Editoriale di un autore esterno: la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni e il dibattito pubblico

Mark Ayyash

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

In Canada buona parte del dibattito pubblico sulla campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è superficiale, vuoto e assolutamente strategico. Quando, nel febbraio 2016, i parlamentari canadesi hanno dibattuto una mozione sul BDS, la discussione non è stata altro che una ripetizione pappagallesca di argomenti rivolti contro la campagna fin da quando è nata nei Territori Palestinesi Occupati. Questi argomenti sono ben noti a chiunque abbia dato anche solo un rapido sguardo al dibattito pubblico su BDS: per citare le affermazioni principali, sarebbe antisemita, danneggia i palestinesi e prende di mira in modo scorretto Israele. In questo articolo affronterò brevemente alcune di queste questioni, ma è sufficiente dire che sono state tutte prese in considerazione e criticate in modo esaustivo da accademici di fama mondiale e da importanti intellettuali (si veda per esempio “The Case for Sanctions Against Israel” [La questione delle sanzioni contro Israele], raccolta pubblicata da Lim nel 2012). Questi argomenti non hanno molto, se non alcun fondamento sostanziale, invece dovrebbero essere visti per quello che sono: se considerate insieme, queste posizioni costituiscono uno strategico attacco verbale al BDS.

Il famoso filosofo tedesco del XX° secolo Hans-Georg Gadamer ci ha spiegato che ci sono due tipi di dialogo. In primo luogo c’è quello che definisce un dialogo “autentico”, in cui i partecipanti si impegnano in una discussione onesta e aperta su un argomento, lasciando perdere i propri desideri e interessi, nel tentativo collettivo di comprendere l’oggetto in questione approfondendone le varie dimensioni, esplorandolo in profondità e illustrando le implicazioni della nostra comprensione dell’argomento.

Poi c’è quello che chiama dialogo “inautentico”, in cui i partecipanti non sono interessati a seguire l’argomento in sé, ma solo a vincere la discussione in modo da favorire i propri desideri ed interessi.

Sfortunatamente il discorso sul BDS è stato prevalentemente inautentico. Non fraintendetemi. Certamente non condanno quelli che intendono vincere la discussione e affermare i propri interessi nel panorama politico. I difensori e i sostenitori di Israele sicuramente hanno il diritto di farlo. E, per essere chiaro, lo Stato canadese è strategicamente allineato con Israele sul piano politico ed economico, il che spiega perché i parlamentari canadesi stiano sostenendo argomenti che sono in linea con gli interessi strategici di Israele e rafforzino i tentativi di Israele di sconfiggere il BDS. Di nuovo, è un diritto dei canadesi e dei loro rappresentanti, i cui interessi politici ed economici sono schierati con quelli dello Stato di Israele, dichiararsi tali.

Tuttavia quello che io chiedo è onestà. Cerchiamo di non fingere che questa discussione si interessi dei diritti umani, della libertà e della liberazione dei palestinesi. Non è così. Il parlamento canadese ha approvato senza problemi la mozione di condanna del BDS e dei suoi sostenitori con un voto di 229 a 51. La mozione non introduce alcuna sanzione legale per chi partecipa ai gruppi e alle attività BDS, ma non dovremmo qui essere tentati di pensare che si tratti di una reazione “leggera”, tipica della “moderazione” canadese in politica estera. La condanna del BDS manda un chiaro segnale, non solo ai sostenitori canadesi del BDS ma anche alla società civile palestinese: il governo canadese non è interessato a impegnarsi con quello che la società civile palestinese ha da dire sul dramma del popolo palestinese e, soprattutto, sulle sue aspirazioni.

Dal punto di vista del parlamento canadese, i palestinesi hanno diritto solo all’educazione, al lavoro e alla salute. Per la maggioranza dei parlamentari canadesi – per lo più deputati liberali e conservatori – queste necessità di base costituiscono il modo in cui intendono i diritti umani dei palestinesi, e da qui il loro appoggio alla soluzione dei due Stati, che creerebbe non uno Stato palestinese nel pieno senso di uno Stato-Nazione indipendente, ma piuttosto una struttura amministrativa il cui compito sarebbe di provvedere a queste necessità fondamentali, oltre a reprimere la resistenza palestinese contro Israele. Qualunque campagna palestinese che esprima l’aspirazione del popolo palestinese a una vita sociale e politica libera ed emancipata è considerata nel dibattito politico canadese come pericolosa e al di fuori dell’ambito di quella che viene accettata come una “legittima” rivendicazione dei diritti dei palestinesi.

Il BDS non vuol solo dire la richiesta di servizi fondamentali come l’educazione e il lavoro. Opera su una duplice base: diritti per tutti i palestinesi indipendentemente da dove si trovino nel mondo e la necessità di prendere di mira lo Stato israeliano precisamente perché impedisce la realizzazione dei diritti dei palestinesi alla libertà.

Questi principi base sono stati stabiliti dal gruppo dirigente palestinese, il Comitato Nazionale del BDS (BNC), che è stato creato nel 2007. Ogni gruppo BDS è tenuto a seguire quei principi base.

Tuttavia il BDS è anche una campagna transnazionale che incoraggia le proprie propaggini transnazionali ad agire autonomamente una volta che abbiano aderito alle sue basi costitutive. Qui il ragionamento è semplice: ogni gruppo conosce meglio il contesto in cui opera e potrebbe di conseguenza sviluppare meglio le proprie tattiche e strategie per promuovere gli obiettivi fondativi del BDS.

L’insistenza della campagna BDS nell’affrontare la questione palestinese in modo complessivo, prendendo in considerazione i rifugiati palestinesi e la questione del loro ritorno, è ciò che ha attirato la reazione ostile contro di sé, la prevalenza di un dialogo inautentico e la questione dei diritti dei palestinesi.

Ci sono due argomenti interconnessi che sono più comunemente utilizzati per contrastare il BDS in un dialogo inautentico: l’accusa di antisemitismo e il fatto di prendere di mira in modo scorretto Israele.

La tesi è più o meno questa: ci sono molti regimi oppressivi e violenti al mondo, per cui perché il BDS sta prendendo di mira Israele più degli altri? La risposta sostenuta in un dialogo inautentico è che il BDS attacca Israele solo perché è uno Stato ebraico, ed è quindi presentata come una prova dell’“antisemitismo” della campagna BDS. In effetti questa è stata una tecnica discorsiva piuttosto efficace, che molti della destra e del centro, così come alcuni della sinistra, trovano convincente. Ma se dobbiamo impegnarci in un dialogo autentico possiamo averne una comprensione diversa. La campagna BDS è nata nei Territori Palestinesi Occupati, è stata progettata, sviluppata e lanciata dalla società civile palestinese. Quindi, perché i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana avrebbero dovuto lanciare una campagna contro l’oppressione in altre parti del mondo quando sono a malapena in grado di sopravvivere alle strutture oppressive sotto le quali vivono? Solo quando il BDS viene visto come una questione “occidentale”, in seno al contesto “occidentale”, la domanda “perché Israele’” diventa sconcertante e persino convincente. I palestinesi non hanno scelto Israele semplicemente perché è uno Stato ebraico, ma prendono di mira Israele perché è lo Stato che prende continuamente di mira loro. Non è così complicato.

È certamente possibile che il BDS sia coinvolto in un dialogo inautentico con i sostenitori di Israele quando viene attaccato. Ma penso che sia più fruttuoso collocare invece il BDS in un dialogo autentico. Questa potrebbe benissimo essere una posizione ingenua, ma non riesco a vedere un altro modo per andare oltre un semplice scambio di insulti. Come dovrebbe essere un dialogo autentico? Uno dei principi fondamentali del BDS è l’antirazzismo. Di conseguenza il BDS in Canada (e credo che ciò valga anche per gli USA e per la Gran Bretagna) dovrebbe affrontare la questione dell’antisemitismo come parte integrante dello spazio in cui la campagna dovrebbe agire. L’antisemitismo è ancora reale, concreto, molto pericoloso e persino in crescita e in espansione. È possibile che alcune delle persone che appoggiano il BDS in Canada (e in qualunque altra parte), soprattutto in rete, abbiano opinioni antisemite? Sicuramente è possibile. I militanti e i gruppi BDS dovrebbero quindi essere attenti e cercare di espellere questa gente dai loro gruppi, che siano sostenitori digitali o siano fisicamente presenti agli eventi BDS. Possiamo e dobbiamo avere più discussioni approfondite sull’antisemitismo, così come sulla natura della resistenza palestinese contro Israele, radicata nell’espulsione e nelle sofferenze dei palestinesi per mano dello Stato di Israele.

Non so cosa riservi il futuro alla campagna BDS, ma so che non è che l’ultima manifestazione di un tipo di resistenza palestinese che non cesserà mai. Se il BDS viene sconfitto, allora la storia suggerisce che un’altra campagna o attività prenderà il suo posto. Indipendentemente da quello che Israele, gli USA, la Gran Bretagna, il Canada o il resto del mondo desiderano, una resistenza palestinese che intenda affrontare le sofferenze del popolo palestinese in modo complessivo non finirà nella pattumiera della storia. Continuerà a comparire e riapparire finché non verrà fatta giustizia. Prima ognuno si renderà conto di ciò e lo accetterà, prima potremo intavolare un dialogo autentico sui diritti dei palestinesi ed affrontare in modo corretto le aspirazioni di tutto il popolo in Palestina/Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Adolescente omicida agli arresti domiciliari

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

Oggi l’adolescente che ha ucciso Aisha Al-Rabi, una madre, è stato rilasciato e mandato agli arresti domiciliari.

Ieri il tribunale israeliano del distretto di Lod ha deciso di rilasciare e inviare agli arresti domiciliari il ragazzo, imponendogli di indossare un braccialetto elettronico. È stato rilasciato oggi dopo che lo Stato aveva avuto un giorno di tempo per decidere se ricorrere alla Corte Suprema contro la decisione.

Il sedicenne – di cui non può essere fatto il nome per un ordine di riservatezza imposto dal tribunale – a gennaio è stato accusato di omicidio colposo, lancio di pietre aggravato e danneggiamento intenzionale di un veicolo “nel contesto di un atto terroristico” compiuto per uccidere Al-Rabi in ottobre. In un primo tempo si pensava che il ragazzo avrebbe trascorso “un considerevole periodo di carcerazione” con il massimo di condanna a 20 anni, anche se ha evitato le accuse di omicidio che lo avrebbero condotto a passare la vita in prigione.

Tuttavia all’inizio di questo mese il giudice israeliano Hagai Tarsi ha annunciato che “il Servizio di Libertà Vigilata esaminerà la possibilità di mandare il minore agli arresti domiciliari, con un dispositivo di monitoraggio elettronico, presso la casa dei suoi nonni a Kfar Saba”, a nordest di Tel Aviv. Tarsi ha detto che il sospettato “sarà per 24 ore al giorno sotto la sorveglianza dei genitori, dei nonni e di altri membri della famiglia designati e che gli sarà impedito di contattare altre persone”. Inoltre al momento Haaretz ha riferito che il giudice stabilirà una cauzione per il sospettato di 100.000 shekel (circa 25.000 euro).”

Secondo un rapporto di oggi di Arutz Sheva [rete mediatica israeliana, legata al sionismo religioso, ndtr.], la decisione del tribunale di rilasciare il ragazzo è stata presa in seguito ad un parere inviato dal direttore del Centro Nazionale di Medicina Forense, Dr. Chen Kugel. Egli ha affermato che le ferite riscontrate alla testa di Al-Rabi “non corrispondono ad un colpo procurato da una pietra”, che è il modo in cui sarebbe stata uccisa la 47enne madre di otto figli.

Kugel ha aggiunto: “Due medici mi hanno dato ragione, affermando che le ferite sul cranio della defunta erano compatibili con un danno provocato da una forza molto grande e non da un colpo di pietra. Uno di questi medici ha anche appoggiato la mia tesi secondo cui sembrano esserci almeno due punti di impatto.”

Haaretz ha tuttavia aggiunto che altri professionisti non hanno concordato con l’interpretazione di Kugel, aggiungendo che “hanno ritenuto che una pietra potesse aver provocato questo tipo di ferita.”

Il vedovo di Aisha, Yaqoub Al-Rabi, oggi ha detto a Haaretz di aver appreso degli arresti domiciliari al sospettato dal giornale israeliano e che “nessun funzionario israeliano lo ha aggiornato sugli sviluppi del caso.”

Al-Rabi ha aggiunto: “Tramite voi chiedo agli israeliani: se le cose fossero andate al contrario, pensate che un sospettato palestinese sarebbe stato rilasciato se la vittima fosse stata israeliana? Penso che la risposta per voi sia del tutto chiara, ma per noi palestinesi mi dispiace dire che non c’è nessuna speranza.”

Nell’atto d’accusa presentato contro il ragazzo sono stati rivelati parecchi dettagli sull’uccisione di Al-Rabi. La corte ha potuto apprendere che lui e diversi altri studenti il 12 ottobre sono partiti dalla Pri Haaretz yeshiva (seminario religioso) nella colonia illegale di Rehelim, situata sulla Route 60 a sud di Nablus nella Cisgiordania occupata.

Poi il gruppo è salito sulla collina vicino all’incrocio di Tapuah (Za’atara) della Route 60, dove il ragazzo ha afferrato una grossa pietra del peso di circa due chili e si è preparato a scagliarla contro un veicolo palestinese, ‘per una motivazione ideologica di razzismo e ostilità nei confronti degli arabi ovunque’. Dopo aver identificato la targa palestinese dell’auto di Al-Rabi, ha lanciato la grossa pietra che ha infranto il finestrino del lato del passeggero ed ha colpito alla testa Al-Rabi.

Nel corso dell’indagine che ne è seguita, il DNA del ragazzo è stato trovato sulla pietra che ha ucciso Al-Rabi. Nella sua deposizione il ragazzo ha sostenuto che ciò poteva essere dovuto al fatto che lui “stava passeggiando a lungo in quella zona e potrebbe avere sputato colpendo la pietra.”

Il giovane colono era rappresentato da Adi Keidar, un avvocato appartenente all’associazione di aiuto legale Honenu, che fornisce assistenza legale agli israeliani sospettati di terrorismo. Keidar attualmente rappresenta Amiram Ben-Uliel, uno dei due coloni accusati di aver ucciso la famiglia Dawabsheh nell’ incendio doloso nella loro casa nel villaggio di Duma in Cisgiordania nel luglio 2015. Tre membri della famiglia Dawabsheh – il padre Saad, la madre Riham e il loro figlio Ali di 18 mesi – sono morti nell’incidente, lasciando orfano Ahmed che allora aveva cinque anni.

Mentre Ben-Uliel è ancora sotto indagine, in questo fine settimana il suo giovane complice ha confessato e verrà incriminato per cospirazione nell’appiccare l’incendio avendo commesso un crimine con una motivazione razziale. Ha confessato dopo che è stato raggiunto un patteggiamento, in base al quale “la procura ha acconsentito a non chiedere una condanna a più di cinque anni e mezzo di prigione.”

In aprile si è saputo che attivisti di estrema destra avevano fatto pressione sul ragazzo perché non accettasse il patteggiamento. Shmuel Eliyahu, il rabbino di Safed, nel nord di Israele, sarebbe stato chiamato a mediare tra l’ufficio del Procuratore di Stato, il ragazzo e gli attivisti di destra.

Eliyahu è un personaggio controverso, che ha detto ai ragazzi sospettati dell’uccisione di Al-Rabi che non dovevano temere la prigione perché “è lì che inizia la strada per il potere politico”. Eliyahu sostiene di aver detto ai ragazzi: “Quale è il problema? Di che cosa siete accusati? Avete tirato una pietra. Sapete quante pietre vengono lanciate nella Cisgiordania occupata per le quali l’esercito israeliano non fa niente?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’esercito israeliano ha ucciso un paramedico palestinese, poi ha distribuito un video ingannevole

Middle East Monitor1 maggio 2019

Le forze di occupazione israeliane hanno colpito e ucciso un volontario paramedico durante un’incursione in un campo di rifugiati, dopo di che l’esercito ha diffuso un ingannevole video di propagandistico.

Secondo un’inchiesta del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, Sajed Mizher, di 17 anni, è stato colpito all’addome mentre accorreva in aiuto di un abitante ferito. Il 27 marzo, alle 2,30 circa, soldati hanno fatto incursione nel campo profughi di Dheisheh, che si trova a sud di Betlemme, nella parte meridionale della Cisgiordania occupata. I soldati hanno arrestato un abitante, poi si sono ritirati.

Poche ore dopo decine di soldati israeliani hanno di nuovo fatto un raid nel campo e si sono scontrati con abitanti del posto che hanno lanciato pietre contro le forze di occupazione.

Durante questa incursione”, nota B’Tselem, “tre abitanti sono rimasti feriti da proiettili veri – uno alla spalla, un altro a una mano e il terzo a una gamba. Durante entrambe le incursioni era presente un’equipe di paramedici e volontari del campo affiliati alla Palestinian Medical Relief Society [Società Palestinese di Soccorso Medico] (PMRS).”

Mentre i soldati israeliani si stavano ritirando “uno di loro ha sparato a M.J., 20 anni, un abitante del campo, ferendolo a una gamba.” Sajed Mizher, “che portava un giubbotto dell’equipe medica e si trovava poche decine di metri dietro al ferito,” è corso in suo aiuto.

A quel punto un soldato israeliano ha sparato a Sajed all’addome. Portato d’urgenza all’ospedale, un’ora dopo il ricovero Sajed è spirato in conseguenza delle ferite.

Più tardi lo stesso giorno il portavoce dell’esercito israeliano ha reso pubblico un filmato in arabo “che mostrava un paramedico che si toglieva il giubbotto d’identificazione, portava una maglietta bianca e lanciava pietre da un tetto.” Come ha notato B’Tselem, “il video intendeva presumibilmente giustificare il fatto di aver colpito Mizher.”

Tuttavia “l’inchiesta di B’Tselem ha chiaramente scoperto che la persona ripresa nel filmato non era Sajed Mizher, che era stato colpito in un luogo diverso, sulla strada principale del campo di rifugiati.”

Quindi,” aggiunge l’ong, “persino per scopi propagandistici il video che ha pubblicato l’esercito è per lo meno di dubbio valore. Sicuramente non costituisce una spiegazione o una giustificazione per il fatto di aver colpito a morte un volontario paramedico di 17 anni.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista

Asa Winstanley

20 aprile 2019, Middle East Monitor

Questa settimana il ministro ombra laburista della Giustizia Richard Burgon si è rammaricato per aver affermato qualche anno fa in un discorso che il sionismo è il “nemico della pace”. Non avrebbe dovuto scusarsi. Le sue considerazioni del 2014 erano un semplice dato di fatto storico, ed avrebbe dovuto difenderle.

I sionisti liberal e “di sinistra” affermano che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa progetto rappresenta un paradiso egualitario per i popoli ebraici oppressi del mondo.

Si tratta di una fantasia antistorica.

Il movimento per creare uno “Stato ebraico” in Palestina – un Paese per la stragrande maggioranza non ebreo – fu, fin dalla sua ideazione, un progetto esclusivista e razzista. Dai suoi primi giorni il sionismo è stato permeato degli stessi atteggiamenti razzisti di altri movimenti europei di colonialismo di insediamento. In realtà la concezione progressista sionista di eguaglianza all’interno della Palestina esclude gli arabi palestinesi, il popolo indigeno del territorio. Una simile cecità intenzionale è una caratteristica comune dei movimenti colonialisti. Come l’illustre studioso palestinese Nur Masalha ha spiegato decenni fa nel suo studio magistrale “Espulsione dei palestinesi”, in realtà il movimento sionista ha compreso che effettivamente c’era già una popolazione che viveva in Palestina. Tuttavia scelse di non vedere queste persone come esseri umani a pieno titolo degni degli stessi diritti dei coloni ebrei.

Masalha ha scritto che l’ignobile slogan del sionista dei primordi Israel Zangwill “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era inteso come un giudizio demografico letterale. I sionisti “non intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere preso in considerazione all’interno del quadro di concezioni della supremazia europea che all’epoca dominavano incontrastate.”

Questi concetti di suprematismo bianco, che in quel periodo per le élite europee erano indiscutibili, erano una caratteristica comune dei progetti colonialisti di ogni tipo. Come avrebbe quindi potuto essere diverso per il sionismo?

La risposta è che non lo era, indipendentemente da quanta immagine “di sinistra” i sionisti laburisti abbiano inserito nel loro movimento colonialista. Dopo tutto i movimenti laburisti dell’Europa occidentale nelle metropoli coloniali erano spesso esplicitamente di orientamento favorevole all’impero; probabilmente nessuno più del partito laburista britannico. In realtà la storia dell’appoggio ad alcuni dei fondamentali diritti umani dei palestinesi da parte di Jeremy Corbyn rappresenta una rottura storica con la lunga serie praticamente ininterrotta di virulente politiche anti-palestinesi del partito laburista.

Prendete per esempio Richard Crossman, ministro del governo di Harold Wilson negli anni ’60 e in seguito editorialista del “New Statesman” [rivista politica inglese di sinistra, ndt.]. All’epoca era una figura di spicco della sinistra laburista, eppure in tutto il partito era uno dei più fanatici tra i sionisti. Nel 1959, in una conferenza in Israele, affermò che “nessuno, fino al XX° secolo, aveva seriamente messo in dubbio” il “diritto” o il “dovere” di quello che definì “l’uomo bianco” in Africa e nelle Americhe “di civilizzare questi continenti con la loro occupazione fisica, anche a costo di spazzare via la popolazione nativa.”

In altre parole, il genocidio.

Crossman lamentò inoltre che “i coloni ebrei” in Palestina non avessero “raggiunto la maggioranza prima del 1914,” e che i palestinesi “li vedessero come ‘coloni bianchi’, venuti ad occupare il Medio Oriente.” Si noti che questo decano della sinistra laburista non condannava “i coloni bianchi” che di fatto avevano occupato la Palestina con la forza cacciando la popolazione indigena. Si rammaricava solo che i palestinesi avessero riconosciuto il movimento sionista per quello che realmente era e quindi vi si fossero opposti.

Non c’è quindi da stupirsi che il governo laburista del 1945 avesse, come parte del proprio programma elettorale, un punto che chiedeva esplicitamente la pulizia etnica dei palestinesi dalla Palestina per far posto a uno “Stato ebraico”. Il documento sosteneva che in Palestina “il trasferimento di popolazione è una necessità. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, e che vi entrino gli ebrei.”

Il documento andò persino oltre, invocando la futura espansione dei confini del previsto “Stato ebraico” con l’annessione di parti della Transgiordania, dell’Egitto o della Siria “attraverso un accordo”. In realtà, l’Egitto e il futuro Stato di Giordania all’epoca erano regimi fantoccio della Gran Bretagna.

Ben Pimlott, biografo dell’ex-ministro delle Finanze Hugh Dalton, descrisse questa posizione come “ultra sionismo” – moderato rispetto a un progetto ancora più estremista che lo stesso Dalton avrebbe preferito e che chiedeva di “aprire la Libia o l’Eritrea alla colonizzazione ebraica, come satelliti o colonie della Palestina.”

Non dovrebbe quindi sorprendere che Dalton fosse, come molti colonialisti, un razzista esplicito. Utilizzò un linguaggio apertamente segnato dall’odio nei confronti delle persone di colore e degli ebrei, deridendo un deputato del partito Laburista che era ebreo per la sua presunta “ideologia”.

Allora come adesso il sionismo spesso e volentieri è andato mano nella mano con l’antisemitismo. Molti razzisti bianchi che detestano gli ebrei spesso non hanno avuto nessun problema con il concetto di “Stato ebraico” in Palestina – dopotutto esso prospetta la cancellazione degli ebrei dall’Europa.

Come ha scritto, pur negando di essere un antisemita, il presunto autore dei massacri nella moschea di Christchurch nel suo “manifesto”: “Un ebreo che vive in Israele non è un mio nemico, finché non cerca di sovvertire o danneggiare il mio popolo (bianco).”

Per tutte queste ed altre ragioni, il sionismo è sempre stato un movimento razzista – e non lo è stato meno nella sua versione “sionista laburista”.

Oggi il sionismo laburista è morto come forza politica all’interno della Palestina occupata. Il partito Laburista – i cui predecessori politici fondarono lo Stato di Israele e nel 1948 perpetrarono la Nakba, in cui 750.000 palestinesi vennero espulsi con la forza – ora è relegato a una manciata di sei seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.].

La principale utilità del laburismo sionista per il complessivo movimento sionista è in quanto arma ideologica contro la sinistra globale e il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo, come si vede nel ruolo divisivo che gruppi come il “Jewish Labour Movement” [Movimento Ebraico Laburista] (JLM) e i “Labour Friends of Israel” [Amici Laburisti di Israele] hanno giocato nella lunga campagna contro Jeremy Corbyn.

Come ha spiegato un importante leader di JLM lo stesso mese in cui Corbyn è stato eletto per la prima volta segretario del partito Laburista britannico nel 2015: “Abbiamo costruito un forte discorso politico, radicato nella politica della sinistra e utilizzato nel suo stesso cortile di casa.” Questo progetto è stato messo in atto in modo che “la questione di Israele” non fosse “persa per definizione”. La crisi dell’“antisemitismo” nel partito Laburista è, in realtà, una campagna di razzisti per diffamare in quanto “razzisti” gli anti-razzisti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’accesso all’acqua potabile è un diritto dell’umanità. Perché in Palestina no?

Ramzy Baroud

15 aprile 2019, Middle East Monitor

Il libero accesso all’acqua potabile è un diritto fondamentale dell’umanità. Non si tratta solo di una asserzione dettata dal buon senso, ma di un vero e proprio obbligo legale sancito dal diritto internazionale. Nel novembre 2002 la Commissione ONU per i Diritti Economici, Sociali e Culturali adottò il “Commento Generale nr.15” riguardante il diritto all’acqua: “Il diritto umano all’acqua è indispensabile per condurre una vita di umana dignità. È un prerequisito per la realizzazione di altri diritti umani” (Articolo I.1)

Ma il dibattito sull’acqua come diritto dell’umanità si concluse solo anni dopo, con la Risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010 dell’Assemblea Generale dell’ONU. Essa riconosceva esplicitamente “il diritto all’acqua potabile pulita e sicura come diritto umano essenziale per il pieno godimento della vita e di tutti gli altri diritti umani”.
Ha perfettamente senso: senza acqua non c’è vita. Tuttavia, come accade per qualunque altro diritto umano, sembra che alla Palestina venga negato anche questo.

La crisi idrica si sta abbattendo sull’intero mondo ma l’area più colpita è proprio il Medio Oriente. Le siccità legate al cambiamento climatico, le perturbazioni improvvise, la mancanza di una pianificazione centralizzata, i conflitti militari, tra le altre cose, hanno prodotto un senso di insicurezza idrica senza precedenti.

La situazione però si fa ancora più complicata in Palestina, dove la crisi idrica si collega direttamente al contesto politico più generale dell’occupazione israeliana: l’apartheid, gli insediamenti ebrei illegali, l’assedio e la guerra. Ma mentre è stata posta ragionevolmente molta attenzione sugli aspetti militari dell’occupazione israeliana, le politiche coloniali dello Stato in materia di acqua hanno attirato decisamente meno attenzione, nonostante siano un problema pressante e critico.

Secondo Ashraf Amra, il controllo totale dell’acqua è stata una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’istituzione del regime militare a seguito dell’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia di Gaza nel giugno 1967. Le politiche discriminatorie di Israele, che usa e abusa delle risorse idriche palestinesi, può definirsi vero e proprio “apartheid idrico”.

Il consumo eccessivo di acqua di Israele, l’uso irregolare delle dighe, la negazione del diritto dei palestinesi ad avere la propria acqua o a scavare nuovi pozzi, hanno tutti conseguenze ambientali enormi e probabilmente irreversibili, danneggiando in maniera fondamentale l’intero ecosistema acquatico.

In Cisgiordania, Israele usa l’acqua per consolidare la dipendenza dei palestinesi dall’occupazione, usando una forma crudele di dipendenza economica per mantenere i palestinesi in un rapporto subalterno. Tale modello è supportato dal controllo delle frontiere, i checkpoint militari, la riscossione di tasse, le chiusure, i coprifuochi militari e la negazione dei permessi edilizi. La dipendenza idrica è parte integrante di questa strategia.

L’ “Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza”, conosciuto come l’Accordo di Oslo II, firmato nel settembre del 1995 a Taba, in Egitto, inasprì le iniquità di Oslo I firmato nel settembre 1993: oltre il 71% delle falde acquifere palestinesi furono messe a disposizione di Israele, mentre solo il 17% furono assegnate ai palestinesi.
Ancora più sconvolgente, il nuovo accordo incoraggiava un meccanismo volto a forzare i palestinesi a comprare la loro stessa acqua da Israele, rinforzando ancora di più il rapporto di sudditanza clientelare della Autorità Palestinese nei confronti dello Stato occupante. La compagnia idrica israeliana Mekorot, ente interamente governativo, abusa dei suoi privilegi per premiare o punire i palestinesi a suo piacimento. Nell’estate del 2016, ad esempio, l’intera comunità palestinese nella Cisgiordania occupata fu privata di acqua perché l’Autorità Palestinese non era riuscita a pagare le ingenti somme necessarie a ricomprare quell’acqua proveniente dalle stesse fonti naturali palestinesi.
Sconcertante, vero? Eppure c’è ancora chi si chiede come mai gli accordi di Oslo abbiano fallito nel tentativo di portare la tanto agognata pace nel territorio.

I numeri di questo apartheid idrico parlano chiaro: un palestinese in Cisgiordania usa in media 72 litri di acqua al giorno, un israeliano ne consuma dai 240 ai 300. Le responsabilità politiche di questa disuguaglianza nella distribuzione delle risorse d’acqua disponibili sono da attribuirsi non solo alla crudele occupazione israeliana ma anche alle politiche poco lungimiranti della leadership palestinese.
La situazione a Gaza è addirittura peggiore: il territorio sarà ufficialmente “inabitabile” entro il 2020, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.
È letteralmente l’anno prossimo. La principale causa di questa sinistra previsione è proprio la crisi idrica di Gaza.

Secondo uno studio dellOxfam, “meno del 4% dell’acqua corrente [di Gaza] è potabile e il mare circostante è inquinato dagli scarichi fognari.” La ricerca dell’Oxfam si concludeva indicando la correlazione tra l’inquinamento idrico e il drastico aumento delle patologie renali nella Striscia di Gaza. La crisi idrico-sanitaria di Gaza si sta inasprendo anche per le frequenti chiusure dell’unica centrale elettrica operativa dell’enclave, demolendo qualsiasi speranza di trovare un rimedio.

La società statunitense RAND Corporation ha comprovato che un quarto di tutte le malattie diffuse nella zona assediata della striscia di Gaza hanno origine nella carenza di acqua. Altrettanto drammatiche sono le stime della RAND secondo cui, stando ai dati dell’Organizzazione Internazionale della Sanità, il 97% dell’acqua presente a Gaza è inadatta al consumo umano. Una situazione che in termini di sofferenza umana non può che definirsi orribile.

Gli ospedali della Striscia di Gaza stanno cercando di affrontare le grosse epidemie di malattie e patologie causate dall’acqua sporca, ma gli mancano strumenti adeguati, sono vessati dai continui tagli alla corrente elettrica e soffrono essi stessi dalla mancanza di acqua pulita. “L’acqua è spesso assente ad Al-Shifa, il più grande ospedale di Gaza” – prosegue il rapporto della RAND – “e anche quando l’acqua c’è, dottori e infermiere non riescono a sterilizzare le proprie mani per effettuare interventi chirurgici a causa della sua cattiva qualità”.
Secondo la piattaforma multimediale sull
ambiente Circle of Blue, dei due milioni di residenti a Gaza, solo il 10% ha accesso ad acqua pulita e potabile.
“I miei figli si ammalano perché manca l’acqua”, racconta a Circle of Blue Madlain Al-Najjar, madre di sei figli residente nella Striscia di Gaza, “soffrono spesso di vomito e diarrea. Spesso so riconoscere che l’acqua non è pulita, ma non abbiamo alternative”.

Il giornale inglese The Independent ha raccontato la storia di Noha Sais, madre ventisettenne di cinque figli residente a Gaza. “Nell’estate del 2017, tutti i figli di Noha si ammalarono improvvisamente, vomitando senza sosta, e furono ricoverati. Le acque putride del Mediterraneo di Gaza li avevano avvelenati”.

Il più giovane, Mohamed, un bambino di 5 anni vigoroso e in salute, contrasse un virus ignoto dal mare che si impadronì completamente del suo corpo e del suo cervello. Tre giorni dopo il viaggio, andò in coma. Dopo una settimana era già morto.”

Come Noha racconta al giornale, “I dottori dissero che l’origine dell’infezione era un germe proveniente dall’acqua di mare inquinata, ma che non potevano stabilire esattamente quale fosse. Dissero solo che se mai mio figlio si fosse ripreso, non sarebbe mai più stato lo stesso, che sarebbe stato un vegetale.”

Molti casi simili sono stati registrati in tutta Gaza, e non se ne vede la fine. Le politiche idriche di Israele sono solo una sfaccettatura di una ben più ampia guerra contro i palestinesi con l’intento di rafforzare il controllo coloniale.

A giudicare dalle testimonianze, i sionisti non hanno certo fatto “fiorire il deserto”, come afferma la propaganda israeliana. Da quando si è insediata sulle macerie di più di cinquecento città e villaggi palestinesi distrutti tra il 1947 e il 48, Israele ha fatto l’esatto opposto.

La Palestina contiene un potenziale di colonizzazione di cui gli arabi non necessitano né sono in grado di sfruttare”: queste sono le parole che il padre fondatore di Israele e primo Primo Ministro David Ben Gurion scriveva a suo figlio nel 1937. L’Israele sionista, tuttavia, ha fatto molto più che “sfruttare” quel “potenziale di colonizzazione”; ha anche assoggettato la Palestina storica a una estenuante e cruenta campagna di distruzione che non si è ancora conclusa, e che è probabile si protragga fin quando i sionisti prevarranno in Israele e nella Palestina occupata. È una ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice. Se l’accesso all’acqua pulita è a tutti gli effetti un diritto dell’umanità, perché allora il mondo permette che Israele faccia della Palestina e dei suoi abitanti una eccezione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Il ‘kahanismo’: la logica conclusione del sionismo

Asa Winstanley

2 aprile 2019, Middle East Monitor

Tutti sanno che Kahane aveva ragione’

Nelle elezioni israeliane che si terranno questo mese una coalizione di estrema destra, guidata dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, sarà probabilmente vincente.

L’attuale compagine di parlamentari probabilmente includerà i kahanisti del partito ‘Otzma Yehudit’ (Potere Ebraico).

Il rabbino Meir Kahane era un fanatico razzista antiarabo e antipalestinese. Chiedeva esplicitamente che i palestinesi fossero espulsi dalla Palestina storica – che definiva la “terra di Israele”, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

Il suo libro del 1981 era un sermone diretto e vero e proprio che sosteneva la pulizia etnica esplicitamente razzista della Palestina. Si intitolava “Devono andarsene”.

Kahane, come molti sionisti, era talmente razzista che si rifiutava di usare il termine “palestinesi”, sostenendo che essi non esistevano realmente ed erano semplicemente “arabi” che erano arrivati nella terra di Israele in periodi successivi – un comune mito sionista.

“Gli ebrei e gli arabi della terra di Israele sostanzialmente non possono coesistere”, ha scritto. “Per noi c’è solo una strada percorribile: il trasferimento immediato degli arabi da Eretz Yisrael, la Terra di Israele, verso le loro terre.”

A New York nel 1968 aveva fondato la cosiddetta “Jewish Defence League” [Lega di Difesa Ebraica] (JDL). Questo gruppo di estremisti sionisti era violentemente razzista nei confronti degli afro-americani, dei palestinesi e degli altri arabi.

Per anni ha condotto una campagna interna di terrore contro obbiettivi civili – soprattutto palestinesi, altri arabi e sovietici – ma a volte anche contro altri ebrei e addirittura sionisti, quando doveva risolvere conflitti intestini.

Furono presi di mira gli uffici del famoso intellettuale palestinese Edward Said. E’ stata messa una bomba nell’ufficio dell’attivista palestinese-americano per i diritti civili Alex Odeh, provocando l’uccisione di Odeh.

I principali sospettati dall’FBI fuggirono in Israele, dove alcuni di loro sono tuttora nascosti.

Nel 1971 Kahane si trasferì in Israele, dove fondò il partito Kach ed iniziò a partecipare alle elezioni. Kahane affermò che il Kach era la sezione israeliana della JDL. Questa venne infine giudicata un’organizzazione terroristica dall’FBI e il Kach venne messo fuorilegge persino da Israele.

Alla fine nel 1984 Kahane entrò alla Knesset, il parlamento israeliano. Probabilmente il suo partito avrebbe guadagnato più seggi nelle elezioni del 1988, ma gli fu proibito di presentarsi dopo essere stato messo fuorilegge.

Kahane fu assassinato a New York nel 1990, ma il suo pensiero politico sopravvive oggi in molti partiti politici israeliani. Non si tratta solo di ‘Potere ebraico’, benché sia già abbastanza cattivo.

I capi di ‘Potere ebraico’ sono Michael Ben-Ari e Baruch Marzel.

Marzel è uno dei coloni israeliani più violentemente radicali della Cisgiordania. Vive nella colonia di Tel Rumeida, nella città occupata di Hebron, ed ha partecipato alla creazione di molte colonie simili, espellendo con la violenza i palestinesi e colonizzando la loro terra.

I sostenitori di Marzel hanno scritto che lui è stato, per 25 anni, “la mano destra del rabbino Meir Kahane”, entrando nel Kach quando era giovane e fungendo da suo portavoce per un decennio.

Ha anche “guidato il fronte militare in Giudea e Samaria (la Cisgiordania), agendo con mano ferma e senza compromessi contro il nemico arabo”, come si è vantato un tempo in un “Curriculum Vitae ed esposizione delle attività pubbliche”, ora cancellato.

Marzel per decenni ha celebrato una commemorazione presso la tomba di Baruch Goldstein – un noto seguace americano di Kahane, che massacrò 29 civili palestinesi nel 1994 nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Questi sono i sionisti estremisti che adesso pare che Netanyahu farà entrare nel governo. Netanyahu ha spinto perché ‘Potere ebraico’ venisse integrato in un’ampia coalizione di estrema destra, rendendone molto più probabile la partecipazione nel suo governo di coalizione.

Le lobby israeliane negli Stati Uniti hanno stranamente condannato ‘Potere ebraico’. Per esempio, l’“American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana] ha affermato che “le opinioni di ‘Potere ebraico’ sono deplorevoli. Non rispecchiano i valori fondamentali che stanno alla base della creazione dello Stato di Israele.”

Quest’ultima affermazione è tuttavia palesemente falsa, considerando il fatto che lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica di oltre 750.000 palestinesi espulsi dalla Palestina.

A quanto pare, solo la “Zionist Organisation of America” [Organizzazione Sionista Americana] (ZOA) di Morton Klein, apertamente razzista nei confronti dei palestinesi, ha spalleggiato Netanyahu sulla questione di ‘Potere ebraico’.

Secondo il quotidiano liberale israeliano Haaretz, questo è dovuto al fatto che la ZOA ha rapporti finanziari più stretti e diretti con il donatore miliardario sionista americano di estrema destra antipalestinese Sheldon Adelson.

Benché la dichiarazione di ZOA – che di per sé è palesemente razzista– non vada presa del tutto sul serio, bisogna riconoscere che il presidente di ZOA Morton Klein ha ragione quando afferma che la condanna da parte di AIPAC, ADL, AJC e delle altre lobby filoisraeliane è “ipocrita”.

Assomiglia alla condanna fatta a marzo nei confronti di Netanyahu per aver detto che Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini, ma solo per gli ebrei. In entrambi i casi, l’indignazione non si riferisce alla sostanza del razzismo israeliano, ma al fatto che i leader dell’estrema destra israeliana accampano la pretesa e la finzione che Israele non sia uno Stato razzista e che il sionismo non sia razzismo.

Sono menzogne difficili da sostenere quando i tuoi politici seguono come un guru l’uomo che ha asserito che gli arabi se ne debbano andare.

Uno degli slogan popolari tra i coloni israeliani è “Oggi tutti sanno che Kahane aveva ragione”. Non c’era bisogno che Netanyahu togliesse il bando sul partito Kach, perché la maggior parte di ciò che Kahane sosteneva è stata adottata in toto dai principali partiti politici israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Samah Jabr parla del fatto di essere una dei solo 22 psichiatri in Cisgiordania

Jehan Alfarra

17 dicembre 2017, Middle East Monitor

Samah Jabr è una delle prime donne psichiatra in Palestina e una dei solo 22 psichiatri che assistono i 2.5 milioni di abitanti nella Cisgiordania occupata.

Nata a Gerusalemme, Jabr è cresciuta come abitante senza diritti di cittadinanza. Nella sua vita ha vissuto sotto occupazione militare, assistendo all’impatto sul benessere psicologico dei palestinesi di avvenimenti traumatici come l’arresto e la demolizione di case.

Crescere in Palestina come abitante di Gerusalemme mi ha resa consapevole della vulnerabilità della mia situazione e mi ha fatto capire che l’ingiustizia è un agente patogeno che danneggia il benessere del popolo palestinese sotto occupazione,” dice Jabr a MEMO.

Dopo essersi laureata alla facoltà di medicina dell’università Al-Quds, Jabr ha seguito corsi di specializzazione in psichiatria e psicoterapia infantile in Francia, Inghilterra e Palestina. Oltre al lavoro clinico, dal 1998 ha anche documentato la sua esperienza scrivendo per organi di stampa e pubblicando articoli accademici su riviste specializzate.

Il mio lavoro di medico mi ha portata a contatto con le esperienze della gente,” dice, “e sento la responsabilità morale di fornire una testimonianza dei casi e delle esperienze dei palestinesi.”

Jabr mi racconta che nel corso della sua carriera ha incontrato molte vittime di torture fisiche e psicologiche, ma che quello che più la colpisce sono sempre le ferite meno visibili, meno evidenti.

Si riferisce al caso di un giovane che ora dorme con una borsa di indumenti intimi vicino al letto perché ha il costante timore di essere riarrestato. Un altro caso che ha segnato Jabr è quello di alcune sorelle la cui madre è stata arrestata dai soldati israeliani durante una perquisizione in casa. Temendo un’altra incursione le ragazze hanno dormito per mesi nella stanza centrale dell’abitazione invece che nelle loro camere da letto, totalmente vestite e con il velo.

Le persone sono più interessate alle ferite fisiche, all’amputazione di una gamba o a un trauma cranico,” spiega,” e spesso quando non c’è sangue non prestiamo attenzione.”

Parliamo di quante persone sono state uccise e di quante sono rimaste ferite, ma qui c’è molta sofferenza invisibile, nascosta.

Sento la mia responsabilità morale di non fare solo il lavoro palliativo necessario a gestire le conseguenze di maltrattamenti, ma anche di informare e di fare quanto è possibile per fermare maltrattamenti e ingiustizia.”

Continua raccontando un’altra storia di un ragazzo palestinese che le ha detto che le guardie in prigione erano più brave di suo padre perché gli davano una sigaretta da fumare mentre suo padre non voleva. “In seguito ho saputo da questo ragazzino come suo padre non ha saputo proteggerlo dall’arresto,” continua.

Questo è un piccolo esempio del tipo di danni invisibili che patiscono le persone vulnerabili e del tipo di violenza che possono avere subito nella propria cerchia familiare, ciò che può disturbare i loro sentimenti e il loro sistema di valori,” dice, “e questi esempi sono molto comuni.”

Documentare il trauma in un film

Gli incontri e le idee di Jabr riguardo all’impatto psicologico della vita in Palestina sono stati il soggetto di un documentario presentato in alcuni cinema francesi il mese scorso. Nel film, “Beyond the Frontlines: Tales of Resistance and Resilience in Palestine” [Oltre la linea del fronte: racconti di resistenza e resilienza in Palestina], Jabr racconta brani scelti dai suoi scritti riguardanti cosa significhi resistenza nel contesto dell’occupazione israeliana.

La regista francese del film, Alexandra Dols, aveva contattato Jabr verso la fine del 2012 perché voleva usare i suoi scritti come base del documentario dopo aver trovato un articolo che Jabr aveva scritto nel 2007 per il “Washington Report on Middle East affairs” [rivista USA di studi sul Medio Oriente, ndt.] intitolato “Ballare per percussionisti diversi – ma comunque ballare”, che indagava il significato di un’azione per soggetti differenti. L’articolo parte dall’incontro con una paziente che le aveva raccontato come avesse “ballato come una gallina sgozzata” quando suo figlio era stato ucciso; seguono altri incontri di quel giorno con soldati israeliani che ballavano a un posto di blocco e di se stessa che danzava durante un matrimonio in famiglia.

Inizialmente esitante, Jabr ha risposto ad Alexandra nel 2013 accettando di partecipare al documentario. La troupe è arrivata in Palestina verso la fine dell’anno.

Dols è arrivata con due volontari,” spiega Jabr, sottolineando le difficoltà incontrate dal gruppo per garantirsi i fondi per il montaggio. “Ma il fatto che non fossero finanziati da una grande istituzione per me era rassicurante,” afferma Jabr, riferendosi alle sue preoccupazioni sulla censura delle istituzioni più importanti riguardo al suo discorso. Spiega:

Vedo la resistenza come una risposta sana alla violenza della situazione e all’occupazione, in cui le persone sono soggette all’ingiustizia.”

Questa idea viene ripresa da varie voci palestinesi intervistate nel film, provenienti da una grande varietà di contesti dello spettro politico e ideologico.

Le interviste e le registrazioni dei miei articoli hanno richiesto molto tempo,” aggiunge Jabs, “ma sono soddisfatta del film.

Mi è piaciuto il modo in cui Dols ha reso i miei articoli dal punto di vista visivo. Li ha fatti leggere a me e ha proposto immagini e fotografie che li rendono più visibili e più evidenti, gli argomenti e le idee su cui avevo scritto.”

Avendo partecipato alla prima settimana di proiezioni in Francia, Jabr dice di aver trovato che il film è un grande strumento di discussione, aggiungendo che le reazioni sono state incoraggianti. “É’ un film di due ore, ma le persone sono rimaste altre due ore per discutere e fare domande,” afferma.

Alcuni operatori nel campo della salute mentale che erano presenti mi hanno messo in discussione riguardo alla neutralità e all’imparzialità,” continua. “Alcuni di loro se ne sono usciti con l’affermazione che avere delle convinzioni politiche non è professionale e ciò mi ha permesso di ragionare sulla responsabilità morale che ritengo necessaria e sull’importanza di comprendere il contesto…senza ignorare i conflitti intimi degli individui.”

In seguito alle proiezioni, Jabr ha ricevuto una lettera in cui uno spettatore le ha scritto che Israele deve volersi suicidare per aver consentito alla regista del film di entrare a Gerusalemme e a Jabr di andare all’estero per criticarlo. Ha parlato di questo scambio in un articolo scritto in seguito alla proiezione.

Il film è stato proiettato anche in Palestina ed è stato accettato al festival cinematografico “Giorni di Cinema” [che si tiene in Palestina, ndt.]. In seguito ha vinto il premio “Sunbird” [attribuito dallo stesso festival] come miglior documentario.

Anche il gruppo israeliano di operatori della salute mentale per i diritti umani “PsychoActive” ha ospitato una proiezione del film. “C’è stata ogni sorta di reazioni diverse,” afferma Jabr, “ma la prima reazione sono stati silenzio e tristezza.”

Mentre alcuni israeliani sono stati incoraggiati non solo a farsi un’idea dell’occupazione ma ad agire contro di essa, altri hanno accusato il film di essere di parte e di non presentare la prospettiva israeliana.

La regista ha chiarito fin dalla prima scena, in cui c’è una conversazione tra un israeliano e un palestinese, che aveva deciso di seguire la storia dei palestinesi,” spiega Jabr.

La salute mentale in Palestina

Cinquant’anni di occupazione hanno lasciato i palestinesi con una delle percentuali più alte di disturbi mentali in Medio Oriente, eppure i servizi di salute mentale continuano ad essere tra le aree con meno risorse a disposizione per le prestazioni sanitarie, con finanziamenti e personale insufficienti. “Queste carenze non sono solo influenzate dalla situazione sul terreno, ma anche dalla mentalità dei responsabili politici della sanità,” dice Jabr. “Ma, nonostante questi limiti, c’è stata una crescita in questa professione e stiamo facendo molto per migliorarla.”

Nella sua veste di responsabile dei servizi di salute mentale in Cisgiordania, Jabr sta cercando di sviluppare un modello di servizi che risponda alle risorse a disposizione. “Sto cercando di promuovere una gerarchia nei servizi, per cui dottori generalisti, infermieri e insegnanti possano fornire interventi a bassa intensità per appoggiare la resilienza e il benessere delle persone,” aggiunge, “per identificare quelli che hanno necessità di aiuto e indirizzare chi ha bisogno di interventi più specialistici al personale specializzato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come sarebbe uno Stato di Israele non coloniale?

Nasim Ahmed

3 marzo 2019 – Middle East Monitor

Mentre si avvicinano le elezioni [israeliane, ndt.] del 9 aprile, MEMO intervista i parlamentari ed ex parlamentari arabi della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] in merito alla loro esperienza di lavoro all’interno del sistema politico israeliano e alle loro speranze per il futuro.

Il contrasto tra democrazia ed etnocrazia è al centro della narrazione israeliana. I fondatori dello Stato erano convinti di gettare le basi di uno Stato democratico, che si sarebbe impegnato per il bene di “tutto il suo popolo”. La Dichiarazione di Indipendenza israeliana era chiara sul fatto che si sarebbe trattato di uno Stato fondato sui principi di “libertà, giustizia e pace, guidato dalle visioni dei profeti di Israele; avrebbe garantito pieni ed eguali diritti sociali e politici a tutti i suoi cittadini, senza distinzioni in base a differenze di fede religiosa, razza o sesso; avrebbe garantito libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura”.

Nobili ideali, certo, tuttavia la narrazione ufficiale è servita non solo a nascondere il razzismo insito nel sionismo, ma anche le sfide inconciliabili che nascono dall’imposizione di un’etnocrazia in una terra già popolata da un popolo appartenente a un diverso gruppo etnico. Coloro che hanno capito cosa avrebbe comportato il sionismo, come ad esempio il compianto giornalista Christopher Hitchens, si sono opposti ad esso per principio: “Sono un anti-sionista, sono una di quelle persone di origine ebraica che credono che il sionismo sarebbe un errore anche se non ci fossero i palestinesi”. Hitchens, che molti considerano uno dei più forti sostenitori dei valori liberali occidentali e un altrettanto strenuo oppositore del dogmatismo, ha inoltre dichiarato che non avrebbe mai potuto accettare il presupposto di uno Stato ebraico, perché si trattava di “un’idea stupida, messianica e superstiziosa”.

Il contrasto tra quell’idea e gli ideali dei padri fondatori di Israele è stato un tema ricorrente sia per i sostenitori dello Stato che per i suoi oppositori. Di solito, i sostenitori di Israele sono segnati da dogmatismo. Il ministro degli Interni britannico, Sajid Javed [del partito Conservatore, di origine pakistana, ndt.], per esempio, ha citato la narrazione della fondazione di Israele quando ha dichiarato “Se dovessi andare a vivere in Medio Oriente, c‘è solo un posto in cui potrei andare. Israele!” Spiegando perché non andrebbe in nessun Paese a maggioranza musulmana, ha aggiunto che Israele è “l’unica Nazione in Medio Oriente che condivide gli stessi valori democratici della Gran Bretagna e l’unica Nazione in Medio Oriente in cui la mia famiglia sentirebbe il caloroso abbraccio della libertà e dell’indipendenza“.

Javed è un simbolo per coloro che sono pro-Israele e scattano in sua difesa armati di nient’altro che frasi fatte per affrontare la realtà di undici milioni di palestinesi che non hanno mai provato alcun “caloroso abbraccio di libertà e indipendenza” da parte di Israele. Essi sono la prova vivente dell’inconciliabile contrasto tra democrazia ed etnocrazia intessuto nel paradosso sionista, emerso in modo così catastrofico che perfino ex primi ministri dello Stato sionista hanno manifestato la loro preoccupazione per la tendenza (di Israele) a diventare uno Stato di apartheid.

Quasi nessuno ha conosciuto tale contrasto in Israele meglio di Haneen Zoabi. La parlamentare della Knesset ha deciso di non partecipare alle prossime elezioni, in aprile. Nonostante ciò, mi ha detto che spera di risolvere un giorno la situazione e trasformare Israele da regime coloniale a democrazia piena, che non discrimini sulla base di chi è o non è ebreo. Membro del partito arabo-israeliano Balad, Zoabi è parlamentare dal 2009 e al centro della tensione che scuote il cuore di Israele, i cui sostenitori non hanno mai smesso di ricordarci, a sostegno della loro tesi, che “l’unica democrazia del Medio Oriente” ha Zoabi e un’altra decina di membri arabi in parlamento.

Come riesce a conciliare il fatto di essere una parlamentare della Knesset con l’aver denunciato che Israele non è una vera democrazia? “Quando gli Stati Uniti hanno permesso agli afroamericani di salire in autobus, ma hanno preteso che sedessero solo nei posti in fondo, ecco, questa era forse uguaglianza?” ha risposto tuonando. “Sei nella Knesset, ma non nel posto dal quale è possibile cambiare qualcosa, cambiare effettivamente qualcosa”.

In questo metaforico autobus, aggiunge, esistono 85 leggi razziste che ti impediscono di cambiare davvero le cose. “Siamo sempre seduti più in basso. Tu sali sull’autobus, ma devi sederti dietro. L’autobus su cui sali assicura speciali privilegi agli ebrei. Puoi gridare, ma non hai niente come il Primo Emendamento della Costituzione americana a proteggerti. C’è razzismo, ci sono articoli di legge razzisti, ma non c’è alcuna Costituzione a difendere i tuoi diritti.”

Le leggi razziali menzionate sono state al centro di campagne da parte di gruppi per la promozione dei diritti come “Adalah”, Centro per i Diritti della Minoranza Araba (Legal Centre of Arab Minority Rights) in Israele. Il gruppo per i diritti umani, con sede ad Haifa, ha documentato ogni legge discriminatoria all’interno del Paese. Più della metà pare siano state adottate dopo le elezioni del 2009, che portarono al potere la coalizione più di destra nella storia dello Stato, guidata dal primo ministro Benjamin Netanyahu. La più recente tra le leggi discriminatorie è la legge sullo Stato-Nazione [Jewish Nation-State Law], che è stata denunciata perché codifica l’apartheid in Israele.

Secondo Zoabi, l’apartheid di tipo israeliano è stata occultata da una potente narrazione che presenta al resto del mondo lo Stato come una democrazia liberale, con un ragionamento di giustificazione di carattere colonialista. “C’è un forte sentimento di giustificazione che permette a Israele di discriminare i suoi stessi cittadini palestinesi,” spiega. “Esiste un discorso morale che ti fa sentire in dovere di apprezzare il Paese anche se ti viene riconosciuto solo il 10% dei tuoi diritti”.

Utilizzando la classica dinamica del colonizzatore contro il colonizzato, la parlamentare di Nazareth aggiunge che Israele fa anche un ragionamento morale per spiegare perché può negare ai palestinesi i loro diritti nazionali. “Esiste una ragione etica per cui dovrebbero negare la tua storia e identità di palestinese, anche se ci riconoscono il 20% dei nostri diritti civili e nessuno di quelli nazionali. Ed esiste un ragionamento che illustra perché dovremmo accettare la nostra inferiorità e la posizione di popolo oppresso.” Il tragico impatto di tale potente narrazione, spiega Zoabi, è il motivo per cui Israele non considera la sofferenza dei palestinesi e la loro discriminazione come vera sofferenza e reale discriminazione.

La funzione dello Stato di Israele non è essere neutrale verso tutti i suoi cittadini, ma riconoscere un ruolo dominante agli ebrei a spese della popolazione autoctona”, ribadisce. “Israele non può garantire diritti individuali a tutti i suoi cittadini, perché lo Stato si definisce come Stato ebraico”.

Anche se non si ricandiderà alle elezioni legislative di aprile, Zoabi dice di essere determinata a restare in politica; mi ha detto che è tempo di sviluppare il programma politico del partito Balad e il suo progetto: “L’idea è di fare una campagna per uno Stato di tutti i cittadini, e contestare la concezione di uno Stato ebraico e democratico. Non esiste un modo democratico di essere uno Stato ebraico”. Il suo obiettivo, ribadisce, è di trasformare Israele in uno Stato non coloniale. “Il sionismo è un’ideologia coloniale e l’unico modo di avere una democrazia è di separare lo Stato dal sionismo”.

Come sarebbe Israele come Stato non coloniale, non sionista? “Immaginiamo una democrazia. Non diciamo che chi è arrivato come colonizzatore ora se ne deve andare; diciamo che chi è arrivato come colonizzatore oggi ha la possibilità di vivere insieme a noi”.

Israele, insiste Zoabi, non deve continuare con i tentativi di spostamento e sostituzione dei palestinesi – la popolazione autoctona – ma deve cercare di coesistere con loro. “L’unico modo di coesistere con noi è eliminare dall’agenda gli obiettivi coloniali e sviluppare uno Stato per tutti i cittadini di Israele. Non a spese della nostra identità e del nostro legame con i palestinesi nel resto del mondo.

Contemporaneamente, Balad ha una visione democratica di accettazione di tutti gli israeliani come normali esseri umani in uno Stato normale. Il suo messaggio agli ebrei israeliani, dice Haneen Zoabi, è semplice: “Vorremmo riconoscervi come collettività, però all’interno di uno Stato che non si identifichi esclusivamente con voi, ma che si identifichi con me e con voi allo stesso livello.” Uno Stato del genere sarà uno Stato diverso con una diversa simbologia, e sarà una democrazia. “Su questa base, io non difendo solo i miei diritti, ma anche il diritto degli ebrei come popolo, perché anche loro hanno il diritto di vivere in un Paese normale. Forse non hanno scelto di vivere in uno Stato razzista, di apartheid, ma nessuno ha dato loro un’alternativa. Balad offre una vera alternativa.”

(traduzione di Elena Bellini)




Israele dovrebbe essere giudicato per l’uccisione illegale di manifestanti a Gaza

Middle East Monitor

28 febbraio 2019

video proiettato durante le sedute della Commissione ONU

La Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] ha informato che giovedì membri di una commissione d’inchiesta ONU hanno affermato che lo scorso anno a Gaza le forze di sicurezza israeliane potrebbero aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità per l’uccisione di 189 palestinesi e il ferimento di più di altri 6.100 durante le proteste settimanali.

La commissione indipendente ha affermato di aver avuto informazioni confidenziali su coloro che ritiene essere responsabili di queste uccisioni illegali, compresi cecchini e comandanti dell’esercito israeliano. Ha chiesto ad Israele di incriminarli.

Quando hanno sparato le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso e menomato manifestanti palestinesi che non rappresentavano una minaccia immediata di morte o di gravi ferite ad altri, né stavano partecipando direttamente agli scontri,” si afferma, aggiungendo che le proteste sono state “di carattere civile”.

Le vittime includono minori, giornalisti e una persona amputata ad entrambe le gambe che era su una sedia a rotelle.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto il rapporto ed ha accusato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, che ha promosso l’inchiesta, di ipocrisia e di menzogne alimentate da “un odio ossessivo verso Israele.”

Israele ha affermato di aver aperto il fuoco per difendere il confine da incursioni e attacchi da parte di miliziani armati.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato che i risultati dell’indagine confermano che “Israele ha commesso crimini di guerra contro il nostro popolo a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme.”

In un comunicato ha detto che la Corte Penale Internazionale dovrebbe agire immediatamente e aprire un’inchiesta in merito.

Le proteste sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza sono iniziate nel marzo dello scorso anno, con i gazawi che chiedevano che Israele alleggerisse il blocco dell’enclave e il riconoscimento del loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie fuggirono o che vennero obbligate a lasciare quando Israele venne fondato nel 1948.

La commissione ha scoperto che 183 dei 189 manifestanti sono stati uccisi con proiettili veri. Ha espresso una grande preoccupazione per le regole d’ingaggio segrete stilate dai dirigenti civili e militari israeliani che “a quanto pare consentono di sparare proiettili veri contro dimostranti come ultima risorsa… e di sparare alle gambe dei ‘principali agitatori’.”

Sostiene che il concetto israeliano di ‘principali agitatori’ non esiste nelle leggi internazionali.

Dice che circa 122 feriti, tra cui 20 minori, hanno avuto un arto amputato.

La commissione afferma che nessun soldato israeliano è stato ucciso durante le proteste, tranne uno durante un giorno di manifestazioni ma non in un luogo in cui stavano avvenendo proteste, mentre quattro sono stati feriti.

Una portavoce militare israeliana lo ha contestato, sostenendo che il soldato sia stato colpito a morte durante disordini nelle vicinanze che erano “stati provocati per attirare soldati e poterli attaccare.”

Il rapporto, che riguarda il periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018, si basa su centinaia di interviste con vittime e testimoni, così come su reperti medici, video, riprese da droni e fotografie.

Il rapporto dice che il 14 maggio le forze israeliane hanno ucciso 60 dimostranti, il più alto numero di vittime in un solo giorno a Gaza dall’attacco militare del 2014 [l’operazione “Margine Protettivo”, ndt.].

In un comunicato Amnesty International ha affermato: “I responsabili da questi crimini deprecabili non devono rimanere impuniti. I risultati di questo rapporto devono portare a fare giustizia per le vittime di crimini di guerra.”

Corte Penale Internazionale

I membri della commissione d’indagine dicono che l’alta commissaria ONU per i diritti umani Michelle Bachelet dovrebbe condividere i risultati con la CPI.

Israele non fa parte della CPI né ne riconosce la giurisdizione, ma la corte con sede all’Aia nel 2015 ha aperto un’indagine preliminare riguardo alle denunce di violazioni dei diritti umani da parte di Israele sul territorio palestinese.

La Striscia di Gaza, l’enclave costiera controllata dal gruppo islamista Hamas, ospita 2 milioni di palestinesi. Nel 2005 Israele ritirò le sue truppe e i suoi coloni da Gaza, ma conserva un rigido controllo sui suoi confini terrestri e marittimi. Anche l’Egitto limita il movimento dentro e fuori Gaza.

Il presidente della commissione Santiago Cantón, un giurista argentino, ha detto: “Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o contro l’umanità e devono essere immediatamente indagate da Israele.”

Durante una conferenza stampa ha affermato: “La nostra inchiesta ha scoperto che i manifestanti erano nella stragrande maggioranza disarmati, anche se non sempre pacifici.”

Trentacinque minori, due giornalisti e tre paramedici “chiaramente individuabili” sono stati tra le vittime delle forze israeliane, in violazione delle leggi umanitarie internazionali, afferma il rapporto.

Sara Hossain, membro della commissione e avvocatessa presso la Corte Suprema del Bangladesh, ha sostenuto: “Stiamo affermando che hanno sparato intenzionalmente a minori. Hanno sparato intenzionalmente a persone disabili, hanno sparato intenzionalmente a giornalisti.” E ha aggiunto: “Abbiamo scoperto che una persona con entrambe le gambe amputate è stata colpita ed uccisa mentre era seduta sulla sua sedia a rotelle. In due giorni diversi due persone visibilmente con le stampelle sono state colpite alla testa. Sono state uccise.”

Israele afferma che le sue forze sono state a volte vittime di attacchi da armi da fuoco o granate durante le proteste.

Betty Murungi, che ha fatto parte della commissione, ha anche detto che le autorità di Gaza dovrebbero interrompere l’uso di aquiloni e palloni incendiari, congegni che hanno distrutto coltivazioni israeliane.

Il funzionario di Hamas Ismail Rudwan ha detto alla Reuter a Gaza: “La richiesta della commissione ONU di mettere sotto processo i dirigenti dell’occupazione israeliana è una prova che le forze di occupazione hanno commesso crimini contro l’umanità nella Striscia di Gaza.”

Nell’ultimo decennio Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)