Reportage: un ministro israeliano ha bloccato un carico di farina verso Gaza

Redazione di Middle East Monitor

13 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che il ministro ultranazionalista delle Finanze Bezalel Smotrich sta bloccando un carico di farina diretto alla Striscia di Gaza, affermando che le forniture finanziate dagli Stati Uniti sono dirette all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA).

Il carico è stato bloccato per settimane nel porto di Ashdod, nella parte meridionale di Israele, dal momento che Smotrich ha ordinato alle autorità doganali di “non lasciar passare la spedizione fin quando l’UNRWA sia il destinatario,” ha riferito martedì il sito americano di notizie Axios.

I più alti livelli dell’amministrazione Biden hanno ventilato la possibilità della spedizione di farina più di un mese fa, si afferma sul sito, citando funzionari statunitensi e israeliani.

Funzionari statunitensi hanno affermato che questa è una violazione dell’impegno che Benjamin Netanyahu ha personalmente preso con il presidente Biden molte settimane fa ed è un’altra ragione per cui il leader statunitense è deluso dal primo ministro israeliano” ha affermato la testata.

I gabinetti di guerra e di sicurezza israeliani hanno approvato la consegna della farina dal porto di Ashdod attraverso il valico di Kerem Shalom, si afferma sul sito web, citando anonimi funzionari israeliani.

Questi hanno aggiunto che Smotrich ha ordinato ai servizi doganali israeliani di “non lasciar proseguire la spedizione fin quando l’UNRWA è il destinatario.”

Smotrich e gli Stati Uniti non hanno emesso alcuna dichiarazione ufficiale sul rapporto.

Molti Stati, inclusi gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, l’Italia e il Canada, hanno sospeso i finanziamenti per l’UNRWA in seguito ad accuse israeliane.

L’agenzia delle Nazioni Unite ha affermato che sta indagando su queste accuse.

Israele ha ripetutamente equiparato lo staff dell’UNRWA ai membri di Hamas nel tentativo di discreditarli, senza fornire alcuna prova delle dichiarazioni, mentre ha fatto dure azioni di pressione per chiudere l’UNRWA, dato che è l’unica agenzia ONU ad avere lo specifico mandato di occuparsi dei bisogni elementari dei rifugiati palestinesi. Se l’agenzia non esisterà più, sostiene Israele, allora non esisterà più neppure la questione dei rifugiati e il loro legittimo diritto a tornare alla loro terra è ingiustificato. Israele ha negato il diritto al ritorno fin dagli ultimi anni quaranta, anche se la sua adesione all’ONU è stata condizionata al fatto di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare alle loro case e alla loro terra.

La guerra di Israele a Gaza ha spinto l’85% della popolazione del territorio ad una deportazione interna a fronte di gravi carenze di cibo, acqua pulita, e medicine, mentre secondo le Nazioni Unite il 60% dell’infrastruttura dell’enclave è stata danneggiata o distrutta.

Israele viene accusata di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, che questo gennaio con una sentenza preliminare ha ordinato a Tel Aviv di fermare gli atti di genocidio e di prendere misure per garantire che ai civili a Gaza sia fornita assistenza umanitaria.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La spiaggia inglese di Bournemouth trasformata in un enorme memoriale per i minori uccisi da Israele a Gaza

Redazione di Middle East Monitor

6 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che in una commovente esposizione di solidarietà e commemorazione, la spiaggia di Bournemouth è diventata un telo funebre e per la sensibilizzazione che gli attivisti hanno composto per evidenziare il devastante prezzo delle morti di minori a Gaza.

Guidati dal gruppo di campagna politica “Guidati dagli asini”, volontari hanno trasformato cinque chilometri di spiaggia in un immenso memoriale, usando i commoventi simboli dei vestiti dei minori.

Dal 7 ottobre, quando 36 minori israeliani sono stati uccisi, Israele ha ucciso oltre 11.500 minori palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. È impossibile immaginare questo numero. Ecco come appare. Una fila lunga 5 chilometri” ha affermato il gruppo su X [precedentemente Twitter, ndt.].

Magliette e pantaloni dei minori, sistemati meticolosamente lungo la spiaggia, servono come crudo promemoria del costo umano del conflitto.

Noi stiamo cercando di mostrare esattamente il livello di quanto sta accadendo, perché è molto difficile per le persone capire numeri di tali dimensioni. Così tanti minori sono stati uccisi a Gaza e i nostri politici e altri governi nel mondo non stanno davvero facendo nulla per fermarlo,” ha detto lunedì il portavoce del gruppo, James, a radio Bournemouth One.

Tocca a persone come noi cercare di costruire questa immagine molto potente per svegliare la gente e affermare che c’è bisogno di un cessate il fuoco,” ha aggiunto.

Israele ha lanciato un’offensiva letale contro la Striscia di Gaza in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre, uccidendo almeno 27.585 palestinesi e ferendone 66.978, mentre si ritiene che circa 1.200 israeliani siano rimasti uccisi nell’attacco di Hamas.

Tuttavia in seguito è stato rivelato da Haaretz  che elicotteri e carri armati dell’esercito israeliano hanno di fatto ucciso molti dei 1.139 soldati e civili che Israele afferma essere stati uccisi dalla resistenza palestinese.

L’offensiva israeliana ha portato allo sfollamento interno dell’85% della popolazione di Gaza con grave carenza di cibo, acqua pulita e medicine, mentre secondo le Nazioni Unite il 60% delle infrastrutture dell’enclave è stato danneggiato o distrutto.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Secondo un sondaggio, il 72% degli israeliani dice che l’invio di aiuti a Gaza deve essere fermato

Redazione di Middle East Monitor

31 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Secondo un nuovo sondaggio metà degli israeliani si oppone ad un accordo tra Israele e le fazioni della resistenza palestinese che vedrebbe i prigionieri di guerra israeliani rilasciati da Gaza in cambio di migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliana e un cessate il fuoco di 45 giorni.

Pubblicato oggi dal Canale 12 israeliano, il sondaggio rivela che “il 50% degli israeliani si oppone ad un accordo secondo il quale i prigionieri israeliani siano rilasciati in cambio di un cessate il fuoco di 45 giorni ed il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane.”

Secondo il sondaggio “il 35% degli israeliani supporta tale accordo, mentre il 15% non dà una risposta specifica.”

Sempre secondo il sondaggio, tra coloro che hanno votato per la coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu il 12% appoggia la proposta e il 75% si oppone ad essa.” Il sostegno sale al 53% tra [gli elettori del]l’opposizione.

Cosa molto preoccupante, il 72% dei 503 intervistati ha detto che “l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza deve essere fermato finché i prigionieri israeliani non saranno rilasciati” mentre solo il 21% afferma che gli aiuti dovrebbero continuare ad entrare a Gaza.

Secondo il sondaggio, se le elezioni israeliane si tenessero adesso il Partito di Unità Nazionale [centrista, ndt.] di Benny Gantz otterrebbe 27 dei 120 seggi della Knesset [il parlamento israeliano ndt.] rispetto ai 12 che ha attualmente.

Invece se le elezioni si tenessero oggi il partito Likud, guidato dal primo ministro Netanyahu, “scenderebbe dai 32 seggi che ha attualmente a 18.”

Secondo Canale 12 i partiti che si oppongono alla coalizione di Netanyahu otterrebbero 73 seggi, mentre quelli che sostengono il primo ministro ne otterrebbero 47. Attualmente i partiti che supportano Netanyahu hanno 64 seggi alla Knesset.

È necessario superare la soglia minima di almeno 61 rappresentanti alla Knesset per formare un governo.

Nelle ultime settimane sono aumentate le richieste di tenere elezioni anticipate. Queste sono state rifiutate da Netanyahu che ha affermato che nessuna elezione può essere effettuata in tempo di guerra.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’UE sta rigettando e allo stesso tempo appoggiando il genocidio di Israele

Ramona Wadi

23 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Ciò che vogliamo fare è costruire una soluzione a due Stati. Quindi parliamone”, ha dichiarato il capo della politica estera dell’UE Josep Borrell prima di un incontro a Bruxelles con funzionari israeliani e palestinesi. “Quali altre soluzioni hanno in mente? Espellere tutti i palestinesi? Ucciderli?”

Le domande retoriche di Borrell non si addicono alla sua posizione. Ma gli israeliani hanno escogitato un altro piano: creare un’isola artificiale nel Mediterraneo e mandarvi i palestinesi espulsi. L’idea non è nuova. Nel 2017, Israel Katz, allora ministro israeliano dei Trasporti e dell’Intelligence, suggerì un’isola artificiale al largo della costa di Gaza come primo passo per il collegamento dei palestinesi con il resto del mondo. In qualità di ministro degli Esteri, Katz ha riproposto il piano che è stato respinto dai ministri degli Esteri dell’UE.

Tuttavia, il rifiuto del piano da parte dell’UE, sebbene corretto, non dice nulla sull’integrità morale e politica del blocco quando si tratta del popolo palestinese. Le prove presentate alla Corte internazionale di Giustizia, così come l’aperta difesa da parte di Israele delle sue azioni genocide, non sono riuscite a modificare la posizione passiva dell’UE. Se l’UE non è ancora convinta dell’intento genocida e delle azioni genocide di Israele finora, nonostante il crescente numero di palestinesi uccisi, torturati e feriti dallo Stato dell’apartheid, la proposta di Katz farà altrimenti? Ogni proposta israeliana mira a spazzare via i palestinesi dalla terra di Palestina, a cominciare da Gaza. E tutto ciò che Borrell può fare è ribadire la moribonda diplomazia dei due Stati, perché è ciò che l’UE e il resto della comunità internazionale hanno destinato ai palestinesi.

Per rispondere alle domande di Borrell, sì, Israele vuole espellere tutti i palestinesi e vuole uccidere i palestinesi. Entrambe le opzioni sono praticabili nell’agenda coloniale di Israele. Dal 7 ottobre sono state rilasciate diverse dichiarazioni al riguardo da parte di politici israeliani. I social media sono pieni di filmati di soldati israeliani che celebrano la distruzione di Gaza. L’UE è anche indubbiamente in possesso di una sua raccolta di informazioni, per non parlare del suo coinvolgimento decennale nella debacle politica dell’illusione dei due Stati che ha consentito a Israele di arrivare fino al genocidio con assoluta impunità.

Cos’è la diplomazia dei due Stati in un momento in cui le azioni genocide di Israele sono la prova più evidente che il colonialismo non scende a compromessi, nemmeno in uno scenario in cui l’autonomia politica palestinese è ancora soggetta a imposizioni coloniali e internazionali?

Parlando del compromesso a due Stati Borrell sta liquidando il genocidio di Israele come quasi irrilevante Prima del 7 ottobre l’UE utilizzava questo paradigma politico per dare un fondamento alla normalizzazione della violenza coloniale, al punto che ogni violazione israeliana era separata dall’ideologia e dalla pratica dell’espansione coloniale di insediamento. Questo status quo è stato cancellato. L’UE ora è arrivata al punto di normalizzare il genocidio, pur parlando del paradigma dei due Stati come di qualcosa che vuole realizzare.

La domanda in sé è paternalista: perché i palestinesi non dovrebbero essere in grado di articolare le loro richieste politiche quando e dove vogliono, senza aspettare o essere sollecitati? L’UE ha impresso il marchio della sua politica sulla Palestina facendo dei diritti umani una barzelletta proprio per il modo con cui finge di difenderli. Tuttavia, se le richieste palestinesi non vengono articolate dall’interno e accolte dalla comunità internazionale senza alcun compromesso, l’UE, come il resto del mondo, può considerarsi complice del genocidio da parte di Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Perché gli USA temono Israele nonostante la condanna globale del loro sostegno al regime sionista?

Shaheryar Ali Khawaja

23 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Il governo statunitense afferma di essere un campione di democrazia e diritti umani ed è sempre pronto a portare l’attenzione su atti efferati di discriminazione compiuti nel mondo. Tuttavia quando si tratta di denunciare i crimini di Israele e consegnarlo alla giustizia per le sue atrocità Washington è paralizzata e ammutolita. Per molti analisti tale doppiezza è incomprensibile, tenendo conto che Israele è totalmente dipendente dagli Stati Uniti non solo per le attrezzature militari e la tecnologia, ma anche per estrarre un enorme ammontare di aiuti economici per finanziare il suo deficit di bilancio e i crimini di guerra.

Perché, nonostante la dipendenza dagli USA, il regime israeliano è totalmente indifferente alle preoccupazioni degli statunitensi? Come può sentirsi autorizzato a dire agli Stati Uniti di farsi i fatti loro e ignorare le preoccupazioni riguardanti il massacro su larga scala dei civili palestinesi?

Per rispondere a tali interrogativi dobbiamo considerare il fatto che gli Stati Uniti non sono in realtà una vera democrazia: sono una plutocrazia, una dollaro-democrazia in cui i candidati alle cariche pubbliche fanno notevole affidamento su finanziamenti per le loro campagne elettorali. È qui che entrano in gioco gruppi lobbistici filorisraeliani come l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) nel ruolo di grandi finanziatori che praticamente comprano la lealtà dei politici americani, che a loro volta sono quindi compromessi e facilmente manipolabili. Qualsiasi proposta governativa che l’AIPAC consideri sfavorevole alle posizioni israeliane ha poche possibilità di diventare legge. Inoltre a Israele è concesso un trattamento speciale, per esempio, come abbiamo visto recentemente, per evitare le conseguenze delle leggi esistenti sui diritti umani concernenti le forniture di armi.

Inoltre gli Stati Uniti hanno un’ampia base di elettori cristiani evangelici che spinge i politici ad appoggiare le imprevedibili azioni di Israele indipendentemente da quanto serie e complicate possano essere le conseguenze. Questi cristiani credono che la sopravvivenza di Israele sia fondamentale per la seconda venuta di Gesù e l’Apocalisse. La loro pressione sui politici americani fa sì che siano alleati con Israele; persino la minima simpatia per la causa palestinese è proibita.

Mentre il governo de facto in Yemen impone le proprie sanzioni contro Israele in solidarietà con i palestinesi che affrontano il genocidio a Gaza, e prende di mira la navigazione nel Mar Rosso se connessa in qualche modo con lo stato di occupazione, gli USA, invece di cercare di fermare il genocidio, riuniscono una coalizione navale internazionale per attaccare lo Yemen. Proteggere i commerci israeliani piuttosto che le vite palestinesi è un altro esempio lampante e spregevole dell’atteggiamento sottomesso di Washington verso Israele. La posizione apparentemente predefinita degli USA di sacrificare risorse e personale per la sicurezza di Israele è totalmente incomprensibile, tenendo presente che Israele non ha mai mandato le sue truppe per proteggere i beni degli americani da nessuna parte del mondo. Al contrario, nel lontano 1967 Israele attaccò la nave da guerra americana Liberty al largo delle coste del Sinai egiziano, uccidendo 34 membri dell’equipaggio e ferendone altri 173. Nessuna iniziativa venne intrapresa contro lo Stato di occupazione e da allora i sopravvissuti all’attacco hanno sostenuto che ci sia stato un insabbiamento da parte delle successive amministrazioni statunitensi.

Un’altra grande ingiustizia da parte degli USA è stata l’uso del loro diritto di veto al Consiglio di Sicurezza ONU per proteggere Israele dalla condanna della comunità globale. L’ex presidente Richard Nixon ha detto nel suo libro Beyond Peace che dalla fine della guerra fredda Israele non ha nessun significativo valore strategico per gli interessi americani, il che rende la loro protezione ancora più irrazionale.

In tutta questa storia i politici americani sanno che in America possono contare su media filoisraeliani compiacenti. Noi abbiamo visto giornalisti e conduttori di notiziari ripetere varie volte la narrazione israeliana dell’“autodifesa”. A sua volta questo non solo incoraggia i politici americani, ma anche Israele stesso, nella sua brutale occupazione militare della Palestina. Chiunque si opponga ai politici filoisraeliani finirà massacrato da articoli nelle testate più importanti. La demonizzazione dei deputati Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Alexandria Ocasio-Cortez e altri ne è un esempio molto significativo.

E guardate cosa è successo al presidente George Bush Senior che, nonostante fosse sulla cresta dell’onda in quanto a popolarità dopo la guerra del Golfo del 1990-1991 contro l’Iraq, non riuscì a farsi rieleggere. Perché? Perché aveva negato a Israele delle garanzie sui prestiti per le sue colonie illegali nella Cisgiordania occupata. La lobby filoisraeliana si mobilitò contro di lui, cosa che gli costò il secondo mandato alla Casa Bianca.

Un altro esempio del costo dell’opporsi allo stato sionista fu quello pagato da Paul Findley, senatore dal 1960 al 1981. La sua posizione anti Israele alla fine gli costò il posto, come ha affermato nel suo libro They Dare To Speak Out.

La questione in gioco è la libertà per i politici americani di esercitare il proprio ruolo responsabilmente con la coscienza tranquilla e ritirare il loro supporto generalizzato a Israele e ritenerlo responsabile per la sua occupazione e la pulizia etnica della Palestina. Gli Stati Uniti hanno la forza di farlo con i propri aiuti militari e la copertura diplomatica all’ONU a favore di Israele. È ora che i politici americani di fronte al sionismo prendano il toro per le corna e, senza dubbio, salvino molte vite nelle guerre in Medio Oriente che mettono in pericolo tutto il mondo. Se lo faranno allora “Joe il genocida” alias il “macellaio Biden” lascerà un’eredità più onorevole che rendersi complice dell’omicidio di massa dei palestinesi, specialmente donne e bambini. Lo stesso vale per i politici di Regno Unito, Europa e altrove.

Il mondo ricorda e onora individui come Nelson Mandela molto di più che i presidenti americani che hanno sostenuto uno Stato fondato sul terrorismo, che ha ucciso e oppresso i palestinesi per oltre 75 anni. Questo sostegno indiscusso all’apartheid nello Stato di Israele non è solo costato agli USA miliardi di dollari, ma anche la reputazione internazionale. È ora di mollare il parassitario Israele prima che distrugga completamente gli ideali e le fondamenta su cui è stata costruita l’America.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli Stati del movimento dei non allineati criticano l’aggressione israeliana e chiedono il cessate il fuoco a Gaza

Redazione di Middle East Monitor

21 gennaio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Anadolu riferisce che il diciannovesimo vertice degli Stati membri del movimento dei non allineati [Non-Aligned Movement] (NAM)] è terminato sabato notte e ha rilasciato la dichiarazione di Kampala, in cui critica l’aggressione militare israeliana e chiede l’implementazione della risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU per permettere l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata.

La dichiarazione di 47 articoli “condanna fortemente l’illegale aggressione militare israeliana contro la Striscia di Gaza, gli attacchi indiscriminati contro i civili palestinesi e obiettivi civili, la deportazione forzata della popolazione palestinese e inoltre chiede un immediato e durevole cessate il fuoco umanitario.”

Il vertice ha ribadito la necessità di un sostanziale e urgente progresso che deve essere compiuto verso la fine dell’occupazione israeliana, incluso il raggiungimento dell’indipendenza e sovranità dello Stato di Palestina con Gerusalemme Est come sua capitale per ottenere una soluzione a due Stati sulla base dei confini precedenti al 1967 e ha ribadito il [suo] supporto affinché lo Stato di Palestina sia ammesso come Stato membro delle Nazioni Unite per ottenere il giusto posto nella comunità delle Nazioni.

La dichiarazione di Kampala “condanna tutte le misure prese da Israele, il potere occupante, per modificare lo stato legale, fisico e demografico delle Alture del Golan siriano occupate, e chiede ancora una volta che Israele ottemperi alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU attinenti alla questione e si ritiri completamente dal Golan siriano entro i confini del 4 giugno 1967.”

La dichiarazione inoltre “condanna la storica ingiustizia contro l’Africa e esprime il supporto per una maggiore presenza dell’Africa in un Consiglio di Sicurezza riformato, supportando il tal modo la Posizione Comune Africana che si rispecchia nell’Ezulwini Consensus e nella Sirte Declaration.”

Il diciannovesimo vertice NAM si è tenuto in Uganda, dove il presidente Yoweri Museveni ha ufficialmente assunto la presidenza di tale vertice e del movimento per i prossimi tre anni.

Il vertice si è inoltre impegnato a sostenere e promuovere il rispetto della carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, specialmente riguardo ai principi di sovranità, parità nel diritto alla sovranità, integrità territoriale, non-interferenza e composizione pacifica dei conflitti.

La dichiarazione condanna inoltre il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici della Corte Internazionale di Giustizia?

Muhammad Jamil

16 gennaio 2024, Middle East Monitor

Nessuna sentenza però, per quanto giusta, potrà mai ripristinare lo status quo precedente al 1948.

Nessuna causa legale potrà mai abbracciare tutti i dettagli del genocidio al quale il popolo palestinese è sottoposto da più di cento anni. Tutto ebbe inizio con la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917, seguita dalla tristemente nota era del mandato britannico, fino alla Nakba del 1948 e alla Naksa del 1967 [letteralmente “la ricaduta”, la seconda diaspora palestinese successiva alla guerra del 1967, ndt.]. Continua ancora oggi con gli eventi nella Striscia di Gaza assediata e bombardata, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme. Tuttavia, la comparizione di Israele, figlio coloniale e viziato dell’Occidente, per la prima volta davanti al più alto organo giudiziario internazionale come responsabile di almeno alcuni dei suoi crimini, è una vittoria contro l’impunità con cui gli è permesso di agire.

Le migliaia di palestinesi uccisi da Israele nel corso di molti decenni non torneranno mai più in vita; chi è stato reso disabile dovrà conviverci per il resto dei suoi giorni e la Striscia di Gaza avrà bisogno di molti anni, e di miliardi di dollari, per essere di nuovo abitabile.

La causa intentata dal Sudafrica il 29 dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur rappresentando un’anteprima storica, si è concentrata su quello che viene descritto da molti come il genocidio commesso da Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Il team legale sudafricano ha fornito una sintesi degli atti criminali di Israele punibili ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948.

La CIG ha aperto il dibattito l’11 gennaio per decidere se imporre o meno le misure provvisorie richieste dal Sudafrica prima di decidere sul genocidio vero e proprio. Il Sudafrica ha chiesto nove misure provvisorie, sostanzialmente la sospensione delle operazioni militari e la protezione dei civili dalle continue uccisioni, dagli abusi fisici e psicologici e dalle torture e il rifornimento di forniture mediche, cibo e carburante. Le questioni urgenti non possono essere rinviate fino a quando il caso non sarà concluso poiché potrebbero volerci anni, durante i quali Israele avrà completato la sua missione di espellere ogni palestinese dalla Striscia di Gaza.

L’approccio della CIG non richiede una decisione sulla giurisdizione della Corte in merito al contenuto della richiesta. È sufficiente che il Tribunale si assicuri di avere una giurisdizione apparentemente ragionevole, che i requisiti dell’articolo 9 della Convenzione sul Genocidio [che prevede che le controversie siano sottoposte alla Corte su richiesta di una delle parti, ndt.] siano applicati ad entrambe le parti in causa, e che esista una relazione tra le misure provvisorie e il diritto ad essere protetti.

Il primo requisito è soddisfatto poiché il Sud Africa e Israele hanno sottoscritto la Convenzione sul Genocidio e nessuno dei due ha una riserva valida sull’articolo 9, il quale prevede che la Corte Internazionale di Giustizia sia l’autorità che dirime qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione, applicazione, o attuazione delle sue disposizioni.

Quanto al secondo requisito, l’articolo 9 prevede che affinché possa essere stabilita la giurisdizione deve esserci una chiara controversia tra le due parti in causa riguardo all’interpretazione, applicazione o attuazione dell’accordo. La controversia deve essere risolta entro la data di registrazione della causa presso la cancelleria del tribunale.

Malcolm Shaw, membro della difesa israeliana, ha cercato di dimostrare che non esisterebbe una controversia tra lo Stato del Sud Africa e Israele, sostenendo che il Sud Africa non ha avviato una corrispondenza bilaterale con Israele esprimendo le sue preoccupazioni per gli atti commessi da Israele ottemperando così alle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

L’argomentazione di Shaw è debole e priva di fondamento, poiché lo Stato del Sud Africa ha svolto un ruolo pionieristico in testa a tutti i Paesi rivelando il profondo conflitto tra Sud Africa e Israele. Oltre alla corrispondenza bilaterale sugli atti di genocidio, ha rilasciato dichiarazioni in cui denunciava i crimini di Israele e ha ritirato i suoi diplomatici da Tel Aviv, dichiarando che non può essere consentito un genocidio sotto il naso della comunità internazionale.

Inoltre, il Sudafrica, insieme a molti altri paesi, ha deferito i crimini commessi alla Corte Penale Internazionale e si è unito ai molti tentativi del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fermare i crimini che Israele sta commettendo. Le risultanti risoluzioni delle Nazioni Unite sono state criticate da Israele che ha sostenuto che sarebbero piene di odio e antisemite.

Dunque la controversia tra le due parti in causa è stata stabilita sulla base del riferimento della Corte Internazionale di Giustizia alla sua decisione sulle misure provvisorie nel caso Ucraina-Russia e nel caso Gambia-Myanmar. La Corte non si è basata solo sulla corrispondenza bilaterale, ma anche su dati giornalistici e sull’azione dello Stato a tutti i livelli, individualmente o con altri paesi, che hanno evidenziato la violazione delle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

Nella causa sul genocidio dei Rohingya, intentata dal Gambia contro il Myanmar, l’attenzione della Corte si è concentrata sul valore morale che ha spinto gli Stati a ratificare la Convenzione sul Genocidio e sull’impegno collettivo degli Stati a prevenire il genocidio. Pertanto, non è necessario che lo Stato che intenta la causa sia direttamente interessato dai presunti atti di genocidio. A questo proposito, la Corte ha affermato che le pertinenti disposizioni della Convenzione sul Genocidio sono definite come obblighi erga omnes, nel senso che qualsiasi Stato sottoscrittore della Convenzione sul genocidio, non solo lo Stato particolarmente colpito, può invocare la responsabilità di un altro Stato sottoscrittore allo scopo di verificare la presunta inadempienza dei suoi obblighi nei confronti di tutti e di porre fine a tale inadempienza.

La Corte ha debitamente concluso che il Gambia aveva prima facie la legittimazione a denunciare il conflitto con il Myanmar sulla base di presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio.

Per quanto riguarda l’ultimo requisito, cioè il collegamento tra le nove misure provvisorie richieste dal Sudafrica con i diritti da tutelare, la Corte ha potuto riscontrare che la maggior parte di questi diritti, per la loro natura, sono strettamente legati alle misure provvisorie, in particolare la sospensione delle operazioni di combattimento e il contrasto a qualsiasi atto di genocidio. Logicamente ciò significa che per fermare le uccisioni, la distruzione, gli abusi fisici o psicologici dei membri del gruppo e gli sfollamenti, e consentire il flusso di tutti i tipi di aiuti, è necessario fermare l’azione militare.

Per quanto riguarda l’elemento intenzionale che costituisce il reato di genocidio, quando viene commesso uno qualsiasi degli atti criminalizzati dalla Convenzione sul genocidio “deve esserci una provata intenzione da parte degli autori di distruggere fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” in tutto o in parte – clausola nota come “intento speciale” che è solitamente difficile da dimostrare. Nei reati ordinari il pubblico ministero deve scavare nella mente del criminale e nelle circostanze del reato per indagare su di esso e dimostrare l’intento previsto dall’accusa.

Sebbene l’intento non sia un elemento importante da dimostrare in questa fase, il Sudafrica ha presentato decine di dichiarazioni di personale militare, ministri e primo ministro israeliani dimostrando la loro tenacia e determinazione nel commettere il crimine di genocidio, rafforzato dalla massiccia quantità di omicidi e distruzione.

Shaw ha cercato piuttosto banalmente di dare poca importanza a queste affermazioni e ne ha data una diversa interpretazione. Tuttavia le azioni, le parole che le hanno supportate e le loro conseguenze dimostrano l’intenzione di Israele di commettere il genocidio.

In generale, quando la Corte considera i fatti e le prove supportati da schiaccianti statistiche, immagini, video e resoconti internazionali, si sentirà titolata rispetto all’esistenza di una sua giurisdizione di principio che le consenta di imporre misure preventive, e la Corte ne garantirà l’attuazione attraverso le misure che impone. Ciò include l’obbligo per Israele di presentare un rapporto entro una settimana dalla data della sentenza in cui spieghi quali azioni ha intrapreso per attuare quelle misure, e poi di presentare rapporti periodici entro un periodo specificato (ad esempio ogni tre mesi) per tutta la durata dell’udienza della causa originale.

Gli argomenti presentati dalla difesa israeliana ignorano e negano i fatti sul campo. Si è trattato semplicemente di una ripetizione delle falsità che abbiamo sentito durante gli oltre 100 giorni di offensiva militare israeliana contro i palestinesi a Gaza. I civili palestinesi e le infrastrutture civili sarebbero tutti militarizzati, compresi ospedali, luoghi di culto, scuole dell’UNRWA e giornalisti. Questo incolpare le vittime dell’aggressione israeliana sostanzialmente contraddice il fatto che la maggior parte dei palestinesi uccisi e feriti da Israele sono bambini e donne. Anche solo questo suggerisce con forza l’esistenza di un piano di sterminio in cui i civili vengono presi di mira deliberatamente.

Sarebbe sufficiente che i giudici valutassero i fatti a loro presentati e verificassero la presenza dei tre requisiti necessari per respingere le richieste di Israele di cancellare il caso dagli atti pubblici e per sostenere l’imposizione di tutte o della maggior parte delle misure provvisorie. Ciò accadrebbe solo se le misure dell’intesa fossero in teoria implementate e se i giudici agissero in modo indipendente senza alcuna influenza da parte dei rispettivi governi – che nominano i giudici della Corte Internazionale di Giustizia – qualunque sia la loro posizione. In altre parole, saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici?

Resta anche la questione se Israele attuerà la decisione dei giudici se andasse contro gli interessi percepiti dello Stato sionista. Che Israele sia comparso davanti alla Corte e abbia presentato la sua difesa significa che ha riconosciuto l’autorità della Corte Internazionale di Giustizia ed espresso la propria volontà di attenersi alla sua decisione. Per esperienza, però, sappiamo che Israele è abile nell’eludere e manipolare tali decisioni. Non ha remore a violare il diritto internazionale e a trattarlo con disprezzo.

Sembra che coloro che hanno sostenuto Israele nella sua offensiva genocida continueranno a farlo. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno criticato la denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che nella causa la Germania starà dalla parte di Israele. Non sarebbe sorprendente se gli Stati Uniti e il Regno Unito si unissero alla difesa di Israele. Un simile passo aumenterebbe il numero degli imputati responsabili di aver commesso il genocidio, poiché se il genocidio fosse dimostrato questi paesi sarebbero considerati complici.

Altri paesi potrebbero ora essere spinti ad unirsi al Sudafrica e presentare richieste che obblighino gli alleati di Israele a cessare il loro sostegno al genocidio. La Namibia lo ha già fatto, vittima del primo genocidio del XX secolo commesso dalla Germania nel 1904.

La storia verrebbe riscritta per far luce sull’eredità coloniale degli Stati Uniti e dell’Europa, in cui il genocidio delle popolazioni indigene ha avuto un ruolo di rilievo e le cui prove sono schiaccianti e non possono essere negate.

Vorrei esortare tutti i paesi a capire che hanno il dovere di sostenere la causa del Sudafrica con tutti i mezzi possibili. Gli Stati sottoscrittori della Convenzione sulla Prevenzione del Genocidio che non hanno una riserva sull’articolo 9 devono unirsi alla causa per ampliarne la portata e includere tutti i territori palestinesi occupati, poiché anche i crimini commessi dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme devono essere affrontati in base alla Convenzione sul Genocidio.

La priorità, tuttavia, resta quella di fermare con ogni mezzo la barbara aggressione di Israele. Dopo più di 100 giorni, non è più accettabile che 152 paesi dell’ONU siano incapaci di fare qualcosa per affrontare e fermare Israele e i suoi alleati. I Paesi arabi e islamici possono guidare questi tentativi e esserne referenti per salvare ciò che resta della Striscia di Gaza, ma devono smettere di temerne le conseguenze e abbandonare la propria debolezza. Solo allora ci riusciranno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Trasferimento forzato, ‘imperativo morale’ e disprezzo coloniale

Ramona Wadi

26 dicembre 2023 Middle East Monitor

Due editoriali usciti il giorno di Natale, uno del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pubblicato sul Wall Street Journal e l’altro di Joel Roskin, geologo e geografo all’Università Bar-Ilan, apparso sul Jerusalem Post, puntano entrambi verso la pulizia etnica dei palestinesi di Gaza. Solo che la retorica di Netanyahu, non i suoi ordini, lo fa in modo leggermente meno indelicato, per compiacere l’Occidente della cui approvazione ha bisogno per distruggere completamente Gaza.

Netanyahu elenca tre prerequisiti per la “pace” e non cita gli ostaggi israeliani che restano a Gaza sotto la minaccia di essere uccisi dai bombardamenti dell’IDF. “Hamas deve essere distrutto, Gaza deve essere demilitarizzata e la società palestinese deve essere deradicalizzata.” Naturalmente Netanyahu ha bisogno della complicità internazionale e insiste che la comunità internazionale “dovrebbe incolpare Hamas per le massicce perdite civili della guerra in corso”. No, non deve. Israele sta bombardando Gaza con il pretesto di eliminare Hamas per effettuare una campagna di pulizia etnica totale contro il popolo palestinese.

Tuttavia la comunità internazionale non ha fatto altro che mercanteggiare sulle pause umanitarie e gli aiuti umanitari. Nel frattempo, a porte chiuse, il piano di Netanyahu per i palestinesi di Gaza è la “migrazione volontaria” – l’eufemismo di Israele per il trasferimento forzato, vietato dal diritto internazionale, che la comunità internazionale ha normalizzato a favore di Israele nel corso della Nakba del 1948.

Queste notizie non sorprendono, dato che il ministero israeliana dell’Intelligence ritiene che il trasferimento forzato sia l’opzione preferita, e che lo scorso novembre il parlamentare del Likud Danny Danon ha promosso la violazione del diritto internazionale a “imperativo morale” per i Paesi occidentali. Se l’Occidente probabilmente non solleverà che poche obiezioni o nessuna ai piani israeliani di trasferimento forzato, non esiste alcun imperativo morale nell’assecondare la pulizia etnica. Il problema è che la comunità internazionale non ha l’imperativo morale per fermare permanentemente la violenza coloniale israeliana perché la sua complicità è a mala pena distinguibile dalle attuali azioni di Israele.

L’editoriale di Roskin gronda odio, arroganza e ricatto, e ignora completamente la realtà politica di Gaza, incluso il rifiuto della comunità internazionale di accettare i risultati elettorali del 2006 e di avviare un dialogo con Hamas. L’Egitto, scrive Roskin, sarebbe “accolto dalla comunità internazionale quale salvatore della disperata situazione dei gazawi” se accettasse di essere complice dei piani israeliani di pulizia etnica. Roskin considera la Penisola del Sinai il luogo ideale per il “reinsediamento” dei palestinesi cacciati da Gaza dalla campagna di bombardamenti israeliani. Chiamare i trasferimenti forzati “sinceri programmi di reinserimento”, afferma Roskin, “L’obliterazione di Hamas in corso, che terrorizza i funzionari dell’Autorità Palestinese e molti abitanti di Gaza, potrebbe spianare la strada comparsa della soluzione del Sinai prospettata, se presentata in modo accorto e discreto che sia conforme alla mentalità mediorientale.”

Tutte queste parole ostili non rivelano altro che disprezzo coloniale per la popolazione indigena palestinese. I palestinesi non sarebbero forse abbastanza maturi da formare il proprio percorso politico se avessero la possibilità di farlo, invece di diventare rifugiati perpetui secondo il paradigma umanitario, tutto a beneficio di Israele? Se i palestinesi di Gaza non possono ritornare alle proprie terre e sono trasferiti a forza con la completa benedizione della comunità internazionale, Gaza potrebbe essere persa, ma non si vedrà la fine della lotta anticolonialista palestinese.

Un popolo che ricorda non può perdersi, non se sa che il colonialismo è reversibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Meta accusata di ‘censura sistematica’ di contenuti filo-palestinesi

Redazione di Middle East Monitor

21 dicembre 2023 – Middle East Monitor

Martedì l’organismo di vigilanza di Meta ha dichiarato che il gigante dei social media, precedentemente noto come Facebook, ha commesso un errore nel rimuovere due video raffiguranti ostaggi e vittime provocati dal massacro militare israeliano contro i palestinesi di Gaza. La decisione è conseguente al fatto che Meta è accusata da Human Right Watch di “censura sistematica di contenuti palestinesi.”

Uno dei casi vede coinvolto un video Instagram che raffigura le conseguenze di un attacco aereo vicino all’ospedale Al-Shifa di Gaza, mostrando minori feriti e uccisi. Un altro video che si dice sia circolato è un filmato Facebook dell’attacco del 7 ottobre, che rappresenta una donna israeliana che implora i suoi rapitori di non farle del male mentre viene presa come ostaggio. L’organismo di vigilanza ha ritenuto che questi video fossero cruciali per “informare il mondo riguardo la sofferenza umana da entrambe le parti.” Tuttavia i sistemi di moderazione automatica di Meta inizialmente hanno rimosso i contenuti.

Sulla base della selezione della revisione dell’organismo di vigilanza, Meta è tornata sui suoi passi in entrambi i casi, ripristinando i video con un avviso prima della visualizzazione. Mentre l’organismo di controllo ha approvato il ripristino dei contenuti, ha espresso disaccordo sulla decisione di Meta di evitare che i video siano raccomandati agli utenti. In una dichiarazione l’organismo di controllo ha sollecitato Meta a rispondere più tempestivamente al cambiamento di circostanze sul terreno, sottolineando il delicato equilibrio tra l’importanza di dare voce alle persone e della sicurezza.

Mentre i due casi sono relativi ad entrambe le parti, le misure restrittive di Meta sui contenuti filo-palestinesi sono su su un livello diverso, dato che sono assoggettati ad una “censura sistematica”, secondo un nuovo rapporto rilasciato oggi da Human Right Watch.

L’organizzazione per i diritti umani documenta come il gigante dei social media Meta ha progressivamente ristretto il discorso in rete relativo alla Palestina sulle piattaforme come Facebook e Instagram. Nell’analisi si trovano più di 1.050 casi in cui il contenuto è stato rimosso, gli account sospesi, ha avuto luogo l’oscuramento e hanno avuto luogo altre forme di censura, tutte contro voci filo-palestinesi.

Secondo Debora Brown, la direttrice associata per la tecnologia e i diritti umani di Human Right Watch, queste restrizioni significano aggiungere “danno alla beffa in un periodo di indicibili atrocità e di una repressione che sta già soffocando l’espressione dei palestinesi.” Il rapporto sostiene che in mezzo ad attacchi devastanti a Gaza, in cui gli israeliani hanno ucciso oltre 20.000 civili, molti dei quali minori e donne, le misure restrittive di Meta servono ad “appoggiare la cancellazione della sofferenza dei palestinesi.”

Human Right Watch ha documentato quello che chiama un modello di cancellazione indebita e soppressione di un discorso protetto, che include espressioni di pace a supporto della Palestina e un dibattito pubblico riguardo ai diritti umani dei palestinesi. Il rapporto indica che il problema deriva da erronee politiche di Meta e dalla loro contraddittoria e sbagliata implementazione, da dipendenza eccessiva da strumenti automatici per moderare i contenuti e da una indebita influenza governativa sulla rimozione di contenuti.

Meta dovrebbe consentire di esprimere sulle sue piattaforme discorsi protetti, anche sulle violazioni dei diritti umani e dei movimenti politici, ha affermato Human Right Watch. L’azienda dovrebbe cominciare a rivedere le sue politiche riguardo a “organizzazioni e individui pericolosi” per adeguarle agli standard internazionali per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)