L’incontro di Netanyahu con MBS segna un nuovo fronte contro il ritorno all’accordo con l’Iran da parte di Biden

Philip Weiss

23 novembre 2020 – Mondoweiss

La grande notizia di questa notte è che pare che Benjamin Netanyahu sia volato nella città dell’Arabia Saudita di NEOM sul Mar Rosso per incontrare il principe saudita Mohammed bin Salman su richiesta del Segretario di Stato USA Mike Pompeo.

Se confermato, questo sarebbe ovviamente un incontro di grande importanza storica – un leader israeliano non ha mai visitato l’Arabia Saudita. Pompeo ha segnalato ciò con un tweet criptico:

Costruttivo incontro oggi con il principe ereditario Mohammed bin Salman a NEOM. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno percorso un lungo cammino da quando il Presidente Franklin Delano Roosevelt e il Re Abdul Aziz Al Saud hanno posto per la prima volta le basi per le nostre relazioni 75 anni fa.”

Pompeo si riferisce ad un famoso incontro in cui il re disse a Roosevelt che non ci doveva essere uno Stato sionista nella vicina Palestina e Roosevelt gli promise che gli USA non avrebbero appoggiato una simile ipotesi. Poi Roosevelt morì e Truman cambiò politica.

E guarda un po’, adesso anche i sauditi stanno cambiando idea sul sionismo, come va strombazzando la stampa israeliana.

Consideriamo la valenza politica di questa visita. È una triplice vittoria per Israele, Arabia Saudita e anche per Pompeo. Ma molti altri perdono!

Sicuramente Israele ne trae il maggior vantaggio. Un altro accordo di normalizzazione con un vicino arabo è in vista. Ancora una volta i palestinesi sono stati sacrificati; ehi, voi palestinesi dovete arrendervi. Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] vi ha detto che siete un popolo sconfitto.

Israele riesce a legare ancor di più le mani a Joe Biden riguardo alla ripresa dell’accordo con l’Iran, che odia. Ieri Netanyahu ha detto a Biden che non può rientrare nell’accordo prima di essere andato in Arabia Saudita. L’avvocato di Israele Dennis Ross ha inviato questo messaggio in un tweet stamattina.

L’incontro Netanyahu-MbS non è una mossa da poco in Medio Oriente. Si può scommettere che la loro discussione si è fortemente incentrata su come rapportarsi all’amministrazione Biden, con un occhio verso il coordinamento dei messaggi sull’Iran.

Il messaggio a Biden, proprio mentre sta costituendo la sua squadra di esperti di Washington sulla politica estera, è questo: dovrai usare tutte le tue capacità politiche per firmare un accordo con l’Iran, perché Israele con l’aiuto della Casa Bianca di Trump ha appena alzato il prezzo. Non ti conviene.

Martin Indyk, un lobbista filoisraeliano democratico di centro, capisce che il messaggio è questo e invita Israele ad essere cortese con Biden.

Se l’incontro tra Netanyahu e MbS è stato inteso come un tentativo di coordinare le posizioni contro ciò che entrambi potrebbero considerare una nuova minaccia comune da parte dell’entrante amministrazione Biden, questo è un grosso errore. Lavorare insieme a Biden piuttosto che contro di lui porterà a risultati molto migliori per tutti.

Bella mossa. Ma ad Israele non importa.

Passiamo al punto di vista della monarchia saudita. Nel 2015 l’Arabia Saudita non si era opposta all’accordo con l’Iran (guadagnando così l’appoggio di Obama nella guerra in Yemen), ma ovviamente condivide alcuni degli interessi di Israele nell’isolare l’Iran. Ora sta svendendo i palestinesi, ma non è un gran prezzo da pagare quando si pensa a cosa ci guadagna. Ora ha a Washington l’ambasciatore più potente di tutti: la lobby israeliana e Netanyahu, che aiuteranno a sostenere il regime corrotto e criminale nel momento in cui un’amministrazione democratica entra alla Casa Bianca parlando di diritti umani.

Organizzazioni ebraiche di centro come la Conferenza dei Presidenti e l’AIPAC stanno per prendere le difese dell’Arabia Saudita e diranno a Joe Biden di lasciar perdere l’assassinio di Jamal Khashoggi – la pace in Medio Oriente è più importante.

Scusate se ripeto uno vecchio discorso, ma l’Arabia Saudita sa che essere cortesi con Israele apre le porte a Washington. Gli uomini più potenti del mondo, come Putin, Modi e Obama, si sono tutti rivolti alla lobby israeliana per cercare di fare affari in Campidoglio. Obama nel 2008 ha concordato con la lobby la nomina del suo segretario di Stato; poi nel 2015 ha dovuto combattere con la lobby di destra per raggiungere l’accordo con l’Iran, ma almeno ha avuto al suo fianco i sionisti progressisti.

Infine c’è Pompeo. Ha fatto tutto quel che poteva per Israele negli ultimi giorni, alla fine dell’amministrazione Trump. Il BDS è “un cancro”, ha detto quando è partito per le colonie illegali in Cisgiordania. Il principale donatore repubblicano, Sheldon Adelson, concorda in pieno. Come ha detto Nick Schifrin [giornalista USA esperto di Medio Oriente, ndtr.] l’altra notte nel programma PBS News Hour [programma televisivo USA di approfondimento della rete radiotelevisiva pubblica, ndtr.] , Pompeo ha delle ottime carte per dimostrare la propria idoneità per una campagna presidenziale nel 2014. Anche Aaron David Miller [analista e negoziatore USA in Medio Oriente, ndtr.] lo ha detto:

Le gite di Pompeo all’azienda vitivinicola in Cisgiordania e nel Golan non hanno nulla a che fare con le ambizioni dell’America, bensì con le sue, in vista del 2024.”

Socializzare con la destra israeliana è ancora una buona politica negli USA. Durante le primarie democratiche Bernie Sanders e Pete Buttigieg hanno definito Netanyahu un razzista che ha perso la testa, ma questa consapevolezza deve ancora farsi strada a Washington.

Vediamola in questo modo: Joe Biden sta cercando un ambasciatore in Israele che vada bene a Netanyahu. I nomi in gioco sono Dan Shapiro, Michael Adler e Robert Wexler, tutti ebrei e sionisti. L’idea che un ambasciatore USA in Israele sia qualcuno che dia speranze ai palestinesi sotto apartheid è fuori questione. E pensate che Netanyahu abbia voluto fare una cortesia a Obama quando ha nominato Michael Oren e Ron Dermer come suoi ambasciatori a Washington? Neanche per un istante. Ha messo una spina nel fianco di Obama. “Se arrivasse un extraterrestre e vedesse i rapporti tra USA ed Israele avrebbe ragione di pensare che gli USA sono uno Stato vassallo di Israele”, dice un esperto.

In sostanza, Netanyahu esercita ancora un grande potere a Washington. E l’Arabia Saudita lo ha al suo fianco. Chiunque altro ha ulteriori motivi per preoccuparsi.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha creato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Per lo Stato ebraico, l’Olocausto è uno strumento da manipolare

Orly Noy

20 novembre 2020 – +972 magazine

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro i palestinesi in nome dell’Olocausto, oggi lo usa come strumento per giustificare persino l’antisemitismo.

Nella stessa settimana in cui una commissione interna del governo israeliano ha approvato la nomina di Effi Eitam, ex-generale delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano dell’Olocausto, è successo qualcosa di significativo. In un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato USA uscente Mike Pompeo ha annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

La contiguità tra i due annunci simbolizza la fase finale della metamorfosi manipolatoria che l’antisemitismo e l’Olocausto hanno subito per mano del sionismo.

Effi Eitam, un falco di destra e un razzista, nel 2006, durante la cerimonia in commemorazione del tenente Amichai Merhavia, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, ha fatto le seguenti dichiarazioni:

“Noi dovremo fare tre cose: espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) da qui. È impossibile con tutti quegli arabi ed è impossibile lasciare il territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo là. Alcuni potrebbero essere in grado di rimanere in base a certe condizioni, ma la maggior parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, e cioè buttar fuori gli arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono lampanti: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo livello, per cui non possiamo continuare a consentire una così vasta presenza ostile nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana, dovremo agire in modo diverso da tutto quanto abbiamo fatto finora. Queste sono tre cose che richiederanno un cambiamento della nostra etica di guerra.”[corsivo ndtr]

L’espulsione dalla propria terra di una popolazione nativa occupata da parte della potenza occupante è un crimine di guerra. Impedire la partecipazione di cittadini al sistema politico in base all’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il futuro presidente dello Yad Vashem non si vergogna di aver espresso opinioni che rappresentano crimini di guerra per portare avanti le sue ambizioni politiche.

Come ha scritto su queste pagine Libby Lenkinski [vice presidentessa per l’impegno pubblico del gruppo contrario all’occupazione New Israel Fund, ndtr.], Trump è l’uomo che ha riportato alla moda negli Stati Uniti l’antisemitismo classico, essendo nel contempo calorosamente accolto dal primo ministro dello Stato ebraico.

La predilezione dello Yad Vashem per i fascisti e i criminali di guerra non è certo un segreto. Da quando nel 1976 lo visitò il primo ministro del Sudafrica dell’apartheid John Worster, membro di un’organizzazione filo-nazista durante la II guerra mondiale, il museo ha ospitato una delegazione della giunta militare del Myanmar responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Ha aperto le sue porte al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e appoggia apertamente lo sterminio fisico delle persone LGBTQ, della popolazione indigena brasiliana e una serie di altre atrocità, compresi lo stupro, la tortura e la dittatura militare. Ha ospitato persino il primo ministro ungherese Viktor Orban, che ha espresso appoggio per Miklós Horthy, il leader ungherese durante la II Guerra Mondiale, e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un importante esponente politico di un governo responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome dell’Olocausto, oggi lo utilizza come strumento per giustificare persino l’antisemitismo in cambio di vantaggi politici. Ancor peggio: consente a un antisemita di definire cosa sia l’antisemitismo. Questa è la peggiore verità che oggi ci troviamo davanti: per lo Stato di Israele ufficiale, i concetti di Olocausto e antisemitismo sono semplicemente mezzi politici, e come tali possono essere manipolati, distorti e travisati, come qualunque altro strumento politico.

Dopo aver spogliato i palestinesi con il pretesto dell’Olocausto, ora i dirigenti israeliani stanno adottando un antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi palestinesi spossessati in nome della lotta contro l’antisemitismo. E non solo loro, ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà con la lotta palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone con una coscienza, che rabbrividiscono di fronte a questo orribile sfruttamento della memoria dell’Olocausto, sarà difficile farlo.

È per questo che Effi Eitam, un razzista e un fautore di crimini di guerra, è stato nominato per custodire la memoria della tragedia ebrea, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre soggetto alla manipolazione politica utilitaristica. È così che Israele onora i morti nel 2020.

Orly Noy è editorialista di Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.], attivista politica e traduttrice di poesie e prose dal farsi [lingua ufficiale in Iran, ndtr.]. Fa parte del comitato esecutivo di B’Tselem ed è un’attivista del partito politico Balad [partito politico israeliano a maggioranza araba, ndtr.]. I suoi scritti riguardano i percorsi che incrociano e definiscono la sua identità come mizrahi [ebrei di origine orientale, ndtr.], donna di sinistra, donna, migrante temporanea, che vive all’interno di una continua immigrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio, avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio. 

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico. 

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane, compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est, vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un periodo critico”.

Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa, di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gli USA valutano se definire “antisemite” importanti organizzazioni per i diritti umani

Nahal Toosi

21 ottobre 2020 – Politico

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta spingendo per questa dichiarazione.

Due persone a conoscenza della questione affermano che l’amministrazione Trump sta prendendo in considerazione di dichiarare che una serie di importanti Ong internazionali – tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam – sono antisemite e che i governi non dovrebbero appoggiarle.

La dichiarazione proposta potrebbe essere resa pubblica dal Ddipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.] entro questa settimana. Se ciò venisse dichiarato, probabilmente provocherebbe una rivolta da parte delle associazioni della società civile e potrebbe scatenare un contenzioso legale. Chi critica questa possibile iniziativa teme che ciò possa portare anche altri governi a reprimere ulteriormente queste associazioni. Nel contempo le organizzazioni citate negano qualunque accusa di antisemitismo.

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta facendo pressioni per questa dichiarazione. Pompeo pensa ad una futura candidatura presidenziale ed ha preso una serie di misure per guadagnarsi i favori degli elettori filo-israeliani ed evangelici, una componente fondamentale della base elettorale di Trump.

Ma la proposta sta provocando l’opposizione di funzionari del Dipartimento di Stato. Tra i contrari ci sono avvocati del dipartimento che avvertono che ciò ha basi incerte riguardo a problemi di libertà di parola, potrebbe portare a denunce e potrebbe persino non avere legittime basi legali dal punto di vista amministrativo.

Mercoledì nessun portavoce del Dipartimento di Stato ha al momento risposto a una richiesta di commento. Un ex- funzionario del Dipartimento di Stato con contatti interni ha confermato il fondamento della dichiarazione ed ha affermato che potrebbe essere resa pubblica a breve.

Si prevede che la dichiarazione assumerà la forma di un rapporto dell’ufficio di Elan Carr, l’inviato speciale USA per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo. Il rapporto citerebbe organizzazioni che includono Oxfam, Human Rights Watch e Amnesty International. Dichiarerebbe che la politica USA è di non appoggiare, anche finanziariamente, tali organizzazioni e invita altri governi a smettere di sostenerle.

Il rapporto citerebbe l’appoggio, presunto o percepito, di tali organizzazioni al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, che ha preso di mira Israele per la sua costruzione di colonie sulla terra che i palestinesi rivendicano per un futuro Stato.

Si prevede anche che punti su rapporti e comunicati stampa rilasciati da tali gruppi sull’impatto delle colonie israeliane, così come sul loro coinvolgimento o appoggio percepito a un elenco delle Nazioni Unite su imprese che operano nei territori contesi.

L’impatto concreto di tali organizzazioni non è immediatamente chiaro e potrebbe dipendere da quale branca o divisione di un gruppo venga presao in considerazione. Per esempio Human Rights Watch e Amnesty International USA non ricevono fondi dal governo USA. Oxfam America neppure, ma a seconda delle circostanze le sue sezioni all’estero potrebbero ricevere finanziamenti dagli americani.

Inoltre non tutte le associazioni citate appoggiano ufficialmente il movimento BDS o prendono posizione su di esso. Ma tutte hanno criticato in una misura o nell’altra le politiche di colonizzazione israeliana e il modo in cui vengono trattati i palestinesi, e organizzazioni filo-israeliane hanno sostenuto che le attività di queste associazioni rappresentano comunque un appoggio per il movimento e quindi sono antisemite.

Contattati da POLITICO, i rappresentanti ufficiali delle tre organizzazioni non erano a conoscenza della possibile dichiarazione del Dipartimento di Stato.

Bob Goodfellow, direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha affermato che qualunque accusa di antisemitismo sarebbe “priva di fondamento”.

AI USA è profondamente impegnata a lottare contro l’antisemitismo e contro ogni forma di odio in tutto il mondo, e continuerà a proteggere le persone ovunque vengano negate giustizia, libertà, verità e dignità,” afferma in un comunicato. “Contestiamo risolutamente ogni accusa di antisemitismo e ci prepariamo di affrontare ogni attacco del Dipartimento di Stato.”

Anche Noah Gottschalk, responsabile della politica internazionale di Oxfam America, nega come “false” e “offensive” le accuse di antisemitismo.

Oxfam non appoggia il BDS né chiede il boicottaggio di Israele o di qualunque altro Paese,” ha affermato Gottschalk. “Oxfam e i nostri partner israeliani e palestinesi da decenni operano sul terreno per promuovere i diritti umani e contribuire alla sopravvivenza di comunità israeliane e palestinesi. Noi sosteniamo la nostra lunga storia di lavoro per proteggere le vite, i diritti umani e il futuro di ogni israeliano e palestinese.”

Il funzionario di Human Rights Watch Eric Goldstein ha notato che l’amministrazione Trump spesso si basa sul lavoro di gruppi come il suo per legittimare le sue stesse prese di posizione politiche.

  • Lottiamo contro ogni forma di discriminazione, compreso l’antisemitismo,” dice Goldstein in un comunicato. “Criticare politiche governative non equivale ad attaccare un gruppo di persone specifico. Per esempio, le nostre critiche al governo USA non ci rendono antiamericani.”

La bozza di dichiarazione del Dipartimento di Stato attinge molte delle sue informazioni da Ong Monitor, un sito filo-israeliano che controlla le attività di organizzazioni per i diritti umani e altre e spesso le accusa di essere anti-israeliane.

Lo scorso anno Israele ha espulso Omar Shakir, un ricercatore di Human Rights Watch, accusato di appoggiare il movimento BDS. Human Rights Watch e Shakir, cittadino USA, hanno negato questa accusa.

Mercoledì, alla domanda in merito alla possibile dichiarazione USA, nessun portavoce dell’ambasciata israeliana ha commentato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i leader arabi si inchinano improvvisamente all’opportunità di normalizzare i rapporti con Israele

Miko Peled

17 settembre 2020MintPress News

I leader arabi capiscono che i rapporti con Israele forniscono l’accesso all’impero USA e a tutto ciò che ne deriva, compresi gli agognati armamenti statunitensi ed altri vantaggi come la cooperazione economica e per la sicurezza.

Mentre scrivo queste parole i Ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein sono a Washington per firmare accordi di normalizzazione dei rapporti tra i loro Paesi e lo Stato di Israele. Mentre gli Stati Uniti ed Israele sono rappresentati dal Presidente Donald Trump e dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, gli Stati arabi hanno inviato alla cerimonia per la firma i loro ministri degli esteri in rappresentanza dei loro Paesi. Ciò potrebbe avere a che fare meno con il protocollo quanto piuttosto con il fatto che sia Trump che Netanyahu stanno lottando per la propria vita politica e per loro questa è stata un’esibizione di pubbliche relazioni estremamente necessaria.

Lo spettacolo odierno appare ben lontano dalla posizione risoluta, di principio e coraggiosa presentata dai leader arabi a Kartoum quasi esattamente 53 anni fa. Appena dopo l’attacco israeliano alle terre arabe nel 1967, mentre le canne dei fucili erano ancora fumanti, nella capitale sudanese Kartoum fu convocata una riunione dei capi degli Stati arabi. Questo incontro produsse una coraggiosa risoluzione che affermava il rifiuto del riconoscimento, di negoziati e della pace con Israele. Gli eserciti arabi dell’Egitto, il più grande degli Stati arabi, della Siria e della Giordania vennero completamente distrutti, circa 18.000 soldati arabi uccisi e centinaia di migliaia di civili restarono senza casa, eppure i leader degli Stati arabi furono fermi nel dire “no” al potente aggressore, Israele.

La risoluzione degli Stati arabi di respingere il brutale regime di apartheid israeliano fu accettata nell’agosto 1967 al summit della Lega Araba, appena due mesi dopo che Israele aveva decimato gli eserciti di tre Stati arabi ed aveva occupato con la violenza le alture del Golan siriano, la penisola del Sinai egiziana ed aveva completato la conquista della Palestina occupando la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

La risoluzione, che in seguito venne conosciuta come quella dei “tre no”, viene tuttora usata dalla propaganda sionista per dimostrare la mancanza di volontà degli Stati arabi di fare la pace con Israele e riconoscere il cosiddetto Stato ebraico. Tuttavia, alla luce del mortale attacco israeliano a questi Paesi, il loro rifiuto di capitolare fu eroico. Ciò che invece è deplorevole è il successo del movimento sionista nel ribaltare l’impegno arabo per la Palestina. Passo dopo passo, a partire dallo Stato più grande, l’Egitto, e poi la Giordania, ed ora gli Stati del Golfo e persino il Sudan, i regimi arabi sono andati “normalizzando” i rapporti con Israele.

 

Accesso all’impero

Se si potesse solo per un momento mettersi nei panni del capo di uno Stato arabo, cosa si proverebbe? Si vedrebbe che i Paesi arabi che erano determinati nell’appoggiare la causa palestinese sono ora distrutti. A partire dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la Siria. La punizione di quelli che non hanno voluto arrendersi è stata dura. A parte c’è l’Iran, che mentre per ora è al riparo da un attacco militare totale, soprattutto perché gli USA ed Israele non sono in grado di affrontare di petto le forze iraniane, sta soffrendo molto a causa di dure sanzioni.

I rapporti con Israele danno accesso agli agognati armamenti di fabbricazione USA e ad altri vantaggi, come la cooperazione economica e per la sicurezza. Che scelta potrebbe essere fatta nei panni di leader di uno Stato Arabo? I commentatori della CNN hanno ripetutamente affermato che i leader degli EAU e del Bahrein, e forse di altri Stati arabi che presto normalizzeranno i rapporti con Israele, hanno deciso di abbandonare la causa palestinese e di concentrarsi su altre questioni come la cooperazione economica e il turismo, e porre le necessità e sicuramente il futuro dei propri Paesi al di sopra della questione palestinese.

E’ facile criticare gli Stati arabi per aver voltato le spalle ai loro fratelli e sorelle palestinesi. Tuttavia Paesi più grandi ed influenti non si comportano diversamente. Russia, Unione Europea, Cina e India fanno una quantità di affari con Israele e si sono da tempo scordati dei palestinesi. Israele è riuscito a cancellare la causa palestinese dalla scena mondiale. A prescindere da quanto frequenti siano gli attacchi israeliani contro Gaza, o da quanto siano feroci, a prescindere da quanti palestinesi siano detenuti nelle carceri israeliane e da quanto drammatiche siano le condizioni di vita dei palestinesi, Israele è riuscito a far voltare il mondo dall’altra parte.

L’opposizione

Ci sono state informazioni circa una resistenza popolare in Bahrein da parte di gruppi che si oppongono alla normalizzazione dei rapporti con Israele e giustamente la considerano un tradimento del popolo palestinese. E’ probabile che queste voci verranno velocemente messe a tacere dal governo del Bahrein.

Inoltre fonti del governo del Kuwait hanno informato che “la posizione del Kuwait nei confronti di Israele non è cambiata dopo il suo accordo con gli Emirati Arabi Uniti”. Dirigenti del Kuwait hanno anche negato ad aerei israeliani il diritto di volo nello spazio aereo del Paese.

Il Sudan

I tentativi di Israele di costruire alleanze vanno oltre la penisola arabica e si spingono anche in Africa. Il Primo Ministro sudanese Abdalla Hamdokmet ha recentemente incontrato il Segretario di Stato USA Mike Pompeo, che ha visitato il Sudan dopo un viaggio per incontrare dirigenti israeliani a Gerusalemme. Israele è stata la prima tappa di Pompeo in un tour ideato per convincere ulteriori Paesi arabi a normalizzare i legami con lo Stato sionista. Inoltre ci sono conferme che la visita a Kartoum del Segretario di Stato USA era finalizzata a discutere i rapporti tra Sudan ed Israele.

Il Primo Ministro sudanese ha detto a Pompeo che il suo governo “non aveva mandato per normalizzare i rapporti con Israele” ed ha aggiunto che la cancellazione del Sudan dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo non dovrebbe essere correlata alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Chiaramente la cancellazione da quell’elenco è la carota che Pompeo sta offrendo al Sudan.

Dopo l’incontro il Dipartimento di Stato USA ha affermato in una dichiarazione che Pompeo e Hamdok hanno discusso di “positivi sviluppi nei rapporti tra Sudan ed Israele”, cosa che non dovrebbe sorprendere. E’ difficile immaginare che la leadership sudanese possa osare rifiutare un’offerta degli USA, sicuramente non una attraente come la cancellazione dell’etichetta di Stato sponsor del terrorismo, che aprirebbe le porte e consentirebbe la crescita economica della Nazione africana.

Ora torniamo un attimo indietro e presumiamo di essere il capo di una Nazione africana o araba. La scelta è tra capitolare e accettare rapporti con il regime di apartheid israeliano, il che aprirebbe nuove possibilità economiche, e mantenere una posizione ferma e di principio, e subire devastazioni per una guerra o soffocare lentamente a causa di sanzioni.

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “Il figlio del generale. Viaggio di un israeliano in Palestina”, e “Ingiustizia, la storia dei cinque della Fondazione Terra Santa.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




E’ trapelato un elenco di obbiettivi israeliani: Tel Aviv teme il peggio nell’indagine della CPI sui crimini di guerra

Ramzy Baroud

29 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Quando nel dicembre scorso la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha confermato che la Corte dispone di ampie prove per condurre un’indagine sui crimini di guerra nella Palestina occupata, il governo israeliano ha reagito con la consueta retorica, accusando la comunità internazionale di pregiudizio e sostenendo il “diritto di Israele a difendersi.”

Al di là dei luoghi comuni e del classico discorso israeliano, il governo di Israele sapeva fin troppo bene che un’indagine della CPI sui crimini di guerra in Palestina potrebbe costare molto caro. Un’indagine, di per sé, rappresenta in certo modo un atto d’ accusa. Se individui israeliani venissero imputati di crimini di guerra, questa sarebbe un’altra storia, in quanto si porrebbe un obbligo giuridico per gli Stati membri della CPI di arrestare i criminali e consegnarli alla Corte.

Israele si è mantenuto pubblicamente imperturbabile, anche dopo che lo scorso aprile Bensouda ha dettagliato la sua decisione di dicembre in un rapporto legale di 60 pagine, intitolato: “Situazione nello Stato di Palestina: risposta della Procura alle osservazioni degli ‘Amici Curiae’, dei rappresentanti legali delle vittime e degli Stati.”

Nel rapporto la CPI affronta molte delle questioni, dubbi e relazioni presentate o emerse nei quattro mesi seguiti alla sua precedente decisione. Paesi quali la Germania e l’Austria, tra gli altri, hanno utilizzato la propria posizione di ‘Amici Curiae’ – ‘amici della Corte’ – per mettere in discussione la giurisdizione della CPI e lo status della Palestina come Paese.

Bensouda ha sostenuto che “la procuratrice è convinta che vi sia una ragionevole base per avviare un’indagine sulla situazione in Palestina in base all’articolo 53 (1) dello Statuto di Roma e che l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte comprenda la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e Gaza (“Territori Palestinesi Occupati”).”

Tuttavia Bensouda non ha previsto scadenze definitive per l’indagine; ha invece richiesto che la Camera Preliminare della CPI “confermi l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte in Palestina”, un passaggio ulteriore di cui non c’era bisogno, dato che lo Stato di Palestina, firmatario dello Statuto di Roma, è quello che concretamente ha presentato il caso direttamente all’ufficio della procuratrice.

Il rapporto di aprile in particolare è stato una sveglia per Tel Aviv. Tra la decisione iniziale di dicembre e la pubblicazione del suddetto rapporto, Israele ha esercitato pressioni su vari fronti, garantendosi l’aiuto di membri della CPI e arruolando il suo principale benefattore, Washington – che non è membro della CPI – perché intimidisse la Corte per farle revocare la sua decisione.

Il 15 maggio il Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha diffidato la CPI dal proseguire l’indagine, prendendo di mira in particolare Bensouda per la sua decisione di ritenere responsabili i criminali di guerra in Palestina.

L’11 giugno gli USA hanno colpito con sanzioni senza precedenti la CPI e il presidente Donald Trump ha emesso un “ordine esecutivo” che autorizza il congelamento dei beni e un divieto di viaggio nei confronti di funzionari della CPI e delle loro famiglie. Inoltre l’ordine consente di punire altri individui o enti che assistano la CPI nella sua indagine.

La decisione di Washington di procedere con misure punitive proprio contro la Corte, che è stata creata con l’unico scopo di rendere responsabili i criminali di guerra, è sia oltraggiosa che odiosa. Inoltre mette in luce l’ipocrisia dell’America – il Paese che sostiene di difendere i diritti umani sta cercando di impedire l’attribuzione della responsabilità legale a coloro che hanno violato i diritti umani.

Dopo aver fallito nel bloccare le procedure legali della CPI relative all’indagine sui crimini di guerra, Israele ha iniziato a prepararsi al peggio. Il 15 luglio il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di una ‘lista segreta’ stilata dal governo israeliano. Essa include “da 200 a 300 importanti personalità pubbliche”, che spaziano da politici a funzionari dell’esercito e dei servizi segreti passibili di arresto all’estero se la CPI avviasse ufficialmente l’indagine sui crimini di guerra.

I nomi iniziano dal vertice della piramide politica israeliana, tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ed il suo attuale partner di coalizione, Benny Gantz.

Il numero stesso dei dirigenti israeliani presenti sulla lista è indicativo dell’obbiettivo dell’indagine della CPI e, in qualche modo, è un’autoaccusa, in quanto include ex Ministri israeliani della Difesa – Moshe Ya’alon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett; capi ed ex capi di stato maggiore dell’esercito – Aviv Kochavi, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, e del servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet – Nadav Argaman e Yoram Cohen.

Autorevoli organizzazioni internazionali dei diritti umani hanno già ripetutamente accusato tutti questi individui di gravi violazioni dei diritti umani nel corso delle letali guerre di Israele nella Striscia di Gaza sotto assedio, a partire dalla cosiddetta ‘Operazione Piombo Fuso’ del 2008-2009.

Ma l’elenco è molto più lungo e riguarda “persone in posizioni molto inferiori, compresi ufficiali dell’esercito di grado inferiore e forse anche dirigenti coinvolti nel rilascio di vari tipi di permessi per colonie e loro avamposti.”

Israele così si rende pienamente conto del fatto che la comunità internazionale sostiene ancora che la costruzione di colonie illegali nella Palestina occupata, la pulizia etnica dei palestinesi ed il trasferimento di cittadini israeliani in territori occupati sono tutte iniziative inammissibili in base al diritto internazionale e costituiscono crimini di guerra. Netanyahu deve essere deluso nel sapere che tutte le concessioni fatte da Washington a Israele sotto la presidenza Trump non sono riuscite a modificare in alcun modo la posizione della comunità internazionale e l’applicabilità del diritto internazionale.

Inoltre non sarebbe esagerato sostenere che il rinvio da parte di Tel Aviv del suo piano di annettere illegalmente circa un terzo della Cisgiordania sia direttamente collegato all’indagine della CPI, in quanto l’annessione avrebbe completamente annullato gli sforzi degli amici di Israele tesi ad impedire che l’indagine venga anche solo iniziata.

Mentre il mondo intero, soprattutto i palestinesi, gli arabi ed i loro alleati, attendono ancora con ansia la decisione finale della Camera Preliminare, Israele continuerà la sua campagna, palese e occulta, per intimidire la CPI ed ogni altra istituzione che intenda far luce sui suoi crimini di guerra e processare i criminali di guerra israeliani.

Anche Washington continuerà a cercare di rassicurare Netanyahu, Gantz e gli altri “200 o 300” dirigenti israeliani che non compariranno mai di fronte alla Corte.

Tuttavia il fatto che esista una “lista segreta” è un segnale che Tel Aviv comprende che ora le cose sono cambiate e che il diritto internazionale, che ha abbandonato i palestinesi per oltre 70 anni, potrebbe, per una volta, rendere almeno un minimo di giustizia.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo saggio è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Il macabro piano di Israele culmina nell’annessione”

Richard Falk

24 giugno 2020 Nena News

Grazie a Trump, scrive l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite, il governo israeliano insiste sui Territori palestinesi occupati: «Sono una necessità per la nostra sicurezza». Nessuno pensa ai diritti dei palestinesi, nessuno ha intenzione di ascoltarli. È una geopolitica da gangster nella giungla globale in aperta violazione della Carta dell’Onu.

Viviamo in tempi strani. In giro per il mondo le vite sono devastate dal Covid-19 oppure da crisi sociali, economiche e politiche. In momenti così, non sorprende che emergano il peggio e il meglio dell’umanità. Eppure la geopolitica da gangster nelle sue varie manifestazioni sembra spingersi ancora oltre.

Si pensi all’inasprimento delle sanzioni statunitensi nel bel mezzo della crisi sanitaria che colpisce società già gravemente provate e popolazioni sofferenti in Iran, Venezuela, Siria e Cuba.

Un’altra pagina nera è la danza macabra di Israele intorno alla plateale illegalità dell’annessione che il premier Benjamin Netanyahu ha promesso di avviare da luglio, grazie all’assenso del rivale e alleato di governo Benny Gantz. Israele è pronta ad annettere i territori senza nemmeno cercare di giustificare la violazione del diritto internazionale, secondo il quale uno Stato sovrano non può annettere un territorio estero occupato militarmente.

QUESTA MOSSA unilaterale di Israele per riclassificare il territorio che «occupa» nella West Bank e per incorporarlo stabilmente nell’autorità sovrana israeliana viola completamente il diritto internazionale umanitario della Quarta convenzione di Ginevra. Quella che perfino al tempo della Lega delle Nazioni era sempre stata una «norma sacra», nell’era della geopolitica post-coloniale da gangster diventa disprezzo patente per i popoli e i loro diritti.

LA MOSSA annessionista è così estrema che anche alcuni pesi massimi di Israele, fra i quali gli ex capi del Mossad e dello Shin Bet, e ufficiali in pensione delle Israel Defence Forces, lanciano l’allarme. Alcuni militanti sionisti sono contrari all’annessione in questo momento perché svelerebbe l’illusione della democrazia israeliana, e perché montano i timori che assorbire i palestinesi della West Bank minaccerebbe a tempo debito l’egemonia etnica ebraica. Naturalmente, nessuno di questi «ripensamenti» contesta l’annessione perché viola il diritto internazionale, scavalca e mina l’autorità dell’Onu e ignora i diritti inalienabili dei palestinesi. Le preoccupazioni riguardano gli impatti negativi per il paese, in termini di sicurezza a livello interno e regionale israeliana, e di status internazionale.

I critici nell’establishment della sicurezza nazionale temono di disturbare i vicini arabi e di alienarsi ulteriormente l’opinione pubblica internazionale, soprattutto in Europa; in una certa misura si dicono preoccupati anche della reazione dei «sionisti liberal», con il conseguente indebolimento dei legami di solidarietà con Israele da parte della diaspora ebraica che vive negli Stati uniti e in Europa.

ANCHE LA PARTE pro-annessione evoca la sicurezza, specialmente rispetto alla Valle del Giordano e agli insediamenti, ma in misura molto minore. Gli annessionisti fanno riferimento alla Giudea e alla Samaria di cui parla la Bibbia (il nome noto internazionalmente è West Bank). Il diritto verrebbe rafforzato dal riferimento alle profonde tradizioni culturali ebraiche nonché a secoli di connessioni storiche fra una piccola e stabile presenza ebraica in Palestina e questo territorio considerato sacro custode del popolo ebraico.

IN OGNI CASO, tanto gli israeliani critici sull’annessione quanto i favorevoli non sentono alcun bisogno di confrontarsi con i diritti e le istanze dei palestinesi. Come è sempre avvenuto lungo tutta la narrazione sionista, le aspirazioni e le rivendicazioni del popolo palestinese e la sua stessa esistenza non fanno parte dell’immaginario sionista: salvo quando si frappongono ostacoli o si crea una minaccia demografica alla regola della maggioranza ebraica. Se si considera l’evoluzione della principale corrente del sionismo, l’obiettivo di lungo periodo di emarginare i palestinesi in un unico Stato ebraico dominante che comprenda tutta la «terra promessa» di Israele non è mai stato abbandonato.

In questo senso il piano di partizione messo a punto dalle Nazioni unite, benché accettato nel 1947 dalla dirigenza sionista come soluzione del momento, è da interpretarsi piuttosto come una pietra miliare per il recupero della maggiore quantità possibile di terra promessa. Nel corso degli ultimi cent’anni, dal punto di vista israeliano l’utopia è diventata una realtà, mentre da quello palestinese è diventata una distopia.

IL MODO IN CUI Israele e Stati uniti affrontano questo preludio all’annessione sconcerta quanto la conseguente «scomparsa» dei palestinesi. Israele ha già privilegiato l’annessione nell’accordo di coalizione Gantz-Netanyahu, che prevede di presentare una proposta alla Knesset (Parlamento) a partire dal 1 luglio. L’unica precondizione accettata con l’accordo alla base del governo Gantz-Netanyahu fa coincidere l’annessione con le allocazioni territoriali incorporate nelle famose proposte unilaterali Trump-Kushher «Dalla pace alla prosperità».

COME PREVEDIBILE, gli Stati uniti di Trump non creano frizioni, né suggeriscono a Netanyahu di offrire una parvenza di giustificazione legale o di esplicitare gli effetti negativi dell’annessione sulle prospettive del processo di pace israelo-palestinese. Finora, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dato luce verde all’annessione della West Bank ancora prima che Israele formalizzasse il proprio piano, dichiarando provocatoriamente che sono gli israeliani a dover decidere in materia: come se né i palestinesi né la legge internazionale avessero la minima importanza. Ecco un’altra indicazione del fatto che le relazioni israelo-statunitensi sono all’insegna di una geopolitica da gangster.

Ma forse, i segnali di possibili ripercussioni indurranno Washington a chiedere a Netanyahu di posticipare l’annessione o ridimensionarne la portata. E, anche se questa geopolitica sembra esaurire le residue speranze palestinesi di un compromesso politico e di una diplomazia basata su un genuino impegno di equità ed eguaglianza, voci di resistenza e solidarietà si levano contro quest’ultimo oltraggio. Nena News




Il mondo non fermerà l’annessione israeliana. Cosa faranno i leader palestinesi?

Omar H. Rahman

22 maggio 2020 – 972mag.com

Quattro eventi della scorsa settimana danno un’idea dell’incapacità della comunità internazionale a bloccare l’annessione – e perché solo un cambiamento della politica palestinese la costringerà ad agire.

Martedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha reso quella che inizialmente sembrava essere una affermazione epica, in cui ha dichiarato che i palestinesi sono “sciolti” dai loro accordi con Israele, compresi quelli relativi al coordinamento della sicurezza. Abbas ha fatto tali dichiarazioni numerose volte nel corso degli anni, facendo sì che molti ignorassero le sue osservazioni. Tuttavia, stanno venendo fuori relazioni confuse e non verificate che suggeriscono come, per la prima volta, potrebbe effettivamente dare corso alla sua decisione.

Che mantenga o no la promessa, la dichiarazione di Abbas avviene in un momento critico per i palestinesi, perché facciano il punto sulla situazione della loro lotta politica. Mentre il movimento nazionale palestinese si fa sempre più diviso e impotente, Israele ha fatto notevoli sforzi per massimizzare i propri guadagni a sue spese. Il più importante è l’impegno del governo israeliano ad annettere formalmente gran parte della Cisgiordania occupata, mossa che molti considerano un punto di non ritorno.

In effetti, quattro eventi della scorsa settimana hanno offerto uno speciale, simbolico distillato di come la comunità internazionale – e i palestinesi – abbiano regolarmente fallito nel fermare il percorso di Israele verso l’annessione.

Il 13 maggio, nonostante la pandemia globale, il segretario di stato americano Mike Pompeo ha fatto una visita a sorpresa di 12 ore per incontrare diversi leader israeliani pochi giorni prima che il nuovo governo di unità prestasse giuramento. Il viaggio è stato detto era concentrato su questioni geopolitiche come l’Iran e la Cina, ma alcuni osservatori hanno ipotizzato che fosse parzialmente destinato a puntellare l’appoggio degli evangelici USA all’amministrazione Trump. Altri invece hanno pensato che potesse anche essere un tentativo di rassicurare le autorità israeliane – tra cui Benny Gantz, partner della coalizione di Benjamin Netanyahu e “primo ministro supplente” – del sostegno americano all’annessione.

Gantz, durante la campagna elettorale, aveva apertamente dichiarato il suo sostegno all’annessione e aveva insistito sul fatto che avrebbe dato corso alla mossa solo se realizzata in “coordinamento” con la comunità internazionale. In linea con questa condizione, il nuovo accordo di governo sostiene che i primi ministri a rotazione “agiranno in pieno accordo con gli Stati Uniti, insieme agli americani, per quel che riguarda le mappe e il dialogo internazionale sull’argomento [dell’annessione]”. La teatrale visita in persona di Pompeo potrebbe aver placato ogni dubbio sulla posizione di Washington secondo cui, come ripeteva il segretario di Stato a Gerusalemme, “questa è una decisione che spetta agli israeliani “.

Due giorni dopo la visita di Pompeo, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Unione Europea si sono incontrati a Bruxelles per definire una risposta unitaria ai piani di annessione di Israele. I leader europei, tra cui il capo della politica estera europea Josep Borrell, hanno per settimane dato segni di voler prendere una dura posizione contro Israele, per impedire qualsiasi mossa definitiva a partire dal 1 ° luglio.

Si dice che alcune nazioni – tra cui Francia, Irlanda, Svezia, Spagna e Belgio – stiano spingendo per sanzioni contro Israele, segnalando la potenziale gravità dell’annessione. Altri paesi all’interno del blocco – in particolare Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Romania e Grecia – hanno frenato ogni tentativo di agire contro Israele. Negli ultimi anni Netanyahu ha sapientemente costruito solide relazioni con i cosiddetti paesi di Visegrad, mirando a dividere le posizioni sulla politica mediorientale dell’UE, le cui decisioni devono essere prese all’unanimità.

Non sorprende che l’incontro si sia concluso con nulla di fatto. Non sono stati proclamati impegni o dure condanne – una conclusione che fornisce ai leader israeliani ulteriori motivi per considerare l’Europa debole e insignificante. “Gerusalemme ha espresso soddisfazione perché la discussione si è conclusa senza dichiarazioni o decisioni concrete”, ha riferito Noa Landau ad Haaretz, “e perché Borrel non ha attaccato Israele durante la conferenza stampa, ma sottolineato piuttosto la necessità di rispettare il diritto internazionale”. Israele ha anche apprezzato che Borrel abbia respinto una domanda sul confronto fra l’annessione della Cisgiordania e l’annessione della Crimea da parte della Russia, affermando che “ci sono differenze tra l’annessione di territori che appartengano a uno Stato sovrano e quelli dei palestinesi”, ha aggiunto Landau.

Mentre si svolgevano queste discussioni, sabato scorso l’Autorità Nazionale Palestinese si preparava a tenere una riunione a Ramallah, evidentemente con le varie fazioni palestinesi, per discutere il futuro del movimento nazionale alla luce dei piani di annessione di Israele. La settimana precedente, durante una tavola rotonda ospitata dal Middle East Institute [centro culturale e di ricerca senza fini di lucro né affiliazione politica, a Washington dal 1946, ndtr.], il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh aveva affermato che la discussione interna fra i palestinesi potrebbe portare alla ristrutturazione dell’ANP, all’abrogazione formale degli accordi di Oslo e alla riformulazione delle relazioni fra Palestina e Israele.

Eppure l’incontro non è mai avvenuto. I funzionari palestinesi hanno addotto una serie di motivi per rimandarlo, inclusa la necessità di aspettare fino a quando si fosse insediato il nuovo governo israeliano. Allo stesso tempo, Hamas e la Jihad islamica, che, ha detto Shtayyeh, erano state invitate a partecipare e avevano segnalato la loro disponibilità, hanno cancellato la propria adesione pochi giorni prima dell’incontro, mettendo in dubbio la serietà del presidente Abbas a muoversi in una nuova direzione. Altri resoconti suggerivano che funzionari europei e arabi avessero fatto pressioni su Abbas affinché non prendesse una netta posizione fino a quando il governo israeliano non avesse espresso ufficialmente le sue intenzioni sull’annessione.

Domenica, Netanyahu l’ha fatto. Mentre il nuovo governo israeliano prestava giuramento alla Knesset [Parlamento, ndtr.] a Gerusalemme, Netanyahu ha dichiarato che “è giunto il momento” di proseguire con l’annessione, descrivendola come l’epilogo di un “processo storico”.

Il processo a cui il primo ministro si riferiva non sono soltanto i tre anni durante i quali si è coordinato con l’amministrazione Trump per elaborare quello che alla fine è diventato l’ “accordo del secolo”. Né sarebbero i 52 anni di attività di insediamento, costruzione di infrastrutture pubbliche e cambiamenti demografici in Cisgiordania che hanno reso l’annessione de jure più una formalità simbolica che una radicale decisione politica. Piuttosto, è stato il processo di colonizzazione più che centenario che ha portato l’intera terra tra il fiume [Giordano] e il mare [Medterraneo] sotto il controllo esclusivo di Israele.

Una realtà che è stata resa possibile la settimana scorsa dalle azioni esemplari di tutte e quattro le parti: il sostegno degli Stati Uniti, l’acquiescenza dell’Europa, la frammentazione dei palestinesi e la risolutezza di Israele a portare inesorabilmente avanti il suo progetto sionista, anche mentre discuteva di divisione e pace durante i negoziati.

Nei prossimi mesi continueranno probabilmente a fare più o meno lo stesso. L’amministrazione Trump raddoppierà il proprio sostegno ai massimalisti territoriali israeliani, in particolare con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre. Gli Stati europei possono intraprendere azioni individuali, ma è improbabile che un’Europa unita prenda una posizione ferma. L’UE potrebbe apportare alle sue relazioni con Israele lievi modifiche che non richiedano il consenso, ma alla fine non riuscirà a dissuadere Israele dalla sua intraprendenza.

Non resta che la leadership palestinese, la cui inazione e indecisione di fronte all’annessione israeliana è sconcertante. La dichiarazione di Abbas di abbandonare gli accordi con Israele, se effettivamente rispettata, potrebbe rappresentare una rottura importante col passato. Ma senza un piano d’azione dettagliato e concreto, e con dubbi diffusi sull’effettivo impegno dell’ANP riguardo alle sue parole, la dichiarazione di Abbas suona solo una minaccia vuota. Abbandonare gli Accordi di Oslo senza una chiara idea su come districarsi dalle strutture che si sono consolidate per 27 anni è la ricetta per una vasta confusione e, nel peggiore dei casi, il caos.

Nel mutevole panorama globale, da qualche tempo è evidente che l’imperativo di un cambiamento immediato spetta in definitiva ai palestinesi. È molto più facile per le terze parti pronunciare belle frasi piuttosto che intraprendere azioni politiche fondamentali ma politicamente costose da realizzare. Solo un cambiamento reale e decisivo nella posizione palestinese può costringere altre parti a reagire in modo significativo. Eppure sono stati sprecati anni di tempo prezioso per prepararsi e organizzare, e non sono stati fatti nemmeno i primi passi di un riordino del palazzo palestinese.

Se i palestinesi potranno avere qualche possibilità in questa fase avanzata, l’ANP deve allentare la sua presa sul potere, riconciliare le diverse fazioni politiche, ripristinare la legittimità delle istituzioni politiche e guidare il suo popolo e le sue risorse nel perseguire una nuova, popolare ed efficace strategia nazionale.

I palestinesi non possono fermare l’annessione da soli; è necessaria una solida risposta internazionale per invertire questa pericolosa strada. Ma demandando ogni speranza politica alle azioni di altri, la leadership palestinese può essere certa che nessun cambiamento arriverà fino a quando non sarà troppo tardi.

Omar H. Rahman è scrittore e analista politico specializzato in politica mediorientale e politica estera americana. Attualmente è assistente ricercatore presso il Brookings Doha Center [campus a Doha in Qatar del Brooking Institute di Wahington, ndtr.], dove sta scrivendo un libro sulla frammentazione palestinese nell’era post-Oslo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Furto di terre e deportazioni: ecco cosa prevede per il dopo annessione un importante avvocato israeliano

Meron Rapoport

20 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua intervista con MEE, Michael Sfard dice che a Israele si è presentata l’occasione del secolo di annettere la Cisgiordania

A quasi 53 anni dall’occupazione della Cisgiordania, Israele è più vicina che mai ad annettere parti del territorio palestinese.

L’articolo 39 del patto di coalizione firmato dal primo ministro Benjamin Netanyahu del Likud e Benny Gantz di Blu e Bianco permette al premier, in accordo con la Casa Bianca, di proporre alla discussione nel governo un disegno di legge per mettere in pratica la sovranità di Israele e per l’approvazione in parlamento entro il primo luglio.

Dato che nella Knesset, il parlamento israeliano, c’è una chiara maggioranza per l’”applicazione della sovranità”, la nuova parola che si usa per ‘annessione’, in teoria, tra appena due mesi e mezzo, Israele potrà annettere parti della Cisgiordania – indubbiamente la mossa più significativa da quando l’ha occupata nel 1967.

Il governo insediatosi domenica metterà l’annessione come primo punto all’ordine del giorno.

Questo “in teoria”, perché con il passar del tempo dalla firma dell’accordo, la pressione su Israele sta salendo.

Solo venerdì Josep Borrrell, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, ha detto che l’UE userà “tutte le sue capacità diplomatiche ” per fermare l’annessione e il re di Giordania Abdullah ha previsto un “gravissimo conflitto” se si procedesse all’annessione.

Persino l’amministrazione Trump sembra meno entusiasta che alcune settimane fa. L’annessione dovrebbe far “parte di negoziati fra israeliani e palestinesi”, ha detto Morgan Ortagus, portavoce di Mike Pompeo, dopo la visita in Israele del Segretario di Stato della scorsa settimana.

Sebbene nelle ultime elezioni la sinistra israeliana sia stata pesantemente sconfitta, all’interno del Paese c’è ancora opposizione. Una figura prominente è Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in leggi sulla difesa dei diritti umani, consulente legale per organizzazioni di diritti umani in Israele e autore de The Wall and the Gate: Israel, Palestine, and the Legal Battle for Human Rights, [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia legale per i diritti umani ndtr.].

In un’intervista della scorsa settimana Sfard ha messo in guardia contro le disastrose conseguenze per i palestinesi residenti nei territori annessi e per le loro proprietà. Eppure, allo stesso tempo, sostiene che, se l’annessione venisse fermata adesso, scomparirebbe dal dibattito “per cent’anni”.

Middle East Eye: Si è spesso sostenuto, persino da parte dei palestinesi, che sostanzialmente l’annessione sia già avvenuta e quindi un atto formale non farebbe una grande differenza.

Michael Sfard: Questo è un errore molto comune e rivela scarsa comprensione del significato per i singoli individui e per le comunità palestinesi e di quanto profondamente inciderà sulle loro vite e i loro diritti. Quasi sicuramente vorrà dire “nazionalizzazione” della maggior parte del territorio. Grandi porzioni di terra di proprietà di palestinesi che non vivono sul territorio saranno considerate come ‘proprietà di assenti ’.

MEE: Può spiegare meglio?

MS: La Absentee Property Act, la legge sulla proprietà degli assenti del 1950 permette di impossessarsi di proprietà di rifugiati palestinesi che se ne andarono, fuggirono o vennero deportati da ciò che nel 1948 diventò Israele. La legge definisce ‘assente’ un individuo che risiede in un “territorio nemico” o in “qualsiasi parte della Palestina Mandataria che non sia lo Stato di Israele”.

Nel 1967, quando Israele ha applicato questa legge a Gerusalemme Est, molti abitanti della Cisgiordania che avevano là delle proprietà furono definiti ‘assenti’, sebbene non avessero fatto nulla per diventarlo, non se ne erano andati. È una condizione fittizia, ma legale.

MEE: Cosa le fa pensare che ora useranno questa legge?

MS: Per molto tempo [il governo israeliano] non l’ha applicata a Gerusalemme Est, ma negli ultimi 20 anni lo sta facendo. La lobby dei coloni ha persuaso il Procuratore generale a fare eccezioni che sono state approvate dalla Corte Suprema di Israele. Sappiamo per esperienza che ogni eccezione diventa una regola, e quindi c’è l’enorme pericolo che gran parte del territorio venga dichiarato ‘proprietà di assenti’.

Un altro meccanismo con cui Israele esproprierà terre è la confisca per pubblica utilità. In ogni Paese ci sono delle leggi simili, per costruire strade, ecc.

MEE: Al momento ciò non è possibile in Cisgiordania?

MS: Ora no, secondo le leggi dell’occupazione e i principi applicati in questi anni dalla Corte suprema di Israele e dal Ministro della giustizia. Questa è la ragione per cui Israele ha usato ogni stratagemma giuridico, come dichiararle terre pubbliche. Ma una volta che un territorio è annesso, allora il “pubblico” sono gli israeliani e si può espropriare nel loro interesse. È chiaro che è questo che sarà fatto. Ecco il motivo per cui Israele sta annettendo questi territori.

MEE: É questa la ragione? Non è un gesto simbolico e politico?

MS: Naturalmente c’è un aspetto simbolico e di orgoglio nazionale, ma senza impadronirsi delle terre, l’annessione non soddisferebbe le fantasie annessioniste. Già ora i coloni nei loro insediamenti si sentono parte di Israele. L’unica restrizione è lo sviluppo, il fatto che ci sono molte terre agricole intorno ad essi sulle quali è difficile per loro espandersi.

MEE: Quindi il motivo principale è impossessarsi di terre?

MS: Ne è decisamente l’aspetto principale. Il conflitto israelo-palestinese è sostanzialmente per il territorio, non è né religioso né culturale, è territoriale. L’annessione, senza impadronirsi delle terre, non è una vittoria.

Questa è la prima cosa. La seconda è che alcune, probabilmente molte, delle comunità palestinesi che saranno coinvolte dovranno fronteggiare il pericolo della deportazione forzata. Per 53 anni Israele ha avuto il controllo del registro della popolazione palestinese e la sua politica ha impedito ai palestinesi di cambiare l’indirizzo in certe zone, come quelle a sud del Monte Hebron, nella Valle del Giordano e nel cosiddetto ‘Jerusalem Envelope’.

Quindi ci sono molte comunità, la maggior parte piccole e deboli che, se controlli la carta d’identità rilasciata ai loro abitanti dall’amministrazione civile israeliana [l’autorità militare che controlla i territori occupati ndtr.], sono registrate altrove in Cisgiordania. Dopo l’annessione diventeranno stranieri illegali in Israele e a rischio di deportazione. Naturalmente non avverrà il giorno dopo, ma alla lunga questo sarà il loro destino.

MEE: Lei è uno di quelli che da molto tempo ha sostenuto che quello che Israele sta facendo in Cisgiordania sia un tipo di apartheid. L’annessione non la aiuterà a convincere la comunità internazionale che è così? 

MS: L’accusa di apartheid è stata mossa a Israele da molti anni, espressa dagli attivisti dei diritti umani più radicali e politicamente periferici. L’annessione sposterà questo modo di pensare in un campo politico più convenzionale. Se Israele in passato ha sostenuto che non vuole governare i palestinesi e che la situazione presente è temporanea, l’annessione significherà perpetuare il dominio sui palestinesi e la loro oppressione, una situazione che si penserà che sia definitiva. 

MEE: Quindi non aiuterà persone come lei?

MS: Sicuramente rafforzerà questo argomento, ma non voglio barattare la forza del mio ragionamento in cambio dell’occupazione dei territori e della deportazione dei palestinesi. La gente che pensa che questo sia uno sviluppo positivo perché genererà un’opposizione più forte contro le politiche israeliane non valuta o non capisce appieno le conseguenze enormi dell’annessione e probabilmente sopravvaluta l’opposizione internazionale. Israele è uno Stato molto potente e più volte ci sono state cose commesse da Israele che si pensava che la comunità internazionale non avrebbe perdonato – ma l’ha fatto.

MEE: Cosa potrebbe fermare Israele? 

MS: Ci sono tre campi in Israele che voteranno a favore. Uno è quello ideologico, niente cambierà il suo punto di vista. Il secondo lo farà per motivi politici interni. Per loro i costi superano i benefici, potrebbero opporre resistenza. Fra i costi ci sarebbero la sicurezza, costi economici e, più importante di tutti, il danno alla posizione di Israele all’interno della comunità internazionale.

Il terzo gruppo è Netanyahu stesso. Un uomo, una missione. I suoi interessi sono completamente diversi. Non penso che al momento siano ideologici. Il problema principale è la sua sopravvivenza e il ruolo che può giocare l’annessione.

C’è ancora una cosa. Si tratta probabilmente del passo più importante di Israele dalla sua dichiarazione di indipendenza, eppure, per la maggior parte, la decisione non avverrà a Gerusalemme, ma a Washington.

MEE: Molti centri di potere della sicurezza israeliana, al centro e persino a destra, vogliono fermarla per continuare con lo status quo dell’occupazione. Non si sente a disagio a trovarsi insieme a loro? 

MS: Lo chieda a loro, ma io penso che non capiscano che in Medio Oriente lo status quo non esiste. Se si ferma l’annessione, non torneremo alla situazione precedente. In realtà io penso che fermarla sarà il passo più importante per far avanzare una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Molti tasselli del puzzle vanno al loro posto, una situazione che la destra israeliana non avrebbe mai potuto sognarsi: un presidente alla Casa Bianca che non solo sostiene l’annessione, ma anzi ci spinge a farla, un’Europa molto debole, una maggioranza nel parlamento israeliano, l’opinione pubblica israeliana che negli ultimi vent’anni ha virato costantemente a destra e i palestinesi più deboli che mai.

Lo dicono le stelle. Se, in questa situazione che sembra perfetta, si previene l’annessione significherà che i confini di una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese saranno ridefiniti. Se oggi non potessimo annettere, allora probabilmente non succederà nei prossimi cent’anni.

Questo creerà un’enorme frattura nel campo degli annessionisti. Hanno aspettato 2000 anni, il messia è arrivato, si è fermato alla nostra porta, ma non l’ha aperta e se n’è andato.

MEE: Quindi lei è ottimista?

MS: Non sono sicuro che scommetterei che non succeda. Ma credo che ci sia un percorso ragionevole per far sì che non accada e la comunità internazionale gioca un ruolo primario. Il nostro compito è la mobilitazione di quelle forze che lo impediranno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)