Israele: processi segreti per mettere in carcere con accuse false e ingiudicato l’operatore di un’associazione benefica palestinese

Asa Winstanley

5 settembre 2020 – MiddleEastMonitor

Il rilascio un mese fa di Mahmoud Nawajaa, dirigente palestinese del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), è stato un gradito promemoria del fatto che il potere delle persone può essere efficace.

Quando alla fine di luglio Nawajaa è stato rapito da una banda di soldati israeliani nel cuore della notte, il Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni ha mobilitato i suoi sostenitori in tutto il mondo.

L’appello è partito e in tutto il mondo le persone hanno risposto, chiedendo il suo rilascio. È stato liberato dopo 19 giorni di prigione senza accusa né processo.

“L’occupazione israeliana e il regime dell’apartheid coloniale e dei coloni mi hanno arrestato per ostacolare il movimento BDS, distorcerne l’immagine e intimidire gli attivisti”, ha affermato Nawajaa.

Le pressioni funzionano. Una forte pressione internazionale funziona ancora meglio. Sono profondamente grato a tutti coloro che hanno fatto pressione sull’apartheid Israele perché mi liberasse, la vostra solidarietà mi ha dato forza e ha mantenuto viva la speranza di riunirmi alla mia amata famiglia e alla più grande famiglia del BDS.”

Per quanto questo sia stato un risultato felice, Nawajaa è solo uno delle migliaia di prigionieri politici palestinesi detenuti in gravissime condizioni nelle prigioni israeliane.

L’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer afferma che attualmente i detenuti sono 4.500, tra cui 160 bambini, e 360 “detenuti amministrativi”, cioè prigionieri a tempo indeterminato senza accusa o processo.

Uno di loro era Daoud Talat Al-Khatib, morto mercoledì all’età di soli 45 anni per quello che pare sia stato un infarto.

Il Palestinian Prisoners Club ha accusato Israele di incuria sanitaria nei confronti di Al-Khatib. Mancavano solo pochi mesi alla fine della sua condanna a 18 anni.

La sua morte ha amaramente ricordato che i prigionieri politici palestinesi continuano a soffrire sotto l’occupazione, anno dopo anno, mese dopo mese. Il mondo fuori dimentica i loro nomi, ma il popolo palestinese ha la massima stima di chi venga fatto prigioniero nella lotta di liberazione.

Questa lotta assume molte forme.

Ricordate il nome di Mohammed El-Halabi?

Da quattro anni è chiuso nelle carceri israeliane per il “crimine” di aver operato nella beneficenza.

El-Halabi è il direttore di programma dell’associazione di beneficenza cristiana World Vision a Gaza. Secondo i suoi familiari, El-Halabi è stato torturato perché “confessasse” di aver finanziato il “terrorismo” a Gaza.

Suo padre, Khalil El-Halabi, è da lungo tempo un dipendente dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Aveva dichiarato a The Electronic Intifada di aver insistito perché nelle scuole dellagenzia fossero inclusi l’insegnamento dei diritti umani e gli studi sull’Olocausto.

“Educhiamo i nostri figli a rispettare le persone indipendentemente dalla razza o dalla religione”, ha spiegato. “Questo rispetto non è garantito a mio figlio, che è in prigione e viene torturato fisicamente e psicologicamente per qualcosa che non ha fatto. È questa la pace di cui parla Israele? “

Il giornalista palestinese Amjad Ayman Yaghi ha riferito da Gaza che “Khalil è convinto che Israele stia usando suo figlio per prendere di mira i programmi umanitari a Gaza”.

Sarebbe molto più facile per Israele bloccare i programmi di aiuto internazionale a Gaza se avesse la “confessione” di El-Halabi (non importa quanto forzata) di essersi appropriato indebitamente dei fondi di un importante ente di beneficenza internazionale.

Le accuse di Israele contro El-Halabi sono evidentemente false e non sono state provate in tribunale. Negli ultimi quattro anni è stato costretto a quasi 150 udienze in tribunale – per lo più segrete – e il suo avvocato è stato sottoposto a restrizioni senza precedenti. Gli è stato offerto un patteggiamento, ma ha rifiutato.

Amnesty International ha condannato il suo imprigionamento e ha detto: “I processi segreti sono la più flagrante violazione del diritto a un’udienza pubblica. Tenere procedimenti giudiziari a porte chiuse renderebbe infondate le condanne emanate “.

Le accuse contro El-Halabi sono state inventate senza nemmeno grande sforzo. Si vede chiaramente che sono fittizie e sono state costruite ad arte.

È stato accusato di aver stornato decine di milioni di dollari di aiuti finanziari a favore di Hamas, il partito politico palestinese al governo nella Striscia di Gaza che ha anche un’ala armata.

Ma c’è una grossa falla in questa storia: secondo World Vision, l’importo che è stato accusato di aver rubato sarebbe in realtà più del doppio dell’intero budget del programma di beneficenza a Gaza.

Non sarebbe stato possibile che una tale somma “scomparisse”.

Sia World Vision che il governo australiano (che ha fornito i fondi all’ente di beneficenza) hanno condotto approfondite indagini di polizia e hanno dichiarato infondate le accuse israeliane.

Nel 2017, il ministero degli Affari esteri australiano ha scagionato World Vision ed El-Halabi. “Il nostro costante monitoraggio legale non ha scoperto alcun denaro sottratto e secondo DFAT [il ministero] la loro indagine non è stata e non è fondata, e questa è un’ottima notizia”, ha rivelato il capo di World Vision Australia.

Che El-Halabi stia resistendo così a lungo alla pressione dei torturatori israeliani è un atto di resistenza al regime di occupazione israeliano non meno eroico della resistenza armata.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autore e non riflettono necessariamente la politica redazionale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’antisemitismo israeliano sotto falso nome

Asa Winstanley

31 agosto 2020 – Middle East Monitor

Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, i Paesi antisemiti sono i nostri alleati,”disse il fondatore del sionismo, Theodor Herzl.

Herzl non era affatto l’unico sionista a sostenere un’alleanza con gli antisemiti, e questo modello malefico continua anche oggi.

In Ucraina, per esempio, Israele ha armato e addestrato il Battaglione Azov, una milizia neonazista ferocemente antisemita.

Attualmente uno degli alleati politici e morali più accesi di Israele sono i Cristiani Uniti per Israele, un’organizzazione che, basandosi su dati discutibili, afferma di contare circa sei milioni di aderenti.

Il gruppo cristiano sionista è stato fondato da John Hagee, un predicatore evangelico in televisione e pastore protestante statunitense con una redditizia serie di pubblicazioni teologiche sulla “fine dei tempi”, DVD e vari altri prodotti. Una volta in una predica Hagee ha detto che Adolf Hitler era “un cacciatore” inviato da dio per ricacciare gli ebrei in Palestina, trasformarli in coloni e far sì che fondassero lo Stato di Israele.

I sionisti cristiani evangelici come Hagee hanno una posizione teologica terribilmente antisemita che profetizza che, alla fine della storia, gli ebrei si divideranno tra quelli che si convertiranno in massa al cristianesimo e quelli che verranno condannati alle fosse ardenti dell’inferno.

Ciononostante Hagee è un grande amico ed alleato del primo ministro Benjamin Netanyahu. Nel 2018 Hagee ha pronunciato la preghiera di commiato all’inaugurazione della nuova ambasciata degli USA a Gerusalemme, quando essa venne aperta.

Si rivolse ai partecipanti a quella cerimonia anche un altro leader evangelico di destra, Robert Jeffress.

Jeffress è un altro razzista antisemita e islamofobo. Durante un’intervista a un canale televisivo cristiano ha sostenuto che gli ebrei, i musulmani e i mormoni finiranno tutti all’inferno. “L’Islam è sbagliato. E’ un’eresia infernale,” ha dichiarato. “La religione dei mormoni è sbagliata. E’ un’eresia infernale.” Ed ha proseguito: “Ebraismo: non ti puoi salvare se sei ebreo. Tra l’altro, sai chi l’ ha detto? I tre ebrei più importanti del Nuovo Testamento: Pietro, Paolo e Gesù Cristo.”

I politici israeliani come Netanyahu sono sicuramente consapevoli dell’odiosa ideologia di simili alleati. Ma, finché essi si impegnano ad appoggiare lo Stato di Israele e a difendere i suoi crimini, a loro non importa.

In fin dei conti la lobby evangelica ha ancora un immenso potere e influenza nella politica degli USA. E, mentre l’appoggio ebraico a Israele si riduce, essa sta diventando gradualmente una componente fondamentale della lobby israeliana.

Il vertice annuale dei Cristiani Uniti per Israele comincia a rivaleggiare con l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato di Affari Pubblici Americano-Israeliano, principale organizzazione lobbystica filoisraeliana USA, ndtr.] (AIPAC) riguardo al numero di assassini politici che riesce ad attrarre. In giugno la sua riunione virtuale ha incluso oratori come il presidente di Israele Reuven Rivlin, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, il ministro contro il BDS Gilad Erdan, l’ex-ambasciatrice degli USA all’ONU Nikki Haley, il senatore ed ex-candidato alla presidenza Ted Cruz, l’ambasciatore israeliano negli USA Ron Dermer e l’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Dati questo contesto e questa storia, non dovrebbe stupire trovare sionisti che promuovono l’antisemitismo. Dopotutto sia i sionisti che gli antisemiti vogliono vedere gli ebrei andarsene dai loro Paesi di origine per diventare coloni in Palestina.

Per alcuni ciò può sembrare controintuitivo. Ma si basa sull’idea sbagliata molto diffusa secondo cui la parola “sionista” sia sinonimo di “ebreo”: non lo è.

L’ “ebraismo” è un’identità religiosa o culturale (o entrambe), mentre il sionismo è una ideologia politica. Questa è una differenza importante.

Come ha detto il grande intellettuale afro-americano James Baldwin: “Per essere sionista non c’è bisogno di amare gli ebrei. Conosco alcuni sionisti che sono assolutamente antisemiti. Ed essere ebreo non significa necessariamente essere sionista.”

Un esempio particolarmente impressionante, se non sorprendente, di antisemitismo sionista si è verificato all’inizio di agosto in Scozia.

È apparsa la notizia che Edward Sutherland, un attivista della Confederazione degli Amici di Israele, era indagato dall’ispettorato all’istruzione per pubblicazioni antisemite su Facebook.

Tra le menzogne antiebraiche che ha esternato c’era quella che il “grande naso” dell’avvocato ebreo Matthew Berlow [avvocato ebreo scozzese condannato per aver espresso frasi offensive contro filopalestinesi, ndtr.] era stato messo “fuori combattimento”. Per molti decenni le caricature degli ebrei grotteschi con il naso grande sono state un tema comune della propaganda antisemita.

Fino ai suoi problemi recenti Sutherland si recava ogni fine settimana alle riunioni degli Amici di Israele di Glasgow. Ora deve affrontare la possibilità di perdere il suo posto di insegnante. Nelle notizie del dipartimento “non lo potevi fare”, la qualifica di Sutherland è “direttore dell’educazione religiosa e morale” nella scuola dove insegna, la Accademia Belmont ad Ayr.

Sutherland ha postato in rete usando un falso profilo Facebook, il nome di una persona inventata che ha presentato come attivista “filo-palestinese”. Il piano era diffamare il movimento di solidarietà con la Palestina. Quindi questa potrebbe essere definita come una campagna sotto falso nome.

C’è una lunga storia di partecipazione di Israele e dei filo-israeliani in queste cose, con il fine di fare propaganda contro i palestinesi e i loro sostenitori.

Per esempio, nel decennio 1980-90 l’Anti-Difamation League [Lega contro la Diffamazione, organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndtr.] ha diretto una rete di spionaggio infiltrandosi nei movimenti solidali con i palestinesi e in altri gruppi di sinistra e antirazzisti negli USA. Diffondeva e vendeva informazioni sia su Israele che sul regime dell’apartheid sudafricano.

La sua spia più importante, Roy Bullock, cercò di fare qualcosa di simile, tentando di creare un legame tra il gruppo arabo in cui si era infiltrato e un gruppo neonazista che negava l’Olocausto. E quale miglior esempio di questa campagna che l’attacco durato vari anni contro Jeremy Corbyn e il partito Laburista per il loro “antisemitismo”? Israele era profondamente coinvolto anche in quello.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Asa Winstanley

Redattore di The Electronic Intifada, Asa Winstanley è un giornalista d’inchiesta che vive a Londra e che dal 2004 si reca regolarmente in Palestina.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




“Morire per pescare”: come la pirateria israeliana ha distrutto la prospera industria ittica di Gaza

Ramzy Baroud

28 agosto 2020 – Middle East Monitor

Il 16 agosto la marina israeliana ha dichiarato zona militare chiusa il mare di Gaza. Il giorno dopo un gruppo di pescatori di Gaza ha deciso di cercare di pescare a meno di due o tre miglia nautiche dalla costa di Gaza. Appena gettate le reti attorno a loro hanno iniziato a fischiare le pallottole della marina israeliana.

Poco dopo lincidente ho parlato con uno dei pescatori. Il suo nome è Fathi.

Mia moglie, i miei otto figli ed io, tutti viviamo della pesca. La marina israeliana oggi ci ha sparato e ci ha chiesto di lasciare il mare. Ho dovuto tornare dalla mia famiglia a mani vuote, senza pesce da vendere e senza niente da dare ai miei figli, dice Fathi.

La storia di questo pescatore è tipica. Secondo lassociazione israeliana per i diritti umani BTselem circa il 95% dei pescatori di Gaza vive al di sotto del livello di povertà.

I pescatori di Gaza sono dei veri eroi. Contro ogni previsione, per assicurare la sopravvivenza delle loro famiglie ogni giorno affrontano il mare.

In questo contesto la marina israeliana equivale agli odierni pirati, apre il fuoco contro questi uomini – e in qualche caso donne – palestinesi, a volte affondando le barche e riportandole sulla costa. A Gaza da quasi 13 anni questa è stata la routine.

Appena Israele ha dichiarato la chiusura completa della zona di pesca di Gaza, ha impedito a migliaia di pescatori di poter mantenere le loro famiglie, distruggendo così un ulteriore settore della falcidiata economia di Gaza.

Lesercito israeliano ha giustificato la sua azione come una rappresaglia contro i manifestanti palestinesi che, a quanto è stato affermato, negli ultimi giorni hanno lanciato palloni incendiari contro Israele. Quindi, in base alle carenti regole dei principali giornali, la decisione israeliana può sembrare razionale. Tuttavia una semplice verifica sullargomento rivela tuttaltra storia.

Di fatto i manifestanti palestinesi hanno lanciato contro Israele palloni incendiari che, a quanto si dice, provocano incendi in alcune zone agricole nei pressi di Gaza occupata. Tuttavia lazione in sé è stata una disperata richiesta di attenzione.

Gaza è quasi priva di carburante. Lunico generatore di energia della Striscia è stato spento ufficialmente il 18 agosto. Anche il valico di Karem Abu Salem, che consente che approvvigionamenti appena sufficienti arrivino a Gaza attraverso Israele, è stato chiuso per un ordine militare israeliano. Il mare, lultima risorsa di Gaza, è diventato di recente una guerra unilaterale tra la marina israeliana e la sempre più ridotta popolazione di pescatori di Gaza. Tutto ciò ha inflitto gravi danni a una zona che ha già dovuto patire terribili sofferenze.

Una volta florido, il settore della pesca a Gaza è stato quasi distrutto in seguito all’assedio israeliano. Nel 2000, per esempio, l’industria ittica di Gaza contava più di 10.000 pescatori. Gradualmente il loro numero si è ridotto a 3.700, benché molti di essi siano pescatori solo di nome, dato che non possono più uscire in mare, riparare le proprie imbarcazioni danneggiate o permettersene di nuove.

Quelli che continuano a praticare la professione lo fanno perché è, letteralmente, il loro ultimo mezzo di sopravvivenza: se non pescano, le loro famiglie non mangiano. La storia dei pescatori gazawi è anche la storia dellassedio di Gaza. Nessunaltra professione è stata così direttamente legata ai mali di Gaza quanto la pesca.

Quando nel 1993 vennero firmati gli accordi di Oslo tra il governo israeliano e lOrganizzazione per la Liberazione della Palestina, si disse ai palestinesi che uno dei molti frutti della pace sarebbe stato lallargamento della zona peschiera di Gaza, esattamente fino a 20 miglia nautiche (circa 37 km).

Come il resto delle promesse non rispettate di Oslo, neppure laccordo sulla pesca venne mantenuto. Invece fino al 2006 lesercito israeliano consentì agli abitanti di Gaza di pescare allinterno di una zona che non ha mai superato le 12 miglia nautiche. Nel 2007, quando Israele impose lattuale assedio contro Gaza, la zona di pesca venne ulteriormente ridotta, prima a sei miglia nautiche e, infine, a tre.

Dopo ogni guerra israeliana o scontro violento a Gaza la zona di pesca viene completamente chiusa. Viene riaperta dopo ogni tregua, insieme ad altre vuote promesse che la zona di pesca verrà estesa a varie miglia nautiche per migliorare i mezzi di sussistenza dei pescatori.

Dopo la tregua negoziata dallEgitto, che ha fatto seguito a una breve ma letale campagna israeliana nel novembre 2019, la zona di pesca è stata di nuovo estesa fino ad arrivare a 15 miglia nautiche, la maggior estensione da molti anni.

Tuttavia questa tregua è stata di breve durata. Poco tempo dopo la marina israeliana si è messa ad affondare barche, sparando ai pescatori e respingendoli indietro nei ridotti spazi originari nei quali operavano.

Benché nel 2005 Israele abbia ritirato le proprie forze fuori da Gaza, in base al diritto internazionale continua ad essere considerato una potenza occupante, obbligata a garantire il benessere e i diritti dei palestinesi occupati che vi abitano. Ovviamente Israele non ha mai rispettato il diritto internazionale, né a Gaza né in nessun altro luogo della Palestina occupata.

Nel febbraio 2018 Isma’il Abu Ryalah è stato assassinato dalla marina israeliana mentre pescava con la sua piccola imbarcazione a cinque miglia nautiche dalla costa di Gaza. Come era immaginabile, nessun israeliano è stato considerato responsabile per lassassinio di Abu Ryalah. Poco dopo lincidente, la disperazione, ma anche il coraggio, hanno fatto sì che migliaia di pescatori di Gaza ritornassero in mare, nonostante il pericolo immediato che rappresentavano i pirati di oggi che si fanno passare per un esercito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dellautore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




I palestinesi sono privi di una voce politica e i loro leader non fanno nulla al riguardo

Ramona Wadi

13 agosto 2020 – Middle East Monitor

I rifugiati palestinesi sono al centro delle narrazioni palestinesi. La comunità internazionale, tuttavia, ha classificato [quella dei] rifugiati palestinesi come una questione umanitaria. In mezzo a queste rappresentazioni divergenti, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) cerca di cimentarsi con entrambe le parti per sollecitare la “protezione internazionale” nel contesto della pandemia del coronavirus.

Mentre gli aiuti internazionali a favore dei rifugiati palestinesi sono appena sufficienti per i beni di prima necessità (e questo contribuisce ad accentuare la loro vulnerabilità), l’OLP ha chiesto protezione e sostegno economico all’ONU. Secondo quanto riportato, “tale protezione e sostegno devono continuare fino a quando non verrà trovata una soluzione per il problema dei rifugiati sulla base della Risoluzione 194”.

Lo sfruttamento politico dei profughi palestinesi non conosce limiti. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che era stata ciecamente accettata come la cornice entro cui avrebbe dovuto essere trovata una soluzione, viene raramente criticata per aver spostato la responsabilità [del problema, ndtr.] sulla popolazione colonizzata, piuttosto che sulla struttura di colonizzazione e insediamento che usurpa il territorio palestinese e che ha come prima cosa fatto dei palestinesi dei rifugiati. La risoluzione 194 fa parte della narrazione internazionale sulla Palestina e ha poco a che fare con la salvaguardia dei diritti dei rifugiati perché non chiede la decolonizzazione della loro terra.

Ai rifugiati palestinesi non è data una tribuna politica a livello internazionale. Da qui il costante “parlare per” i rifugiati all’interno di un contesto umanitario che a sua volta giustifica il ruolo della comunità internazionale nel decidere come debba essere promossa la causa dei profughi palestinesi per enfatizzarne l’aspetto umanitario.

L’aiuto umanitario è prima di tutto una faccenda della comunità internazionale. I destinatari sono costretti a svolgere un ruolo in questa farsa, che ignora la colonizzazione israeliana della Palestina come causa dell’intera questione.

Inoltre, la richiesta di aiuto dell’OLP promuove la narrazione internazionale del rimandare. Gli aiuti devono essere forniti finché non verrà trovata una soluzione, insiste l’OLP, ma quanta enfasi viene posta sulla ricerca e attuazione di tale soluzione? La comunità internazionale e la leadership palestinese hanno trasformato i rifugiati palestinesi in accessori per convenienza politica. In effetti, non si fa quasi mai menzione dei rifugiati palestinesi, a meno che non venga evocato un contesto umanitario, o nel caso in cui le Nazioni Unite lancino un progetto per sfruttare l’illusione dell’ “autonomia palestinese” – inesistente in un contesto umanitario compromesso a causa di carenze e di alleanze politiche con il progetto coloniale sionista.

Quindi ho un suggerimento: che ne dite di ricordare i rifugiati palestinesi come le principali vittime della colonizzazione sionista; come persone che sono state private dei loro diritti dalla comunità internazionale che permette a quella colonizzazione di procedere indisturbata? Sono passati decenni da quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro è stata incaricata di provvedere ai rifugiati palestinesi e vincolata a una visione “neutrale”, nonostante sia finanziata da Paesi che danno la priorità ai legami diplomatici ed economici con Israele a scapito dei diritti umani e della giustizia. L’autonomia palestinese per i palestinesi, compresi i rifugiati, è ancora un concetto inesistente, perché la comunità internazionale ha monopolizzato la politicizzazione degli aiuti umanitari senza consentire ai palestinesi di partecipare al processo.

Ogni volta che il legittimo diritto al ritorno dei palestinesi viene legato a richieste di aiuti umanitari, il “diritto” viene ulteriormente sminuito. Tale retorica mette ingiustamente i palestinesi in posizione passiva, posizione che l’Autorità Palestinese ama definire “di attesa”. Tali prospettive sono dannose per i palestinesi; non stanno aspettando, sono stati privati di una voce politica e la loro leadership non sta facendo nulla per contrastare questa violazione internazionale dei diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele trasforma le moschee in sinagoghe o bar

Middle East Monitor

28 luglio 2020, Middle East Monitor

Uno dei punti di riferimento di Tiberiade è la moschea, nota anche come moschea Zaydani, prodotto dell’architettura mamelucca, con una grande cupola e un minareto.

“Come la maggior parte dei palestinesi, gli abitanti di Tiberiade sono fuggiti in Siria e in Libano dopo la Nakba”, ha detto Kamal Khatib dell’Alto comitato di controllo per i cittadini arabi di Israele, all’Agenzia Anadolu.

“La famiglia Zaydani, tuttavia, si è trasferita nella città adiacente di Nazareth”, ha detto.

Khatib ha detto che la famiglia Zaydani ha chiesto alle autorità israeliane di concedere il permesso di restaurare la moschea Umari.

“Il Comune di Tiberiade, però, si è rifiutato, sostenendo che l’avrebbe ristrutturata, ma non è successo nulla”, ha detto.

“Anche da quando la moschea è stata chiusa, le autorità israeliane hanno vietato l’ingresso ai fedeli e ai visitatori”, ha detto.

Lo studio ha anche dimostrato che 40 moschee sono state distrutte, chiuse o abbandonate, mentre altre 17 sono state trasformate in bar, ristoranti o musei.

Per esempio, secondo lo studio, la moschea Al-Ahmar nella città settentrionale di Safed è stata trasformata in una sala da concerto, mentre la moschea Al-Jadid nella città di Cesarea in un bar.

Khatib ricorda che le moschee pre-Nakba erano piene di fedeli. “Dopo la Nakba, però, le moschee furono distrutte, specialmente quelle dei villaggi. Altre moschee furono trasformate in sinagoghe, bar, musei, caffè o ristoranti”.

Khatib si è lamentato che la polizia israeliana “non tiene conto dei sentimenti dei musulmani”, citando il cimitero di al-Isaaf a Giaffa, dove le tombe sono state rase al suolo nonostante le proteste dei residenti locali.

Khatib ha detto che le autorità israeliane hanno promulgato una legge per confiscare i beni dei palestinesi, che sono fuggiti dalle loro case.

“La Knesset (il parlamento di Israele) ha approvato la legge degli assenteisti, con la quale Israele ha confiscato edifici e proprietà dei cittadini arabi [che lasciarono le loro case si trasferirono in altre zone]”, ha detto.

Israele nega le accuse di usare le moschee per scopi diversi dal culto.

A ottobre del 2015, il Ministero degli Esteri israeliano ha detto che c’erano circa 400 moschee in Israele e che il numero dei fedeli è raddoppiato cinque volte negli ultimi 25 anni.

Khatib però respinge l’affermazione israeliana, dicendo “Nella storia del paese il governo israeliano non mai costruito una moschea”.

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina




“Rimettete sulla mappa la Palestina” chiede Madonna

22 luglio 2020 – Middle East Monitor

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Secondo alcuni utenti delle reti sociali, durante il fine settimana la cantante, cantautrice e attrice Madonna ha manifestato solidarietà nei confronti della Palestina con una serie di post su Instagram protestando contro il fatto che su Google Maps non siano presenti i territori occupati palestinesi. La solidarietà di Madonna con la Palestina ha coinciso con la promozione di una petizione, firmata da più di un milione di persone, che chiede a Google di mettere “la Palestina sulla mappa”.

La petizione denuncia il fatto che la scelta rende Google “complice della pulizia etnica della Palestina da parte del governo israeliano.” Israele, fondato su terra palestinese, è chiaramente delimitato, ma la Palestina non compare su Google maps. “Perché no?” chiedono i firmatari.

Immagini che hanno circolato sulle reti sociali mostrano Madonna che condivide un’immagine della mappa in questione senza la Palestina, con un commento: “Google e Apple hanno ufficialmente tolto la Palestina dalle loro mappe.” Lei ha più di 15 milioni di follower su Instagram. MEMO non ha potuto verificare l’autenticità delle schermate e non ha ricevuto risposte dallo staff di Madonna riguardo alle immagini.

Va anche notato che Google Maps in precedenza non aveva la Palestina sulla mappa, aveva Gaza e la Cisgiordania come regioni, senza neppure definire la Palestina come Paese.

In un secondo post la cantante manifesta la più forte solidarietà mai espressa da lei con la causa palestinese. La sessantunenne chiede “Rimettete la Palestina sulla mappa” prima di aggiungere “#IStandWithPalestine”.

Un terzo post mostra un’immagine di Angela Davis, icona del movimento per i diritti civili americano, insieme a una citazione: “La solidarietà dei neri con la Palestina ci consente di comprendere più approfonditamente la natura del razzismo contemporaneo.”

Recentemente Davis ha spiegato perché la causa palestinese sia così importante per il movimento Black Lives Matter. Ha ricordato come gli attivisti palestinesi abbiano a lungo appoggiato la lotta dei neri americani contro il razzismo e che, quando lei è stata ingiustamente imprigionata nel 1970, la solidarietà dalla Palestina sia stata di grande conforto per lei.

In passato Madonna non è stata così disponibile ad appoggiare la causa palestinese. Nel 2019 si è rifiutata di boicottare la gara canora Eurovision, che si è tenuta in Israele: “Non smetterò mai di suonare per conformarmi al progetto politico di qualcuno né smetterò di parlare contro le violazioni dei diritti umani ovunque nel mondo,” ha detto all’epoca in un comunicato.

Nota: questa pagina è stata aggiornata il 27 luglio 2020 alle 21 per aggiungere che la petizione chiede di aggiungere, non di “rimettere”, la Palestina sulle mappe, in quanto la Palestina come Paese non compare nelle precedenti versioni di Google Maps.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Buone notizie da Washington: l’AIPAC e Israele stanno perdendo consensi tra i democratici progressisti

Ramzy Baroud

14 luglio 2020 – Middle East Monitor

Mentre l’amministrazione USA del presidente Donald Trump rimane irremovibile nel suo appoggio ad Israele, la dirigenza democratica di sempre continua ad utilizzare un linguaggio subdolo, il tipo di “ambiguità strategica” che offre pieno sostegno ad Israele e nient’altro che vuote promesse per la Palestina e la pace.

Le politiche di Trump su Israele e Palestina sono state dannose, culminate con il vergognoso e iniquo “accordo del secolo”, e la sua amministrazione rimane largamente impegnata a favore della tendenza verso una crescente vicinanza tra il gruppo dirigente repubblicano e il campo di destra israeliano del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Le opinioni della leadership democratica, rappresentata dal probabile sfidante democratico nelle prossime elezioni di novembre, Joe Biden, sono ancora quelle di un’epoca di fanatismo, quando l’amore incondizionato dei democratici per Israele era pari a quello dei repubblicani. Si può affermare con sicurezza che quei giorni stanno volgendo al termine, in quanto successivi sondaggi di opinione stanno ribadendo un cambiamento di panorama politico a Washington.

Una volta l’élite politica americana, le cui politiche differivano su molte questioni, concordava senza riserve su un unico argomento di politica estera: l’amore e l’appoggio ciechi e incondizionati del loro Paese per Israele. In quei giorni l’influente gruppo lobbystico filo-israeliano, l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani] (AIPAC), faceva il bello e il cattivo tempo, regnando incontrastato sul Congresso USA e decidendo praticamente da solo il destino di parlamentari in base al fatto che appoggiassero o meno Israele.

Anche se è troppo presto per affermare che “quei tempi sono finiti”, a giudicare dal discorso politico su Palestina e Israele notevolmente mutato, i molti sondaggi di opinione e i successi elettorali di candidati contrari all’occupazione israeliana in elezioni nazionali e locali, si è obbligati a dire che la salda presa dell’AIPAC sulla politica estera USA si sta finalmente allentando.

Tale affermazione può sembrare prematura, considerando la parzialità senza precedenti dell’attuale amministrazione a favore di Israele – l’illegale spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il rifiuto del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi e il sostegno dell’amministrazione al progetto israeliano di annettere illegalmente parti della Cisgiordania, e via di seguito.

Tuttavia si deve fare una distinzione tra l’appoggio a Israele tra chi governa, la sempre più isolata cricca di politicanti, e il sentimento generale di un Paese che, nonostante le numerose violazioni della democrazia negli ultimi anni, è ancora in qualche modo democratico.

Il 25 giugno un incredibile numero di circa 200 parlamentari democratici, compresi alcuni dei più strenui sostenitori di Israele, ha chiesto in una lettera a Netanyahu e ad altri importanti politici israeliani di annullare il progetto di annettere illegalmente circa il 30% della Cisgiordania.

Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione riguardo all’intenzione dichiarata di procedere con una qualunque annessione unilaterale di territori della Cisgiordania, e invitiamo il vostro governo a riconsiderare il progetto di attuarla,” afferma fra l’altro la lettera.

Mentre il linguaggio della lettera è lungi dall’essere etichettabile come “minaccioso”, il fatto che sia stata firmata da fedelissimi alleati di Israele come i parlamentari della Florida Tedo Deutch e dell’Illinois Brad Schneider la dice lunga sul cambiamento di discorso su Israele tra i vertici centristi e persino conservatori del partito Democratico. Tra i firmatari ci sono anche figure importanti dell’establishment democratico, come la congressista Debbie Wasserman Schultz e il capo della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Steny Hoyer.

Altrettanto importante è il fatto che l’influenza della generazione più giovane e progressista dei politici democratici continui a spostare i confini del discorso del partito su Israele, grazie al lavoro instancabile della parlamentare Alexandria Ocasio-Cortez e dei suoi colleghi. Insieme a decine di rappresentanti democratici, il 30 giugno Ocasio-Cortez ha inviato un’altra lettera, questa volta al segretario di Stato USA, Mike Pompeo.

A differenza della prima, la seconda lettera è decisa e molto audace: “Se il governo israeliano dovesse continuare lungo questo cammino (dell’annessione), lavoreremo per garantire il mancato riconoscimento dei territori annessi così come porteremo avanti leggi che condizionino i finanziamenti militari USA di 3.8 miliardi di dollari a Israele per assicurare che i contribuenti USA non stiano appoggiando in alcun modo l’annessione,” dice tra l’altro la lettera.

Si immagini se queste esatte parole fossero state utilizzate dai rappresentanti democratici nel luglio 1980, quando il parlamento israeliano annesse illegalmente Gerusalemme est con un atto che era – e rimane – contrario alle leggi internazionali. Il destino di quei politici sarebbe stato simile a quello di altri che osarono opporsi, col rischio di perdere il proprio seggio al Congresso, ossia di fatto tutta la loro carriera politica in una volta.

Ma i tempi sono cambiati. È veramente inconsueto, e consolante, vedere l’AIPAC affannarsi a spegnere i molti focolai accesi dalle nuove voci radicali tra i democratici.

La ragione per cui non è più facile per la lobby filo-israeliana conservare la sua pluridecennale egemonia sul Congresso è che quelli come Ocasio-Cortez sono anche loro risultato del cambiamento generazionale e probabilmente irreversibile che è avvenuto tra i democratici nel corso degli anni.

La tendenza alla polarizzazione dell’opinione pubblica americana riguardo a Israele risale a vent’anni fa, quando gli americani iniziarono a considerare il proprio supporto a Israele in base a linee di partito. Sondaggi più recenti suggeriscono che questa polarizzazione sia in aumento. Un sondaggio di opinione della Pew [gruppo di esperti statunitensi che si occupano di inchieste ed analisi socio-politiche, ndtr.] pubblicato nel 2016 ha mostrato che tra i repubblicani la simpatia per Israele era passato a un inaudito 74%, mentre tra i democratici era scesa al 33%.

Inoltre, per la prima volta nella storia, tra i democratici l’appoggio a Israele e ai palestinesi era praticamente diviso in parti uguali: rispettivamente il 33% e il 31%. Era il periodo in cui abbiamo iniziato a vedere inusuali prime pagine dei principali mezzi di informazione come “Perché i democratici stanno abbandonando Israele?”

Questo “abbandono” è continuato senza sosta, come hanno indicato sondaggi più recenti. Nel gennaio 2018 un’altra inchiesta di Pew ha dimostrato che l’appoggio dei democrati a Israele si è ridotto al 27%. Non solo la base democratica si sta allontanando da Israele in seguito alla crescente consapevolezza dei continui crimini israeliani e della violenta occupazione in Palestina: anche i giovani ebrei stanno facendo altrettanto.

Le mutate opinioni su Israele tra i giovani ebrei americani stanno finalmente dando frutti, fino al punto che nell’aprile 2019 i dati di Pew hanno concluso che nel loro complesso probabilmente gli ebrei americani sono ancor più (42%) dei cristiani ad affermare che il presidente Trump stia “favorendo troppo gli israeliani.”

Mentre molti democratici al Congresso sono sempre più in sintonia con le opinioni dei loro elettori, quelli che comandano, come Biden, rimangono caparbiamente legati a programmi che sono promossi dall’AIPAC e dal resto della vecchia guardia.

La buona notizia da Washington è che, nonostante l’attuale appoggio di Trump a Israele, un graduale ma durevole cambiamento strutturale continua ad avvenire tra i sostenitori del partito Democratico ovunque in tutto il Paese. Una ancor più sorprendente notizia è che la tradizionale roccaforte di Israele nelle comunità ebraiche del Paese sta vacillando, e molto rapidamente.

Mentre l’AIPAC probabilmente continuerà ad utilizzare e improvvisare vecchie tattiche per difendere gli interessi di Israele nel Congresso USA, la cosiddetta “potente lobby” probabilmente non riuscirà a riportare indietro il tempo. Anzi, l’epoca del totale dominio di Israele sul Congresso USA è probabilmente finita, e, si spera, questa volta per sempre.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sanzioni degli USA contro la CPI: a proposito della risposta collettiva di 67 Stati

Nicolas Boeglin

30 giugno 2020 – Middle East Monitor

Lo scorso 11 giugno il mondo ha assistito attonito a un atteggiamento inusitato nella storia del diritto internazionale: gli Stati Uniti hanno annunciato ufficialmente vari provvedimenti sanzionatori presi contro il personale della Corte Penale Internazionale (CPI).

Lo scorso 23 giugno sono stati 67 gli Stati aderenti allo Statuto di Roma che hanno deciso di alzare la voce, diffondendo un comunicato congiunto in cui si oppongono a queste insolite sanzioni unilaterali nordamericane contro la giustizia penale internazionale.

L’iniziativa di questa risposta collettiva, scarsamente pubblicizzata, è stata affidata a Costarica e Svizzera.

Sintesi del testo del comunicato congiunto

Il comunicato sottoscritto chiarisce che:

Come Stati Membri dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI) riaffermiamo il nostro appoggio incondizionato alla Corte come istituzione giudiziaria indipendente e imparziale. In sintonia con il comunicato stampa dell’11 giugno del presidente dell’Assemblea degli Stati Membri rinnoviamo il nostro impegno per mantenere e difendere i principi e i valori sanciti dallo Statuto di Roma e di preservarne l’integrità senza che essa venga danneggiata da nessuna iniziativa o minaccia contro la Corte, i suoi funzionari e quanti collaborano con essa.”

In questo appello unitario da parte dei firmatari si afferma anche:

Continuiamo ad impegnarci a favore di un ordine internazionale sulla base di regole. La Corte Penale Internazionale è parte integrante di questo ordine ed è un’istituzione fondamentale nella lotta contro l’impunità e nella ricerca della giustizia, componenti essenziali della pace, della sicurezza e della riconciliazione sostenibili. Di conseguenza continueremo a rispettare i nostri obblighi di collaborazione in base allo Statuto di Roma ed esortiamo tutti gli Stati a garantire la piena collaborazione con la Corte affinché essa svolga al meglio il proprio importante compito di garantire la giustizia per le vittime dei crimini più gravi, di grande rilevanza per la comunità internazionale.”

Va sottolineato che, per una qualche ragione che lascia sorpresi, il testo in spagnolo del comunicato non è stato pubblicato in nessun sito ufficiale di nessuno Stato ispanofono, ragione per la quale ci siamo limitati a riprodurre le versioni ufficiali in inglese e francese rese pubbliche dagli organismi diplomatici di altri Stati.

Benché, a differenza del titolo, il testo in sé non menzioni esplicitamente gli Stati Uniti, esso riafferma in modo inequivocabile l’appoggio alla giustizia penale internazionale da parte di questi 67 Stati che lo hanno sottoscritto, cercando in questo modo di rispondere alla inusitata decisione nordamericana annunciata lo scorso 11 giugno.

Alcuni brevi particolari sui firmatari

Gli Stati Membri dello Statuto di Roma sono in totale 123 (secondo il documento ufficiale del depositario dello Statuto di Roma, che spetta alla Segreteria Generale delle Nazioni Unite).

La lista dei 67 Paesi, che precede il testo del comunicato congiunto reso pubblico il 23 giugno dall’Aia, consente di identificare chiaramente gli Stati Membri dello Statuto di Roma che per qualche ragione hanno scelto di non appoggiare l’iniziativa presentata da Costarica e Svizzera non firmando il testo.

La mancanza di queste firme risponde probabilmente a forti pressioni diplomatiche esercitate dagli Stati Uniti. Nel caso dell’America Latina non compaiono El Salvador, Guatemala, Honduras, Panama e Paraguay. Nel caso di Stati Membri dell’Unione Europea (UE), né Ungheria né Polonia hanno considerato opportuno firmare il comunicato, così come la Corea del Sud e il Giappone in Asia.

Nel suo account twitter personale il presidente dell’Assemblea degli Stati Membri, il sudcoreano O-Gon Kwon, ha ringraziato Costarica e Svizzera per aver dato avvio all’iniziativa di questa risposta collettiva.

Il fatto che il Costarica sia stato tra quelli che hanno preso l’iniziativa non fa che riconfermare la sua tradizionale vocazione di attaccamento alla giustizia e di difesa del diritto internazionale.

Nel caso specifico della CPI è necessario ricordare che il Costarica è stato l’unico Stato centroamericano a non firmare l’Accordo Bilaterale di Immunità” (o ABI) uno degli oltre 100 firmati dagli Stati Uniti per evitare che il suo personale militare o civile possa essere consegnato alla giustizia penale internazionale. A questo riguardo il tipo di pressioni esercitate dai diplomatici nordamericani negli anni 2005 e 2006 al più alto livello in Costarica e le risposte alle loro richieste possono essere analizzate riguardando i telegrammi confidenziali resi noti da Wikileaks. Nel secondo di questi messaggi si può leggere che [in inglese nel testo, ndtr.] “dopo l’incontro, tuttavia, la vicepresidentessa di Arias, Laura Chinchilla, ha chiesto una copia dell’articolo 98 dell’accordo tra USA e Colombia, che poi le abbiamo consegnato.”

Nella pubblicazione del 2012 dell’Università per la Pace [istituzione accademica dell’ONU con sede in Costarica, ndtr.] l’ex-ministro degli Esteri del Costarica Bruno Stagno Ugarte, nel suo articolo intitolato “Difendere l’integrità dello Statuto di Roma: gli alti e bassi del caso Costarica, 2002-2008”, entra nei dettagli dell’impatto delle sanzioni a cui è stato in seguito sottoposto il Costarica per essere rimasto fedele ai principi sui quali si fonda la CPI.

Tornando alle sanzioni annunciate nel giugno del 2020 contro il personale della CPI “non c’è dubbio che questa decisione nordamericana non abbia precedenti nella storia del diritto internazionale.”

Anche il fatto di rispondere a una insolita decisione unilaterale (salutata e accolta positivamente da un solo Stato: Israele) con una controffensiva diplomatica collettiva è un gesto altrettanto inedito: da questo punto di vista il comunicato unitario sottoscritto da questi 67 Paesi Membri dello Statuto di Roma può essere considerato una vera “prima assoluta” nella storia della giustizia penale internazionale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli ebrei britannici esigono che la nuova ambasciatrice israeliana di destra non possa assumere l’incarico

22 giugno 2020 – Middle East Monitor

Circa 1.500 ebrei britannici hanno firmato una petizione in cui si chiede al governo di Boris Johnson di non accettare la nomina della ministra per le Questioni delle Colonie Israeliane, Tzipi Hotovely, come ambasciatrice di Tel Aviv a Londra perché “ha orribili precedenti di comportamenti razzisti e provocatori.”

Na’amod, un’organizzazione che dice di “cercare di porre fine all’appoggio della nostra comunità [ebraica] all’occupazione”, ha stilato la petizione che afferma: “I valori e la politica di Tzipi Hotovely non hanno posto nel Regno Unito. È fondamentale che il governo britannico invii il messaggio che le sue opinioni sono inaccettabili e rifiuti la sua nomina come ambasciatrice.”

Aggiunge che in passato Hotovely si è opposta pubblicamente ai rapporti tra ebrei ed arabi, ha definito “criminali di guerra” gli attivisti israeliani per i diritti umani ed ha accusato i palestinesi di essere “ladri di storia” che non hanno alcun patrimonio né legame con Israele-Palestina.

La settimana scorsa Israele ha nominato Hotovely nuova ambasciatrice nel Regno Unito, e alla fine della prossima estate sostituirà Mark Regev.

Nel 2015 Hotovely è stata nominata viceministro degli Esteri di Israele. In una conferenza a Gerusalemme si è vantata di aver trasformato, da quando ha assunto l’incarico, il ministero degli Esteri israeliano in un bastione dei diritti dei coloni, fatto che sta portando Israele verso l’annessione [del 30% della Cisgiordania, ndtr.].

Tutto il territorio che si trova a ovest del fiume Giordano può essere solo [proprietà] di una Nazione: il popolo ebraico,” ha affermato.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)