Sostenere la Palestina: come combattere l’uso improprio di “anti-semitismo” da parte di Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2020 – Middle East Monitor

In un discorso tenuto nel nord dell’Inghilterra nel marzo 2018, ho proposto che la migliore risposta alle false accuse di antisemitismo, che spesso vengono scagliate contro comunità e intellettuali pro-palestinesi di tutto il mondo, fosse quella di avvicinarsi ancora di più alla narrazione palestinese.

In effetti, la mia proposta non voleva essere in alcun modo una risposta dettata dal sentimento.

“La rivendicazione della narrazione palestinese” è stato negli ultimi anni il filo conduttore nella maggior parte dei miei discorsi pubblici e dei miei scritti. Tutti i miei libri e gran parte dei miei studi e delle ricerche accademiche si sono fortemente concentrati sulle posizioni del popolo palestinese – i suoi diritti, la storia, la cultura e le aspirazioni politiche – al centro di ogni vera comprensione della lotta palestinese contro il colonialismo e l’apartheid israeliani.

È vero, non c’era nulla di particolarmente originale nel mio discorso nell’Inghilterra settentrionale. Avevo già tenuto una versione di quel discorso in altre parti del Regno Unito, in Europa e altrove. Ma ciò che ha reso memorabile quell’evento è una conversazione che ho avuto con un appassionato attivista, che si è presentato come consigliere dell’ufficio del capo del Partito laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Sebbene l’attivista fosse d’accordo con me sulla necessità di sostenere la narrazione palestinese, ha insistito sul fatto che il modo migliore per Corbyn di allontanare le accuse antisemite, che hanno perseguitato la sua leadership fin dal primo giorno, è che il partito Laburista emettesse una condanna radicale e decisiva dell’antisemitismo, in modo che Corbyn potesse mettere a tacere i suoi critici e fosse finalmente in grado di concentrarsi sul tema impellente dei diritti dei palestinesi.

Io ero dubbioso. Ho spiegato all’acceso attivista molto sicuro di sé che la manipolazione sionista e l’uso improprio dell’antisemitismo sono dei fenomeni che hanno preceduto Corbyn di molti decenni e che saranno sempre presenti finché il governo israeliano avrà la necessità di distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i palestinesi e di reprimere la solidarietà filo-palestinese in tutto il mondo.

Gli ho spiegato che, mentre il razzismo anti-ebraico è un fenomeno reale che deve essere affrontato, l’ “antisemitismo”, come definito da Israele e dai suoi alleati sionisti, non è una questione morale che debba essere risolta con un comunicato stampa, non importa quanto incisivo. Piuttosto è una cortina di fumo, con l’obiettivo finale di distrarre dalla vera questione, che è il crimine dell’ occupazione militare, del razzismo e dell’apartheid in Palestina.

In altre parole, nessuna mole di parole, discussioni o autodifese può verosimilmente convincere i sionisti che le richieste della fine dell’occupazione militare israeliana in Palestina o dello smantellamento del regime di apartheid israeliano o qualsiasi critica aperta alle politiche del governo della destra israeliana non siano, in effetti, atti di antisemitismo.

Ahimè, l’attivista insisteva sul fatto che una solida dichiarazione che chiarisse la posizione del partito Laburista sull’antisemitismo avrebbe finalmente assolto Corbyn e protetto la sua eredità contro la macchia immeritata.

Il resto è storia. Il partito Laburista è andato a caccia delle streghe per individuare i “veri” antisemiti tra i suoi membri. L’ epurazione senza precedenti ha colpito molte brave persone che hanno dedicato anni al servizio delle loro comunità e alla difesa dei diritti umani in Palestina e altrove.

La dichiarazione per porre fine a tutte le dichiarazioni è stata seguita da molte altre. Numerosi articoli sono stati scritti e discussioni sono state fatte in difesa di Corbyn – senza risultati. Solo pochi giorni prima che i laburisti perdessero le elezioni generali a dicembre il Simon Wiesenthal Centre [Centro Simon Wiestenthal, ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti. Fondata nel 1977 per combattere l’antisemitismo, si propone di difendere i diritti umani “affrontando l’antisemitismo, l’odio e il terrorismo, promuovendo i diritti umani e la dignità, stando a fianco di Israele, difendendo gli ebrei in tutto il mondo e insegnando le lezioni dell’Olocausto per le future generazioni”, ndtr.] ha proclamato Corbyn, uno dei leader più sinceri e ben intenzionati della Gran Bretagna nell’era contemporanea, il “maggiore antisemita del 2019″. Questo a proposito dell’impegno dei sionisti.

Non importa se il partito di Corbyn abbia perso le elezioni in parte a causa delle diffamazioni sioniste e accuse infondate di antisemitismo. Ciò che conta davvero per me come intellettuale palestinese che ha sperato che la leadership di Corbyn potesse costituire un cambiamento di paradigma riguardo l’atteggiamento del paese nei confronti di Israele e Palestina, è il fatto che i sionisti siano effettivamente riusciti a mantenere il dibattito focalizzato sulle priorità israeliane e sulle sensibilità sioniste. Mi rattrista il fatto che, mentre la Palestina avrebbe dovuto occupare il centro della scena, almeno durante gli anni della leadership di Corbyn, sia rimasta in realtà marginale, denotando ancora una volta come la solidarietà con la Palestina sia diventata un ostacolo politico per chiunque speri di vincere un’elezione – nel Regno Unito e ovunque in Occidente.

Trovo sconcertante, anzi inquietante, che Israele, direttamente o meno, sia in grado di determinare la natura di qualsiasi discussione sulla Palestina in Occidente, non solo all’interno delle tipiche piattaforme tradizionali, ma anche dei circoli filo-palestinesi. Ad esempio, ho ascoltato ripetutamente attivisti che si chiedevano se la soluzione dello Stato unico fosse mai possibile, per il fatto che “Israele semplicemente non l’accetterebbe mai”.

Sfido spesso il mio pubblico a fondare la loro solidarietà con la Palestina sull’ amore, sul sostegno e sull’ammirazione reali per il popolo palestinese, per la sua storia, per la sua lotta anti-colonialista e per le migliaia di eroi ed eroine che hanno sacrificato la propria vita perché il loro popolo possa vivere in libertà.

Quanti di noi sanno fare i nomi dei migliori poeti, artisti, femministe, calciatori, cantanti e storici della Palestina? Che reale familiarità possediamo con la geografia palestinese, con le complessità della sua politica e con la ricchezza della sua cultura?

Anche all’interno di piattaforme che sono solidali con la lotta palestinese, c’è una paura intrinseca che tale simpatia possa essere fraintesa come antisemitismo, fino al punto che le voci palestinesi vengono spesso trascurate, se non completamente sostituite da voci ebraiche antisioniste. Vedo che ciò accade abbastanza spesso anche nei media mediorientali che si presume sostengano la causa palestinese.

Questo fenomeno è in gran parte collegato alla Palestina e solo alla Palestina. Mentre la lotta anti-apartheid in Sudafrica e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – come nel caso di molti autentici movimenti di liberazione anti-coloniale nel mondo – hanno utilizzato strategicamente l’intersezionalità per collegarsi con altri gruppi, a livello locale, nazionale o internazionale, i movimenti in sé si reggevano su voci nere come realmente rappresentative delle lotte dei loro popoli.

Storicamente i palestinesi non sono sempre stati emarginati all’interno del loro stesso discorso. Una volta l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [Fondata a Gerusalemme nel 1964 con l’obiettivo di liberare la Palestina, nel 1993 ha riconosciuto lo Stato di Israele. Attualmente gode dello status permanente di “osservatore” presso l’Assemblea generale dell’ONU, ndtr.] nonostante le sue numerose carenze, indicava una posizione politica unitaria palestinese che serviva da cartina di tornasole per qualsiasi individuo, gruppo o governo in merito alla sua posizione sui diritti e sulla libertà dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo hanno posto fine a tutto ciò – hanno frammentato il discorso palestinese così come hanno diviso il popolo palestinese. Da allora, il messaggio proveniente dalla Palestina è diventato confuso, frazionato e spesso autolesionistico. Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha fatto un lavoro straordinario nel portare un po’ di chiarezza nel tentativo di articolare un discorso palestinese universale.

Tuttavia, il BDS deve ancora proporre una strategia politica centralizzata che venga trasmessa attraverso un organo palestinese eletto democraticamente. Finché l’OLP persisterà nella sua inerzia e con l’assenza di un’alternativa veramente democratica, è probabile che la crisi del discorso politico palestinese continui.

Allo stesso tempo, ai sionisti non deve essere permesso di determinare la natura della nostra solidarietà con il popolo palestinese. Mentre la vera solidarietà palestinese richiede il completo rifiuto di tutte le forme di razzismo, incluso l’antisemitismo, il campo filoisraeliano deve essere completamente escluso da qualsiasi conversazione relativa ai valori e alla moralità di ciò che significa essere “pro-Palestina”.

L’ essere anti-sionisti non è sempre lo stesso dell’essere pro-Palestina, in quanto il primo [atteggiamento] deriva dal rifiuto delle idee razziste e sioniste e il secondo implica una reale connessione e un legame con la Palestina e il suo popolo.

Essere pro-Palestina significa anche rispettare la centralità della voce palestinese, perché senza la narrazione palestinese non può esserci solidarietà reale e significativa, e anche perché, alla fine, saranno palestinesi stessi a liberarsi.

“Non sono un liberatore”, ha detto il leggendario rivoluzionario sudamericano Ernesto Che Guevara. “I liberatori non esistono. Le persone si liberano da sole”.

Perché i palestinesi “si liberino” dovranno rivendicare la loro centralità nella lotta per i diritti dei palestinesi ovunque, per esprimere chiaramente il proprio discorso e per essere i fautori della propria libertà. Nient’altro sarà sufficiente.

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il sionismo fa affidamento sul suprematismo bianco

Asa Winstanley

20 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Un obiettivo strategico a lungo termine del movimento sionista è stato quello di fomentare il settarismo in Palestina e in tutta l’area. È un classico trucco delle strategie imperialiste: dividi e governa.

Ciò ha ovviamente avuto in una certa misura successo. La falsa divisione della regione in “arabi contro ebrei” è stato un importante risultato del movimento colonialista di insediamento sionista. La realtà, tuttavia, è che, fino alla nascita del movimento sionista, in Palestina come in altri Paesi del mondo arabo gli ebrei di lingua araba hanno vissuto quasi sempre in pace con i loro vicini musulmani e cristiani.

Il sionismo è sempre stato un movimento razzista, colonialista, che si affida all’aiuto del suprematismo bianco occidentale (e quindi dell’antisemitismo) per avere successo. Il movimento sionista tedesco, per esempio, andò incontro ad un fallimento quasi totale nel [tentativo di] persuadere gli ebrei tedeschi a lasciare il loro Paese d’origine e trasferirsi in Palestina come coloni sionisti. Questo storia di insuccessi subì una inversione quando il movimento sionista in Germania iniziò a ricevere il sostegno dello Stato. Esso in effetti collaborò negli anni ’30 con il regime nazista di Hitler .

In seguito alla presa del potere dei nazisti nel 1933, il governo tedesco ferocemente antisemita fece dell’emigrazione ebraica una delle sue massime priorità. Inizialmente ciò non venne compiuto attraverso le deportazioni forzate, che giunsero più tardi. L’ eliminazione fisica degli ebrei europei nei campi di sterminio nazisti durante l’Olocausto iniziò nel 1941.

È un fatto storico ben documentato (anche se a volte tabù) che negli anni ’30 il movimento sionista si unì al governo nazista per dare alla popolazione ebraica tedesca una serie di incentivi perché lasciasse la Germania e andasse in Palestina. Il più noto di questi incentivi fu l’accordo di trasferimento, o Haavara. In base a questo accordo, gli ebrei tedeschi che accettavano di lasciare il loro Paese potevano recuperare una parte del proprio patrimonio finanziario sotto forma di proventi dalla vendita di prodotti tedeschi, ma solo dopo aver raggiunto la Palestina [accordo di Haavara (trasferimento) del 1933, siglato tra Hitler e i movimenti sionisti, grazie al quale gli ebrei forzatamente emigrati in Palestinaavrebbero recuperato almeno in parte le somme lasciate in Germania grazie all’esportazione di prodotti tedeschi destinati alle comunità ebraiche già insediate nel Mandato britannico”, ndtr.].

Ma si andò oltre l’accordo di trasferimento. Dozzine di centri di riqualificazione o di “rieducazione” vennero istituiti in tutta la Germania per preparare i partecipanti alla loro nuova vita da coloni in Palestina. Questi centri erano gestiti dall’ala giovanile della Federazione sionista tedesca ed erano anche tenuti sotto stretto controllo nazista dalla notoriamente antisemita Schutzstaffel, le SS.

La propaganda sionista (consentita e persino incoraggiata dai nazisti) affermava che gli ebrei tedeschi non erano realmente tedeschi, ma erano solo ebrei che vivevano in Germania. Ciò si sposava perfettamente con la propaganda nazista velenosamente antisemita. I nazisti spogliarono sistematicamente tutti gli ebrei dei loro diritti, spingendoli a lasciare la Germania. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, gli sforzi nazisti per rimuovere gli ebrei tedeschi dalla Germania e inviarli in Palestina continuarono con la collusione attiva dei gruppi sionisti. Le SS furono persino coinvolte in alcuni tentativi di condurre illegalmente ebrei dall’Europa in Palestina sotto il naso delle autorità di occupazione del Mandato Britannico [in base agli accordi Sykes-Picot del 1916, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, il Regno Unito governò sulla Palestina dal 1920 e il 1948, ndtr.].

Le leggi antisemite di Norimberga dei nazisti nel 1935 perseguitarono in diversi modi gli ebrei tedeschi e li privarono del diritto di voto. Ai sensi dell’articolo 4 di tale ordinamento legislativo, tuttavia, l’unica bandiera che gli ebrei erano autorizzati a sventolare era [quella con] “i colori ebraici”; la stessa bandiera divenne in seguito la bandiera nazionale di Israele [la bandiera israeliana ha due strisce blu con una stella di David blu su uno sfondo bianco, ndtr.].

Un’altra fonte del suprematismo bianco su cui il sionismo fece affidamento per il sostegno finanziario, logistico e politico fu quella avvalorata dall’Impero britannico. Per 31 anni, a partire dal 1917, la Gran Bretagna occupò militarmente la Palestina, sfidando la volontà della sua popolazione originaria, che voleva uno Stato democratico e non settario. Ancor prima di invadere con successo la Palestina, nel corso della prima guerra mondiale l’Impero britannico aveva già preso la decisione politica di consegnare la Palestina al movimento sionista.

La famigerata Dichiarazione di Balfour del governo britannico del 1917 decretò che la Palestina sarebbe diventata “il focolare nazionale per il popolo ebraico”, nonostante all’epoca soltanto una piccola minoranza della popolazione di quel Paese fosse ebrea. La stragrande maggioranza degli abitanti erano musulmani e cristiani di lingua araba.

L’impero britannico prese la sua decisione in parte per motivi di fanatismo religioso – il sionismo cristiano – e in parte per le solite ragioni geopolitiche nell’interesse dell’impero. La Palestina era considerata un importante crocevia internazionale, parte della rete di comunicazione e commercio britannico con i suoi possedimenti imperiali in India.

Ovviamente, il sostegno dell’impero al movimento sionista è diminuito ed è cessato nel corso degli anni, con l’avvio da parte delle milizie sioniste di una guerra aperta contro la Gran Bretagna nel periodo precedente al 1948 e la creazione dello Stato di Israele in Palestina. Questo faceva parte della loro guerra contro la popolazione palestinese nativa.

Tuttavia, la realtà essenziale della storia è che l’Impero britannico sostanzialmente consegnò la Palestina al movimento sionista a spese della popolazione autoctona. Come Lord Arthur Balfour stesso ammise in privato nel 1919: “In Palestina, non abbiamo nessuna intenzione di seguire una modalità di consultazione dei desideri degli attuali abitanti del Paese … Le quattro grandi potenze si affidano al sionismo e il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato nella tradizione millenaria, nei bisogni attuali, nelle speranze future con un’importanza molto più profonda dei desideri e dei pregiudizi di 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica ”.

Tale aperto razzismo era tipico dell’Impero britannico. E mostra perché Hitler non ebbe mai dei problemi con i territori d’oltremare sotto il controllo della Gran Bretagna. Cercò invece di persuadere il governo britannico ad accettare “sfere di influenza” reciprocamente vantaggiose, prima di tentare di imporle quando la Gran Bretagna rifiutò di accettare il dominio tedesco nell’Europa continentale.

Ovviamente oggi il movimento sionista si affida principalmente al sostegno dell’impero americano. L’ultima manifestazione di come esso faccia anche affidamento sul suprematismo bianco è data dall’amore aperto ed esplicito tra Israele e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante il suo aperto razzismo, compreso l’antisemitismo, così come dal corteggiamento del primo ministro Benjamin Netanyahu verso i governi di estrema destra in Europa e altrove. Il sionismo e lo Stato sionista di Israele fanno affidamento sul suprematismo bianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dalla benedizione alla maledizione: come la Risoluzione dell’ONU 2334 ha accelerato la colonizzazione della Cisgiordania

Ramzy Baroud

17 dicembre 2019Middle East Monitor

Tre anni fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2334. Con 14 voti a favore ed un’astensione, la risoluzione è stata come un terremoto politico. Certamente è stata la prima volta in molti anni che l’istituzione internazionale ha condannato esplicitamente Israele per le sue politiche di colonizzazione illegale nei Territori Palestinesi Occupati. A differenza dei precedenti tentativi di imputare ad Israele le sue responsabilità, questa volta gli americani non hanno fatto nulla per proteggere il loro più stretto alleato.

Tuttavia ciò che è accaduto da allora ha testimoniato il fallimento dell’ONU nel mettere in campo significativi meccanismi che possano costringere chi viola il diritto internazionale, come Israele, a rispettare il consenso internazionale. In qualche modo la 2334, pur sostenendo apparentemente i diritti dei palestinesi, si è trasformata in una delle più dannose decisioni mai adottate dall’istituzione internazionale.

Immediatamente dopo l’adozione della 2334 il 23 dicembre 2016, Israele si è fatto beffe del mondo intero annunciando per due volte nel mese di gennaio progetti di costruzione di migliaia di nuove case nelle colonie ebraiche illegali della Cisgiordania occupata.

All’epoca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora Ministro della Difesa Avigdor Lieberman hanno motivato la provocatoria iniziativa come “una risposta alle necessità abitative” all’interno delle colonie. Niente poteva essere più lontano dalla verità, come hanno dimostrato i successivi tre anni.

Ora è risultato evidente che l’espansione delle colonie faceva parte di una più ampia strategia volta ad eliminare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese contiguo e praticabile e a sbarrare la strada alla cosiddetta “formula terra in cambio di pace”, anch’essa tracciata in anni di mediazione americana e di “processo di pace”.

La strategia israeliana è stata un totale successo. Grazie alla mano libera concessa dall’amministrazione Trump alla coalizione di governo di destra in Israele, i politici israeliani adesso stanno apertamente progettando ciò che un tempo era quasi impensabile: l’annessione unilaterale di importanti blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania insieme a vaste aree della Valle del Giordano.

Negli ultimi tre anni Washington ha chiuso un occhio sui sinistri piani di Israele. Peggio ancora, ha abbracciato in pieno e avallato il discorso politico israeliano, prendendo al contempo tutte le misure necessarie a fornire una copertura alle azioni israeliane. La dichiarazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo del 18 novembre, secondo cui le colonie ebraiche “non violano il diritto internazionale” è solo una di tante posizioni analoghe adottate da Washington per spianare la strada alla sfrontatezza e alla violazione del diritto internazionale da parte di Israele.

Retrospettivamente, il Presidente Obama ha avuto l’opportunità di fare di più che non semplicemente astenersi dal votare contro una Risoluzione ONU – che comunque mancava di qualunque meccanismo di applicazione – usando il generoso aiuto finanziario USA ad Israele come carta di scambio. In quel modo avrebbe potuto potenzialmente costringere Netanyahu a congelare del tutto l’espansione delle colonie. Purtroppo Obama ha fatto l’esatto contrario, finanziando l’esercito israeliano e ogni guerra israeliana contro Gaza. Invece la sua mossa tardiva ha aperto la porta all’amministrazione Trump per scatenare una guerra crudele contro i palestinesi e anche contro il diritto internazionale.

Sembra che l’incarico biennale dell’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hailey, sia stato prevalentemente dedicato a rettificare il presunto “tradimento” dell’amministrazione Obama verso Israele. In nome della difesa di Israele contro un immaginario “antisemitismo” globale, gli Stati Uniti hanno rotto i loro rapporti con diverse organizzazioni dell’ONU, isolando alla fine la stessa Washington dal resto del mondo.

Con l’ONU considerata il nemico comune sia da Washington che da Tel Aviv, il diritto internazionale è stato reso irrilevante. Gradualmente il governo USA ha rafforzato il proprio scudo protettivo intorno a Israele, rendendo così insignificanti la Risoluzione 2334 e molte altre risoluzioni ONU. In altri termini, gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il consenso internazionale sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina in un’opportunità per Tel Aviv di disconoscere ogni impegno non solo nei confronti dell’ONU, ma anche della cosiddetta soluzione dei due Stati e del “processo di pace”.

Mentre Israele accelerava senza impedimenti i suoi progetti di colonizzazione, gli USA assicuravano che la leadership palestinese non avesse la possibilità di contrastarli, neanche simbolicamente, attraverso le varie istituzioni internazionali e le piattaforme politiche e legali disponibili. Questo è stato architettato attraverso sistematiche guerre economiche, che hanno visto il taglio di tutti gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito una settimana dopo dall’interruzione di tutti i finanziamenti all’agenzia dell’ONU responsabile dell’assistenza ai rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

La guerra di USA e Israele ai palestinesi è stata organizzata su due fronti. Uno si concentrava sull’accaparramento di ulteriore terra palestinese, sulla costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle esistenti, come premessa agli imminenti passi verso l’annessione della maggior parte della Cisgiordania. L’altro fronte riguardava l’incessante pressione dell’amministrazione USA sui palestinesi con mezzi politici e finanziari.

Tre anni dopo la Risoluzione 2334 ci troviamo con un nuovo status quo. Sono finiti i tempi del tradizionale “piano di pace” americano e del suo complementare elaborato discorso centrato sulla soluzione di due Stati ed altre fantasie. Adesso Israele sta formulando in proprio la sua “visione” per un futuro che è destinato a soddisfare le aspettative dell’instabile, e sempre più di destra, elettorato del Paese. Quanto agli USA, il loro ruolo è stato ridimensionato a quello di sostenitori, indifferenti a questioni così irrilevanti come il diritto internazionale, i diritti umani, la giustizia, la pace o persino la stabilità della regione.

Poco dopo essere stato nominato nuovo Ministro della Difesa israeliano il 9 novembre, Naftali Bennett ha preso la pericolosa e conseguente decisione di costruire una nuova colonia ebraica nella città palestinese occupata di Al-Khalil (Hebron). Naturalmente i coloni ebrei hanno esultato perché vedranno finalmente la demolizione del vecchio mercato di Hebron, che è più antico dello stesso Israele, e la possibilità di una nuova espansione coloniale e di ulteriori annessioni nella città.

Al tempo stesso i palestinesi rabbrividiscono, perché un’iniziativa contro Hebron è la prova finale che Israele ormai sta agendo in Palestina senza alcun timore di ripercussioni politiche o giuridiche. Non solo la Risoluzione 2334 non è riuscita a rendere Israele responsabile, ma in qualche modo ha facilitato una maggiore espansione israeliana in Cisgiordania, spianando la strada all’annessione che sicuramente ne seguirà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Lo scorso è stato il terzo venerdì consecutivo in cui nella Striscia di Gaza non ci si sono state le proteste della Grande Marcia del Ritorno e la Rottura dell’Assedio che, fino a questa interruzione, si erano svolte ogni settimana dal 30 marzo 2018.

Il Comitato per la Grande Marcia del Ritorno ha detto che lo scorso venerdì le proteste sono state annullate per motivi di sicurezza per non dare alle forze di occupazione israeliane l’opportunità di uccidere altri manifestanti. Questa è praticamente la stessa dichiarazione, parola per parola, che era stata rilasciata il venerdì precedente. Tutte le fazioni palestinesi che fanno parte del Comitato sostengono che le proteste avrebbero potuto ricominciare in qualsiasi momento se necessario.

Secondo un membro di Hamas, il movimento palestinese di resistenza islamica, che è la fazione più presente nelle proteste, il loro obiettivo principale è stato quasi raggiunto. “Guardate all’assedio imposto a Gaza” ha spiegato Khalil Al-Hayya “Israele ha aperto i varchi, ha annullato molte restrizioni commerciali, aumentato l’approvvigionamento elettrico, permesso gli scambi con l’Egitto, ha consentito che arrivassero i finanziamenti del Qatar, esteso la zona di pesca e molte altre cose.”

Ha aggiunto che, come conseguenza delle proteste che hanno dimostrato che Israele osteggia quella legittima rivendicazione, la questione del diritto al ritorno dei palestinesi è di nuovo all’ordine del giorno a livello internazionale. “Abbiamo anche raggiunto altri risultati, come il rafforzamento dell’unità nazionale che si è concretizzata con il Centro di coordinamento militare che include l’ala militare di tutte le fazioni palestinesi.”

Il periodo di calma relativa delle passate tre settimane fa pensare che le fazioni di Gaza vogliano un accordo con Israele grazie al quale i palestinesi possano godere di una certa stabilità economica e sociale. Si dice che i funzionari israeliani a ogni livello condividano questa idea.

La dirigenza di Hamas a Gaza, guidata da Yahya Sinwar, sta mostrando grande interesse nel raggiungere un accordo a lungo termine con Israele” ha scritto Amos Harel su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] l’altra settimana. “Lo Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] appoggia ampie misure di aiuto a Gaza in cambio di garanzie di pace … [ma] la decisione finale spetta ai politici.”

Harel sembrava temere che Israele possa perdere questa opportunità quando ha spiegato che i politici israeliani sono al momento “impelagati in una crisi legale e politica incentrata sui tre atti di accusa contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e anche sulle gravi difficoltà nel formare un nuovo governo.“La rapida conclusione delle ultime consultazioni durate due giorni (e durante le quali 36 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani), ha offerto a Israele la rara opportunità di fare dei progressi e forse di sfruttare la possibilità che era stata persa cinque anni fa dopo il conflitto del 2014.”

Sabato l’emittente israeliana Channel 12 ha dichiarato che il Ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] ha ordinato all’esercito israeliano di condurre uno studio di fattibilità per un porto su un’isola artificiale sulla costa di Gaza per facilitare i commerci dentro e fuori l’enclave. Secondo il Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] Bennett ha anche dato ordine al Capo di stato maggiore di effettuare uno studio di sicurezza per esaminare la possibilità di avere, sulla stessa isola, anche un aeroporto.

Questa idea è partita da Yisrael Katz [del partito di destra Likud, ndtr.] nel 2017, quando era Ministro dei Trasporti e dei Servizi Segreti, ma è stata osteggiata da altri ministri e non ha raggiunto il livello di discussioni governative. Oggi Katz è il Ministro degli Esteri israeliano e il Times of Israel ha riferito che ha detto di aver avuto il via libera per stabilire dei gruppi di lavoro congiunti fra il suo ministero, quello della Difesa e il Consiglio di Sicurezza Nazionale. “Per anni ho promosso l’iniziativa dell’isola galleggiante” ha twittato sabato. Ha sostenuto che questa è l’unica soluzione per Gaza.

Questa settimana ho incontrato il Ministro della Difesa Bennett che, a differenza del suo predecessore (Avigdor Lieberman [di un partito di estrema destra nazionalista, ndtr.] che era fra i ministri che si erano opposti all’idea nel 2017), ha dato il suo sostegno per promuovere l’iniziativa. Ho aggiornato il Primo Ministro Netanyahu e spero si possa iniziare presto.”

Il capogruppo di Fatah nel parlamento palestinese, Azzam Al-Ahmad, ha criticato l’idea del porto e dell’aeroporto e si è anche opposto a tutte le altre misure per alleggerire l’assedio imposto a Gaza da Israele, a meno che non siano coordinate dall’Autorità Nazionale Palestinese dominata dal suo partito. Se non ci fosse tale coordinamento, ha detto sabato ai media palestinesi, “si rafforzerebbe la divisione fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che sono le due parti del futuro Stato indipendente di Palestina.”

Rifqaa Abdul-Kader, una ricercatrice che vive a Gaza, ha criticato le affermazioni del funzionario di Fatah. “Ogni misura per migliorare la vita dei palestinesi a Gaza è ben accolta, inclusi un eventuale porto e aeroporto. L’ANP deve tacere quando ci sono informazioni su tali soluzioni.”

Parlando a MEMO, ha detto che la gente a Gaza è stata sottoposta a un duro assedio israeliano e ha subito molti attacchi dell’esercito israeliano con migliaia di morti e feriti. “Nessuno Stato o ente ufficiale al mondo, inclusa l’ANP, ha fatto qualcosa per aiutarli o per fermare le misure israeliane contro di loro” ha spiegato. “Invece di respingere le soluzioni per Gaza, l’ANP dovrebbe togliere le sanzioni imposte all’enclave assediata e pagare i salari a migliaia di dipendenti pubblici, pagare i costi amministrativi e operativi dei ministeri, inclusi i ministeri dell’Istruzione e della Salute, sbloccare i pagamenti annuali delle istituzioni educative a Gaza e accordarsi per indire le elezioni.”

Tuttavia Fawzi Mansour, un analista politico, insinua che Israele non ha delle “intenzioni innocenti” a proposito delle “possibili” misure relative ad alleggerire il blocco imposto a Gaza. “Tramite il porto e l’aeroporto Israele potrebbe progettare di rinforzare la completa separazione fra Gaza e la Cisgiordania” afferma.

Un risultato delle proteste della Grande Marcia del Ritorno che le fazioni palestinesi descrivono come una conquista è il futuro insediamento dell’ospedale americano nel nord della Striscia di Gaza. L’ospedale avrà due ingressi: uno per dare accesso dal lato israeliano del confine nominale, controllato dai servizi di sicurezza israeliani, e l’altro sul lato di Gaza, controllato dai servizi di sicurezza palestinesi del territorio.

Secondo Hussein Al-Sheikh, il Ministro degli Affari Civili dell’ANP, questo ospedale è “una base americana che verrà costruita a Gaza e Hamas non ha il diritto di raggiungere un accordo con nessuna delle parti in relazione all’insediamento di tale struttura.” Ha sostenuto che questa è una delle conseguenze negative delle proteste a Gaza. Invece Mai Kila, il Ministro della Salute dell’ANP, ha accettato che ci sia un ospedale ma ha detto che dovrebbe essere gestito dal suo ministero.

Hazim Qasim, il portavoce di Hamas, ha detto a MEMO che le affermazioni dell’ANP sono completamente false. L’ospedale non è stato accettato solo da Hamas, ha spiegato, ma da tutte le fazioni palestinesi. Ha aggiunto che le fazioni, e non solo Hamas, dirigeranno insieme l’attività di questo ospedale e ciò garantirà che “non ci sia un costo politico.” Il rappresentante di Hamas ha anche chiesto all’ANP di togliere le sanzioni da essa imposte a Gaza invece di “demonizzare ogni conquista che la resistenza ha ottenuto per i palestinesi assediati a Gaza.”

Pur facendo notare che le affermazioni critiche sulle caratteristiche dell’ospedale americano potrebbero non essere completamente false, Hossam Al-Dajani, accademico palestinese e analista politico, ha confutato l’affermazione che sarà altro che una base delle forze di sicurezza USA per aiutare Israele. “Sono sicuro che è solo un ospedale,” ha detto sabato sera a Al Jazeera in arabo, “ma se ha altri scopi, la resistenza palestinese di Gaza terrà d’occhio i lavori per garantire che non svolga altro che attività umanitarie.”

E quindi, se uno dei risultati della Grande Marcia del Ritorno sarà la presenza americana a Gaza, significa che le proteste si sono ritorte contro i palestinesi? Hamas crede di no.

Le proteste hanno dimostrato che la resistenza popolare controllata da fazioni palestinesi forti e unite, a questo stadio, è più efficace e meno costosa di altre forme di resistenza” ha detto il portavoce del movimento. “Resteranno uno strumento nelle mani della resistenza palestinese da usare quando necessario.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Il Likud di Netanyahu dovrà votare per la leadership del partito

25 novembre 2019 – Middle East Monitor

La Reuters riferisce che domenica un candidato alla direzione del Likud ha dichiarato che Il partito del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu terrà una votazione per decidere chi dovrà essere il segretario, mentre aumentano le pressioni sul leader perché si faccia da parte dopo la sua incriminazione per le accuse di corruzione

I media israeliani hanno riferito che le primarie del Likud si terranno tra sei settimane. Non è stato possibile raggiungere nessun portavoce del partito per [avere] una conferma dei tempi.

Gideon Saar, un parlamentare del Likud che ha sfidato Netanyahu, ha scritto su Twitter che “accoglie con favore il consenso del primo ministro a tenere le primarie per la leadership del partito”.

L’incriminazione di Netanyahu lo scorso giovedì è giunta in Israele nel mezzo di uno scompiglio politico, dopo che né Netanyahu né il suo principale sfidante nelle elezioni generali, il centrista Benny Gantz, hanno ottenuto la maggioranza in parlamento dopo le votazioni di aprile e settembre.

Netanyahu ha negato le accuse di corruzione, frode e abuso d‘ufficio e ha detto che sarebbe rimasto in carica e si sarebbe difeso.

Domenica il leader conservatore in carica per quattro mandati ha previsto impegni di ordinaria amministrazione, visitando la frontiera settentrionale del Paese e inasprendo i discorsi sulle minacce iraniane.

La Corte Suprema israeliana ha respinto una richiesta di un’organizzazione di controllo rivolta a costringere Netanyahu a farsi da parte.

Nella sua richiesta presentata alla Corte il Movement for Quality Government [movimento per un governo di qualità, organizzazione no profit israeliana impegnata nel campo della moralizzazione dello Stato, ndtr.] in Israele aveva dichiarato che le prime accuse penali contro un primo ministro in carica costituivano “l’attraversamento di una linea rossa e un grave colpo alla fiducia dell’opinione pubblica nel potere istituzionale”.

Il tribunale ha respinto la richiesta di costringere Netanyahu a dimettersi o ad abbandonare temporaneamente l’incarico. Ha affermato che il comitato di controllo non aveva ancora esaurito altre vie possibili, come una richiesta diretta a Netanyahu e al procuratore generale di Israele.

Da parte sua, Netanyahu si è concentrato sulla sicurezza e si è recato sulle Alture del Golan insieme alle più alte gerarchie militari.

“Sto facendo tutto il necessario per portare avanti il lavoro di governo, il lavoro di gabinetto … in tutti i modi opportuni, per garantire la sicurezza dei cittadini di Israele e quanto è vitale per Israele”, ha detto in una dichiarazione video.

Ha ribadito le preoccupazioni per il tentativo dell’Iran di rafforzarsi militarmente in un certo numero di Paesi del Medio Oriente e ha detto che Israele “agirà per impedire il tentativo dell’Iran di fare dell’Iraq e dello Yemen le basi per il lancio di razzi e missili contro Israele”.

Ma la copertura delle notizie israeliane è rimasta focalizzata sulla sfida politica. I commentatori hanno affermato che potrebbero far seguito altre richieste giudiziarie.

Il mandato di Gantz di formare un governo – dopo un tentativo fallito da parte di Netanyahu – è scaduto mercoledì. Il giorno successivo, il presidente israeliano ha indetto un periodo di tre settimane in cui i parlamentari possono eleggere uno di loro per tentare di mettere insieme una coalizione al potere.

In caso contrario, si imporrà una nuova elezione, la terza in Israele in un anno.

La speranza di Netanyahu di assicurarsi la nomina parlamentare è stata contrastata da Saar.

“C’è solo un modo per poter salvare il Paese, allontanarlo dalla crisi e garantire ancora il potere al Likud – ed è indire oggi le primarie, entro i prossimi 21 giorni”, ha detto Saar alla televisione israeliana Channel 12.

Una proposta meno ostile [a Netanyahu] è stata fatta da un secondo parlamentare del Likud, Nir Barkat, che ha chiesto di nominare un vice di Netanyahu che prenderebbe il suo posto nel caso in cui [quest’ultimo] fosse costretto a lasciare.

Saar aveva affermato in precedenza che avrebbe preso in considerazione l’idea di candidarsi per la leadership del Likud.

Nell’esprimere apprezzamento per il primato di durata [al governo] di Netanyahu e sottolineando la sua innocenza fino a prova contraria, Saar ha criticato i tentativi del premier di screditare il suo procedimento penale come un “tentativo di colpo di stato” che coinvolgerebbe la polizia, i pubblici ministeri e i media.”

Non solo è sbagliato affermarlo, ma è anche irresponsabile dirlo. È completamente fuori dal mondo “, ha affermato Saar.

Il portavoce del partito Likud all’inizio della giornata ha smentito la sfida.

“È triste vedere che mentre il Primo Ministro Netanyahu mantiene Israele al sicuro su tutti i fronti e lavora per preservare il dominio del Likud, Gideon Saar, come è suo solito, non mostra nessuna lealtà e il massimo di sovversione”, ha detto il portavoce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo aver votato per dieci anni a favore di Israele, il Canada appoggia una risoluzione filopalestinese

Redazione di Middle East Monitor

20 novembre 2019 – Middle East Monitor

Ieri il governo Trudeau ha appoggiato una risoluzione di sostegno al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU in una sessione della Terza Commissione.

La risoluzione è stata promossa dagli Stati di Palestina, Nord Corea, Zimbabwe ed altri, chiede una “composizione equa, duratura ed esaustiva” del conflitto israelo-palestinese e fa esplicito riferimento alle terre contese tra i due Paesi definendole “Territori Palestinesi Occupati”.

Il voto giunge dopo l’annuncio degli Stati Uniti di non considerare più illegali le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme est occupate, ribaltando decenni di politica estera USA.

La risoluzione di ieri, dal titolo “Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”, è stato avversato da Israele, USA e cinque Nazioni delle isole del Pacifico: le isole Marshall, Nauru e gli Stati Federati della Micronesia.

Hanno votato a favore in totale 164 Paesi, compresi Regno Unito e Germania.

Una portavoce del Ministero degli Esteri canadese, Krystyna Dodd, ha detto a Israeli Times [giornale indipendente israeliano in lingua inglese, ndtr.]: “Il Canada si impegna per l’obbiettivo di una esaustiva, equa e duratura pace in Medio Oriente, compresa la creazione di uno Stato palestinese che esista accanto ad Israele in pace e sicurezza.”

In un momento in cui si trova sempre più sotto attacco, è importante per il Canada sottolineare il nostro fermo impegno per una soluzione di due Stati.”

Il deputato del Nuovo Partito Democratico [partito canadese di orientamento socialdemocratico, ndtr.] Charlie Angus, di Timmins-James Bay [distretto federale dell’Ontario,ndtr.], ha sostenuto l’iniziativa e si è congratulato con il Primo Ministro Justin Trudeau per aver riconosciuto i diritti dei palestinesi opponendosi alle colonie illegali.

Il Canada si è sistematicamente dichiarato contrario o astenuto riguardo alle risoluzioni di sostegno ai palestinesi, comprese risoluzioni relative all’autodeterminazione, la sovranità sulle risorse naturali e l’illegalità delle colonie israeliane.

Nel novembre dello scorso anno il Canada si è unito ad una piccola minoranza di Stati, inclusi Israele, USA e Isole Marshall, nel voto contrario alla risoluzione dell’Assemblea Generale ONU (AG dell’ONU) dal titolo “Composizione pacifica della questione della Palestina.”

Le associazioni filoisraeliane hanno espresso delusione per la nuova iniziativa canadese, sostenendo che sia un tradimento di oltre dieci anni di forte appoggio.

Hillel Neuer, presidente fondatore del ‘Geneva Summit for Human Rights and Democracy’ [Vertice di Ginevra, incontro annuale di 20 Ong che si occupano di diritti umani e la democrazia. Neuer ha fondato una ong filoisraeliana, ndtr.], ha detto che Trudeau “sta scambiando i principi fondamentali canadesi di correttezza ed equità per un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, ed ha affermato che il Canada “si è unito agli sciacalli”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Come i media occidentali permettono a Israele di farla franca su Gaza

Ramzy Baroud

16 novembre, 2019 Middle East Monitor

Un attacco israeliano a Gaza era imminente e non a causa di qualche provocazione da parte di gruppi palestinesi nella impoverita e assediata striscia di Gaza. L’escalation dell’esercito israeliano era prevedibile perché si colloca perfettamente nel controverso scenario politico israeliano. La guerra non era una questione di “se”, ma di “quando”.

La risposta è arrivata il 12 novembre quando l’esercito israeliano ha lanciato un grave attacco contro Gaza, uccidendo il comandante della Jihad islamica Bahaa Abu al-Ata e la moglie Asma.

Sono seguiti altri attacchi contro quelle che l’esercito israeliano ha descritto come basi della Jihad islamica. Comunque le identità delle vittime, insieme a video incriminanti sui social media, foto e resoconti di testimoni indicano che sono stati bombardati anche civili e distrutte infrastrutture civili.

Quando il 14 novembre è stata annunciata la tregua, durante l’aggressione israeliana erano stati uccisi 32 e feriti oltre 80 palestinesi.

Quello che veramente ostacola ogni seria discussione sull’orrenda situazione a Gaza è la blanda reazione sia delle organizzazioni internazionali, che esistono con il solo scopo di mantenere la pace nel mondo, che dei principali media occidentali, che incessantemente celebrano la propria accuratezza ed imparzialità. Una reazione estremamente deludente alla violenza israeliana è stata quella di Nickolay Mladenov, il coordinatore speciale ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

Mladenov, il cui compito da tempo avrebbe dovuto essere considerato inutile dato che non esiste al momento alcun “processo di pace”, ha espresso la sua “preoccupazione” circa la “seria e costante escalation fra la Jihad islamica palestinese e Israele”.

La dichiarazione di Mladenov non solo stabilisce un’equivalenza morale fra una potenza di occupazione, che per prima ha provocato la guerra, e un piccolo gruppo di poche centinaia di uomini armati, ma è anche disonesta.

Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente” ha aggiunto Mladenov, dando grande enfasi al fatto che “non c’è alcuna giustificazione per degli attacchi contro civili”.

Sorprendentemente Mladenov si stava riferendo ai civili israeliani, non a quelli palestinesi. Quando questa dichiarazione è stata rilasciata ai media, c’erano già decine di civili palestinesi feriti e uccisi mentre i reportage dei media israeliani parlavano dei pochi israeliani che erano stati curati per “ansia”.

L’Unione Europea non ha fatto molto di meglio, ripetendo la solita reazione automatica americana di condanna “al fuoco di fila di attacchi di razzi che penetrano profondamente in territorio israeliano”.

Non è possibile che Mladenov e i vertici dei responsabili della politica estera dell’UE non capiscano correttamente il contesto politico dell’ultimo massacro israeliano, cioè che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sotto attacco sta usando l’escalation militare per rafforzare il suo controllo sul potere che si sta sempre più indebolendo.

Tenendo presente questo, cosa si deve pensare della scadente copertura mediatica, delle analisi inadeguate e dell’assenza di servizi equilibrati sui principali media occidentali?

In un servizio diffuso dalla BBC il 13 novembre, l’emittente britannica ha parlato di “violenza alla frontiera fra Israele e i militanti a Gaza”.

Ma Gaza non è un Paese indipendente e, secondo le leggi internazionali, è ancora occupata da Israele. Israele ha dichiarato Gaza un “territorio ostile” nel settembre 2007, stabilendo arbitrariamente un “confine” fra il Paese e il territorio palestinese assediato. Per qualche ragione la BBC pensa che questa definizione sia accettabile.

Dal canto suo, il 13 novembre la CNN ha riportato che “la campagna militare israeliana contro la Jihad islamica” è al suo secondo giorno, enfatizzando la condanna ONU degli attacchi con i razzi.

La CNN, come la maggior parte degli altri principali media americani, riporta le campagne militari israeliane come parte integrante di una immaginaria “guerra al terrorismo”. Perciò analizzare il linguaggio dei principali media USA allo scopo di sottolineare e enfatizzare i suoi errori e pregiudizi è un esercizio inutile. Purtroppo, i pregiudizi USA sulla Palestina si sono estesi ai media principali in quei Paesi europei che erano, in parte, più imparziali, se non più solidali con la situazione dei palestinesi.

Lo spagnolo El Mundo, per esempio, ha parlato di un certo numero di palestinesi, avendo cura di sottolineare che erano “quasi tutti miliziani” che sono “morti” e non che “erano stati uccisi” dall’esercito israeliano.

L’escalation ha fatto seguito alla morte del leader del braccio armato di Gaza” ha riportato El Mundo, omettendo, ancora una volta, di identificare i responsabili di queste morti apparentemente misteriose.

La Repubblica, che in Italia è considerata una testata di “sinistra”, sembrava più un giornale israeliano di destra nella sua descrizione degli eventi che hanno portato alla morte e al ferimento di molti palestinesi. Il quotidiano italiano ha usato una sequenza degli avvenimenti inventata che esiste solo nella mente dell’esercito e dei responsabili politici israeliani.

La violenza continua. Secondo “The Jerusalem Post” (un giornale israeliano di destra) e l’esercito israeliano parecchi razzi sono stati lanciati dai (miliziani) della Jihad islamica di Gaza verso Israele, violando la breve tregua”.

Resta poco chiaro a quale “tregua” si riferisse La Repubblica.

Il francese Le Monde ha fatto lo stesso, riportando le stesse frasi israeliane, fuorvianti e stereotipate e enfatizzando le dichiarazioni dell’esercito e del

governo israeliano. Stranamente la morte e il ferimento di molti palestinesi a Gaza non merita un posto sulla homepage del giornale francese.

Invece si è scelto di dare evidenza a una notizia relativamente poco importante, in cui Israele denunciava la definizione di prodotti delle colonie illegali come “discriminatoria”.

Forse si sarebbero potute scusare queste mancanze giornalistiche e morali ad ampio raggio se non fosse per il fatto che la storia di Gaza è stata una di quelle più ampiamente riportate ovunque nel mondo da oltre un decennio.

È ovvio che i “i quotidiani più importanti” occidentali non hanno volutamente fatto dei reportage onesti su Gaza e hanno intenzionalmente nascosto la verità ai loro lettori per molti anni, per non offendere la sensibilità del governo israeliano e dei suoi potenti alleati e lobby.

Se non si può che deplorare la morte del buon giornalismo in Occidente, è anche importante riconoscere con grande ammirazione il coraggio e i sacrifici dei giovani giornalisti e dei blogger di Gaza che, in più occasioni, sono stati presi di mira e uccisi dall’esercito israeliano per aver trasmesso la verità sulla situazione di emergenza dell’assediata, ma tenace Striscia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Quale precisione da parte di Israele?

Yvonne Ridley

13 novembre 2019 – Middle East Monitor

La propaganda sulla precisione degli israeliani cerca di giustificare il massacro di innocenti

Le forze israeliane “di difesa” (IDF), nome assolutamente fuorviante, e i loro sostenitori si arrabbiano molto quando i componenti dell’esercito, quinta potenza militare al mondo, sono accusati di prendere di mira donne e bambini innocenti.Si rilasciano veementi smentite a livello mondiale, anche se è esattamente quello che succede come conseguenza inevitabile del fatto di lanciare materiali altamente esplosivi in aree densamente abitate da civili.

Persino mentre stanno ancora cadendo le bombe, la propaganda israeliana ingrana la quarta. Ieri un tweet delle IDf annunciava drammaticamente: “ULTIME NOTIZIE. Abbiamo appena attaccato il comandante della Jihad islamica a Gaza, Baha Abu Al Ata. Al Ata era direttamente responsabile di centinaia di attacchi terroristici contro civili e soldati israeliani. Il suo prossimo attacco era imminente.” Questo messaggio era poi subito seguito da un altro post che sosteneva che l’azione mortale era “un attacco chirurgico”.

Questa affermazione è discutibile. Quello che il team della propaganda delle IDF, l’hasbara, ha dimenticato di riportare era che, colpendo Abu Al-Ata, l’esercito di occupazione aveva anche ucciso la moglie e gravemente ferito quattro dei loro figli e una vicina. Non c’era niente di “preciso” o “chirurgico” a proposito di questo attacco: si tratta probabilmente di un crimine di guerra.

Wikipedia spiega che quando si lanciano missili Hellfire, “usati in varie uccisioni di personaggi di alto profilo” e altre bombe cosiddette intelligenti in un’area residenziale si uccideranno dei civili. I civili non-combattenti non erano protetti in alcun modo durante la Seconda guerra mondiale, il che spiega perché fu redatto l’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra nel 1949. Esso stabilisce che nessuno possa essere punito per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Sono proibite le misure di rappresaglia nei confronti delle persone protette e dei loro beni.

Ora dobbiamo assistere e testimoniare a tale doppia oscenità: non solo Israele ignora la Convenzione di Ginevra uccidendo dei civili, ma anche i lobbysti pro-Israele che difendono tale azione. Fra i molti tweet postati a sostegno dell’attacco militare, uno che ha attirato la mia attenzione proveniva dal direttore delle pubbliche relazioni di una ONG tedesca: Josias Terschüren mi attaccava quando ho avuto l’ardire di far notare che in aree abitate da civili non esiste una cosa come “l’attacco chirurgico.”

“Apparentemente nessuno, a parte il bersaglio, il terrorista, e sua moglie, sono morti nell’attacco chirurgico e due dei suoi figli sono stati feriti in modo serio” twittava Terschüren. “Questo può succedere, ed è successo, ad altri familiari di terroristi. Nessun civile è stato ferito.”

Perciò, agli occhi di questa persona, né la moglie di Abu Al-Ata né i suoi figli possono essere considerati civili innocenti: sono membri della “famiglia di un terrorista”.

Quando ho messo in discussione questo punto, il direttore delle pubbliche relazioni di “Iniziativa 27 gennaio” un’organizzazione sull’Olocausto con sede a Berlino, ha risposto: “Mi riferivo alle sue critiche agli attacchi israeliani in aree densamente popolate. Tutto quello che volevo dire era che, a parte i suoi familiari, nessun altro civile è stato colpito. È un fatto comune, seppur sfortunato e spiacevole, nei casi di membri delle famiglie dei terroristi”.

Io non sono sicura se Terschüren, che si descrive “conservatore” e “cristiano”, abbia deliberatamente diffuso questa spregevole propaganda o se sia lui stesso una vittima della  propaganda di Israele, perché questa è un’arma di cui le IDF usano e abusano con grande abilità.

Consideriamo questo, per esempio: “Questa mattina abbiamo ucciso un comandante della Jihad islamica in #Gaza” hanno twittato ieri le IDF. “Questo è il motivo per cui ti dovrebbe importare.” Il video che accompagnava il testo includeva scene tratte da filmati di attacchi terroristi inclusi quelli dell’11 settembre, quelli a Mumbai, Manchester, Parigi, in Svezia, Indonesia e Nigeria, nessuno dei quali aveva niente a che fare con i palestinesi. Cercare di collegare i gruppi della resistenza palestinese agli attacchi terroristici transnazionali altrove è semplicemente disonesto. Questi non sono filiali di Al-Qaeda o Daesh, non importa quante volte le IDF e i lacchè di Israele cerchino di convincerci del contrario. Semplicemente non è vero.

Ma questo è quanto siamo arrivati ad aspettarci da un Paese che non può giustificare in altro modo il proprio terrorismo di stato. “Bugie, dannate bugie, e propaganda israeliana” come avrebbe potuto dire Mark Twain.  Purtroppo tale propaganda sembra funzionare, a giudicare dai social media: quelli che sono anti-palestinesi ci cascano completamente, probabilmente perché alimenta il loro razzismo e odio innati.

Dopo l’assassinio di Abu Al-Ata e di sua moglie le IDF sono state impegnate in altri “attacchi chirurgici”. Il totale dei morti, al momento in cui scrivo, è di 23 palestinesi, dei quali i lobbisti pro-Israele affermano che solo 12 erano “membri accertati di gruppi terroristi”. Dopo tutto, gli attacchi non erano per niente chirurgici.

Forse i 18 innocenti coinvolti in tutto ciò erano le mogli e i bambini di “terroristi”. E questo va bene, secondo gli illusi e accecati sostenitori dei crimini. I loro sofismi per giustificare l’assassinio di uomini, donne e bambini innocenti sono disgustosi.

Le opinioni espresse in quest’articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

 




Israele sta falsificando la storia palestinese e rubando la sua eredità

Nabil Al Sahli

6 novembre 2019 Middle East Monitor

La Palestina è uno dei paesi più ricchi del mondo in termini di antichità, in competizione con l’Egitto nel mondo arabo. Almeno 22 civiltà hanno lasciato il segno in Palestina, la prima delle quali fu quella dei Cananei; presenza che è ancora visibile fino a oggi.

Dal 1948, i governi israeliani che si sono succeduti hanno prestato una particolare attenzione alle antichità che hanno una spiccata identità araba e palestinese. Hanno formato comitati di archeologi israeliani per indagare in ogni parte della Palestina su cui è stato fondato Israele.

L’obiettivo è ancora quello di creare una falsa narrativa storica giudaizzando le antichità palestinesi.

Monumenti storici nelle principali città palestinesi, come Acri, Giaffa, Gerusalemme e Tiberiade, non sono stati risparmiati da questo processo.

Inoltre, Israele ha usato varie istituzioni per giudaizzare la moda palestinese attraverso il furto culturale e la falsificazione del suo patrimonio.

Nemmeno le ricette locali si salvano. Israele ha partecipato a mostre internazionali per mostrare moda e cucina palestinesi etichettate come “israeliane”. È così che l’occupazione israeliana e le “mafie” che vendono oggetti d’antiquariato di valore inestimabili stanno rubando l’eredità e la storia della Palestina risalenti a migliaia di anni fa.

Questo accade in un momento in cui i partiti palestinesi stanno prendendo provvedimenti e chiedono la protezione del loro retaggio, della loro storia e della loro civiltà.

In questo contesto, studi hanno indicato che ci sono più di 3.300 siti archeologici nella sola Cisgiordania occupata. Diversi ricercatori confermano che, in media in Palestina, ogni mezzo chilometro esiste un sito archeologico che indica la vera identità e la storia della terra.

Qui è importante menzionare gli effetti devastanti del muro di separazione israeliano nel futuro delle antichità e dei monumenti palestinesi.

La costruzione in corso del muro sulle terre palestinesi in Cisgiordania porterà infine all’annessione di oltre il 50% del territorio occupato. Comprenderà inoltre oltre 270 importanti siti archeologici, oltre a 2.000 postazioni archeologiche e storiche. Decine di siti e monumenti storicamente importanti sono stati distrutti durante la costruzione del muro.

Studi specializzati sulle antichità palestinesi indicano che, da quando ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel giugno 1967, Israele ha potuto rubare e vendere ancora più manufatti palestinesi dalla Cisgiordania. Questo fenomeno è stato esacerbato dallo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa alla fine di settembre 2000.

Studi palestinesi indicano che la ragione di questa Nakba (catastrofe) in corso è il crollo di qualsiasi sistema per proteggere le aree palestinesi a causa del controllo israeliano. Tale protezione rientra nella gestione diretta dell’occupazione, il che significa sostanzialmente che l’esercito israeliano è libero di distruggere il patrimonio culturale, come è accaduto a Gerusalemme, Nablus, Hebron, Betlemme e altre città e villaggi palestinesi.

Il furto archeologico e la violazione dei siti del patrimonio palestinese sono una delle maggiori sfide che i palestinesi devono affrontare mentre cercano di preservare la loro cultura e presenza fisica nella loro patria, minacciati dalla giudeizzazione e guidati dalle sistematiche politiche israeliane. Dobbiamo sensibilizzare la società palestinese perché affronti questa nuova e vecchia sfida imposta da Israele.

Dobbiamo anche aumentare la nostra capacità di combattere il furto della nostra storia da parte di Israele a livello locale, regionale e internazionale. Ciò può essere rafforzato dalla piena adesione della Palestina alle pertinenti organizzazioni internazionali, compreso l’UNESCO.

La diversità culturale in Palestina risale a migliaia di anni fa. È vergognoso che permettiamo che questo venga cancellato dalla storia, perché Israele cerca “prove” per la sua falsa narrazione dello “stato ebraico”, escludendo le popolazioni indigene.

(Traduzione dallo spagnolo di Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)