Ahed Tamimi rilasciata dal carcere israeliano, giura di proseguire la resistenza

MEE ed agenzie

domenica 29 luglio 2018, Middle East Eye

L’adolescente dice che ora intende diventare avvocatessa per contribuire ulteriormente alla causa palestinese, e rende omaggio alle donne ancora incarcerate

Ahed Tamimi, la ragazza palestinese imprigionata per aver preso a schiaffi un soldato israeliano ed icona della resistenza contro l’occupazione israeliana in Cisgiordania, è stata rilasciata domenica dopo otto mesi [di carcere].

Tamimi, che aveva 16 anni al momento dell’arresto, ha giurato di continuare la sua lotta contro l’occupazione israeliana.

Continuerò a seguire le lezioni all’università e studierò legge in modo da poter rappresentare la causa del mio Paese in ogni consesso internazionale ed essere in grado di difendere la causa dei prigionieri, “ha detto Tamimi durante una conferenza stampa seguita alla sua scarcerazione.

Il carcere mi ha insegnato molte cose, sono stata in grado di immaginarmi il modo giusto per inviare il messaggio della mia patria,” ha aggiunto, stando accanto ad un albero con due tronchi, che è stato addobbato come una fionda con una gomma alla base – simboli della resistenza palestinese.

Ovviamente sono molto contenta di essere tornata con la mia famiglia, ma la gioia è solo parziale per via delle prigioniere che sono ancora in carcere,” ha detto.

In precedenza, quando ha lasciato la prigione israeliana, Tamimi ha reso onore a tutte le donne palestinesi attualmente incarcerate da Israele.

Tutte le carcerate sono forti, e ringrazio tutte quelle che mi sono state accanto mentre ero in carcere,” ha detto ai giornalisti, indossando la kefiah, la sciarpa simbolo dei palestinesi.

Il caso di Tamimi è finito sulle prime pagine di tutto il mondo quando è stata arrestata in seguito a una lite con soldati israeliani che rifiutavano di andarsene da casa sua a Nabi Saleh, un villaggio della Cisgiordania.

Il 15 dicembre, poche ore prima dell’arrivo dei soldati nella casa di Tamimi, la famiglia era stata informata che le forze israeliane avevano sparato alla testa del cugino quindicenne di Ahed, Mohammed.

Turbata, la famiglia ha chiesto che i soldati se ne andassero dalla casa. Quando si sono rifiutati, Ahed gli si è scagliata contro.

Sua madre ha ripreso dal vivo su Facebook il fatto, e quando le autorità israeliane hanno utilizzato la registrazione come prova per arrestare Tamimi, l’adolescente è diventata un caso celebre per i sostenitori dei palestinesi.

L’attenzione dei media

Tamimi ha ottenuto appoggio in tutto il mondo.

Amnesty International ha condannato l’arresto, affermando che ha violato le leggi internazionali e sottolineando che l’arresto di minorenni dovrebbe essere usato solo come soluzione estrema.

Attualmente Israele sta tenendo in prigione circa 300 minorenni.

Omar Shakir, di Human Rights Watch, domenica ha twittato che “l’arresto da parte di Israele per 8 mesi di una minorenne per aver invitato a protestare e aver preso a schiaffi un soldato riflette una discriminazione endemica, l’assenza di un giusto processo e maltrattamenti nei confronti di ragazzi.

Ahed Tamimi è libera, ma centinaia di minori palestinesi rimangono rinchiusi con una scarsa attenzione ai loro casi,” ha aggiunto.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha acclamato l’adolescente, mentre poco dopo il suo arresto un gruppo interpartitico di parlamentari britannici ha rilasciato una dichiarazione affermando che era stata “presa di mira” e ha condannato le tattiche israeliane.

Di fronte ad una simile attenzione dei media ed alle critiche, una grande tensione ha circondato il rilascio di Tamimi.

Desiderose di evitare la stampa, le autorità israeliane hanno cambiato per tre volte il luogo e il momento del suo rilascio.

Originariamente avrebbe dovuto essere liberata al posto di controllo di Jibara, presso Tul Karem. Alla fine Israele ha affermato che l’avrebbe rilasciata al posto di controllo di Rantis, a un’ora di macchina da lì, mettendo in agitazione i suoi familiari per raggiungere il luogo in tempo.

Decine di parenti, i suoi familiari più stretti e i suoi amici, insieme a molti giornalisti, hanno atteso Tamimi fino da domenica mattina presto.

Si sono riuniti anche gli oppositori di Tamimi, insieme a coloni israeliani che vivono illegalmente nella Cisgiordania occupata, comparsi per sventolare la bandiera israeliana.

Icona della resistenza

Quando finalmente Tamimi è stata rilasciata, suo padre Bassem l’ha abbracciata ed ha accompagnato l’adolescente attraverso la folla di giornalisti e sostenitori, che gridavano: “Vogliamo vivere in libertà.”

Dal posto di controllo di Rantis Tamimi si è diretta alla tomba del leader palestinese Yasser Arafat a Ramallah, dove ha lasciato qualche fiore.

Poi è andata in visita alla casa di un parente ucciso dalle forze israeliane durante una manifestazione.

Tamimi ha anche incontrato Abbas, che in seguito l’ha descritta come “un modello di resistenza civile pacifica…, che dimostra al mondo che noi, popolo palestinese, rimarremo forti e tenaci sulla nostra terra, a qualunque prezzo.”

Sabato la polizia israeliana ha arrestato due artisti italiani e un palestinese per aver dipinto un enorme murale del volto di Tamimi sul muro di separazione israeliano a Betlemme.

Secondo una dichiarazione della polizia israeliana, i tre sono stati arrestati “per sospetto danneggiamento e atti di vandalismo contro la barriera di sicurezza nella zona di Betlemme.”

La dichiarazione afferma che i tre, che erano mascherati, “hanno illegalmente disegnato sul muro e quando i poliziotti di frontiera sono intervenuti per arrestarli, hanno cercato di scappare con la loro auto, che è stata bloccata dalle forze [di polizia].”

La polizia israeliana è intervenuta nonostante il murale di 4 metri fosse stato dipinto sul lato di Betlemme del muro, che apparentemente dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Dipingere sul muro, con icone della resistenza palestinese come Arafat e Leila Khaled [militante del gruppo marxista palestinese Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha partecipato a due dirottamenti aerei, ndtr.] disegnate da artisti, è un fatto frequente.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Infanzia rubata: la vita dei minori palestinesi dopo la prigione

Chloé Benoist

5 marzo 2018, Middle East Eye

I minori palestinesi incarcerati da Israele affrontano il trauma e la sfida di cercare di riconquistare la propria infanzia.

CISGIORDANIA OCCUPATA – A volte il diciottenne Mohammad sogna di essere ancora nella prigione militare di Ofer.

“Ricordo i miei amici in prigione. Mi sembra di essere di nuovo là”, dice sommessamente il giovane palestinese, tenendo gli occhi bassi mentre ricordava gli otto mesi passati nella prigione israeliana tra il 2016 e il 2017.

Mohammad, che preferisce non rivelare il suo cognome per motivi di sicurezza, è stato incarcerato quando aveva solo 16 anni.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”, in gennaio sono stati incarcerati 330 minori palestinesi.

Tra loro vi è Ahed Tamimi, la ragazza di 17 anni il cui caso è stato una notizia da prima pagina sui giornali di tutto il mondo da quando è stata incarcerata a dicembre.

“Sì, sono orgoglioso. Sì, lei è forte”, dice l’attivista politico e padre di Ahed, Bassem Tamimi. “Ma è cresciuta troppo presto per la sua età. Ha perduto la sua infanzia a causa di qualcosa di cui noi –il mondo, gli adulti – siamo responsabili.”

Violenza fisica

Secondo Carol Zoughbi-Janineh, supervisore amministrativo di YMCA di Gerusalemme est, programma di riabilitazione per ragazzini che sono stati in prigione, il numero di minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane è costantemente aumentato dal 2000.

“Quando abbiamo dato inizio al programma (nel 2008) vi erano tra 500 e 700 minori detenuti all’anno. L’anno scorso sono stati 1.467”, dice a MEE. “È davvero un dato allarmante.”

Zoughbu-Janineh dice che, benché la stragrande maggioranza dei minori detenuti sia costituita da maschi, le ragazze sono state arrestate in sempre maggior numero negli ultimi tre anni, con oltre 60 ragazze arrestate nel 2017, un forte aumento rispetto a una o due per ogni anno antecedente il 2015.

Diverse associazioni per i diritti nel corso degli anni hanno denunciato le condizioni di incarcerazione dei minori palestinesi – puntando l’indice sulla sistematica incriminazione di fronte ai tribunali militari, con un tasso di condanne vicino al 100%.

Secondo “Defense for Children Iternational – Palestina “(DCIP), tre minori su quattro subiscono violenza fisica durante l’arresto o l’interrogatorio.

Rapporti di “Human Rights Watch” (HRW) e delle associazioni israeliane per i diritti B’Tselem e HaMoked hanno rivelato che le forze israeliane usano violenza non necessaria durante l’arresto di minori e “ regolarmente” li interrogano senza la presenza di un parente o di un avvocato. Parecchi minori hanno riferito di essere stati presi a schiaffi e calci, picchiati e bendati durante il loro arresto o interrogatorio.

Secondo le associazioni per i diritti umani, spesso ai minori vengono fatti firmare documenti scritti in ebraico, anche se non capiscono la lingua. Inoltre i minori sono abitualmente detenuti insieme agli adulti.

Il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) non ha risposto alla richiesta di MEE di parlare delle condizioni detentive e delle violazioni riferite su minori palestinesi, o di dire quali servizi psicologici, se esistenti, fossero disponibili per i prigionieri minori al momento della pubblicazione [di questo articolo].

Quasi la metà dei palestinesi nei territori occupati sono minori di 18 anni. Per Mohammad, Ahed e molti altri giovani palestinesi che sono stati nelle carceri israeliane, le difficoltà non finiscono dopo essere usciti di prigione. Questi ragazzi devono imparare come riconquistare la propria infanzia dopo una così traumatica esperienza.

Acclamati come eroi

Mohammad è stato arrestato dalle forze israeliane alla fine del 2016 insieme a parecchi suoi amici, mentre si trovavano vicino ad un centro giovanile locale.

Secondo lui, è stato picchiato durante l’arresto e quando era sotto custodia israeliana ed accusato di aver lanciato pietre, che è un’ imputazione usuale contro i minori palestinesi.

La condanna, se c’è, può arrivare fino a 20 anni di prigione, ma Mohammad è stato rilasciato otto mesi dopo, senza aver subito alcuna condanna per alcun reato.

“Quando mi hanno rilasciato sono rimasto sorpreso”, dice Mohammad, ricordando quasi un anno dopo quel momento. “La liberazione dopo una detenzione di otto mesi, dopo che mi hanno detto che non ero colpevole di niente, ero felice e al tempo stesso sbalordito, perché non mi aspettavo di essere rilasciato.”

Mentre la liberazione di un prigioniero è un momento di grandi celebrazioni nei territori occupati, in seguito gli ex prigionieri vengono spesso lasciati a lottare con pensieri ed emozioni difficili quando tornano alla vita normale – un processo complicato, che è molto più arduo per dei ragazzi.

“I ragazzi sono più colpiti degli adulti (dal carcere), perché i loro meccanismi di difesa sono più deboli, in quanto il loro cervello è ancora in evoluzione”, avverte la psichiatra e psicoterapeuta palestinese Samah Jabr. “Un’esperienza come questa può spezzare il tessuto sociale intorno al giovane, il suo rapporto con la famiglia e la società.”

I prigionieri detenuti da Israele sono celebrati come eroi nella società palestinese, un ruolo che può spingere i minori a non mostrare segni di debolezza.

“A volte quel ruolo costringe le persone in una camicia di forza. Non possono esprimere il dolore; non possono chiedere aiuto; non possono mostrare le loro vulnerabilità”, dice Jabr.

Sia Jabr che Zoughbi-Janineh elencano una serie di sintomi psicologici manifestati dai minori dopo che erano stati rilasciati dal carcere, compresi depressione, ansia, problemi di concentrazione, introversione o comportamento aggressivo.

“Se sono con i miei amici o con la mia famiglia non sono triste. Ma se sono da solo a casa, incomincio a pensare alla prigione e a tutto il resto. E incomincio a sentirmi triste”, ha detto Mohammed, aggiungendo che passa molto tempo fuori con gli amici, per evitare di restare solo con i suoi pensieri.

Mentre Jabr dice che molti dei sintomi mostrati dai ragazzi ex prigionieri potrebbero rientrare nella classificazione di disordine da stress post-traumatico (PTSD), il perdurante trauma causato dai settant’anni di occupazione israeliana ha reso difficile affrontare tali questioni in passato.

“Raramente faccio per questi minori una diagnosi di PTSD [disturbi da stress post-traumatico]. Penso che ciò che accade sia una distruzione più subdola della loro personalità. Non si tratta solo di un evento traumatico, dopo il quale le persone vivono in pace per sempre”, dice Jabr, che ha scritto il libro “Derrière les fronts” [Dietro i fronti], che getta lo sguardo sull’impatto psicologico dell’occupazione. Il libro dovrebbe uscire verso la fine del mese.

‘Impotenti a proteggere i propri figli’

Dal momento dell’arresto – che spesso avviene in casa in piena notte – i minori imprigionati sono afflitti da “impressionanti immagini di impotenza, debolezza e disperazione dei genitori” incapaci di proteggere i propri figli, dice Jabr.

Zoughbi sottolinea un problema ancor più grande per le famiglie di Gerusalemme est annessa, dove molti minori sono condannati agli arresti domiciliari invece che al carcere.

“All’inizio potresti pensare ‘mio figlio non è in prigione’, ma dover stare in casa è psicologicamente ancor più devastante perché si chiede ai genitori di imprigionare il proprio stesso figlio”, dice. “Non vedi più i tuoi genitori come tali. Li vedi come carcerieri.”

Dopo la liberazione, le famiglie spesso lottano per ricostruire il rapporto di fiducia tra genitori e figli, in quanto i ragazzi si ribellano contro l’autorità dei genitori.

Molti ragazzi lottano per reinserirsi a scuola, soffrendo di problemi psicologici e venendo inquadrati in classi inferiori dopo aver passato molto tempo in prigione con un accesso minimo all’educazione. Il risultato è che minori ex prigionieri come Mohammad spesso lasciano la scuola. Lui ha lasciato la scuola superiore ed ora fa due lavori part-time.

Anche le amicizie finiscono per risentirne, in quanto i ragazzi ex detenuti faticano a rapportarsi con i loro pari e mostrano tendenze a isolarsi.

“Prima del carcere ero estroverso, parlavo a voce alta, ma ora sono più silenzioso”, dice Mohammad, aggiungendo di sentire una maggiore affinità con amici che sono stati in carcere con lui piuttosto che con quelli che non sono mai stati in prigione, “perché quelli fuori non hanno mai provato niente di simile.”

Per paura di essere nuovamente arrestato, Mohammad non va più al centro giovanile locale vicino al quale è stato arrestato e al più tardi alle dieci di sera è sempre a casa.

Un membro della comunità ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Mohammed ed arrestato il giovane ed un amico per alcune ore, alcuni giorni dopo l’intervista. Sono stati rilasciati senza essere informati del perché fossero stati presi, confermando i timori di Mohammad.

Quando non hai scelta’

Le Ong come YMCA forniscono servizi di riabilitazione per ragazzi ex prigionieri, ma Zoughbi-Janineh dice che l’organizzazione può farsi carico di 400 casi all’anno al massimo, sottolineando che le risorse limitate impediscono seriamente di raggiungere tutti i giovani colpiti che necessitano di supporto.

Intanto, Bassem Tamimi ammonisce che molte famiglie, soprattutto in zone politicamente attive come il villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, diffidano delle Ong che si occupano di fornire supporto psicologico. Sospettano che queste organizzazioni potrebbero scoraggiare i ragazzi dall’impegnarsi nelle attività della resistenza.

“Lanciare pietre fa parte del trauma? Qualcuno potrebbe ritenere che sia così, sì”, dice. “O è una cura per la rabbia interiore? Magari i ragazzi curano se stessi evitando di essere solo vittime.”

Bassem afferma che gli abitanti di Nabi Saleh, dove vive la famiglia Tamimi, hanno inventato il loro modo per aiutare i ragazzi di fronte alla minaccia di arresto. Dice che lui cerca sempre di spiegare la situazione ai suoi figli fin da piccoli, invece di nascondergliela.

“Se spavento i miei figli e li tengo da parte, allora verranno spezzati dentro, e questo per loro è peggio che se gli venisse spezzata una mano”, dice.

Bassem racconta che il villaggio ha organizzato diverse sessioni di formazione durante le quali ai ragazzi viene detto che cosa aspettarsi durante l’arresto, l’interrogatorio e il processo, comprese simulazioni in cui i minori vengono bendati e ammanettati. Manal Tamimi, zia di Ahed, commenta una di queste sessioni di formazione su Facebook, dicendo:

“Certo non è normale sottoporre questi ragazzini ad una simile formazione, e non stiamo dipingendo come normale la situazione, ma questa è la nostra realtà e la nostra vita e quei minori devono essere preparati a tutto ciò che potrebbe succedere.”

Da parte sua, Jabr esprime delle riserve su queste sessioni di formazione.

“Preferisco un approccio più generale e meno ansiogeno”, dice. “Un approccio in cui stimoliamo la resilienza, i punti di forza delle persone, le loro abilità sociali, la loro assertività, le tecniche di relazione”, sostiene.

Jabr afferma di aver lavorato con consulenti scolastici, insegnanti, organizzatori di comunità e allenatori per creare reti comunitarie di adulti sensibilizzati ai bisogni psicologici dei minori. È un approccio che secondo lei potrebbe evitare lo stigma legato al cercare aiuto psicologico.

Per Jabr, l’incarcerazione di minori indica una politica israeliana consapevole che prende di mira la gioventù palestinese.

“Penso che questa sia un’azione deliberata per intimidire la comunità palestinese”, dice. “Ritengo che, quando una popolazione vive questa esperienza in età molto giovane, si tratti di un tentativo di mettere in ginocchio la comunità. Gli israeliani sperano che i palestinesi diventino l’ombra di ciò che sono.”

Bassem respinge le illazioni, diffuse da dirigenti israeliani, che i palestinesi tengano poco al benessere dei loro figli.

“A volte ci accusano di usare i nostri figli, di metterli in pericolo”, dice Tamimi. “Se qualcuno ci desse un posto sicuro in Palestina, metteremmo là i nostri figli. Ma lei (Ahed) non è in una condizione che le permetta di vivere una vita normale.”

“La nostra situazione ha bisogno di una cura: la fine dell’occupazione”, aggiunge. “Quando non hai scelta, che cosa dovresti fare? Noi dobbiamo imparare a fare i conti con questa situazione, ad essere abbastanza forti per affrontarla, a crescere i nostri figli in un modo diverso.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)