Israele rifiuta di rilasciare un prigioniero palestinese malato terminale, nonostante ‘l’immediato pericolo per la sua vita’

Redazione di MEMO

27 giugno 2023 – Middle East Monitor

Ieri la commissione per la libertà condizionata, presieduto dal giudice in pensione Zvi Segal, ha rifiutato la richiesta di rilascio anticipato del prigioniero palestinese Walid Daqqa, malato terminale, nonostante gli avvertimenti che egli è a rischio di morte.

Contraddicendo l’opinione di un esperto medico facente parte dell’Israel Prison Service [il servizio carcerario israeliano, ndt.] (IPS) secondo cui la vita di Daqqa è in “concreto pericolo” come paziente oncologico, la commissione per la libertà condizionata ha concluso che le condizioni di salute dell’uomo sessantunenne non sono una ragione sufficiente per il suo rilascio anticipato.

Dopo aver effettuato la diagnosi, l’IPS ha confermato che “ha i giorni contati e che c’è un rischio immediato per la sua vita”.

Come altri prigionieri palestinesi, Daqqa, a cui è stata diagnosticata per la prima volta la leucemia nel 2015, durante i suoi 37 anni in prigione ha sofferto di incuria sanitaria che ha peggiorato la sua salute. A causa del deterioramento delle sue condizioni di salute all’inizio dell’anno è stato spostato dall’ambulatorio della prigione Ramla al centro medico Shamir.

A causa della protesta per la privazione del suo diritto di comunicare con la famiglia, Daqqa è stato riportato all’assistenza medica del’amministrazione dell’ambulatorio della prigione di Ramla.

Daqqa venne arrestato nel 1986 e gli fu comminata una sentenza a 37 anni di prigione che ha scontato nel marzo 2023; tuttavia nel 2017 le autorità israeliane hanno esteso il suo periodo di detenzione di due anni con l’accusa di contrabbando di telefoni mobili nella prigione.

Secondo l’organizzazione non governativa palestinese Addameer, Daqqa è uno scrittore, attivista e prigioniero politico palestinese originario di Baqa Al-Gharbiya, una cittadina palestinese in Israele, a cui nel 2022 è stata diagnosticata una rara forma di cancro del midollo osseo.

Egli è uno dei 19 palestinesi che hanno passato più di 30 anni nelle prigioni dell’occupazione israeliana e uno dei 23 palestinesi che sono stati incarcerati da prima degli accordi di Oslo del 1991.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Riduzione del numero di permessi di costruzione concessi dallo Stato di Israele ai palestinesi

Redazione di MEMO

13 giugno 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Wafa news ha riferito che durante il primo trimestre di quest’anno la percentuale delle licenze edilizie che lo Stato di Israele ha concesso ai palestinesi nei territori occupati è diminuito del 10%.

L’ufficio centrale di statistiche palestinese ha affermato oggi che nel primo trimestre del 2023 sono stati rilasciati nei territori palestinesi occupati, in totale 2.530 permessi di costruzione, tra cui 1.625 licenze per nuove costruzioni.

I nuovi dati mostrano una diminuzione del 10% del numero di permessi concessi ai palestinesi in confronto all’ultimo trimestre dello scorso anno.

Ai palestinesi sono raramente concesse licenze edilizie dalle autorità israeliane di occupazione, specialmente a Gerusalemme Est occupata.

Inoltre l’istituto centrale di statistica palestinese ha aggiunto che i dati hanno rivelato che il numero dei permessi rilasciati durante il primo trimestre del 2023 è diminuito del 18% in confronto al quarto trimestre del 2022 e di un altro 23% in confronto al primo semestre del 2022.

Ciò è avvenuto dopo che l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha riferito lo scorso mese che nel primo trimestre del 2023 le forze israeliane di occupazione hanno demolito, forzato la popolazione locale a farlo o sequestrato 290 strutture possedute da palestinesi in tutta la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

“Tutte le strutture tranne 19 sono state colpite dai provvedimenti per la mancanza di permessi di costruzione che sono quasi impossibili da ottenere da parte dei palestinesi” ha spiegato l’OCHA. “Come conseguenza 413 persone, inclusi 194 bambini, sono stati deportati e le vite o l’accesso ai servizi di altre 11.000 sono state compromesse.”

I permessi di costruzione sono rilasciati a prezzi esorbitanti e insostenibili per la maggior parte dei palestinesi, creando un escamotage che consente allo Stato di Israele di annettere una maggior quantità di terra e lasciare i palestinesi in un limbo impedendo loro di sviluppare le infrastrutture. I palestinesi che fanno richiesta di permessi spesso non hanno risposta per anni oppure vedono la loro richiesta rifiutata.

L’OCHA ha aggiunto che “il numero di strutture colpite nel primo trimestre del 2023 è aumentato del 46% rispetto allo stesso periodo nel 2022, che ha visto già il numero più alto di demolizioni registrato nella Cisgiordania e a Gerusalemme dal 2016.”

La politica ampiamente praticata dallo Stato di Israele di demolizioni di case colpendo intere famiglie è un atto di punizione collettiva illegale e è in diretta violazione del diritto internazionale in materia di diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Un uomo senza strategia: come Netanyahu sta provocando un’Intifada armata in Cisgiordania

RamzyBaroud

30 maggio 2023 – Middle East Monitor

Dopo aver firmato il 18 maggio un decreto militare che consente ai coloni ebrei israeliani illegali di reclamare l’insediamento abbandonato di Homesh situato nella Cisgiordania occupata settentrionale il governo israeliano ha informato l’amministrazione americana Biden che non trasformerà l’area in un nuovo insediamento.

Quest’ultima rivelazione è stata riportata da Axios il 23 maggio. Questa contraddizione non sorprende. Mentre i ministri di estrema destra israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sanno esattamente cosa vogliono, Netanyahu sta cercando di compiere un atto politico impossibile: vuole esaudire tutti i desideri di Ben-Gvir e Smotrich, ma senza deviare dall’agenda politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, e senza creare le circostanze che potrebbero alla fine rovesciare l’Autorità Nazionale Palestinese.

Inoltre, Netanyahu vuole normalizzare i rapporti con i governi arabi, pur continuando a colonizzare la Palestina, espandere gli insediamenti e avere il controllo completo sulla moschea di Al-Aqsa e su altri luoghi sacri musulmani e cristiani palestinesi.

Peggio ancora, vuole, su insistenza di Ben-Gvir e del suo collegio elettorale religioso estremista, ripopolare Homesh e creare nuovi avamposti, evitando una ribellione armata generalizzata in Cisgiordania.

Allo stesso tempo Netanyahu vuole buoni rapporti con arabi e musulmani, mentre costantemente umilia, opprime e uccide arabi e musulmani; in effetti un’impresa del genere è praticamente impossibile.

Netanyahu non è un politico alle prime armi che non riesce a soddisfare contemporaneamente tutti i suoi sostenitori. È un ideologo di destra che usa l’ideologia e la religione sioniste come fondamento della sua agenda politica. In qualsiasi altro posto, specialmente nel mondo occidentale, Netanyahu sarebbe stato percepito come un politico di estrema destra.

Uno dei motivi per cui l’Occidente deve ancora etichettare Netanyahu come tale è che se esistesse un accordo generale sul fatto che Netanyahu sia un affronto alla democrazia sarebbe difficile dialogare con lui diplomaticamente. Mentre il governo di estrema destra italiano di Giorgia Meloni ha ospitato Netanyahu lo scorso marzo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden deve ancora incontrare di persona il leader israeliano, mesi dopo che quest’ultimo ha varato il suo ultimo governo di religiosi di estrema destra.

Netanyahu è consapevole di tutte queste sfide e che la reputazione del suo paese, anche tra gli alleati, è a brandelli. Il leader israeliano, tuttavia, è determinato a perseverare, per il proprio interesse.

Ci sono volute cinque elezioni in quattro anni perché Netanyahu mettesse insieme un governo relativamente stabile. Nuove elezioni comporterebbero dei rischi, poiché se si tenesse una sesta elezione il leader dell’opposizione, Yair Lapid, dovrebbe ottenere la maggioranza dei seggi.

Ma soddisfare Ben-Gvir e altri sta trasformando Israele in un paese governato da leader populisti e nazionalisti determinati a dar vita ad una guerra di religione. A giudicare dalla situazione sul campo, potrebbero ottenere quello che vogliono.

La verità è che né Ben-Gvir né Smotrich hanno il buon senso o l’esperienza politica di Netanyahu. Piuttosto sono l’equivalente politico dei tori in un negozio di porcellane cinesi. Vogliono gettare i semi del caos e usare il caos per portare avanti la loro agenda: più insediamenti illegali, più pulizia etnica dei palestinesi e, in ultima analisi, una guerra di religione

A causa di queste pressioni, Netanyahu, con un proprio programma espansionista, non è in grado di seguire un progetto chiaro su come annettere completamente ampie parti della Cisgiordania e rendere i palestinesi permanentemente apolidi. Non può sviluppare e mantenere una strategia coerente perché i suoi alleati hanno una loro strategia. E, a differenza di Netanyahu, a loro importa poco di oltrepassare i limiti con Washington, Bruxelles, Il Cairo o Amman.

Questo deve essere frustrante per Netanyahu che in oltre 15 anni di governo ha sviluppato una strategia efficace basata su diversi equilibri. Mentre colonizzava lentamente la Cisgiordania e sosteneva un assedio e ricorrenti guerre a Gaza, ha imparato anche a fingere il linguaggio della pace e della riconciliazione a livello internazionale. Anche se in passato ha avuto i suoi problemi con Washington, Netanyahu ha spesso prevalso, con il sostegno del Congresso degli Stati Uniti. E sebbene abbia provocato in numerose occasioni paesi arabi, musulmani e africani, è comunque riuscito a normalizzare i rapporti con molti di loro.

La sua è stata una strategia vincente, di cui si è vantato spudoratamente a ogni campagna elettorale. Ma sembra che la festa sia infine terminata.

La nuova agenda politica di Netanyahu è ora motivata da un unico obiettivo: la sua stessa sopravvivenza o, meglio, quella della sua famiglia, diversi membri della quale sono coinvolti in accuse di corruzione e nepotismo. Se l’attuale governo israeliano dovesse crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni e del suo estremismo, sarebbe quasi impossibile per Netanyahu recuperare la sua posizione. Se i partiti di estrema destra abbandonano il Likud di Netanyahu Israele sprofonderà ancora di più in una crisi politica e in uno scontro sociale di cui non si intravede la fine.

Per ora Netanyahu dovrà mantenere la rotta – quella delle guerre non provocate, delle incursioni mortali in Cisgiordania, degli attacchi ai luoghi sacri, del ripopolamento o della creazione di nuovi insediamenti coloniali illegali, del permettere ai coloni armati di scatenare la violenza quotidiana contro i palestinesi e così via, indipendentemente dalle conseguenze di queste azioni.

Una di queste conseguenze è l’allargamento della ribellione armata a tutta la Cisgiordania occupata.

Da qualche anno il fenomeno della lotta armata sta crescendo in tutta la Cisgiordania. In aree come Nablus e Jenin i gruppi della Resistenza armata si sono rinforzati al punto che l’Autorità Nazionale Palestinese ha poco controllo su queste regioni.

Questo fenomeno è anche il risultato della mancanza di una vera leadership palestinese che investa di più nel rappresentare e proteggere i palestinesi dalla violenza israeliana, piuttosto che impegnarsi nel “coordinamento della sicurezza” con l’esercito israeliano.

Ora che i seguaci di Ben-Gvir e Smotrich stanno seminando il caos in Cisgiordania in assenza di qualsiasi protezione per i civili palestinesi i combattenti palestinesi stanno assumendo il ruolo di difensori. La “Fossa dei Leoni” è una manifestazione diretta di questa realtà.

Per i palestinesi la resistenza armata è una risposta naturale all’occupazione militare, all’apartheid e alla violenza dei coloni. Non è una strategia politica di per sé. Per Israele, invece, la violenza è una strategia.

Per Netanyahu le frequenti incursioni mortali nelle città palestinesi e nei campi profughi si traducono in risorse politiche che gli consentono di far contenti i suoi sostenitori estremisti. Ma questo è pensare a breve termine. Se la violenza incontrollata di Israele continua la Cisgiordania potrebbe presto ritrovarsi in una rivolta militare a tutto campo contro Israele e in una ribellione aperta contro l’Autorità Nazionale Palestinese.

Quindi, nessun trucco magico o equilibrismo da parte di Netanyahu può controllare i risultati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rientrano necessariamente nella linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Perché Karim Khan ha congelato il fascicolo sulla Palestina: la CPI e i crimini di guerra israeliani a Gaza

Romana Rubeo Dott. Ramzy Baroud

24 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’ultima guerra di Israele contro Gaza, iniziata il 9 maggio, ha causato la morte di 33 palestinesi, tra cui sei bambini, e il ferimento di altre centinaia. La maggior parte delle persone uccise e ferite erano civili.

Il primo giorno di guerra Maurice Hirsh, ex capo della procura militare dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ha espresso una giustificazione “giuridica” della guerra israeliana. Ha scritto il seguente passaggio su Twitter: “Se si considera il vantaggio militare ottenuto eliminando questi importanti terroristi è irrilevante chiedersi quanti bambini siano stati uccisi accidentalmente”.

Hirsh ha già usato in precedenza questo tipo di logica. Ad esempio, nell’agosto 2022 ha scritto un articolo sul quotidiano israeliano Jerusalem Post in cui ha giustificato gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile di Gaza. “Nel mondo della propaganda anti-israeliana e dei cicli apparentemente infiniti di violenza contro i terroristi a Gaza, la moltitudine di odiatori e irragionevolmente ignoranti spesso usa le parole ‘sproporzionato’ e ‘proporzionalità’ come mezzo per rimproverare lo Stato ebraico.”

Sebbene per molti tale logica equivalga all’incitamento all’odio e alla totale giustificazione dei crimini di guerra abbiamo deciso di chiedere il parere legale di un esperto di diritto internazionale. Gli abbiamo chiesto se le opinioni di Hirsh sono in qualche modo giustificate.

Triestino Mariniello è un esperto di diritto internazionale e membro del team legale che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla Corte penale internazionale (CPI).

Abbiamo chiesto al dott. Mariniello un parere sui commenti di Hirsh all’interno del contesto della legalità, o illegalità, dell’ultima guerra israeliana a Gaza.

“Il principio di distinzione”

“La dichiarazione di Hirsh non ha validità in termini di diritto internazionale o diritto umanitario”, afferma Mariniello.

“Anche in quest’ultima operazione militare le autorità israeliane sembrano aver violato i principi fondamentali della legge sui conflitti armati, in particolare il principio di distinzione, che vieta a qualsiasi Paese di attaccare direttamente obiettivi civili”, aggiunge.

Secondo Mariniello il comportamento dell’esercito israeliano nel suo ultimo attacco alla Striscia assediata ha seguito uno schema simile alle guerre precedenti.

“I crimini più evidenti presumibilmente commessi durante l’ultima operazione militare israeliana sono gli attacchi deliberati e intenzionali contro obiettivi civili e l’uso eccessivo della forza. Queste violazioni non sono una novità. Hanno caratterizzato nel corso degli anni ogni singola operazione militare israeliana contro Gaza assediata, compresi gli attacchi contro scuole, ospedali, luoghi religiosi e uffici giornalistici”.

Obiettivi militari?

Tuttavia Israele ribatte sostenendo che i suoi attacchi prenderebbero di mira le infrastrutture militari e accusa i cosiddetti militanti di rifugiarsi in mezzo ai civili.

Ma è così?

Gli attacchi israeliani sono stati effettuati su edifici residenziali di notte, mentre la popolazione civile dormiva, con la presenza di persone non direttamente coinvolte nelle ostilità, e in assenza di ostilità in corso. In sostanza, secondo le leggi internazionali non erano obiettivi militari”, dice Mariniello.

Nel suo articolo sul Jerusalem Post Hirsh attacca “la moltitudine di denigratori e irriducibili ignoranti” per aver enfatizzato concetti come proporzionalità e sproporzione nel diritto internazionale.

Tuttavia per Mariniello questi principi non sono opinabili ma fondamentali per il diritto internazionale durante i conflitti armati.

“L’altro pilastro del diritto internazionale e umanitario che sembra essere stato ignorato da Israele è il principio di proporzionalità che proibisce attacchi sproporzionati. Questo è già accaduto nei precedenti attacchi militari a Gaza”.

Mariniello prosegue parlando di altri due importanti principi del diritto internazionale anch’essi ‘presumibilmente’ violati da Israele, in questa guerra e nelle guerre precedenti: “Il principio di necessità e l’obbligo di precauzione, che prevede che ‘la popolazione civile e i singoli civili godano di una protezione globale contro i pericoli derivanti dalle operazioni militari.'”

Israele ha agito in aperta violazione di questi principi “perché non c’è stato alcun preavviso (nonostante) la consapevolezza che i civili si trovassero nell’edificio durante la notte”.

Contesto mancante

Quello che di solito manca nelle tipiche analisi delle operazioni militari israeliane sulla [Striscia di] Gaza assediata è il più ampio contesto. Ma questo contesto è rilevante quando si esamina la legalità o illegalità della guerra secondo il diritto internazionale?

Mariniello risponde: Contesto e ostilità non possono essere analizzati separatamente. Lanci di razzi e bombardamenti fanno notizia, ma bisogna ricordare l’impatto permanente e quotidiano dell’occupazione israeliana e del controllo militare sulla popolazione civile (che ne paga il prezzo più alto), sia in Cisgiordania e Gaza”.

“Gaza è ancora in stato di occupazione sulla base del diritto internazionale ed è soggetta a un blocco che è entrato nel suo 17esimo anno. Il blocco ha un impatto devastante sulla vita dei residenti della Striscia, come evidenziato dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi, internazionali e israeliane, che lo descrivono apertamente come una catastrofe umanitaria.”

Giustizia ritardata

Una cosa che frustra costantemente i palestinesi è il doppio standard esibito dalle istituzioni legali e politiche internazionali nei riguardi di Israele come violatore seriale del diritto internazionale, rispetto a molti altri Paesi o entità.

Israele non è mai stato veramente chiamato a rispondere della sua occupazione militare, del regime di apartheid o dei numerosi crimini di guerra commessi contro i palestinesi.

Ma i palestinesi e i loro sostenitori non si arrendono.

Abbiamo chiesto a Mariniello se le vittime palestinesi possono sperare in qualche forma di giustizia e risarcimento.

“Gli attacchi rivolti contro i civili e l’uso sproporzionato della forza non sono solo violazioni del diritto umanitario ma sono anche crimini di guerra, che possono essere perseguiti anche in conformità con l’articolo 8 dello Statuto di Roma”, che riguarda i crimini di guerra, dice Mariniello.

Doppi standard

La storia recente ci ha insegnato che quando la comunità internazionale è decisa a punire e sanzionare un Paese che viola il diritto internazionale sono molte le misure che possono essere adottate. Immediatamente dopo il lancio dell’operazione militare russa in Ucraina nel febbraio 2022, ad esempio, sono state imposte migliaia di sanzioni a Mosca.

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il presidente russo Vladimir Putin e la Commissaria per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova, nonostante il fatto che né la Russia né l’Ucraina siano membri della CPI. Ciò significa che alla Corte non è stata concessa una giurisdizione automatica per indagare sui crimini commessi durante il conflitto in corso.

Nel caso della Palestina, nonostante l’avvio di un’indagine nel marzo 2021, il procedimento investigativo della CPI sembra trovarsi a un punto morto. Come spiegare tutto questo? Questo è l’ennesimo caso di doppi standard?

Spiega Mariniello: Dal punto di vista legale la politica del doppio standard applicata dai Paesi occidentali è inaccettabile. I meccanismi del diritto internazionale non possono essere applicati in alcuni casi e ignorati in altri. Ad esempio, nel caso dell’Ucraina 43 Paesi si sono rivolti alla CPI, di cui cinque si sono opposti all’indagine della CPI in Palestina”.

“Questa selettività non riguarda solo la comunità internazionale ma anche la CPI. La CPI rappresenta l’unica possibilità di giustizia per le vittime di crimini di guerra o crimini contro l’umanità, considerando gli attacchi sistematici contro le popolazioni civili”.

Quanto all’affermazione che Israele è una democrazia con un sistema giudiziario vitale e plausibilmente in grado di processare i propri presunti criminali di guerra, Mariniello ribatte: “Il sistema giudiziario israeliano ha dimostrato più e più volte di non essere in grado di rendere giustizia alle vittime di questi abusi. Ne abbiamo avuto recentemente la conferma nel caso dell’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh”.

Karim Khan

Considerando che la CPI è uno dei più importanti tribunali in cui le vittime di crimini di guerra possano in una qualche misura ottenere giustizia, pur tenendo presente i doppi standard e le carenze della stessa CPI, cosa possono aspettarsi i palestinesi?

Questa domanda diventa ancora più rilevante se teniamo presente il fatto che, secondo il rapporto dell’Assemblea degli Stati aderenti alla CPI, il budget stanziato per l’indagine sulla Palestina è molto piccolo. Ciò non è affatto promettente.

“Sfortunatamente, dall’avvento di Karim Khan come procuratore capo della CPI le indagini si sono fermate”, dice Mariniello. “Khan ha dimostrato che in altri casi le procedure possono essere molto rapide, quando c’è la volontà di andare avanti, come nel caso dell’Ucraina”.

Purtroppo la “volontà di procedere” sembra assente nel caso della Palestina.

“Nonostante il procedimento relativo alla Palestina sia ben documentato e sia stato avviato già nel 2009, l’attuale Procuratore non sembra avere alcuna intenzione di portarlo avanti”. Per Khan, “la Palestina non sembra una priorità”.

Molte voci critiche hanno condannato questo atteggiamento, sottolineando come la Procura sia interessata solo alle indagini che godono dell’appoggio degli Stati Uniti e dei suoi potenti alleati. Queste accuse sembrano trovare riscontro nella decisione di congelare le indagini su presunti crimini di guerra sia in Afghanistan che in Palestina”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un ex-soldato israeliano restituisce una chiave della moschea di Al-Aqsa dopo 56 anni

Redazione di MEMO

21 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie [turca, ndt.] Anadolu riferisce che giovedì un ex-soldato israeliano ha restituito la chiave di un cancello della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme Est occupata, dopo averla rubata 56 anni fa.

Il dipartimento delle fondazioni islamiche a Gerusalemme ha pubblicato un video che mostra il suo direttore generale Sheikh Azzam Al-Khatib che riceve la chiave dall’uomo, identificato come Yair Barack.

Nel video Barack afferma di aver fatto parte del battaglione israeliano che ha combattuto sul fronte di Gerusalemme Est, aggiungendo che molti dei suoi commilitoni sono morti durante i combattimenti nel 1967.

“Sono arrivato al cancello di Al-Mughrabi (nel corridoio ovest della moschea di Al-Aqsa)… e quando ho guardato a sinistra, ho trovato la chiave. Non so perché ci ho messo su la mano e l’ho presa” dice.

“Ho messo la chiave in tasca e da allora l’ho avuta io” aggiunge.

Barack afferma che dopo 40 o 50 anni ha cominciato a sentirsi a disagio perché la chiave ce l’aveva ancora lui “semplicemente perché l’ho rubata e adesso ho deciso di restituirla”.

“Adesso sono qui. Ho restituito la chiave che avevo rubato. L’ho restituita ai suoi proprietari… e questo è ciò che Israele dovrebbe fare – restituire ai palestinesi la loro terra, i diritti, il rispetto, l’indipendenza, la libertà e la sicurezza,” afferma.

Dice che, dopo aver restituito la chiave, ha sentito “di aver fatto la cosa giusta”.

La restituzione della chiave è avvenuta mentre coloni israeliani insieme a decine di politici israeliani partecipavano alla “marcia delle bandiere” per celebrare l’ occupazione di Gerusalemme Est nel 1967.

Commendando la controversa marcia, afferma che è uno dei peggiori giorni dell’anno per lui, aggiungendo di aver smesso di celebrare il “giorno delle bandiere” molto tempo fa.

La marcia delle bandiere è organizzata ogni anno da coloni israeliani commemorare ciò che chiamano la unificazione di Gerusalemme, in riferimento all’occupazione israeliana della città nel 1967.

“Io a quel tempo ero parte di tale occupazione. Non avrei voluto farlo, cioè occupare Gerusalemme”, ha affermato.

Israele ha occupato Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980 con un’iniziativa che non è mai stata riconosciuta a livello internazionale.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La simbolica commemorazione della Nakba alle Nazioni Unite ha messo in luce il disprezzo di Israele per la verità

Ramona Wadi

16 maggio 2023 – MiddleEastMonitor

“L’idea che un’organizzazione internazionale possa definire la fondazione di uno dei suoi Stati membri come una catastrofe o una sciagura è sia scioccante che rivoltante”, ha scritto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan chiedendo ai diplomatici delle Nazioni Unite di astenersi dal partecipare alla inedita commemorazione della Nakba del 1948 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A dire il vero l’azione più disgustosa è stata l’accettazione nel 1948 da parte delle Nazioni Unite del progetto coloniale israeliano come Stato membro a spese della popolazione palestinese sottoposta a pulizia etnica, la cui terra era (e continua ad essere) usurpata e il cui legittimo diritto al ritorno alla propria terra è una condizione ancora non soddisfatta dell’adesione di Israele alle Nazioni Unite.

La commemorazione della Nakba, sebbene sia significativa, non è nulla in confronto alla complicità delle Nazioni Unite nel permettere a Israele di prosperare. Come possono le Nazioni Unite, potremmo chiederci, permettersi di commemorare la memoria storica palestinese quando non vi fanno alcun riferimento in termini di diritti politici del popolo palestinese, o del legittimo diritto di resistere con ogni mezzo all’occupazione militare israeliana?

“Questa è un’occasione per sottolineare come i nobili obiettivi di giustizia e pace richiedano il riconoscimento della realtà e della storia delle peripezie del popolo palestinese e la garanzia del rispetto dei suoi diritti inalienabili” afferma il sito web dell’ONU, senza il minimo disagio alla consapevolezza che l’Organizzazione internazionale garantisce l’esatto contrario.

E tuttavia la commemorazione, nonostante l’imperante ipocrisia dei padroni di casa, è stata sufficiente a gettare nel panico Israele manifestandone la paranoia che possa aumentare la generale consapevolezza di come il popolo palestinese stia subendo da decenni un abuso politico che sarebbe in realtà reversibile. Basterebbe un’opposizione politica sufficiente allo status quo della normalizzazione di uno stato coloniale di insediamento e il sostegno al moribondo compromesso dei due Stati.

Secondo il Times of Israel 32 paesi hanno dichiarato che avrebbero boicottato l’evento, dieci dei quali membri dell’UE. Il peso diplomatico che Israele esercita a livello internazionale è considerevole; non solo un certo numero di paesi ha ascoltato l’appello di Erdan, ma è anche riuscito a convincere altri paesi di una narrativa filo-palestinese alle Nazioni Unite che non esiste. La narrativa sulla Palestina dell’Organizzazione è sia errata che totalmente filo-israeliana. Che gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avrebbero boicottato l’evento era prevedibile; sia gli Stati Uniti che il Canada sono essi stessi Stati coloniali e la Gran Bretagna è un’ex potenza coloniale, quindi la loro fedeltà allo Stato di apartheid è profonda. Inoltre l’assenza di qualsiasi condanna di Israele come entità coloniale che priva i palestinesi della loro terra ha incoraggiato la normalizzazione del colonialismo e della violenza dei coloni.

Il che vuol dire che il significato che una tale manifestazione avrebbe potuto avere è andato perduto a causa della complicità delle stesse Nazioni Unite nel dare una certa credibilità alla falsa narrazione di Israele. Una singola commemorazione della Nakba non può competere con decenni di sostegno al colonialismo. Va ricordato che le Nazioni Unite danno molta importanza al simbolismo e hanno costretto i palestinesi in questa stessa narrativa. Tuttavia, la memoria collettiva dei palestinesi non è simbolica, è una realtà vissuta che l’Onu preferisce ignorare.

Eppure Israele si sente ancora minacciato al pensiero che le sue atrocità vengano smascherate. Erdan ha fatto un sacco di rumore per il simbolico evento sulla Nakba alle Nazioni Unite, ma la verità è che Israele è riluttante a qualsiasi disvelamento della memoria legata alla Nakba. La riluttanza a concedere i propri archivi alla ricerca accademica ne è un esempio calzante. Ciò che l’evento delle Nazioni Unite ha messo in luce è che Israele avrà sempre più difficoltà a nascondere la violenza della propria istituzione in Palestina su terra usurpata, nonostante la riluttanza della comunità internazionale a porre fine al colonialismo e alla violenza di Stato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Due uccisi e due feriti nel recente bombardamento israeliano di Gaza

Redazione di MEMO

9 maggio 2023 – Middle East Monitor

Il ministero palestinese della salute a Gaza ha affermato che nel recente bombardamento israeliano della città di Khan Younis, nella parte meridionale della striscia di Gaza, due palestinesi sono stati uccisi e altri due feriti.

I loro nomi non sono ancora stati resi noti, ma lo Stato di Israele dichiara che erano uomini della Jihad Islamica che stavano pianificando il lancio di razzi verso Israele.

In una dichiarazione ufficiale, la Jihad Islamica ha negato che le vittime facessero parte dell’organizzazione, ma ha sottolineato che vendicheranno tutte le vittime uccise da questa mattina.

Le immagini pubblicate che mostrano un’auto bruciata dopo l’attacco sono diventate virali sui social media. L’esercito dell’occupazione ha pubblicato un video dell’attacco girato da un drone.

Il ministero della Salute ha affermato che l’attacco ha portato a 15 il bilancio delle vittime e i feriti a 22 dall’inizio degli attacchi nelle prime ore del mattino.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’UE chiede una inchiesta trasparente sulla morte di un prigioniero palestinese

Redazione di MEMO

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Anadolu riferisce che martedì un funzionario UE ha detto che l’Unione Europea chiede alle autorità israeliane di indagare sulla morte di un prigioniero palestinese, Khader Adnan.

L’Unione Europea è entrata in contatto con le autorità israeliane, incluso il ministero della Salute, sul caso di Adnan per chiedere allo Stato di Israele in merito alle sue condizioni di salute,” ha detto ai giornalisti Peter Stano, il portavoce per gli Affari Esteri della Commissione Europea.

Ha precisato che Adnan è morto mentre protestava contro la sua “incriminazione per incitamento ed affiliazione alla Jihad islamica palestinese, che è un’organizzazione terroristica.”

Stano ha affermato che le UE chiede un’“inchiesta trasparente sulle circostanze che hanno portato alla sua morte”.

Ha reiterato la posizione complessiva della UE, chiedendo a tutte le Nazioni il rispetto degli obblighi internazionali sui diritti umani verso i prigionieri.

Stano ha anche sottolineato che la UE sollecita tutte le parti a “prevenire una recrudescenza in una situazione già instabile” in seguito a “un appello alla rappresaglia da parte dei gruppi armati palestinesi”.

Adnan, una importante figura dell’organizzazione Jihad Islamica, è morto in prigione martedì scorso dopo uno sciopero della fame di 86 giorni contro la sua detenzione senza processo o capi di imputazione.

È diventato il simbolo della resistenza palestinese contro le politiche di detenzione israeliane, dato che dal 2012 ha fatto molti scioperi della fame in carcere.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Chi ha detto che il BDS ‘è già fallito’?: città europee boicottano l’Israele dell’apartheid

RamzyBaroud

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

Una serie di eventi, a partire da Barcellona, Spagna, in febbraio, seguita in aprile da Liegi, Belgio e Oslo, Norvegia, ha inviato un forte messaggio a Israele: il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è vivo e vegeto.

A Barcellona la sindaca della città ha annullato un accordo di gemellaggio con la città israeliana di Tel Aviv. La decisione non è stata impulsiva, benché Ada Colau sia ben nota per le sue posizioni di principio su molte questioni. E’ stata piuttosto l’esito di un processo pienamente democratico, iniziato da una proposta presentata al consiglio comunale dai partiti di sinistra.

Alcune settimane dopo che fu presa questa decisione, precisamente l’8 febbraio, un’organizzazione legale filoisraeliana nota come The Lawfare Project, ha annunciato l’intenzione di intentare una causa contro Colau in quanto lei, presumibilmente, “ha agito al di fuori della competenza della sua autorità”.

The Lawfare Project intendeva comunicare un messaggio ad altri consigli comunali in Spagna e nel resto d’Europa, cioè che vi sarebbero state gravi ripercussioni sul piano giuridico al boicottaggio di Israele. Tuttavia con grande sorpresa dell’organizzazione – e di Israele – altre città hanno subito avviato le loro procedure di boicottaggio. Tra esse la città belga di Liegi e la capitale della Norvegia, Oslo.

I vertici comunali di Liegi non hanno cercato di nascondere le ragioni della loro decisione. E’ stato riferito che il consiglio comunale ha deciso di sospendere i rapporti con le autorità israeliane perché guidano un regime “di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. L’iniziativa è stata appoggiata da un voto di maggioranza nel consiglio, dimostrando ancora una volta che la posizione etica filopalestinese è pienamente compatibile con un processo democratico.

Oslo rappresenta un caso particolarmente interessante. Fu là che il “processo di pace” diede luogo agli Accordi di Oslo nel 1993, che sostanzialmente divisero i palestinesi e fornirono a Israele una copertura politica alla prosecuzione delle sue pratiche illegali, sostenendo di non avere un partner per la pace.

Ma Oslo non è più legata ai vuoti slogan del passato. Nel giugno 2022 il governo norvegese ha dichiarato l’intenzione di negare l’etichetta “Made in Israel” ai beni prodotti nelle colonie ebree israeliane illegali nella Palestina occupata.

Benché le colonie ebree siano illegali ai sensi del diritto internazionale, per anni l’Europa non si è fatta scrupolo di fare affari – di fatto affari lucrativi – con queste colonie. Nel novembre 2019 la Corte di Giustizia Europea ha comunque stabilito che tutti i beni prodotti nelle “aree occupate da Israele” dovevano essere etichettati come tali, in modo da non ingannare i consumatori. La decisione della Corte era una versione attenuata di ciò che i palestinesi si aspettavano: un completo boicottaggio, se non di Israele nel suo insieme, almeno delle sue colonie illegali.

Comunque la decisione è servita ad uno scopo. Ha fornito un’ulteriore base giuridica al boicottaggio, rafforzando le organizzazioni della società civile filopalestinese e ricordando a Israele che la sua influenza in Europa non è così illimitata come Tel Aviv vuole credere.

Il massimo che Israele ha potuto fare in termini di risposta è stato rilasciare dichiarazioni aggressive unitamente a confuse accuse di antisemitismo. Nell’agosto 2022 la Ministra degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha chiesto un incontro durante la sua visita in Israele con l’allora Primo Ministro di Israele Yair Lapid. Lapid ha rifiutato. Non solo tale arroganza ha prodotto una certa differenza nella posizione della Norvegia sull’occupazione israeliana della Palestina, ma ha anche allargato i margini per gli attivisti filopalestinesi per una maggiore incisività, conducendo alla decisione di Oslo in aprile di bandire l’importazione di beni prodotti nelle colonie illegali.

Il movimento BDS ha spiegato sul suo sito web il significato della decisione di Oslo: “La capitale della Norvegia…ha annunciato che non commercerà in beni e servizi prodotti in aree che sono illegalmente occupate in violazione del diritto internazionale”. In pratica ciò significa che “la politica di acquisti di Oslo esclude le imprese che direttamente o indirettamente contribuiscono all’impresa coloniale illegale di Israele – un crimine di guerra secondo il diritto internazionale.”

Tenendo conto di questi rapidi sviluppi, The Lawfare Project ora dovrà estendere le sue cause legali includendo Liegi, Oslo e una sempre più ampia lista di consigli comunali che stanno attivamente boicottando Israele. Ma anche in questo caso non vi sono certezze che l’esito di tali contenziosi sarà comunque favorevole a Israele. Di fatto è più probabile che sia vero il contrario.

Un caso specifico è stata la recente decisione delle città di Francoforte e Monaco in Germania di annullare i concerti della leggenda del rock and roll filopalestinese Roger Waters, come parte del suo tour ‘Questa non è un’esercitazione’. Francoforte ha giustificato la sua decisione stigmatizzando Waters come “uno dei più noti antisemiti al mondo”. La bizzarra ed infondata accusa è stata categoricamente respinta da un tribunale civile tedesco che il 24 aprile ha deliberato a favore di Waters.

Certo, mentre un crescente numero di città europee si sta schierando con la Palestina, coloro che appoggiano l’apartheid israeliano trovano difficile difendere o addirittura conservare la propria posizione, semplicemente perché le prime basano le proprie posizioni sul diritto internazionale, mentre i secondi si appoggiano su distorte e convenienti interpretazioni dell’antisemitismo.

Che cosa significa tutto questo per il movimento BDS?

In un articolo pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Foreign Policy Steven Cook ha raggiunto la precipitosa conclusione che il movimento BDS “ha già perso”, perché, secondo la sua deduzione, gli sforzi per boicottare Israele non hanno avuto effetto “nei palazzi del governo”.

Se il BDS è un movimento politico soggetto a calcoli sbagliati e errori, è anche una campagna dal basso che opera per raggiungere obbiettivi politici attraverso successivi e controllati cambiamenti. Per avere successo sul lungo termine queste campagne per prima cosa devono impegnare nelle strade la gente comune, gli attivisti nelle università, nei luoghi di culto, ecc., il tutto attraverso calcolate strategie a lungo termine, esse stesse formulate da collettivi e organizzazioni della società civile locale e nazionale.

Il BDS continua ad essere una vicenda di successo e le ultime cruciali decisioni prese in Spagna, Belgio e Norvegia attestano il fatto che gli sforzi della base ottengono risultati.

Non si può negare che la strada sia lunga e ardua. Avrà certamente le sue svolte, i suoi rovesci e, sì, le occasionali battute d’arresto. Ma è questa la natura delle lotte di liberazione nazionale. Spesso richiedono alti costi e grandi sacrifici. Ma, con la resistenza popolare interna e un crescente supporto internazionale e la solidarietà dall’estero, la libertà della Palestina dovrebbe essere di fatto possibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Cancellazione o resilienza: come la Nakba è giunta a definire l’identità collettiva dei palestinesi

Ramzy Baroud

25 aprile 2023 – Middle East Monitor

Il 15 maggio la Nakba palestinese compirà 75 anni. I palestinesi in tutto il mondo commemoreranno la “Catastrofe” durante la quale, con la minaccia delle armi, circa 800.000 dei loro progenitori furono cacciati dalle loro case e terre e 500 città e villaggi spazzati via dalla faccia della terra dalla pulizia etnica iniziata nella Palestina storica fra la fine del ‘47 e la metà del ‘48.

Lo spopolamento della Palestina è durato mesi, anzi anni, dopo che la si pensava finita. Ma in realtà la Nakba è sempre continuata. A oggi le comunità palestinesi a Gerusalemme Est, nelle colline a sud di Hebron, nel deserto del Naqab e altrove stanno ancora patendo le conseguenze della ricerca di Israele della supremazia demografica. E naturalmente, milioni di rifugiati palestinesi restano apolidi, a loro vengono negati elementari diritti politici e umani.

Nel 2001 l’intellettuale palestinese Hanan Ashrawi in un discorso alla Conferenza mondiale contro il razzismo dell’ONU descrisse in modo appropriato il popolo palestinese come una “una nazione imprigionata ostaggio di una Nakba continua”. Ashrawi poi approfondì e descrisse questa ” Nakba continua” come ” la più complessa e diffusa espressione di colonialismo, apartheid, razzismo e vittimizzazione persistenti.” Ciò significa che non dobbiamo pensare alla Nakba solo come a un evento accaduto in un tempo e luogo definiti.

Sebbene la gigantesca ondata di rifugiati del 1947-48 fosse il risultato diretto della campagna sionista di pulizia etnica ideata con il “Piano Dalet”, il progetto diede ufficialmente inizio a una più ampia Nakba che continua ancora oggi. Il “Piano Dalet” (la lettera “D” nell’alfabeto ebraico) fu intrapreso dai leader sionisti ed eseguito dalle milizie sioniste per sgombrare la Palestina della maggioranza dei suoi abitanti autoctoni. Ebbero successo e, nel fare ciò, spianarono la strada a decenni di violenze e sofferenze subite ancora oggi dal popolo palestinese.

In realtà l’attuale occupazione israeliana e il radicato e razzista regime di apartheid imposto in Palestina non sono semplicemente le conseguenze volute, intenzionali o meno, della Nakba, ma anche le manifestazioni dirette di una Nakba che non è mai veramente finita.

Il fatto che secondo il diritto internazionale i rifugiati palestinesi, indipendentemente dagli eventi specifici che hanno innescato la loro rimozione forzata, abbiano diritti “inalienabili” è ampiamente riconosciuto, sebbene tristemente disatteso. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite rende legalmente impossibile a Israele violare tali diritti. Inoltre, la risoluzione 194 (III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1948 afferma che “ai rifugiati che vogliano ritornare alle loro case e vivere in pace con i propri vicini deve essere permesso di farlo appena possibile.” Secondo l’ONU ciò doveva essere realizzato “dai governi o dalle autorità responsabili.”

In Israele il governo “responsabile” si è mosso rapidamente per mettersi al riparo da ogni condanna o responsabilità. Documenti “top secret” rinvenuti da ricercatori israeliani e pubblicati sul quotidiano israeliano Haaretz, includono un fascicolo etichettato GL-18/17028. Il documento dimostra come, subito dopo il completamento della prima e maggiore fase di pulizia etnica della Palestina, il primo ministro di Israele David Ben Gurion cercò di “riscrivere la storia”. Per raggiungere il proprio scopo Ben Gurion scelse la più vergognosa di tutte le strategie: incolpò le vittime palestinesi. Ma perché i vittoriosi sionisti si sarebbero preoccupati di temi apparentemente tanto triviali come le narrazioni?

Haaretz aggiunge: “Proprio come il sionismo aveva forgiato una nuova narrazione per l popolo ebraico, in pochi decenni, [Ben Gurion] capì che anche l’altra nazione che era vissuta nel Paese prima dell’avvento del sionismo si sarebbe impegnata a formulare una narrazione sua propria”. Ovviamente questa ” altra nazione ” è il popolo palestinese.

Il punto cruciale della narrazione sionista della pulizia etnica della Palestina fu quindi basato sull’affermazione continuamente ripetuta che i palestinesi se ne erano andati “per scelta “, anche se stava diventando chiaro ai sionisti stessi che “solo in pochi casi gli abitanti avevano abbandonato i villaggi su istruzione dei loro leader [locali] o mukhtar.”

Comunque, anche in questi pochi casi isolati, in tempi di guerra cercare salvezza altrove non è reato e non dovrebbe costare a un/una rifugiato/a il diritto inalienabile di far ritorno alla propria terra. Se la bizzarra logica sionista venisse accolta nel diritto internazionale, allora i rifugiati di Siria, Ucraina, Libia, Sudan e di tutte le altre zone di guerra perderebbero i loro diritti legali alle loro proprietà e cittadinanza nelle rispettive patrie.

Tuttavia la logica sionista non intendeva solo sfidare i legittimi diritti politici del popolo palestinese, ma faceva anche parte integrante di un processo più ampio chiamato dagli intellettuali palestinesi ‘cancellazione’, cioè la sistematica distruzione della Palestina, della sua storia, cultura, lingua, memoria e naturalmente del suo popolo. Questo processo si ritrova già nelle trattazioni dei primi sionisti prima che la Palestina fosse svuotata dei propri abitanti, trattazioni in cui la patria del popolo palestinese era percepita perfidamente come “una terra senza popolo”. La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è stata espressa numerose volte nella narrazione sionista e continua a essere usata ancora oggi.

Tutto ciò significa che 75 anni di continua Nakba e la negazione del fatto stesso del gigantesco crimine da parte di Israele e dei suoi sostenitori richiedono una comprensione molto più profonda di quello che è successo, e continua a succedere, al popolo palestinese.

I palestinesi devono insistere che la Nakba non è una singola questione politica da discutere o negoziare con Israele o con coloro che sostengono di rappresentarli. “I palestinesi non hanno alcun obbligo morale o legale di assecondare gli israeliani a proprie spese,” ha scritto il famoso storico palestinese Salman Abu Sitta in riferimento alla Nakba e al diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. “Secondo qualsiasi norma Israele ha l’obbligo di porre rimedio alla monumentale ingiustizia commessa.”

Anzi la Nakba è una storia palestinese del passato, presente e futuro, che racchiude tutto. Non è solo una storia di vittime, ma anche della resilienza palestinese, sumud. È l’unico programma più unificante che riunisce tutti i palestinesi, oltre i limiti di fazioni, politiche o geografia. La Nakba ha finito per definire l’identità collettiva palestinese.

Quindi per i palestinesi la Nakba non è semplicemente una singola data da ricordare ogni anno. È l’intera loro storia, la cui conclusione sarà scritta, a tempo debito, dai palestinesi stessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)