’occupazione israeliana, facendone uno dei più significativi passi intrapresi da una università americana contro l’occupazione.

Il comitato di redazione dell’Harvard Crimson ha annunciato sul suo giornale di ieri che adesso “orgogliosamente” appoggia il movimento BDS, affermando che “siamo orgogliosi di offrire infine il nostro supporto alla liberazione della Palestina e al BDS – ed esortiamo chiunque a fare altrettanto”.

Il comitato di redazione del giornale ha ammesso che, mentre in precedenza avevano una posizione “scettica”, questa è mutata in un sostegno totale della campagna BDS, insistendo che “in questo periodo il peso – delle violazioni israeliane dei diritti umani e del diritto internazionale e del grido di libertà [riferimento a un film sul Sudafrica dell’apartheid sulla vicenda di Stephen Biko, ndtr.] della Palestina – richiede questo passo.

Questo mutamento di pensiero, vi si afferma, è avvenuto attraverso le campagne educative e il materiale illustrativo presentati dalla Campagna di Solidarietà con la Palestina (Palestine Solidarity Campaign) dell’università.

Il comitato di redazione, oltre ad evidenziare l’occupazione israeliana in corso del territorio palestinese, le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi e le costanti violazioni del diritto internazionale da parte di Tel Aviv, ha riconosciuto che c’è un “soverchiante squilibrio di potere” nella trattazione e nel dibattito attorno alla questione dello Stato di Israele e della Palestina.

Quello squilibrio, che pende massicciamente a supporto della narrativa israeliana all’interno delle istituzioni e dell’amministrazione americana, permette a 26 Stati nella Nazione di imporre pressioni legali sulle società che decidono di boicottare lo Stato di Israele.

Il comitato di redazione del giornale riconosce, da questo punto di vista, che “siamo pienamente consapevoli del privilegio del fatto di avere una testata istituzionale ed efficacemente anonima. Anche in questa sede universitaria molti dei nostri coraggiosi colleghi che sostengono la liberazione della Palestina possono essere trovati in liste di osservati speciali che tacitamente e vergognosamente li collegano al terrorismo.”

Nato nel 2005, il movimento BDS promuove il boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati della Cisgiordania, così come il boicottaggio di e il disinvestimento da società che gestiscono o hanno contratti con l’occupazione in corso.

Lotte a favore e contro il movimento sono state viste in università in tutte le Nazioni occidentali, in particolare negli USA, e hanno portato famose istituzioni come la Columbia University, l’università di Manchester e l’università dell’Illinois a Urbana-Champaign (UIUC) ad approvare risoluzioni e ad adottare misure a supporto del BDS.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Finora nel 2022 Israele ha ucciso 5 volte i palestinesi uccisi nello stesso periodo del 2021

Redazione di MEMO

20 aprile 2022 – Middle East Monitor

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’Euro-Med Human Rights Monitor [ong palestinese con sede in Svizzera, ndtr.] ha affermato che nei giorni scorsi, dopo aver ricevuto luce verde dai politici, le forze di occupazione israeliane hanno intensificato l’uso della forza contro i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est occupate.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha affermato che la sua equipe aveva documentato l’uccisione di 18 palestinesi nella prima metà di aprile, molti dei quali sono stati uccisi in seguito alla dichiarazione del primo ministro israeliano Naftali Bennet rilasciata l’8 aprile in cui ha dato indicazione all’esercito israeliano di combattere una implacabile guerra a ciò che ha descritto come “terrorismo”.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha affermato che “questa mattina [15 aprile] la violenza delle forze di sicurezza israeliane si è estesa alla moschea di Al-Aqsa, in quanto numerose forze di polizia hanno assaltato il piazzale della moschea e attaccato i fedeli all’interno, ferendo più di 150 palestinesi e arrestandone altri 400”.

Nella dichiarazione si afferma che la decisione delle forze di sicurezza israeliane di irrompere nella moschea di Al-Aqsa e l’attacco ingiustificato ai fedeli riflette la temerarietà dei governanti israeliani e un apparente desiderio di inasprire le tensioni.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha aggiunto che “questo può avere gravi ripercussioni sulla stabilità a Gerusalemme e ovunque nei territori palestinesi. E’ quello che è accaduto a maggio dello scorso anno”.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha documentato l’uccisione dall’inizio del 2022 in vari incidenti di 47 palestinesi, inclusi otto bambini e due donne, da parte delle forze di sicurezza israeliane, constatando che il numero è cinque volte superiore a quello degli uccisi nello stesso periodo dello scorso anno, quando il numero era stato di dieci.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha spiegato che l’autorizzazione dei politici israeliani alle forze di sicurezza per operare con “piena libertà per annientare il terrorismo” sembra aver spianato la strada a pretesti infondati per uccidere e vessare civili palestinesi presso i punti di controllo militari e nelle città, villaggi e paesi della Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

L’Euro-Med Human Rights Monitor considera i politici israeliani pienamente responsabili per l’uccisione dei palestinesi, specialmente “donne e bambini disarmati uccisi a sangue freddo e che non stavano rappresentando alcun rischio per le vite dei soldati israeliani”.

Nella dichiarazione l’Euro-Med Human Rights Monitor mette in relazione l’incremento delle uccisioni di palestinesi con le istruzioni impartite alle forze di occupazione il 20 dicembre 2021, che hanno dato il permesso ai soldati nella Cisgiordania occupata di aprire il fuoco su giovani palestinesi che lanciano le pietre e bottiglie molotov.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Per scongiurare una grave crisi alimentare la Palestina richiede un’attenzione immediata

Ramzy Baroud

19 aprile 2022 – Middle East Monitor

Mohammed Rafik Mhawesh, un giovane giornalista di Gaza e mio amico, mi ha detto che nel territorio assediato nelle ultime settimane il costo del cibo è salito alle stelle. Le famiglie già impoverite faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Ha spiegato che “I prezzi dei generi alimentari hanno subito una notevole impennata, specialmente dall’inizio della guerra Russia-Ucraina.”

Il costo di alimenti essenziali come grano e carne è raddoppiato. Quello dei polli, per esempio, che comunque solo una piccola frazione degli abitanti Gaza poteva permettersi, è aumentato da 20 shekel (circa 5.70 euro) a 45 shekel (quasi 13 euro).

Tale impennata sarebbe forse gestibile in alcune parti del mondo, ma in una società già poverissima che da 15 anni subisce un assedio ermetico da parte dell’esercito israeliano si tratta di una imminente e grave crisi alimentare.

L’ong internazionale Oxfam l’ha segnalata l’11 aprile, quando ha comunicato che i prezzi dei generi alimentari nella Palestina occupata erano saliti del 25% e, cosa più allarmante, le scorte di farina nei Territori Palestinesi Occupati potrebbero “esaurirsi in tre settimane “.

L’impatto della guerra Russia-Ucraina si fa sentire in tutto il mondo, in alcuni luoghi più che in altri. I Paesi africani e mediorientali che da anni combattono contro povertà, fame e disoccupazione sono i più colpiti.

Comunque la Palestina è tutta un’altra storia. È un Paese occupato che dipende quasi interamente dai provvedimenti della potenza occupante, Israele, che si rifiuta di rispettare il diritto internazionale e quello umanitario. Il problema dei palestinesi è complesso, ma, in un modo o nell’altro, quasi ognuno dei suoi vari aspetti è collegato a Israele.

Da molti anni Gaza è soggetta al blocco economico imposto da Israele. La quantità di cibo a cui Israele permette di entrare nella Striscia è razionata e manipolata dallo Stato occupante e usata come punizione collettiva. Amnesty International nel suo rapporto sull’apartheid in Israele pubblicato a febbraio ha dettagliato le restrizioni israeliane sulle derrate palestinesi e le riserve di carburante. Secondo l’organizzazione dei diritti umani Israele usa “formule matematiche per determinare quanto cibo far entrare a Gaza”, limitando le provviste a ciò che Tel Aviv giudica “essenziale per la sopravvivenza della popolazione civile”.

A parte i molti problemi infrastrutturali derivanti dall’assedio, come la quasi totale mancanza di acqua potabile, elettricità e attrezzature agricole, Gaza ha per esempio anche perso gran parte della sua terra coltivabile, destinata ad essere una zona di esclusione militare israeliana stabilita lungo il confine nominale intorno alla Striscia.

La Cisgiordania non sta molto meglio. La maggior parte dei palestinesi nei Territori Occupati, oltre all’impatto devastante della pandemia da Covid-19 e alle debolezze strutturali nell’Autorità Palestinese, afflitta da corruzione e malgoverno, sta patendo l’oppressione crescente dell’occupazione israeliana.

Secondo Oxfam l’ANP importa il 95% del suo grano e non possiede nessuna struttura di stoccaggio. Tutte queste importazioni passano attraverso Israele, che controlla ogni accesso alla Palestina dal mondo esterno. Dato che Israele stesso importa quasi metà del suo grano e cereali dall’Ucraina, i palestinesi sono ostaggio di questo particolare meccanismo dell’occupazione.

Comunque Israele ha ammassato riserve di cibo ed è in massima parte indipendente per l’energia, mentre i palestinesi sono in difficoltà a tutti i livelli. Mentre l’ANP ha parte della colpa per aver investito nel suo elefantiaco apparato di “sicurezza” a spese della sicurezza alimentare, Israele ha in mano quasi tutte le chiavi della sopravvivenza dei palestinesi.

A causa delle centinaia di checkpoint nella Cisgiordania occupata posti dall’esercito israeliano e che separano le comunità una dall’altra e i contadini dalle proprie terre, in Palestina l’agricoltura sostenibile è quasi impossibile. Questa complessa situazione è ulteriormente aggravata da due grossi problemi: gli oltre 700 kilometri del cosiddetto “Muro di Separazione” che non “separano” per niente gli israeliani dai palestinesi, ma privano illegalmente i palestinesi di ampie aree delle loro terre, quasi tutte zone agricole, e il vero e proprio furto di acqua palestinese dalle falde acquifere della Cisgiordania. Mentre molte comunità palestinesi in estate non hanno acqua potabile, Israele non ha mai scarsità di acqua in nessun periodo dell’anno.

La cosiddetta Area C determinata dagli Accordi di Oslo costituisce quasi il 60% dell’area totale della Cisgiordania ed è sotto completo controllo militare israeliano. Sebbene sia relativamente poco popolata, contiene la maggior parte dei terreni agricoli dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente le zone della fertilissima valle del Giordano. A causa della pressione internazionale Israele ha rimandato la sua annessione ufficiale dell’Area C, ma essa è comunque praticamente avvenuta e i palestinesi sono lentamente cacciati via e rimpiazzati da una popolazione crescente di coloni illegali ebrei-israeliani.

I prezzi dei generi alimentari in rapida crescita stanno danneggiano proprio quei contadini e allevatori che sono impegnati a riempire l’enorme voragine causata dall’insicurezza alimentare globale risultante dalla guerra. Secondo Oxfam, in Cisgiordania i costi dei mangimi sono saliti del 60%, problema che va ad aggiungersi al “presente fardello” che gli allevatori devono affrontare, come l’”inasprimento dei violenti attacchi dei coloni israeliani” e “lo sfollamento forzato”, un eufemismo usato per definire la pulizia etnica, parte delle politiche di annessione di Israele.

La fine della guerra Russia-Ucraina probabilmente porterebbe un parziale miglioramento, ma persino questo non porrebbe fine all’insicurezza alimentare della Palestina dato che il problema è provocato e prolungato da specifiche politiche israeliane. Nel caso di Gaza infatti la crisi è totalmente creata da Israele con in mente specifici obiettivi politici. L’infame commento dell’ex consigliere del governo israeliano Dov Weisglass che nel 2006 spiegava i motivi dell’assedio di Gaza resta il principio guida dell’atteggiamento di Israele verso la Striscia: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma di non farli morire di fame.”

Perciò, per scongiurare una grave crisi alimentare, la Palestina ha bisogno di un’attenzione immediata. L’estrema e prolungata povertà e l’elevata disoccupazione a Gaza non lasciano alcun margine per altre disastrose limitazioni. Comunque qualsiasi cosa si faccia ora sarebbe solo un rimedio a breve termine. Si deve tenere un dibattito serio, che coinvolga i palestinesi, i Paesi arabi, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e altri organismi per discutere e risolvere l’insicurezza alimentare palestinese. Per la gente della Palestina occupata questa è la vera e concreta minaccia esistenziale.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nella moschea Al-Aqsa?

Nabil Al-Sahli

5 aprile 2022 – Middle East Monitor 

Giovedì scorso un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nei cortili della moschea Al-Aqsa. Durante l’azione l’estremista Itamar Ben-Gvir è stato protetto da una massiccia presenza della polizia. La sua incursione rientra nel contesto dell’obiettivo israeliano politico-strategico a lungo termine di ebraizzare la Gerusalemme occupata e i suoi monumenti religiosi, il più importante dei quali è il Nobile Santuario di Al-Aqsa.

È evidente che con le sue mosse aggressive il governo di occupazione cerchi l’escalation a Gerusalemme in generale e nella moschea Al-Aqsa in particolare. Già sostiene la divisione temporale e spaziale fra i nativi gerosolimitani palestinesi e i coloni ebrei con lo scopo ultimo di imporre l’ebraizzazione come fatto compiuto.

Il ritmo delle irruzioni nella moschea Al-Aqsa da parte di figure politiche e religiose sioniste è aumentato, come sono cresciute anche le richieste di dividere la moschea fra musulmani ed ebrei, e a ciò è stato dedicato molto tempo nel dibattito fra vari partiti israeliani.

L’intenzione delle ripetute incursioni nella moschea da parte dello Stato israeliano d’apartheid è di permettere agli ebrei di svolgervi le preghiere talmudiche cosa che “giustificherebbe” l’abietta richiesta di dividere Al-Aqsa, così come in passato la falsa giustificazione fu usata per dividere la moschea di Abramo [tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron. Vale la pena di far notare che Israele non si fermerà a questo obiettivo di breve termine. È ben noto che i leader israeliani e i coloni ebrei estremisti vogliono distruggere tutti i luoghi di preghiera musulmani nel Nobile Santuario e costruire al loro posto un tempio.

Richieste di dividere e occupare la moschea di Al-Aqsa per costruire un tempio non sono nulla di nuovo, sono state fatte con veemenza dal 1967, quando Israele occupò e successivamente annesse la parte orientale di Gerusalemme, un’annessione che rimane illegale ai sensi del diritto internazionale. Fra chi ha avanzato queste richieste ci sono leader politici, militari, religiosi ed esponenti dei diritti umani dello Stato di occupazione. Sono spesso molto visibili durante le campagne elettorali israeliane, quando i candidati rivaleggiano fra loro per attrarre il crescente voto dei coloni.

Una delle irruzioni più gravi fu quella dell’11 luglio 1971 da parte di un gruppo di dodici giovani del movimento Betar [del sionismo revisionista di destra, ndt.]. Cercarono di pregare nella moschea Al-Aqsa quando agli ebrei era proibito dalle stesse autorità religiose [ebraiche] di entrare nel complesso. Undici giorni dopo un altro gruppo di ebrei dello stesso movimento riuscì a pregare nella moschea.

L’irruzione più pericolosa nel Nobile Santuario Al-Aqsa avvenne il 28 settembre 2000 da parte dell’allora leader del partito di destra Likud Ariel Sharon, protetto da decine di soldati e coloni. Quella “visita provocatoria” scatenò l’Intifada (Insurrezione) di Aqsa, durante la quale furono uccisi e feriti migliaia di palestinesi.

Nel 2009 ci fu il record di irruzioni israeliane nella moschea Al-Aqsa. Nel settembre di quell’anno membri di un’unità della polizia di occupazione conosciuta come gli “esperti di esplosivi” si aggirarono nel santuario e nella moschea. Nello stesso mese gli scontri fra fedeli musulmani, polizia israeliana e gruppi di ebrei dentro la moschea Al-Aqsa e ai suoi ingressi si conclusero con 16 palestinesi feriti e numerosi arresti.

Negli ultimi anni le incursioni contro Al-Aqsa e i suoi cortili sono aumentate. L’anno scorso in maggio durante il mese del Ramadan coloni estremisti protetti dalla polizia e dall’esercito di occupazione sono entrati nel santuario, una mossa che ha causato una sollevazione che ha coinvolto palestinesi nei territori occupati, inclusi quelli occupati nel 1948 [cioè in Israele, ndt.] come anche più in generale nella diaspora. L’unità nazionale è stata stabilita in modo chiaro ed evidente.

L’irruzione dentro Al-Aqsa da parte di Itamar Ben-Gvir non è la prima e non sarà l’ultima da parte di un israeliano, politico, giudice o membro dei vari servizi di sicurezza. Gruppi di coloni ebrei estremisti protetti da polizia ed esercito di occupazione israeliani entrano frequentemente dentro Al-Aqsa.

Quello che è certo in tutto ciò è che Israele ha cominciato ad accelerare i suoi piani di ebraizzare Gerusalemme e passare alla fase in cui riusciranno a costruire un tempio a spese della moschea benedetta di Al-Aqsa.

Alcuni analisti credono che l’incursione di Ben-Gvir suggerisca che Israele intende avvantaggiarsi dell’intrinseca tendenziosità filoisraeliana riguardo all’occupazione dell’amministrazione Biden e di altri alleati occidentali. Facendo ciò spera anche di avvantaggiarsi della scandalosa e continua divisione politica palestinese per rafforzare la sua morsa su Gerusalemme ed ebraizzarne tutti gli aspetti della vita.

Incursioni nel Nobile Santuario di Al-Aqsa e la sua profanazione da parte di coloni ebrei illegali e altri colonizzatori sionisti, indipendentemente dalla loro affiliazione politica, riflette le decisioni prese dai vari governi israeliani che si sono succeduti per controllare la moschea e imporvi un’assoluta sovranità israeliana ebraica. L’idea della divisione temporale e spaziale della moschea non è più solo uno slogan, sta già accadendo come preludio all’ebraizzazione della città occupata di Gerusalemme, il cui primo obiettivo è la benedetta moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo di culto più sacro dell’Islam.

Ciò richiede una risposta da parte del mondo arabo e islamico per far pressione sulla comunità internazionale per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, vincolante per tutti gli Stati membri, incluso Israele, al fine di prevenire la divisione della moschea Al-Aqsa e che condanni tutte le misure israeliane volte a cambiare il carattere della città di Gerusalemme in generale e della moschea in particolare. Ciò darà anche maggiore rilievo alla dimensione araba e islamica del problema di Gerusalemme e al rischio a cui è esposta Al-Aqsa. La richiesta che l’Onu metta in pratica le sue risoluzioni emesse dal 1967 e relative alla città di Gerusalemme, alla moschea di Al-Aqsa e a tutte le altre zone sacre può quindi essere posta con maggiore serietà. Tali risoluzioni richiedono la cessazione dell’espansione delle colonie, il loro smantellamento e l’annullamento dei cambiamenti forzati imposti dall’occupante Stato di Israele.

Essendo cominciato da pochi giorni il mese del Ramadan del 2022, resta la domanda se vedremo o no un’altra sollevazione palestinese contro le continue politiche israeliane di ebraizzazione come le incursioni di coloni nel Nobile Santuario della moschea di Al-Aqsa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)