L’operazione Al-Aqsa ha cambiato il rapporto tra Palestina e Israele 

Ramzy Baroud

10 ottobre 2023 Middle East Monitor

A prescindere dalla precisa strategia del Movimento di Resistenza Islamico Palestinese, di Hamas, o di qualsiasi altra fazione palestinese in generale, l’audace campagna militare all’interno di Israele di sabato 7 ottobre è stata possibile solo perché i palestinesi sono semplicemente stufi. Israele, ricordiamolo, ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale da 17 anni.

La storia dell’assedio è per lo più presentata in due modi nettamente diversi. Per alcuni si tratta di un atto disumano di “punizione collettiva”; per altri è un male necessario affinché Israele possa proteggersi dal cosiddetto terrorismo palestinese. Nel racconto, tuttavia, manca del tutto il fatto che 17 anni sono sufficienti perché un’intera generazione cresca sotto assedio, si arruoli nella Resistenza e combatta per la libertà.

Secondo Save the Children, quasi metà dei 2,3 milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza sono minori. La cosa è spesso citata per definire la sofferenza di una popolazione che non è mai uscita dalla piccola e impoverita Striscia di 365 chilometri quadrati [corrispondente alla provincia di Prato, ndt.]. Di nuovo, anche se i numeri possono sembrare precisi, vengono spesso utilizzati per raccontare una piccola parte di una storia complessa.

Questa generazione di Gaza, cresciuta o nata dopo l’imposizione dell’assedio, ha vissuto almeno cinque importanti e devastanti guerre, in cui bambini come loro, insieme alle loro madri, ai padri e fratelli sono stati il bersaglio principale e quindi le vittime principali.

Nemmeno i tentativi di protestare pacificamente contro l’ingiustizia dell’assedio radunandosi in gran numero presso la recinzione che separa Gaza assediata da Israele sono stati autorizzati dallo Stato occupante. Le proteste di massa, conosciute come la Grande Marcia del Ritorno hanno ricevuto come risposta i proiettili dei cecchini israeliani. Immagini di giovani che trasportavano altri giovani che sanguinavano per ferite da arma da fuoco e gridavano “Dio è grande” erano diventate una scena normale lungo la recinzione. Man mano che le vittime aumentavano, nel tempo l’interesse dei media per la storia semplicemente svaniva.

Le centinaia di combattenti che all’alba di sabato scorso sono entrate in Israele attraverso quattro diversi punti di ingresso erano gli stessi giovani palestinesi che non conoscono altro che la guerra, l’assedio e il bisogno di proteggersi a vicenda. Hanno anche imparato a sopravvivere a tutti i costi, nonostante la scarsità o la totale mancanza di quasi tutto a Gaza, comprese l’acqua pulita e un’adeguata assistenza medica.

È qui che la storia di questa generazione si interseca con quella di Hamas, della Jihad islamica e di altri gruppi palestinesi.

Certo, Hamas ha scelto i tempi e la natura della sua campagna militare inserendola in una strategia molto precisa. Questo, tuttavia, non sarebbe stato possibile se Israele non avesse lasciato a questi giovani palestinesi altra scelta se non quella di contrattaccare.

I video che circolavano sui social media mostravano combattenti palestinesi che urlavano in arabo, con quel caratteristico, spesso aspro accento di Gaza: “Questo è per mio fratello” e “Questo è per mio figlio”. Hanno gridato queste e molte altre affermazioni rabbiose mentre sparavano contro coloni e soldati israeliani in preda al panico. Molti di questi ultimi, a quanto pare, avevano abbandonato le loro postazioni e si erano dati alla fuga.

L’impatto psicologico di questa guerra supererà sicuramente quello dell’ottobre 1973, quando gli eserciti arabi ottennero rapide conquiste contro Israele, anche allora a seguito di un attacco a sorpresa. Questa volta l’impatto devastante sul pensiero collettivo israeliano si rivelerà essere un punto di svolta, dal momento che la “guerra” coinvolge un solo gruppo palestinese, non un intero esercito o tre messi insieme.

L’attacco a sorpresa dell’ottobre 2023, tuttavia, è direttamente collegato alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973. Scegliendo il cinquantesimo anniversario di quello che gli arabi considerano un grande trionfo contro Israele, la Resistenza palestinese ha voluto inviare un messaggio chiaro: la causa palestinese è ancora la causa di tutti gli arabi. Tutte le dichiarazioni rilasciate dagli alti comandanti militari e dai leader politici di Hamas erano cariche di questo simbolismo e di altri riferimenti ai paesi e ai popoli arabi.

Il discorso pan-arabo non è casuale ed è comparso nelle dichiarazioni di Mohammed Deif, comandante delle brigate Al-Qassam, di al-Arouri comandante fondatore di Al-Qassam Saleh, del capo dell’Ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e di Abu Obeida, il portavoce mascherato delle Brigate. Tutti hanno esortato all’unità e hanno insistito sul fatto che la Palestina non è che una componente di una più ampia lotta araba e islamica per la giustizia, la dignità e l’onore collettivo. Hamas ha chiamato la sua campagna “Al-Aqsa Flood” ricentrando l’unità palestinese, araba e musulmana attorno ad Al-Quds [nome arabo di Gerusalemme, ndt.], Gerusalemme e tutti i suoi luoghi santi.

Tutti sembravano scioccati, compreso proprio Israele, non dall’attacco di Hamas in sé ma dal coordinamento e dall’audacia di un’operazione relativamente massiccia e senza precedenti. Invece di attaccare di notte, la Resistenza ha attaccato all’alba. Invece di colpire Israele utilizzando i numerosi tunnel sotto Gaza, hanno semplicemente guidato, fatto parapendio, remato via mare e, in molti casi, attraversato a piedi il preteso confine.

L’elemento sorpresa è diventato ancora più sconcertante quando i combattenti palestinesi hanno messo in discussione i fondamenti stessi della guerriglia: invece di combattere una “guerra di manovra” hanno combattuto, anche se temporaneamente, una “guerra di posizione”, mantenendo per molte ore le aree di cui avevano ottenuto il controllo dell’interno di Israele.

In effetti, per i gruppi di Gaza, l’aspetto psicologico della guerra era essenziale quanto il combattimento fisico. Centinaia di video e immagini sono diventate virali sui social media, come se si sperasse di ridefinire il rapporto tra palestinesi, solitamente le vittime, e Israele, l’occupante militare.

L’insistenza sul non uccidere anziani e bambini è stata sottolineata dai comandanti sul campo. Questo non era destinato solo ai palestinesi. È stato anche un messaggio al pubblico internazionale, che la Resistenza Palestinese si atterrà alle regole universali della guerra.

Il numero di palestinesi che Israele uccide, e ucciderà in futuro, come rappresaglia per l’operazione Al-Aqsa sarà tragico, ma non salverà la reputazione a brandelli di un esercito indisciplinato, una società divisa e una leadership politica concentrata esclusivamente sulla propria sopravvivenza.

È troppo presto per giungere a conclusioni generali sugli esiti di questa guerra senza precedenti. Ciò che è chiarissimo, tuttavia, è che il rapporto di fondo tra l’occupazione israeliana e i palestinesi occupati di qui in poi è cambiato, probabilmente in modo permanente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Le forze israeliane aggrediscono e cacciano i fedeli palestinesi dalla moschea di Al-Aqsa

Redazione di MEMO

3 ottobre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Wafa ha riferito che oggi le forze di occupazione israeliane hanno aggredito giornalisti palestinesi e obbligato i fedeli mussulmani a uscire dalla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme Est occupata.

Con il pretesto che disturbavano i coloni che hanno preso d’assalto la moschea di Al-Aqsa per effettuare rituali e preghiere talmudici per segnare la festa ebraica del Sukkot, i fedeli palestinesi sono stati assaliti e allontanati con la forza dai soldati dell’occupazione israeliana.

Sukkot è una festa che dura una settimana, cominciata il 29 settembre e che continua fino al 6 ottobre, chiudendo un periodo di feste ebraiche che è cominciato osservando la festa del Rosh Hashanah (Capodanno) il 15 settembre.

I palestinesi accusano lo Stato di Israele di lavorare sistematicamente per giudaizzare Gerusalemme Est, dove si trova Al-Aqsa, e per cancellare la sua identità araba e islamica.

Gli attacchi contro i palestinesi presso il complesso della moschea di Al-Aqsa sono avvenuti dopo una dichiarazione rilasciata dal dipartimento Islamic Wafq (fondazione religiosa) in cui si afferma che le forze israeliane hanno chiuso la porta Al-Mughrabi, a sud-ovest della moschea di Al-Aqsa, “dopo che avevano consentito a 602 estremisti ebrei” [di entrare] nel sito.

Le forze israeliane hanno cominciato a permettere ai coloni di penetrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa nel 2003, nonostante ripetute condanne da parte dei palestinesi.

La moschea di Al-Aqsa è il terzo sito più sacro al mondo per i mussulmani. Gli ebrei chiamano l’area il “Monte del Tempio”, sostenendo che nell’antichitò fu il luogo in cui sorgevano due templi ebraici.

Israele ha occupato Gerusalemme Est, dove si trova Al-Aqsa, durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980, un passo mai riconosciuto dalla comunità internazionale.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Fantasmi del passato: per Israele la guerra all’UNESCO è una battaglia esistenziale

Ramzy Baroud

25 settembre 2023 – Middle East Monitor

Gerico non appartiene soltanto ai palestinesi. Appartiene all’intera umanità.

Tuttavia per Israele il riconoscimento da parte dell’UNESCO di Gerico come “Sito Patrimonio dell’Umanità in Palestina” rende complicata la sua missione di cancellare dall’esistenza la Palestina, fisicamente e simbolicamente.

La decisione è stata descritta dal Ministero degli Esteri di Israele come un “cinico” espediente dei palestinesi per politicizzare l’UNESCO.

Ciò è ridicolo, giacché Israele ha politicizzato la storia rimuovendo qualunque cosa potesse essere interpretata come parte del patrimonio storico palestinese, promuovendo al contempo un punto di vista storico autocentrato e ampiamente inventato, che si presume appartenga a Israele e ad Israele soltanto.

Benché Israele sia riuscito, grazie alla sua enorme potenza militare, a dominare il panorama fisico palestinese, ha ampiamente fallito nel domare la storia della Palestina.

I muri dell’apartheid, i posti di blocco e le colonie ebraiche illegali sono facili da costruire. Costruire una narrazione storica costellata di bugie, mezze verità ed omissioni, è invece quasi impossibile da sostenere a lungo.

Tutto ciò fa parte di una perdurante guerra israelo-statunitense contro l’UNESCO. Nel 2019 gli Stati Uniti e Israele si ritirarono ufficialmente dall’UNESCO, accusando pregiudizi anti-israeliani. Questo faceva seguito a reiterate minacce da parte di diverse amministrazioni USA e ad un taglio di finanziamenti da parte dell’amministrazione Obama nel 2011.

Ma perché una guerra così accanita e determinata contro un’organizzazione che si presenta come promotrice di “pace e sicurezza mondiali attraverso la cooperazione nell’educazione, nelle arti, nella scienza e nella cultura”?

Di fatto l’UNESCO è una delle pochissime istituzioni internazionali collegate all’ONU che è sostanzialmente non politicizzata, basata sulla convinzione che il passato, e tutto ciò che di esso rimane, sia un patrimonio comune che appartiene a tutti noi.

Per quanto una simile affermazione sia accettabile per molti Paesi al mondo, per Israele gli innocui gesti dell’UNESCO verso i palestinesi sono semplicemente eretici.

Non solo Gerico – e in particolare Tell Es-Sultan – compaiono nell’elenco dei siti del patrimonio mondiale, ma entrambi sarebbero in testa alla classifica. Non si tratta di mettersi in mostra o di un altro ‘cinico’ utilizzo della storia, ma semplicemente del fatto che Gerico è “la più antica città abitata del mondo” e Tell Es-Sultan è “la città più antica al mondo” in quanto risale al decimo millennio prima di Cristo.

Per esempio studi recenti ritengono che la Torre, del periodo neolitico pre-vasellame, circa 8.300 avanti Cristo, segni il solstizio d’estate. Fu per quasi 6.000 anni la struttura più alta costruita dall’uomo nel mondo. Questo è solo uno dei tanti sconvolgenti dati di fatto riguardo a Tell E-Sultan.

Tutta la Palestina è ricca di una simile storia, che fa risalire la nostra origine comune ad antiche civiltà che si sono mescolate o fuse con altre culture, regalandoci l’affascinante mosaico che è l’umanità.

E poiché la storia della Palestina è la storia del genere umano, gli storici, archeologi e intellettuali palestinesi seri raramente ostentano alcuna proprietà etnocentrica su quella storia, rifiutando così di rivendicare qualunque predominio su altre culture.

Tutte le prove archeologiche e storiche dimostrano che la Palestina era abitata da molte persone”, ha scritto l’eminente archeologo palestinese Dr. Hamdan Taha nel volume di recente pubblicazione Il nostro sogno della liberazione.’

La storia palestinese copre un periodo che va “dall’Homo Sapiens fino al XXI secolo e nel corso di tutta questa storia, segnata da tante guerre, invasioni e conversioni, (…) la popolazione indigena non fu mai completamente eliminata”, scrive Taha.

Basta un’attenta lettura delle osservazioni di Taha per spiegare i timori, al limite del panico, di Israele, ogni volta che la Palestina e i palestinesi vengono associati ad una attendibile narrazione storica.

Merita soffermarsi su due punti: primo, tutte le “guerre, invasioni e conversioni” non sono riuscite ad interrompere il flusso e la continuità demografica del “popolo indigeno” della Palestina, che ha portato agli attuali moderni palestinesi; secondo, quelle persone autoctone, benché alcuni invasori abbiano invano tentato, non sono “mai state completamente eliminate.”

Israele ha fatto di più che cercare di riscrivere la storia ed emarginare i principali protagonisti della narrazione storica palestinese. Ha anche attivamente e costantemente cercato di eliminare del tutto i nativi.

Ma non ci è riuscito. Il numero di palestinesi che vivono oggi nella Palestina storica come minimo eguaglia, e secondo alcune stime supera, il numero di ebrei israeliani immigrati dall’Europa e da altri Paesi.

Avendo fallito nell’ ‘eliminazione’ di parte della storia, Israele sta ora ricorrendo alla strategia su due fronti della pulizia etnica e della separazione razziale, o apartheid. Quest’ultima prassi è adesso sempre più riconosciuta da organizzazioni internazionali per i diritti umani, comprese Amnesty, Human Rights Watch e molte altre.

I fantasmi del passato sono un altro problema che sta di fronte a Israele. Un’eccezionale schiera di storici e archeologi palestinesi, come Taha, affiancati da coraggiosi e altrettanto eccezionali storici israeliani, come Ilan Pappé, sono decisi a portare alla luce la verità sulla storia della Palestina e sulle manomissioni della storia da parte di Israele.

Grazie a simili autorevoli persone è emersa una storia parallela a quella inventata da Israele dopo la Nakba.

Un altro Tell – parola araba per ‘collina’ – vicino a Tell Es-Sultan, è stato recentemente scoperto. Il quotidiano israeliano Haaretz all’inizio del mese ha informato che gli scavi a Tell Qedesh sono “il primo progetto di quel genere” che rivela un passato non così lontano.

In questo villaggio palestinese vicino al confine libanese sono stati commessi crimini di guerra e gli sventurati abitanti, dopo aver fatto del loro meglio per resistere alle milizie sioniste, sono stati costretti a fuggire.

Per assicurarsi che gli abitanti non tornassero mai più le autorità israeliane hanno interamente demolito il villaggio.

Lo scavo è il primo in Israele specificamente dedicato ad esplorare archeologicamente il patrimonio di ciò che i palestinesi ricordano come Nakba”, ha scritto Haaretz.

Per decenni i palestinesi hanno fatto proprio questo. Diverse generazioni di archeologi palestinesi hanno contribuito a far rinascere molto di quella storia, antica e recente. Secondo Taha, “il compito dell’archeologia è ricostruire il passato per costruire il futuro.”

Tuttavia, diversamente da Israele, l’intento di Taha mira a “incorporare le voci di tutti i popoli, i gruppi, le culture e religioni che sono esistiti sulla terra di Palestina.”

Questa visione inclusiva è esattamente all’opposto della ‘visione’ esclusiva, selettiva e spesso inventata di Israele, fondata sulla dominazione militare e la cancellazione della cultura.

Nella protratta 45esima sessione del Comitato del Patrimonio dell’Umanità, tenuta a Riyad il 17 settembre, l’UNESCO ha confermato proprio la validità della impostazione palestinese. Naturalmente Israele è adirato perché gli invasori odiano la verità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Un fotoreporter ferito dal fuoco israeliano è stato sottoposto a un’operazione chirurgica in Turchia

Redazione di MEMO

19 settembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che un fotoreporter palestinese che ha subito una grave ferita alla mano mentre stava coprendo una protesta a Gaza ha subito un intervento chirurgico in Turchia.

Ashraf Amra, un freelance per Anadolu, l’agenzia di notizie ufficiale turca, è arrivato dal Cairo ad Istanbul lunedì su un volo della Turkish Airlines.

Venerdì stava coprendo una dimostrazione di protesta di palestinesi vicino alla barriera [di separazione tra Gaza e Israele, ndt.] nella regione di Khan Yunis a Gaza quando i soldati [israeliani, ndt.] hanno aperto il fuoco per disperdere la folla.

Dodici palestinesi sono stati feriti dall’esercito israeliano con l’uso di pallottole vere, proiettili ricoperti di gomma e candelotti lacrimogeni.

Amra è stato sottoposto ad un intervento chirurgico di due ore presso l’ospedale Basaksehir Cam e Sakura ad Istanbul.

Il dottor Okyar Altas, lo specialista della chirurgia della mano che ha effettuato l’operazione, ha affermato che essa ha avuto successo.

Da parte sua Amra ha ringraziato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Anadolu per averlo accolto ad Istanbul.

Spero che le mie dita guariranno e che non ci sarà bisogno di amputarle.”

Egli ha aggiunto che i soldati che hanno visto che aveva in mano una macchina fotografica gli hanno deliberatamente sparato contro.

Anche il vicedirettore generale e caporedattore di Anadolu Yusuf Ozhan ha fatto visita ad Amra in ospedale, dove i dottori lo hanno ragguagliato sullo stato di salute del fotoreporter.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’esercito israeliano ammette di aver sparato per errore a palestinesi innocenti

Redazione di MEMO

12 settembre 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’esercito israeliano ha riconosciuto che il mese scorso i soldati dell’occupazione hanno aggredito e imprigionato per errore tre palestinesi innocenti, lasciandoli con.lesioni permanenti.

Secondo il Times of Israel l’esercito israeliano ha dichiarato che i soldati dell’occupazione hanno sparato a molti palestinesi che si supponeva avessero tirato degli ordigni esplosivi artigianali da un veicolo in movimento verso una vicina postazione militare vicino alla città di Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Tre dei palestinesi feriti sono stati arrestati dai soldati, mentre una quarta vittima è stata portata in un ospedale di Jenin da medici palestinesi in seguito alle gravi ferite che ha subito.

La rete israeliana Kan ha riferito che Wasim Herzallah, di 30 anni, ha riportato una ferita da arma da fuoco a una gamba ed è stato dimesso da un ospedale israeliano dopo essere stato curato. La seconda vittima, Ali Assan di 19 anni, è al momento paralizzato dalla vita in giù e ha subito ferite a una spalla. Egli è sottoposto a riabilitazione nell’ospedale di Tel Hashomer.

Secondo quanto riferito dalla rete Kan, lo zio di Hassan, Saleh ‘Atara, ha affermato:

Un soldato che ci ha accompagnati all’ospedale nei primi giorni si è scusato per la sparatoria”.

La rete Kan ha citato il fatto che il terzo sospetto ferito, Hassan Qassem Suleiman, rimane sotto sedazione e intubato in seguito a una grave ferita alla testa da un colpo sparato dai soldati israeliani.

Mentre l’unità del portavoce dell’esercito israeliano non ha fornito un commento immediato sull’incidente, una fonte militare ha riconosciuto che i militari hanno sparato per errore al veicolo sbagliato e che l’incidente è stato esaminato “dai ranghi più alti.”

La fonte ha affermato che “terroristi in un veicolo hanno tirato una bomba ai soldati che si trovavano nella postazione militare e un altro reparto che stava operando vicino alla postazione ha aperto il fuoco contro il veicolo. Dopo un‘indagine iniziale, si è capito che il veicolo che aveva effettivamente tirato la bomba si era rapidamente allontanato dalla strada. Uno dei militari che ha aperto il fuoco ha per sbaglio identificato un altro veicolo che è risultato non coinvolto.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La Palestina denuncia la ‘pirateria’ di Israele dopo la riduzione dell’ammontare delle tasse

Redazione di MEMO

5 settembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha denunciato come “pirateria” la riduzione dell’ammontare delle tasse da parte di Israele.

Martedì il ministro delle Finanze israeliano ha affermato che dedurrà una quota di denaro dai fondi che Tel Aviv riscuote per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per rimborsare i debiti per l’elettricità palestinese con la Israel Electric Corp (IEC).

Questi sono pirateria e furto sistematici del nostro denaro,” ha affermato Shtayyeh in una dichiarazione.

Queste riduzioni sono una dichiarazione di guerra finanziaria che fa parte della guerra politica in corso contro il popolo palestinese,” ha aggiunto.

Il premier palestinese ha sollecitato l’amministrazione statunitense e l’Unione Europea “a intervenire per fermare tutte queste politiche”, preavviso di “pericolose ripercussioni” della decisione di Israele.

Secondo i mezzi di comunicazione israeliani, il debito palestinese con la IEC è stimato in circa due miliardi di shekel (circa 526 milioni di euro).

Tuttavia la controparte palestinese afferma che i suoi debiti sono solo di 800 milioni di shekels (210.5 milioni di euro).

Negli ultimi anni l’ANP sta affrontando molteplici difficoltà economiche come risultato delle decisioni israeliane di ridurre o di bloccare il trasferimento delle entrate fiscali palestinesi raccolte da Israele.

Il gettito fiscale – conosciuto in Palestina e Israele come maqasa –viene raccolto dal governo israeliano per conto della ANP sulle importazioni ed esportazioni palestinesi. Israele in cambio incassa una commissione del 3% delle entrate fiscali raccolte.

Gli introiti fiscali, che costituiscono la fonte principale delle entrate della ANP, sono stimati intorno ai 30-33 milioni di euro al mese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La scomoda verità su Ain Al-Hilweh, capitale dello shatat e dell’agonia palestinese

Ramzy Baroud

8 agosto, 2023 , MiddleEastMonitor

Il campo profughi palestinese di Ain Al-Hilweh in Libano è noto come “capitale dello shatat palestinese”. Il termine potrebbe non suscitare molte emozioni tra coloro che non lo comprendono appieno né tantomeno hanno patito l’esperienza straziante della pulizia etnica e dell’esilio perpetuo, e della tremenda violenza che ne è seguita.Shatat è tradotto approssimativamente come “esilio” o “diaspora”.

Tuttavia il significato è molto più complesso. Può essere compreso solo con l’esperienza vissuta. Nemmeno allora è facile condividerne il senso. Forse i blocchi kafkiani di cemento, zinco e macerie, torreggianti uno sull’altro e che fungono da “rifugi temporanei” per decine di migliaia di persone, raccontano una piccola parte della storia.

Il 30 luglio è ripresa la violenza nell’affollatissimo campo palestinese; si è brevemente interrotta dopo l’intervento del Comitato Azione Congiunta Palestinese, poi è ripresa, mietendo la vita di 13 persone e continuando a crescere. Altre decine sono state ferite e a migliaia sono fuggite.

Tuttavia la maggior parte dei rifugiati è rimasta, perché diverse generazioni di palestinesi ad Ain Al-Hilweh comprendono che c’è un momento in cui la fuga non serve a niente poiché non garantisce né la vita né una morte dignitosa. I massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila del settembre 1982 testimoniano questa presa di coscienza collettiva.

Prima di scrivere questo articolo ho parlato con diverse persone nel sud del Libano e ho passato in rassegna molti articoli e rapporti che descrivono ciò che sta accadendo ora nel campo. La verità è ancora sfocata o, nella migliore delle ipotesi, frammentaria.

Sui media arabi si è spesso relegato Ain Al-Hilweh a rappresentazione simbolica della profonda sofferenza palestinese. I principali media occidentali non si sono mai preoccupati della sofferenza palestinese ma si concentravano principalmente sull’”illegalità” del campo, sul fatto che sia al di fuori della giurisdizione legale dell’esercito libanese e sulla proliferazione di armi tra i palestinesi e le altre fazioni al suo interno, tutte impegnate in lotte intestine apparentemente infinite e presumibilmente inspiegabili.

Ma Ain Al-Hilweh, come gli altri undici campi profughi palestinesi in Libano, racconta una storia completamente diversa, più urgente del mero simbolismo e più logica dell’essere il risultato di rifugi illegali. È essenzialmente la storia della Palestina, o meglio, della distruzione della Palestina per mano delle milizie sioniste nel 1947-48. È una storia di contraddizioni, orgoglio, vergogna, speranza, disperazione e, in ultima analisi, tradimento.

Non è facile seguire la cronologia degli eventi prima dell’ultimo scoppio di violenza.

Alcuni suggeriscono che i combattimenti siano iniziati quando è stato compiuto un tentativo di omicidio – attribuito ai combattenti di Fatah nel campo – contro il leader di un gruppo islamista rivale. Il tentativo è fallito ed è stato seguito da un’imboscata in cui presunti islamisti hanno ucciso un alto comandante di Fatah e molte delle sue guardie del corpo.

Altri suggeriscono che l’assassinio del generale della Sicurezza Nazionale palestinese Abu Ashraf Al-Armoushi sia stato del tutto ingiustificato. Altri ancora, tra cui il primo ministro libanese Najib Mikati, hanno accusato forze esterne e i loro “ripetuti tentativi di usare il Libano come campo di battaglia per il regolamento dei conti”.

Ma chi sono queste entità, e qual è lo scopo di tali intrusioni?

Le cose si complicano. Sebbene impoverito e sovraffollato, Ain Al-Hilweh, come altri campi palestinesi, è uno spazio politico molto conteso. In teoria, questi campi hanno lo scopo di consolidare e proteggere il legittimo diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. In pratica, vengono utilizzati anche per minare questo diritto sancito a livello internazionale.

L’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas, ad esempio, vuole assicurarsi che i lealisti di Fatah dominino il campo, da cui il suo lavoro per negare ai rivali palestinesi qualsiasi ruolo nel sud del Libano.

Fatah è il più grande gruppo palestinese all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Domina sia l’OLP che l’ANP. In passato, il gruppo ha perso il suo dominio su Ain Al-Hilweh e altri campi. Per Fatah la lotta per il predominio in Libano è costante.

Ain Al-Hilweh è importante per l’ANP anche se l’OLP sotto la guida di Abbas ha ampiamente rinnegato i rifugiati del sud del Libano e il loro diritto al ritorno e si è concentrato principalmente sul governo di specifiche regioni della Cisgiordania sotto gli auspici dell’occupazione israeliana.

Tuttavia i rifugiati in LIbano rimangono importanti per l’ANP principalmente per due motivi: uno, come fonte di legittimazione per Fatah e due per prevenire, in Libano come ovunque, qualsiasi critica, per non parlare della resistenza, nel campo palestinese sostenuto dall’Occidente.

Nel corso degli anni centinaia di rifugiati di Ain Al-Hilweh sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani così come nelle lotte intestine palestinesi-libanesi e palestinesi-palestinesi. Israele ha commesso gran parte delle uccisioni per garantirsi che la resistenza palestinese in Libano fosse eliminata alla fonte. Il resto della violenza è stato compiuto da gruppi che cercavano il dominio e il potere a volte per se stessi ma spesso come milizie per procura di poteri esterni.

Intrappolate nel mezzo ci sono 120.000 persone – la popolazione stimata di Ain Al-Hilweh – e, per estensione, tutti i rifugiati palestinesi del Libano.

Tuttavia non tutti gli abitanti di Ain Al-Hilweh sono rifugiati palestinesi registrati. Questi ultimi sono stimati dall’URWA, l’agenzia delle Nazioni Unite creata per prendersi cura dei profughi palestinesi, in circa 63.000. Gli altri sono fuggiti lì dopo l’inizio della guerra siriana, che ha fatto aumentare la popolazione dei campi libanesi e acuito le tensioni esistenti.

L’intrappolamento dei rifugiati, tuttavia, è molteplice: è l’effettivo confinamento fisico dettato dalla mancanza di opportunità e integrazione nella società libanese tradizionale, è il grande rischio nel lasciare il Libano come rifugiati clandestini contrabbandati attraverso il Mediterraneo e la sensazione, soprattutto tra le generazioni più anziane, che lasciare il campo equivalga al tradimento del Diritto al Ritorno.

Tutto questo accade in un contesto politico in cui la leadership palestinese ha completamente rimosso i rifugiati dai suoi calcoli, e l’Autorità Nazionale Palestinese vede i rifugiati solo come pedine in un gioco di potere tra Fatah e i suoi rivali.

Per decenni Israele ha cercato di liquidare la discussione sui rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno. I suoi continui attacchi ai campi profughi palestinesi nella stessa Palestina e i suoi interessi per ciò che sta accadendo nello shatat fa parte della sua ricerca per scuotere le fondamenta stesse della causa palestinese.

Le lotte intestine ad Ain Al-Hilweh, se non riportate sotto controllo totale e duraturo, potrebbero alla fine far ottenere a Israele esattamente ciò che vuole: presentare i profughi palestinesi come un rischio per i paesi ospitanti e, in ultima analisi, distruggere la “capitale dello shatat” insieme alla speranza di quattro generazioni di profughi palestinesi di tornare, un giorno, a casa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo un ministro Netanyahu appoggia il congelamento dei fondi per le aree arabe

Redazione di MEMO

8 agosto 2023 – Middle East Monitor

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich [del partito di ultradestra dei coloni, ndt.] ha confermato oggi che il primo ministro Benjamin Netanyahu appoggia la sua decisione di sospendere un programma di istruzione superiore per Gerusalemme Est occupata, tra crescenti proteste dell’opinione pubblica e accuse di razzismo.

Smotrich ha ribadito che i fondi destinati allo sviluppo economico nelle città arabe nello Stato di apartheid non saranno trasferiti come inizialmente pianificato.

Egli ha affermato al canale pubblico Kan: “Mi sto coordinando con il primo ministro. L’ho incontrato e gli ho spiegato ed egli supporta questa posizione. Ho ricevuto il suo consenso”.

“La decisione è finale, lo stanziamento non sarà trasferito,” ha aggiunto Smotrich. “Se troviamo modalità per trasferire davvero denaro ai cittadini arabi di Israele, allora aiuteremo ove necessario.”

Il capo del partito Sionismo Religioso ha dichiarato che la sua decisione è stata presa per evitare che i fondi cadano sotto il controllo del crimine organizzato. Ha anche dichiarato che promuovere l’istruzione superiore tra i palestinesi a Gerusalemme Est favorisce l’estremismo e perciò non è in linea con gli interessi israeliani.

Il governo attuale, ha spiegato, “non è vincolato” ad una promessa fatta dal precedente ministro dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, ndt.] al capo del partito Ra’am [arabo di orientamento religioso che faceva parte della precedente coalizione di governo, ndt.] Mansour Abbas.

In risposta, il capo dell’opposizione Yair Lapid questa mattina ha stroncato Smotrich su Twitter, affermando che “contrariamente alle sue bugie, gli stanziamenti congelati da Smotrich per le autorità locali arabe non sono relative ‘all’impegno del precedente governo’ nei confronti del settore arabo”.

“Smotrich maltratta i cittadini arabi solo perché sono arabi,” ha continuato, aggiungendo di “vergognarsi che il razzismo sia diventato una politica ufficiale dello Stato di Israele.”

Il congelamento dei fondi per l’istruzione dei palestinesi a Gerusalemme Est avviene nonostante funzionari per l’istruzione e per la sicurezza, incluso il capo dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna, ndt.] e il consiglio di sicurezza nazionale israeliano, dicano che finanziare l’istruzione superiore per i palestinesi diminuirebbe il terrorismo.

Il ministro dell’intelligence israeliana Gila Gamliel ha criticato la decisione di Smotrich, sottolineando il fatto che l’inclusione della popolazione araba nelle università porta significativi benefici sociali, economici e di sicurezza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele approva una legge per ampliare la segregazione  razziale

Redazione di MEE

26 luglio 2023 – Middle East Monitor

 

Ieri la Knesset ha approvato l’ampliamento della discriminatoria legge riguardante i Comitati di ammissione consentendo a un numero maggiore di comunità esclusivamente ebraiche di selezionare candidati e respingere quanti sono giudicati inadatti. Lo scorso mese era stata presentata una proposta di legge per estendere la segregazione razziale in Israele tramite comitati discriminatori.

I Comitati di ammissione, introdotti nel 2011, sono presenti in centinaia di cittadine sorte su territori demaniali nel Naqab (Negev) e in Galilea. La legge concede ai comitati una quasi totale discrezionalità riguardante il consenso o il rifiuto che individui vivano nelle città sotto il loro controllo. I comitati includono un rappresentante dell’Agenzia ebraica o dell’Organizzazione sionista mondiale, enti quasi-governativi. In pratica vengono esclusi i candidati arabo-palestinesi.

La legge originaria che concedeva poteri ai Comitati di ammissione fu approvata per aggirare la decisione della Corte Suprema che vietava alle comunità israeliane la prassi razzista di vendere i terreni solo agli ebrei. Si applicava solo alle comunità con un massimo di 400 famiglie e solo nel Negev e in Galilea.

La disposizione di legge discriminatoria è stata approvata dalla Knesset con una maggioranza di 42 a 11. L’approvazione rimuove le restrizioni sul numero di città a cui è permesso avere i “Comitati di ammissione”. L’estensione geografica della nuova legge include, oltre a Naqab e Galilea, tutte le cittadine designate come Aree di Priorità Nazionale (NPAs). Si applicherà anche alle comunità con 400-700 famiglie.

Infine la legge stabilisce che dopo cinque anni dall’entrata in vigore, il ministero dell’economia potrà estenderla a comunità con oltre 700 famiglie.

Adalah, il centro legale [per i diritti della minoranza araba in Israele], ha evidenziato che durante il dibattito alla Knesset e negli accordi di coalizione i promotori e i sostenitori della proposta di legge hanno dichiarato inequivocabilmente il loro scopo chiaramente razzista. I parlamentari hanno persino invitato a partecipare al dibattito un rappresentante del servizio di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet (“Shabak”). Il funzionario israeliano ha sottolineato l’importanza di espandere le colonie esclusivamente ebraiche in Galilea in tema di sicurezza.

Adalah ha affermato: ’Nessuno sta cercando di nascondere lo scopo razzista della legge che mira a continuare e promuovere valori ancorati alla Legge dello Stato-Nazione Ebraico per insediare ed espandere colonie ebraiche. Ad ogni stadio della procedura legislativa, inclusa la presentazione di opinioni del personale dello Shin Bet, i parlamentari della Knesset hanno rimarcato la loro intenzione di promuovere gli stessi valori nazionalisti. Usando il termine ‘comunitario,’ intendono politiche di segregazione razziale e apartheid contro i cittadini palestinesi in Israele. Perciò Adalah presenterà un ricorso contro questa legge alla Corte Suprema.”

Prima della decisione del governo israeliano di ampliare  i Comitati di ammissione, il ministro della Giustizia Yariv Levin ha spiegato che nominare giudici che capiscono che gli ebrei “non vogliono vivere con gli arabi” è uno dei motivi del controversa riforma giudiziaria.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gerusalemme: un giornalista vestito da religioso cristiano preso a sputi dai coloni

Redazione di MEMO

11 luglio 2023 – Middle East Monitor

Una prova scioccante dell’incremento del numero di attacchi nei confronti dei palestinesi cristiani da parte di coloni israeliani è stata ripresa da un giornalista israeliano che si è vestito da religioso e ha camminato per le strade di Gerusalemme occupata.

Yossi Eli di Canale 13 voleva vedere con i propri occhi la spirale dei crimini d’odio contro i cristiani. Cinque minuti dopo essersi vestito con un saio francescano, Padre Alberto, Eli è stato preso a sputi per cinque volte da coloni israeliani ebrei.

Il video dell’aggressione da parte dei coloni è stato caricato da Eli su Twitter con commenti in cui egli ha respinto i tentativi di minimizzare la spirale dei crimini d’odio contro i cristiani.

“La giustificazione di alcuni gruppi ebrei per i crimini d’odio è che sono ‘malati di mente’,” ha detto Eli. “Non è così. La nostra inchiesta ha provato che gli attacchi non arrivano veramente da malati di mente, ma da gente con una chiara opinione che semplicemente odia qualcosa che non è. Lavaggio del cervello che Gesù è cattivo. Giovani estremisti, bambini, e molto tristemente soldati, ‘il sale della terra’, esprimono il loro odio verso la cristianità.”

Eli ha chiesto quale reazione ci sarebbe stata se fossero stati gli ebrei e non i cristiani a ricevere sputi. “Pensate solo alla reazione che ci sarebbe stata da parte di quegli ebrei se un cristiano avesse sputato su di loro in Europa”, ha affermato, aggiungendo che essere un religioso cristiano per un giorno “è stato molto difficile da digerire”.

L’inchiesta di Eli è stata fatta nel contesto di un preoccupante aumento di crimini d’odio contro le comunità cristiane indigene di Palestina. Il custode del Vaticano in Terra Santa, padre Francesco Patton, ha accusato i politici israeliani per l’aumento di attacchi anti-cristiani da parte di coloni ebrei.

Secondo un reportage di Haaretz, Patton ha citato la profanazione di un cimitero luterano, la vandalizzazione di una sala di preghiera maronita e la scritta “morte ai cristiani” su una proprietà armena, tutto nello spazio di poche settimane. Ha anche indicato “la responsabilità dei leader, di chi è al potere.”

In un precedente avvertimento relativo agli attacchi ai cristiani in Palestina, Patton aveva affermato che essi affrontano “la minaccia di estinzione” da parte di gruppi israeliani “radicali.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)