Il piano di Israele per eliminare l’influenza turca a Gerusalemme a favore degli Stati del Golfo

Adnan Abu Amer

28 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Alla luce dell’attuale serie di accordi di normalizzazione tra gli Stati arabi e l’occupante, Israele sta cercando di attirare i Paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita, con un possibile ruolo nel controllo dei luoghi santi della Gerusalemme occupata, competendo così con la Giordania e i palestinesi per prendersi carico di questo importante compito.

L’iniziativa di Israele in questo senso ha provocato tensioni politiche tra le parti coinvolte, nascondendo nel contempo il proprio vero piano, che consiste nel dare a questi Paesi un nuovo ruolo e un’opportunità per ostacolare la crescente influenza turca tra i gerosolimitani, una manovra che pone domande sul successo o il fallimento dell’iniziativa israeliana.

Sembra che il piano di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e l’occupazione sia in corsa contro il tempo per determinare una nuova situazione sul terreno, dato che il ministro israeliano per le questioni di Gerusalemme, il rabbino Rafi Peretz, ha annunciato un progetto per attirare migliaia di turisti emiratini che visitino Gerusalemme. Come egli ha affermato, il piano ha come obiettivo migliorare lo status della città come “capitale di Israele”.

È risultato evidente che il progetto israeliano di attrarre turisti degli Emirati Arabi Uniti, e due milioni di turisti musulmani a Gerusalemme ogni anno, è in sintonia con quanto l’occupazione ha cercato di ottenere negli ultimi dieci anni. Fa parte di un tentativo di sottomettere Gerusalemme e la moschea di Al –Aqsa alla sua asserita sovranità e di evacuarla per impedire che gli abitanti di Gerusalemme sviluppino un settore turistico religioso nazionale e controllino la santa moschea e la sua spianata.

Il piano israeliano deriva dal testo dell’accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, dato che concede ai musulmani solo il diritto alla moschea di Al-Aqsa e nega loro il resto del Monte del Tempio nel suo complesso. Ciò è conseguenza di una condanna politica e religiosa palestinese che rifiuta di ricevere qualunque visitatore emiratino, arabo o persino musulmano perché preghi nella moschea di Al-Aqsa come parte dell’accordo summenzionato.

I gerosolimitani sono stati i primi ad annunciare il proprio rifiuto dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, dato che esso stabilisce il diritto di tutte le religioni monoteiste eliminando l’esclusività per i musulmani. Ciò ha provocato l’indignazione dei palestinesi, che hanno espresso il proprio ripudio attaccando grandi manifesti in tutta Gerusalemme.

Il progetto israeliano mette in evidenza la gravità dell’accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti. L’idea di patrocinare viaggi degli Emirati per pregare nella moschea di Al-Aqsa è un semplice occultamento del piano di normalizzazione, nonostante il fatto che pregare a Gerusalemme non necessiti di accordi. È un diritto religioso e giuridico sacro, così come la moschea di Al-Aqsa è un diritto esclusivo dei musulmani secondo tutte le religioni e i documenti internazionali, in particolare il riconoscimento da parte dell’UNESCO della moschea di Al-Aqsa come proprietà esclusiva dei musulmani, senza alcun legame con gli ebrei. Tuttavia gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto di concedere agli israeliani questo accordo, un diritto che non gli compete.

I gerosolimitani si preparano a ricevere come si meritano quanti verranno a Gerusalemme con il pretesto della normalizzazione. Nessun palestinese permetterà che gli emiratini e altri violino la santità della moschea di Al-Aqsa usando le preghiere in quel luogo per legittimare il loro accordo nullo con Israele. Di conseguenza il popolo di Gerusalemme non accoglierà queste visite per via delle preoccupazioni a Gerusalemme e in Palestina, in generale, per un numero probabilmente crescente di turisti musulmani, soprattutto da Bahrein e Arabia Saudita, che possono venire a pregare a Gerusalemme sotto le pressioni e lusinghe degli Emirati.

Il nuovo piano va di pari passo con l’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti di accogliere annualmente nello Stato occupante due milioni di turisti musulmani, la maggior parte dei quali visiterà la moschea di Al-Aqsa nel quadro della cosiddetta “pace religiosa”. Nonostante il fatto che nel 2018 98.000 turisti musulmani hanno visitato Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa, Israele ha cominciato ad organizzare l’arrivo di turisti degli Emirati e di altri Stati del Golfo per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

I palestinesi credono che il piano israeliano fallirà, in quanto gli emiratini non arriveranno in gran numero, forse a causa dello scontro negli Emirati Arabi Uniti tra la posizione ufficiale e quella del popolo riguardo alla normalizzazione. I turisti degli EAU non saranno centinaia o migliaia. Così la gestione degli emiratini a Gerusalemme è stata preceduta da un piano saudita per mettersi in comunicazione con le personalità di Gerusalemme al fine di garantire un punto di appoggio in città, ma gli abitanti di Gerusalemme si sono rifiutati di recarsi nel Regno.

Insieme all’annuncio del piano israeliano per portare turisti emiratini a Gerusalemme, l’Ong israeliana “Gerusalemme Terrestre” ha rivelato che gli Emirati Arabi Uniti si sono accordati per la prima volta per cambiare lo status quo nella moschea di Al-Aqsa, permettendo agli ebrei di pregare lì e limitando l’accesso dei musulmani solo alla moschea e non a tutto il Monte del Tempio. Di conseguenza il piano israeliano conferma il recente accordo degli Emirati Arabi Uniti riguardo alla moschea di Al-Aqsa, cosa che suscita preoccupazioni e timori in merito alle dotazioni giordane e palestinesi. Ciò è dovuto al fatto che l’accordo intende offrire agli Emirati Arabi Uniti un nuovo ruolo nella moschea di Al-Aqsa, che mette apertamente in discussione la presenza giordana e palestinese come principali supervisori dei luoghi santi della città.

Forse la principale preoccupazione degli abitanti di Gerusalemme riguarda la storia negativa degli Emirati Arabi Uniti, soprattutto dopo che gli emiratini hanno cercato di vendere alle associazioni per la colonizzazione ebraica le case ed i beni immobili comprati ai palestinesi. Ciò fa sì che i palestinesi temano che il prossimo passo possa segnare l’inizio della costruzione della presunta sinagoga con i contributi degli Emirati Arabi Uniti, che hanno già costruito un tempio indù a Dubai ed hanno aperto una sinagoga ad Abu Dhabi.

Nel contempo Israele non ha avuto dubbi nell’adottare tutti i mezzi necessari per sradicare le attività turche a Gerusalemme, sostenendo che i giorni dell’Impero ottomano sono finiti e che la Turchia non ha nulla a che vedere con Gerusalemme e nel contempo che la dichiarazione del presidente turco Erdogan secondo cui Gerusalemme appartiene a tutti i musulmani è esagerata e senza fondamento. Tuttavia ciò che fa infuriare i palestinesi è la notizia dell’appoggio saudita-giordano al piano orchestrato dall’occupante.

Benché i progetti turchi a Gerusalemme siano di carattere assistenziale ed economico, in quanto Israele proibisce ogni attività politica in città, la presenza della Turchia sul posto ha irritato gli israeliani ed i Paesi arabi che cercano di aumentare la propria influenza su Gerusalemme. Tra loro figurano la Giordania e l’Arabia Saudita, dato che qualunque aumento dell’influenza turca in città può ridurre il loro potere e la loro tutela religiosa sui luoghi santi che vi si trovano, benché Gerusalemme sia una causa comune per tutti i musulmani, non solo per gli arabi [i turchi non sono arabi, ndtr.] o i palestinesi.

Il piano di occupazione è motivato dal fatto che l’influenza turca tra gli abitanti di Gerusalemme ha preoccupato per anni i funzionari della sicurezza e i politici israeliani, dato che in molti luoghi della città si possono vedere bandiere e ristoranti turchi. D’altra parte negli ultimi anni la Turchia è diventata la destinazione favorita di decine di migliaia di cittadini di Gerusalemme.

L’informazione sul piano israeliano contro le attività turche a Gerusalemme indica che esiste un consenso tra i diversi decisori politici israeliani riguardo alla convinzione che la presenza della Turchia minacci la sicurezza nazionale di Israele. Quindi lo Stato di occupazione può prendersi il rischio di alimentare le tensioni già esistenti tra Ankara e Tel Aviv su vari dossier spinosi.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




La normalizzazione di Israele potrebbe portare alla divisione della moschea di Al-Aqsa

Mersiha Gadzo

14 settembre 2020 – Al Jazeera

Secondo alcuni analisti una clausola degli accordi Emirati -Bahrain e Israele spalanca la porta alle preghiere degli ebrei nel luogo sacro.

Una frase inserita negli accordi di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele, mediati dagli Stati Uniti, potrebbe portare alla divisione del complesso di Al-Aqsa perché viola lo status quo, dicono alcuni analisti.

Secondo un’inchiesta di Terrestrial Jerusalem (TJ) un’organizzazione non governativa israeliana, le affermazioni segnano un “cambiamento radicale dello status quo” e hanno ” conseguenze di vasta portata e potenzialmente esplosive”.

Secondo lo status quo stabilito nel 1967, solo i musulmani possono pregare sull’al-Haram al-Sharif [il Nobile Santuario in arabo, cioè la Spianata delle Moschee, ndtr.], Monte del Tempio, secondo gli ebrei, noto anche come complesso della moschea Al-Aqsa, un’area di 14oo mq.

I non-musulmani possono visitare il sito, ma non pregare. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, aveva confermato questo status quo in una dichiarazione formale nel 2015.

Tuttavia una clausola inclusa nei recenti accordi fra Israele e gli Stati del Golfo Arabo indica che potrebbe non essere più così.

Secondo la dichiarazione congiunta fra USA, Israele e EAU rilasciata il 13 agosto dal presidente americano Donald Trump: “Come sancito nella Visione di Pace, tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al-Aqsa e gli altri siti sacri a Gerusalemme devono restare aperti ai fedeli pacifici di tutte le fedi.”

Ma Israele definisce Al-Aqsa come ‘struttura di una moschea’, come nella dichiarazione, chiarifica la relazione di TJ.

“Secondo Israele (e apparentemente gli Stati Uniti), tutto quello che c’è sul Monte che non sia la struttura della moschea, è definito come ‘uno degli altri siti sacri di Gerusalemme’, aperto a tutti, ebrei inclusi, per pregare,” dice la dichiarazione.

“Questa scelta di terminologia non è né casuale né un passo falso e non può essere vista se non come un tentativo intenzionale, seppure furtivo, di lasciare la porta spalancata alla preghiera ebraica al Monte del Tempio, cambiando così radicalmente lo status quo.”

La stessa dichiarazione è stata ripetuta nell’accordo con il Bahrain, annunciato venerdì.

Khaled Zabarqa, un avvocato palestinese specializzato nelle questioni relative ad Al-Aqsa e Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera che si “dice molto chiaramente che la moschea non è sotto la sovranità musulmana”.

“Quando gli EAU hanno accettato tale clausola, si sono detti d’accordo e hanno dato il via libera alla sovranità di Israele sulla moschea di Al-Aqsa,” ha detto Zabarqa.

“È una chiara e significativa violazione dello status quo legale internazionale della moschea di Al-Aqsa (concepito) nel 1967 dopo l’occupazione di Gerusalemme e secondo cui tutto ciò che si trova all’interno delle mura è sotto la custodia giordana.

Non è un errore innocente’

I palestinesi sono preoccupati da tempo per i possibili tentativi di partizione della sacra moschea, come è successo con la moschea di Ibrahimi [la Tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron.

Nel corso degli anni si è sviluppato un Movimento del Tempio, costituito in gran parte da ” di ebrei religiosi nazionalisti di estrema destra” che cercano di cambiare lo status quo, riferisce TJ.

Alcuni chiedono la preghiera per gli ebrei all’interno del complesso sacro, mentre altri mirano a costruire il Terzo Tempio sulle rovine della Cupola della Roccia che, secondo le profezie messianiche, annuncerebbe la venuta del messia.

Nel corso degli anni, l’ONG israeliana Ir Amim ha pubblicato numerose relazioni di questo gruppo, un tempo marginale, ma che oggi fa parte di una tendenza politica e religiosa dominante e gode di stretti legami con le autorità israeliane.

Questi attivisti credono che permettere agli ebrei di pregare nel complesso e dividere il sito sacro fra musulmani ed ebrei sia un passo verso la sovranità, per raggiungere un giorno il loro scopo finale, la costruzione del tempio.

In anni recenti, un numero crescente di visitatori ebrei hanno cercato di pregare in violazione dello status quo.

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano specializzato nella geopolitica di Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera di essere “profondamente preoccupato per quello che sta succedendo “.

“Quello che stiamo vedendo a Gerusalemme è l’ascesa delle fazioni religiose che usano la religione come un’arma. Siamo su una strada che ci porterà a una conflagrazione.

Noi sappiamo che queste clausole, ogni singola parola, sono state elaborate insieme da un gruppo congiunto USA/ Israele. Il passaggio dal termine Haram al-Sharif a quello di moschea di Al-Aqsa non è un errore,” secondo Seidemann.

‘Scritto con astuzia’

Una dichiarazione più sfacciata è stata inclusa nell’ “accordo del secolo”, il piano per il Medio Oriente svelato alla fine di gennaio da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca.

Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump, è stato la persona di maggior spicco che ha lavorato alla proposta, mentre a Ron Dermer, ambasciatore israeliano negli USA, è stata attribuita la formulazione dell’accordo.  

Il piano stipula che “lo status quo del Monte del Tempio/Haram al-Sharif dovrebbe rimanere inalterato”, ma nella frase successiva si dice anche che: “persone di ogni fede possono pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.”

La clausola ha causato polemiche e ha spinto David Friedman, ambasciatore USA in Israele, a tornare sui suoi passi durante l’incontro con la stampa il 28 gennaio. “Non c’è nulla nel piano che imporrebbe modifiche dello status quo senza l’accordo fra tutte le parti,” ha detto.

Un alto funzionario americano, che conosce sia le parti in causa che i problemi, ha detto ad Al Jazeera che “non ha dubbi che il linguaggio nella dichiarazione Israele-EAU è stato scelto con malizia premeditata da parte di Israele, senza una chiara comprensione da parte degli Emirati e con la complicità di mediatori americani incompetenti.”

“La rapida ritrattazione di Friedman della frase contenuta nel piano di Trump attesta che probabilmente Dermer l’aveva inserita e che Kushner non l’aveva capita,” ha rivelato il funzionario in forma anonima.

“Il fatto che sia stato Friedman a ritrattare e non la Casa Bianca significa anche che il linguaggio del piano di Trump è ancora ufficiale e determinante quando si arriverà al dunque… Anche se gli idioti Kushner-Friedman hanno capito le conseguenze, è chiaro che se ne fregano.”

Eddie Vasquez, esperto consigliere e portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha riferito in un’email ad Al Jazeera di una scheda informativa pubblicata dopo l’annuncio “dell’accordo del secolo” che dice che lo status quo non verrà modificato.

“Tutti i musulmani sono benvenuti a visitare in pace la moschea di Al-Aqsa,” dice uno dei punti. Ma non si chiarisce perché negli accordi con gli EAU e Bahrain sia stato usato il termine di moschea di Al-Aqsa e non Haram al-Sharif.

Sovranità israeliana su Al-Aqsa’

Gli accordi di normalizzazione arrivano dopo che, la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno installato degli altoparlanti sui lati est e ovest del complesso di Al-Aqsa senza il permesso del Waqf, (istituzione islamica).

Il complesso sacro è amministrato dal Waqf islamico con sede in Giordania. Secondo lo status quo, Israele è responsabile solo della sicurezza fuori dai cancelli.

“La polizia israeliana dice che è per motivi di sicurezza, ma noi non riusciamo a vedere questi motivi,” dice Omar Kiswani, direttore del complesso di Al-Aqsa.

“Noi consideriamo questa azione un tentativo di imporre il controllo sulla moschea di Al-Aqsa e di indebolire il ruolo del Waqf nella moschea,” dice Kiswani.

Zabarqa afferma che la Giordania, custode del sito, “non ha alcun potere di trattare con le [autorità] di occupazione “.

“Credo che la Giordania debba cambiare e trovare nuovi alleati, come la Turchia. Dovrebbe usare le relazioni finanziarie e diplomatiche con Israele per far pressione, ma invece sembra così debole da mettersi al fianco degli americani,” aggiunge Zabarqa.

Nel suo rapporto TJ nota che nell’accordo non si parla del Waqf e del suo ruolo autonomo.

“Le rivendicazioni musulmane su Haram al-Sharif/Al-Aqsa sono state trasformate da quelle di proprietario a quelle di ‘ospite benvenuto’ con il diritto di visitare e pregare,” conclude.

Una bomba’

Zabarqa sostiene che la clausola è “rivoluzionaria nella narrazione israelo-americana ” e crede che gli ” EAU abbiano accettato di fare da apripista “.

Zabarqa rileva che nel 2014 gli EAU sono stati coinvolti nel trasferimento della proprietà di oltre 30 edifici a coloni israeliani illegali a Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

“Questo ci mostra il ruolo evidente che gli Emirati giocano nel cambiare il termine di status quo con un altro che riconosca la sovranità israeliana su Al-Aqsa,” afferma Zabarqa.

Seidemann dice che martedì, quando gli emiratini e i rappresentanti del Bahrain prenderanno parte alla cerimonia tenuta da Trump alla Casa Bianca per firmare una “storica dichiarazione di pace” con Israele dovrebbero chiedere dei chiarimenti per assicurarsi che lo status quo resti immutato.

Ci sarebbe solo bisogno che Kushner e Netanyahu dicano: ‘Continuo a credere a quello che ho detto nel 2015.’ Nelle ultime due settimane gli è stato chiesto, ma non l’hanno ancora detto. Questa non è ingenuità,” commenta Seidemann.

“Questa è una bomba che le amministrazioni di Trump e Netanyahu lasciano alle successive, al prossimo governo israeliano. Stanno giocando con Haram al-Sharif/Al-Aqsa/ Monte del Tempio. Accenderà una miccia,” dice Seidemann.

“Forse è una miccia lunga, ci sarà un’esplosione, ma non è troppo tardi per evitare che scoppi.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’attacco di Israele al pane palestinese

Mariam Barghouti

7 Mar 2020 – Al Jazeera

Perché è importante la chiusura di un vecchio forno palestinese a Gerusalemme.

Nelle rare occasioni in cui le autorità israeliane mi concedono il permesso di andare a Gerusalemme, mia madre insiste sempre che le porti una provvista di ka’ak al-Quds (ka’ak di Gerusalemme).

Il ka’ak è un pane a forma ovale ricoperto da un generoso strato di semi di sesamo. È ampiamente disponibile in tutta la Palestina e anche a Ramallah, dove viviamo. Ma per la maggior parte dei palestinesi, il ka’ak di Gerusalemme è una prelibatezza inimitabile. Come mia madre, anch’io chiedo agli amici che hanno occasione di andare a Gerusalemme di portarmi pacchi di ka’ak al-Quds – non solo perché è particolarmente buono, ma perché porta in sé parte della storia culturale di Gerusalemme.

Il 19 febbraio, la polizia israeliana ha fatto irruzione e chiuso un panificio palestinese attivo da 60 anni, e ha arrestato il suo giovane proprietario Nasser Abu Sneina. Chiunque abbia vagato per i quartieri della Città Vecchia è probabilmente passato accanto a questo vecchio forno e ha annusato il caldo aroma di pane che diffondeva. È vicino al quartiere di Bab Hutta, un luogo centrale nel corso delle proteste palestinesi del 2017 contro le misure di sorveglianza israeliane.

Le autorità israeliane hanno dichiarato che il panificio è stato chiuso perché non rispettava gli standard sanitari richiesti. Molti palestinesi, tuttavia, sostengono che il panificio sia stato preso di mira semplicemente perché distribuiva pane ai fedeli diretti alla moschea di al-Aqsa.

Il ka’ak di Gerusalemme e le panetterie che lo vendono sono – in parte – simboli dell’identità palestinese della città. Un panificio palestinese che distribuisce ka’ak ai fedeli sulla strada per la moschea di Al-Aqsa è una minaccia per le autorità israeliane perché è una dimostrazione palese della solidarietà palestinese. Mostra che i palestinesi non solo sono ancora nel cuore della città, ma sono anche pronti a sostenersi a vicenda di fronte all’oppressione israeliana.

Ricordano al mondo e agli israeliani che Gerusalemme è una città palestinese.

Questa è la vera ragione per cui il forno di Abu Sneina e molti altri esercizi simili sono stati costretti a chiudere dalle autorità israeliane.

Negli ultimi anni a Gerusalemme più di 50 negozi sono stati costretti a chiudere a causa delle pressioni finanziarie e delle continue restrizioni alla circolazione che rendono difficile la gestione di un’attività commerciale.

La chiusura di questo forno è stata solo l’ultimo capitolo di un più ampio assalto sistematico alla presenza palestinese a Gerusalemme in generale e nella Città Vecchia in particolare. Con metodi diversi Israele sta cercando di costringere tutti i palestinesi ad andarsene, rendendo insopportabile la vita quotidiana con l’imperante presenza di soldati armati che consentono ai coloni di avanzare in città, quartiere dopo quartiere.

I palestinesi a Gerusalemme vivono con la costante minaccia di umilianti perquisizioni corporali, sfratti da casa, ritiro della residenza o aggressioni da parte di coloni israeliani o forze israeliane – che si tratti di polizia o esercito.

Soprattutto nella Città Vecchia, oltre alle palesi aggressioni dell’occupazione come arresti arbitrari, azioni giudiziarie ingiustificate, restrizioni di movimento e ingiuste chiusure di negozi, i palestinesi sono costretti a barcamenarsi in una burocrazia pensata unicamente per fornire sostegno legale al tentativo di cacciarli.

Le autorità israeliane richiedono agli esercizi palestinesi di procurarsi una enorme quantità di permessi e documenti per rimanere in attività. Per molti imprenditori palestinesi, tuttavia, è sia troppo costoso che difficile ottenere questi documenti.

Le irragionevoli pressioni esercitate sui palestinesi residenti a Gerusalemme a volte raggiungono livelli tali da forzarli a fare cose che in altre parti del mondo sarebbero difficili da credere.

Proprio il mese scorso, ad esempio, un uomo palestinese che viveva a Gerusalemme ha demolito da sé la propria casa su ordine del Comune israeliano. Ha fatto da sé per evitare i costi esorbitanti che avrebbe dovuto pagare al Comune stesso se gli avesse consentito di eseguire la demolizione.

Israele sta facendo di tutto per allontanare i palestinesi da Gerusalemme a causa del significato che la città detiene per la lotta palestinese – non ha solo un valore religioso, ma è l’epicentro storico, culturale e politico della vita palestinese.

La decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2017 di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele e di spostarvi l’ambasciata USA ha fornito un significativo sostegno politico alle affermazioni israeliane che la città appartenga a loro.

Tuttavia, Israele sa che non può dichiarare Gerusalemme esclusivamente “città israeliana” se i palestinesi continuano a viverci e a mantenere viva l’identità palestinese della città. Dai negozietti di spezie e di dolci sparsi per la Città Vecchia al vecchio negozio di musicassette aperto nel 1973, alle voci dei bambini palestinesi che ridono nei vicoli Gerusalemme è ancora una città molto palestinese.

Questo è il motivo per cui le autorità israeliane prendono di mira le panetterie come quella di Abu Sneina.

Noi palestinesi non veniamo espulsi dalle nostre terre e città ancestrali solo attraverso demolizioni, insediamenti, revoca arbitraria di permessi di residenza o semplici proiettili. Siamo anche spinti via dallo sforzo sistematico di renderci impossibile mantenere il nostro modo di vivere nel nostro Paese. Israele sta cercando di cancellare la cultura e l’identità palestinesi dalle strade, dai bazar, dai panifici e dai ristoranti.

Questo succede da molto tempo. Ein Kerem, per esempio, un tempo era un villaggio palestinese a Gerusalemme [ovest, ndtr.]. Oggi vi abitano per lo più israeliani delle classi alte. Camminarci dentro è come camminare in un insediamento israeliano, non in un villaggio palestinese.

Ovviamente, Israele sa che non può cancellare tutta la storia e la tradizione di Gerusalemme. Quindi a volte cerca di appropriarsi di aspetti della cultura palestinese come fossero i propri.

Questo è il motivo per cui il falafel viene ora venduto come spuntino nazionale di Israele, anche se il piatto è più vecchio dello Stato. E questo è il motivo per cui i ristoranti di tutto il mondo hanno “Shakshuka [piatto tipico arabo, ndtr.] israeliano” e “Tabbouleh [insalata di grano, anch’essa araba, ndtr.] israeliano” nei loro menu.

Per un osservatore esterno, il definire “israeliano” un vecchio piatto palestinese o la chiusura di una panetteria per motivi di “salute e sicurezza” possono sembrare questioni banali.

Tuttavia, per noi palestinesi, questi atti non sono diversi da demolizioni di case, espulsioni, detenzioni illegali e coprifuoco. Rappresentano solo un altro aspetto dell’occupazione: sono tentativi di cancellare dalle nostre città e strade, insieme ai nostri fisici corpi, la nostra cultura e il nostro modo di vivere.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché tanta indignazione? Il partito Potere Ebraico è il nuovo modello della politica israeliana

Ramzy Baroud

6 marzo 2019 Ma’an News

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha stretto un’alleanza con un gruppo politico minore, Otzma Yehudit (Potere Ebraico), e subito ne è seguita una larga indignazione.

La rabbia non proviene solo dal centro, dalla sinistra e dai partiti arabi, ma anche da destra. Persino la lobby filo-israeliana statunitense, nota per le sue posizioni politiche aggressive, si è dichiarata contro questa sinistra unione.

“Le opinioni di Otzma Yehudit”, ha scritto su Twitter l’American Israeli Public Affairs Committee (AIPAC) [la maggiore lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.], “sono riprovevoli. Non riflettono i valori fondamentali che sono alla base dello Stato di Israele “.

Ma se invece lo facessero? E se “Otzma Yehudit” non fosse altro che una diversa articolazione politica delle tradizionali idee israeliane, e riflettesse perfettamente i “valori fondamentali” che persino l’AIPAC ha ciecamente difeso sin dagli inizi nel 1953?

Già prima dell’alleanza tra Likud, il partito di destra di Netanyahu, Jewish Home (Casa Ebraica) di estrema destra di Rafi Peretz, e Otzma Yehudit, sancita il 20 febbraio, Israele non era certo una democrazia liberale che escludesse il razzismo e sposasse il pluralismo politico. In effetti bisogna capire che l’inclusione di Otzma Yehudit nella principale scena politica israeliana è coerente con la corruzione morale della politica israeliana in generale.

Protestare contro l’alleanza tra Netanyahu e i fanatici capi di Otzma Yehudit è suggerire che i più influenti politici israeliani non rappresentino gli ideali profondamente sciovinisti, razzisti e violenti che il partito estremista ha difeso fin dalla sua formazione nel 2012.

Otzma Yehudit è stato resuscitato dai seguaci del rabbino nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha sostenuto la pulizia etnica dei palestinesi e ha guidato i suoi seguaci in molte incursioni violente contro le comunità arabe palestinesi, in Israele e nei territori palestinesi occupati.

Il suo partito Kach, messo al bando in Israele quattro anni dopo la sua formazione nel 1984, non fu allora rifiutato per le sue “politiche razziste” come oggi molti media suggeriscono. Il partito operava fuori dai confini dell’agenda del governo israeliano, quindi è stato costretto a uscirne, ma le sue idee violente persistono nella Knesset [il parlamento israeliano] a tutt’oggi. Se il razzismo contro i palestinesi era davvero un’anomalia politica sostenuta da Kach, come si spiega la legge razzista dello Stato-Nazione, che definisce Israele come “lo Stato-Nazione del popolo ebraico” – esaltando tutto ciò che è ebreo e umiliando tutto ciò che è palestinese?

La legge non si stacca molto dalla costituzione di Otzma Yehudit, che definisce Israele come uno “Stato ebraico nel suo carattere, nei suoi simboli nazionali e nei suoi valori legali”, definendo inoltre l’ebraico “unica lingua ufficiale” di Israele.

In effetti, ad una attenta lettura, la costituzione del partito e il testo della legge dello Stato-Nazione rivelano somiglianze sorprendenti. Ciò suggerisce che, dai tempi di Meir Kahane, è la società israeliana ad avvicinarsi alle opinioni degli estremisti ebrei, non viceversa.

In effetti, Kahane è stato assassinato nel 1990 ma le sue idee sono sopravvissute, espandendosi insieme agli insediamenti ebraici per conquistare infine l’immaginazione generale. L’indignazione contro l’alleanza Netanyahu-Otzma Yehudit è probabilmente motivata da un po’ di paura nel mostrare al mondo tutta la brutta faccia del sionismo.

Quanto all’AIPAC, è chiaro che neanche il più attento linguaggio diplomatico basterà a spiegare perché il governo israeliano debba essere popolato dai membri di un partito che dal 1994 compare nelle liste del Dipartimento di Stato americano come organizzazione terroristica.

Netanyahu è disperato e, come ci insegna la storia, quando il primo ministro israeliano si trova in una situazione di impaccio politico, si abbassa a qualsiasi espediente per salvarsi. Nelle ultime elezioni generali del 2015, Netanyahu ha rivolto un appello finale ai suoi sostenitori. “Gli elettori arabi si stanno dirigendo in massa verso i seggi”, ha detto, ricorrendo al suo tipico stile terroristico. Non sorprende che abbia vinto.

Netanyahu è ora più disperato che mai. I suoi avversari al Centro stanno unendo le forze in una nuova lista, Kahol Lavan o “Bianco e blu”, che ha il potenziale di spodestarlo il 9 aprile.

Peggio ancora, il procuratore generale israeliano ha deliberato il 28 febbraio di incriminare Netanyahu per “corruzione e frode”. Un sondaggio pubblicato il giorno seguente ha rilevato che due terzi degli israeliani pensano che se Netanyahu fosse incriminato dovrebbe dimettersi.

Il retaggio opportunistico di Netanyahu è più che sufficiente a spiegare la sua decisione di arrivare fino a Otzma Yehudit, ma ciò che è davvero sconvolgente è l’indignazione scatenatasi per una mossa politica che sembra perfettamente adatta alla attuale politica di Israele.

Anche se il Comitato Elettorale Centrale di Israele decidesse di impedire a Otzma Yehudit di partecipare alle prossime elezioni, cambierà poco nei termini dei valori e ideali che il partito rappresenta, principi che, in un modo o nell’altro, definiscono anche Jewish Home, Nuova Destra , Likud e altri.

La piattaforma di Otzma Yehudit invoca una guerra contro i “nemici di Israele” che deve “essere totale, senza negoziati, senza concessioni e senza compromessi”.

Ma non è sostanzialmente lo stesso punto di vista di Ayelet Shaked, ministra della Giustizia nella coalizione di Netanyahu, e ora una dei leader del neoformato partito Nuova Destra?

Nel 2014, poco prima che Israele scatenasse la sua guerra più distruttiva sulla Striscia di Gaza occupata, Shaked dichiarò la necessità di una guerra totale. “Non un’operazione, non una cosa lenta, non un’escalation a bassa intensità, senza controllo … Questa è una guerra … Questa è una guerra tra due popoli. Chi è il nemico? Il popolo palestinese … “

Più di 2.139 palestinesi, per lo più civili, sono stati uccisi nella guerra israeliana che seguì quella dichiarazione e oltre 11.000 sono stati i feriti.

Perché l’indignazione, quindi, quando la missione di quel partito marginale è di “ristabilire la sovranità e la proprietà sul Monte del Tempio” – cioè la Moschea di Al-Aqsa -, coerentemente con le opinioni di gran parte di israeliani, religiosi e laici allo stesso modo? I membri della Knesset hanno ripetuto questo appello, spesso proprio da Al-Aqsa, circondati da decine di soldati e coloni ebrei armati.

Per quel che riguarda la confisca delle terre palestinesi e l’espansione degli insediamenti illegali ebraici, di cui Otzma Yehudit è un fautore, anche questo è un ideale comune sfacciatamente caldeggiato dalla maggior parte dei gruppi politici israeliani, da destra sino a sinistra.

L’AIPAC non è solo ipocrita nel suggerire che Otzma Yehudit violi i “valori fondamentali alla base dello Stato di Israele”, ma è anche intenzionalmente in errore.

In effetti, la piattaforma di Otzma Yehudit non fa altro che rinforzare i “valori fondamentali” esistenti in Israele, gli stessi valori che proprio l’AIPAC difende senza il minimo riguardo per i diritti umani, il diritto internazionale e i principi dei veri valori democratici.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale della Ma’an News Agency.

(traduzione di Luciana Galliano)