La guerra che Israele ha perso

Shir Hever

21 maggio 2021 – Open Democracy

Le forze armate israeliane posseggono armamenti superiori a livello tattico, ma stanno perdendo legittimità internazionale a livello strategico

Nel 2000, Ariel Sharon, politico israeliano di destra, entrò nella moschea di Al-Aqsa accompagnato da un distaccamento di guardie del corpo. La provocazione innescò la seconda Intifada durata fino al 2005. Sharon all’epoca era il leader del Likud, il partito di opposizione. Gli scontri scoppiati dopo la sua visita attizzarono anche le fiamme del populismo e del nazionalismo nel Paese e meno di un anno dopo, nel marzo 2001, il governo del partito laburista di Ehud Barak cadde e Sharon diventò primo ministro.

Gli eventi di questo maggio in Israele-Palestina sono una spaventosa ripetizione di ciò che era successo nel 2000.

I risultati delle elezioni in Israele nel marzo 2021, le quarte in due anni, sono stati inconcludenti. Benjamin Netanyahu (Likud) non è riuscito a raccogliere una maggioranza per formare un governo nel tempo concessogli. L’8 maggio, immediatamente dopo che il presidente aveva dato l’incarico a Yair Lapid, il leader del partito dell’opposizione Yesh Atid, Netanyahu ha inviato la polizia israeliana ad assaltare la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme durante le preghiere della notte di Al-Qadr [‘la notte del destino’, una delle ultime 10 notti del Ramadan, ndtr.]  ferendo 330 palestinesi.

Il 10 maggio, nell’assediata Striscia di Gaza, alcuni gruppi palestinesi (cioè Hamas e Jihad Islamica) hanno lanciato razzi in risposta alla violazione della moschea. I pogrom di Gerusalemme, durante i quali folle inferocite sono andate a caccia di palestinesi da picchiare o uccidere, si sono allargati ad altre città. A Lod e in altre cosiddette “città miste”, i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato i propri gruppi e un ebreo israeliano è stato ucciso. L’aviazione israeliana ha cominciato una brutale campagna di bombardamenti della Striscia di Gaza, ma i razzi lanciati da Gaza non si sono fermati. Quando è iniziato il cessate il fuoco, dopo 11 giorni, erano stati uccisi 232 palestinesi (inclusi 65 bambini) e 12 israeliani.

Una manovra politica

Quattro elezioni consecutive in due anni non hanno raggiunto una chiara maggioranza per nessun candidato. Dai politici ci si aspetta che mostrino lealtà al proprio gruppo identitario piuttosto che a valori e ideali. Gli ebrei ultra-ortodossi sono diffidenti nei confronti degli ebrei secolari di classe media, i nazionalisti religiosi ortodossi detestano la comunità LGBT e naturalmente i palestinesi sono odiati ed emarginati da tutti i partiti sionisti.

In quest’ultima tornata elettorale, comunque, uno dei quattro partiti che formano la Lista Unita che rappresenta la maggioranza dei cittadini palestinesi in Israele e parte della sinistra israeliana ebraica, si è scisso. Ra’am, il partito che se n’è andato, è guidato da Mansour Abbas, un musulmano conservatore. Paradossalmente questa divisione all’interno della rappresentanza politica palestinese ha rafforzato la legittimità palestinese, con Abbas che gioca il ruolo di chi controlla la situazione, che né la destra né la sinistra possono permettersi di inimicarsi.

Quando è scoppiata la violenza, i politici israeliani, specialmente i sostenitori di Netanyahu, hanno intensificato l’istigazione razzista contro i palestinesi (sia a Gaza che in Cisgiordania o in Israele). Un’atmosfera di odio e paura si è impadronita del Paese con la forza. Dato che i partiti impegnati nei negoziati per formare una coalizione senza Netanyahu rappresentano gruppi con identità opposte oltre a Yesh Atid di Lapid, che rappresenta gli ebrei secolari di classe media, e Ra’am c’è la Nuova Destra di Naftali Bennet che rappresenta ebrei nazionalisti religiosi – essi potrebbero non cooperare più e i colloqui della coalizione si interromperebbero.

Nel frattempo, Lapid ha omesso di pronunciare una sola parola di critica sull’uccisione dei palestinesi da parte dell’esercito e della polizia. Ha tempo fino al 2 giugno per trovare una maggioranza e formare un governo, altrimenti saranno indette nuove elezioni e Netanyahu resterebbe come primo ministro ad interim.

Due leader di partiti con cui Lapid ha negoziato, Bennet e Gideon Saar (già membro del Likud, scontento della presunta corruzione di Netanyahu), hanno entrambi già insinuato che potrebbero rimangiarsi l’impegno preso durante la loro campagna di non unirsi al governo di Netanyahu. Appena Bennet e Saar hanno cambiato le loro posizioni, Netanyahu ha rapidamente accettato la proposta dell’Egitto di un cessate il fuoco con Hamas.

Per il pubblico israeliano e i media in generale, la manovra di Netanyah è completamente trasparente. Lo stato di emergenza gli dà l’occasione di restare in carica come primo ministro e di bloccare il suo processo per corruzione.

Eppure i politici israeliani che criticano Netanyahu hanno paura di parlare della sua cinica manipolazione della violenza. Se lo facessero, sarebbero marchiati come di “sinistra” o “amanti degli arabi”, entrambi considerati insulti nella politica israeliana. In Israele la paura che la propria lealtà e il proprio nazionalismo vengano mesi in dubbio è più forte della paura dei razzi di Hamas.

Un pesante tributo

A oggi, migliaia di persone sono state ferite e centinaia uccise, mentre i danni economici ammontano a miliardi di dollari, ma la maggior parte delle sofferenze sono state inflitte ai palestinesi, specialmente nella Striscia di Gaza.

Provocazioni e populismo stanno colpendo pesantemente la società israeliana. Molti giovani israeliani non si arruolano più nell’esercito, non per un’opposizione politica alle azioni dell’esercito, ma semplicemente per priorità personali. La corruzione è rampante nel governo, quindi perché dei cittadini qualunque dovrebbero impegnarsi di più e sacrificare anni delle proprie vite all’esercito?

Con questa mentalità di “ognuno per sé”, le istituzioni pubbliche stanno collassando. La polizia si è rivelata incapace o riluttante a fermare i pogrom, a proteggere i manifestanti o ad arrestare ebrei facinorosi e violenti. Quando il capo della polizia ha invocato la calma e parlato di “terroristi da entrambe le parti,” è stato immediatamente rimproverato da Amir Ohana, il ministro della Pubblica Sicurezza, del Likud, che l’ha bollato come personaggio di sinistra.

Analogamente, l’esercito non agisce in modo organizzato, ma come una torma indisciplinata e inferocita. Il brutale bombardamento di Gaza è stato coordinato male e persino la qualità della propaganda che l’esercito israeliano produce per giustificare i bombardamenti è più scadente del solito.

Il 14 maggio l’ufficio stampa dell’esercito israeliano ha ingannato i media stranieri dichiarando che le truppe di terra israeliane stavano marciando dentro Gaza per costringere i combattenti di Hamas a rifugiarsi nei tunnel che sono stati prontamente bombardati. La bugia non è stata creduta perché l’ufficio stampa dell’esercito non ha mandato la stessa disinformazione ai giornali israeliani. I combattenti di Hamas hanno scoperto il trucco ed evitato di entrare nei tunnel.

I servizi di sicurezza israeliane avrebbero potuto prepararsi contro i razzi da Gaza o le proteste in Cisgiordania e in Israele, ma non l’hanno fatto. La loro unica strategia è stata la deterrenza, per causare abbastanza morte e sofferenza in modo da convincere i palestinesi a restare docili per paura. Ma quando i palestinesi superano le proprie paure, come hanno fatto nelle ultime settimane, la deterrenza è inutile.

Una dimostrazione di forza

Il 18 maggio lo sciopero generale dei palestinesi in tutto il territorio israelo-palestinese ha dimostrato un livello di unità senza precedenti evidenziando anche quanto sia divisa l’opinione pubblica israeliana.

La sorprendente forza militare di Hamas nella Striscia di Gaza, la furiosa sollevazione dei palestinesi dopo decenni di discriminazioni e umiliazioni, l’allargarsi delle proteste in Cisgiordania, i palestinesi delusi dalla decisione di annullare le elezioni attese per quest’anno, tutto ciò ha creato il panico nel discorso pubblico israeliano, specialmente sui media.

I giornalisti israeliani critici sono stati zittiti, alcuni hanno ricevuto minacce di morte e hanno cercato la protezione di addetti alla sicurezza. Altri giornalisti, al contrario, hanno invocato più violenza, persino il massacro dei palestinesi. (Sui media, un eufemismo usato spesso per un massacro è “foto della vittoria” un’immagine simbolica di distruzione che negherebbe ai palestinesi l’opportunità di dichiarare vittoria.)

A livello tattico, le forze armate israeliane sono dotate di armi superiori, ma a livello strategico stanno perdendo legittimità internazionale. La parte israeliana è completamente prevedibile. Le operazioni militari sono dettate dagli interessi politici di Netanyahu a breve termine. Gli israeliani sono divisi internamente e paralizzati politicamente. La paura di perdere la faccia impedisce loro di cercare dei compromessi.

La parte palestinese, al contrario, è unita, ma imprevedibile e ha molte alternative su come procedere. L’operazione militare, soprannominata da Israele: “Guardiano delle Mura” è finita con un cessate il fuoco. Ma sembra che, nonostante il tremendo bilancio delle vittime palestinesi, la parte israeliana abbia perso.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La violenza fa il gioco di Netanyahu

Akiva Eldar

16 maggio 2021- Al Jazeera

Permettendo l’escalation di violenza, il primo ministro uscente sta sabotando la formazione del governo da parte dell’opposizione.

All’inizio, gli unici israeliani a dirlo forte sono stati i soliti sospetti della sinistra. Poi è stato Moshe Ya’alon, già ministro della Difesa ed ex capo di stato maggiore, a stabilire un collegamento fra gli interessi personali del primo ministro Benjamin Netanyahu e i violenti scontri che, iniziati a Gerusalemme Est, si sono poi allargati alla Striscia di Gaza, alla Cisgiordania occupata e a Israele. “L’escalation della sicurezza serve a Netanyahu e ad Hamas per ragioni di politica interna di entrambi,” ha twittato Ya’alon.

Poi persino Avigdor Lieberman, ex ministro della Difesa e fondatore del partito Yisrael Beitenu [Israele Casa Nostra, ultranazionalista laico, rappresenta soprattutto gli immigrati russi, ndt.] ha dichiarato che: “Lo scopo strategico dell’operazione [militare] è modificare in meglio l’opinione pubblica verso Netanyahu. Fino a quando Lapid ha il mandato di formare un governo, Netanyahu cercherà di estendere l’operazione.”

Infatti il primo ministro israeliano in carica non ha fatto alcuno sforzo per contenere la violenza. Il mese scorso avrebbe potuto ordinare alla polizia di rimuovere i blocchi stradali dalla Porta di Damasco, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Perché ha aspettato fino a quando non è diventata un terreno di scontro fra la polizia e centinaia di giovani palestinesi? Perché ha permesso alla polizia di gettare granate stordenti dentro la moschea di Al-Aqsa durante la preghiera?

Yair Lapid, presidente del partito Yesh Atid, già ministro delle Finanze e leader della cosiddetta “coalizione per il cambiamento”, ha dato una risposta persino prima che iniziasse l’escalation.

Poco dopo le elezioni del 23 marzo ha incontrato Benny Gantz, ministro della Difesa e capo dell’Alleanza Blu e Bianco, e, secondo Yossi Verter, giornalista di Haaretz, gli ha detto ciò che segue: “C’è una cosa che devi considerare. Se Netanyahu sente che gli sta sfuggendo di mano il governo, cercherà di creare un incidente riguardante la sicurezza. A Gaza o lungo il confine nord. Se pensa che questo sia l’unico modo per salvarsi, non esiterà un attimo.”

Durante gli ultimi due anni Netanyahu ha lottato per la sua sopravvivenza politica con tutto quello che aveva a disposizione. È stato accusato di frode e corruzione e, se perdesse il potere, dovrebbe affrontare una pesante pena detentiva.

Ora egli teme la “coalizione per il cambiamento” di cui fanno parte Lapid e Gantz e che si è formata per spodestarlo. Include anche Lieberman, di destra, Naftali Bennett, capo di Yamina, partito di destra, e Gideon Sa’ar, capo di “Nuova Speranza”, formata da fuoriusciti dal Likud, Merav Michaeli, di sinistra, leader del partito laburista [partito di centro, ndtr.], e Nitzan Horowitz, capo di Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.]. Quest’alleanza eterogenea e piuttosto fragile aveva come unico scopo la formazione di un governo che escludesse Netanyahu.

Dopo che per la quarta volta in due anni Netanyahu non è riuscito a formare un governo, il presidente ha offerto il mandato a Lapid, il leader del maggiore partito della “coalizione per il cambiamento” e che ha 17 seggi alla Knesset. La recente ondata di violenza l’ha colto mentre stava per completare i negoziati con gli altri partiti.

Fino a pochi giorni fa alla “coalizione per il cambiamento” mancavano 4 voti sui 61 necessari per compiere questa missione. Ci si aspettava che questi voti arrivassero dal partito palestinese Ra’am, guidato da Mansour Abbas che aveva promesso di unirsi a ogni coalizione politica che fosse riuscita a formare un governo.

Mentre aumentava la tensione a Gerusalemme, Ya’alon ha sollecitato i leader della “coalizione per il cambiamento” ad accelerare la formazione di un nuovo governo. Ma sembra che questo consiglio sia arrivato un po’ troppo tardi.

Il 13 maggio, il blocco è andato a pezzi. Bennett ha annunciato che stava lasciando la “coalizione per il cambiamento” per riprendere i negoziati con Netanyahu. Lapid ha detto che avrebbe continuato il tentativo di formare un governo, ma le sue alternative si sono drammaticamente ridotte.

A parte Mansour, dovrà anche convincere la Lista Unita palestinese a “rimpiazzare” il partito di Bennett. Se fallisse in meno di tre settimane, dovrebbe restituire il mandato al presidente. In questo caso, Netanyahu potrebbe guidare il Paese verso la quinta elezione in due anni e nominare nel frattempo un Procuratore generale che trovi il modo di bloccare il suo processo.

A questo punto ci si deve chiedere se la “coalizione per il cambiamento” che si appoggia sulle forze politiche palestinesi sarebbe in grado di evitare il prossimo ciclo di scontri fra l’occupante e le forze della resistenza. Può un politico palestinese-israeliano rimanere in un governo che ordina alla polizia di attaccare la moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan e manda i piloti a gettare bombe a Gaza, uccidendo bambini palestinesi innocenti?

Le differenti reazioni agli eventi attuali dimostrano l’enorme divario fra i partner potenziali della “coalizione per il cambiamento”. Se Abbas e gli altri membri palestinesi della Knesset devono prendere le distanze dai nuovi partner potenziali, i leader sionisti non possono voltare le spalle ai loro elettori che temono le raffiche di razzi di Hamas e la violenza intercomunitaria nelle città miste.

Sa’ar si è affrettato ad appellarsi a Netanyahu e Gantz affinché rispondano con forza agli attacchi contro i civili israeliani. Ha promesso che il suo partito sosterrà la forte risposta governativa a ripristinare la deterrenza. Anche Lapid ha dichiarato che sosterrà le azioni governative “nella guerra contro i nemici di Israele”. Nessuno dei leader del centro-destra ha detto una sola parola sull’origine del conflitto, né ha offerto una strategia per raggiungere un accordo politico.

L’escalation nei territori occupati è un avvertimento che la “coalizione per il cambiamento” deve innanzitutto cambiare la sua futile politica sul conflitto israelo-palestinese e la sua politica discriminatoria verso la minoranza palestinese in Israele. Gli eventi odierni ci ricordano che nessun governo israeliano può permettersi di ignorare questa questione senza danneggiare la sicurezza dei cittadini israeliani, compromettendo le relazioni con i vicini Paesi arabi e inimicandosi la comunità internazionale.

Il conflitto israelo-palestinese è come una macchina che ha solo due marce: “avanti” e “indietro”. Si deve scegliere fra queste due. Non ci sono “freno a mano” o “in folle”. Se non si fanno progressi, si è condannati ad andare indietro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Akiva Eldar è un giornalista israeliano, ex editorialista e opinionista di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I soldati israeliani uccidono una donna palestinese

Tamara Nassar

3 maggio 2021  The Electronic Intifada

Domenica un palestinese non identificato ha presumibilmente ferito tre israeliani in quella che l’esercito israeliano ha detto essere stata una sparatoria da un’auto in corsa vicino a Nablus, nella Cisgiordania occupata.

Nello stesso giorno le forze di occupazione hanno colpito a morte una donna palestinese che, a quanto sostenuto da Israele, stava tentando di attaccare i soldati ad un checkpoint militare vicino a Betlemme.

L’emittente di Stato israeliana Kan ha postato il video di una vicina videocamera di sorveglianza che pare abbia ripreso la sparatoria da un’auto in corsa presso il checkpoint all’incrocio di Tapuach vicino a Nablus.

Le immagini mostrano un SUV color argento che si avvicina ad una guardiola bianca dove delle persone stanno scaricando una macchina.

Intanto due uomini camminano verso la guardiola seguite da un soldato israeliano.

Il veicolo argentato si ferma brevemente davanti alla guardiola e sembra esserci un trambusto a seguito di un’evidente sparatoria.

Allora sembra che il soldato israeliano spari contro il veicolo, ma questo esce di scena.

Nella sparatoria sono rimasti feriti tre israeliani.

I media israeliani hanno riferito che uno di essi versa in condizioni critiche, un altro in condizioni gravi e il terzo è stato dimesso dall’ospedale.

Tutti e tre sono studenti diciannovenni del collegio religioso di Itamar, uno degli insediamenti coloniali israeliani costruiti nella Cisgiordania occupata in violazione del diritto internazionale.

I media locali hanno riferito che il veicolo sospettato di essere coinvolto è stato trovato lunedì a Aqraba, una cittadina palestinese vicino a Nablus.

Fotografie circolate sui social media mostrano le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che arrivano sulla scena, probabilmente per cercare i presunti aggressori in coordinamento con le forze di occupazione israeliane.

Il veicolo sembra essere stato dato alle fiamme poco dopo da gente del posto.

Minacce mantenute

L’esercito israeliano ha detto che avrebbe incrementato le forze in tutta la Cisgiordania occupata per cercare i presunti aggressori.

Il numero esatto delle persone coinvolte non è chiaro.

Naftali Bennett, avvocato israeliano e capo del partito di destra Yamina [La Destra, partito estremista dei coloni, ndtr.], ha detto che Israele deve rispondere “col pugno di ferro […] mantenendo la nostra presa sulla terra di Israele.”

Bennett si era in precedenza vantato di aver “ucciso un sacco di arabi”.

In risposta all’incidente il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha minacciato che Israele “colpirà duramente i nostri nemici”.

Lunedì le forze di occupazione e i coloni israeliani hanno messo in atto queste minacce.

Coloni della colonia di Shilo hanno attaccato il villaggio palestinese di Jalud vicino a Nablus palesemente per vendetta.

I coloni hanno lanciato pietre e appiccato fuochi nel villaggio e hanno forato i pneumatici di diversi veicoli della polizia israeliani.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha diffuso filmati del villaggio bruciato il giorno seguente: i coloni hanno anche infranto automobili e finestre palestinesi.

Dove era l’esercito?” ha detto B’Tselem, “C’era e si è unito agli aggressori.”

Nonostante gli aggressori del villaggio palestinese fossero i coloni, le forze israeliane hanno sparato con proiettili d’acciaio ricoperti di gomma e con altre armi contro i palestinesi.

Le forze israeliane hanno arrestato 11 palestinesi e nessun colono israeliano, secondo quanto riferisce The Times of Israel.

Donna uccisa

Intanto domenica le forze israeliane hanno colpito a morte una donna palestinese all’incrocio di Gush Etzion vicino a Betlemme.

L’esercito israeliano ha sostenuto che Fahima al-Hroub, di 60 anni, stava tentando di accoltellare dei soldati quando le hanno sparato.

Il video diffuso sui social media mostra al-Hroub che si avvicina lentamente a due soldati israeliani al checkpoint.

Porta una borsetta al braccio destro e sembra avere un oggetto nella mano sinistra, ma non è chiaro che cosa sia.

I soldati le ordinano di fermarsi e di alzare le mani, e alla fine uno di loro spara un colpo di avvertimento in aria.

Al-Hroub sembra sobbalzare al rumore dello sparo, ma continua ad avanzare lentamente verso i soldati.

La persona che sta filmando l’incidente si allontana e il momento in cui i soldati israeliani sparano a al-Hroub non appare nella ripresa.

Quando le immagini riprendono, al-Hroub è stesa a terra mentre soldati israeliani sono in piedi accanto a lei.

Uno dei soldati ha sparato a al-Hroub nella parte superiore del corpo, secondo quanto riferito dai media israeliani che hanno citato un’organizzazione medica.

Al-Hroub è stata portata al Centro Medico Shaare Zedek a Gerusalemme, dove è stata constatata la sua morte.

In nessun momento il video mostra al-Hroub abbastanza vicina ai soldati ben armati tanto da rappresentare una minaccia mortale, ed era chiaramente a diversi metri di distanza quando è stato sparato il colpo di avvertimento.

Come in altri incidenti in cui le forze di occupazione sono ricorse all’uso di forza letale contro un palestinese, i soldati palesemente non hanno cercato di bloccarla con mezzi non letali.

L’esercito ha confermato che nessun soldato israeliano è stato ferito durante l’incidente, come in molti casi precedenti in cui è stato ucciso un presunto aggressore palestinese.

L’esercito israeliano ha postato su Twitter una fotografia del coltello che a suo dire aveva al-Hroub.

Al-Hroub proveniva dal vicino villaggio di Husan.

Il mese scorso Israele ha annunciato la confisca di ampie porzioni di terra a Husan e nel villaggio adiacente di Nahalin allo scopo di espandere la colonia ebraica di Beitar Illit e la sua strada di accesso.

Il fratello di al-Hroub ha detto al quotidiano di Tel Aviv Haaretz che lei aveva dei disturbi mentali ed aveva tentato il suicidio dopo essere stata licenziata dal suo salone di bellezza a causa della pandemia da coronavirus.

Gli incidenti di domenica sono avvenuti dopo che in aprile sono circolati allarmanti video che mostrano un gran numero di giovani ebrei israeliani scatenati in tutta Gerusalemme est occupata che aggrediscono i palestinesi.

Più di 100 palestinesi sono stati feriti in seguito alle molte violenze provocate dal gruppo ebraico di estrema destra Lehava.

Tamara Nassar è vice caporedattore di The Electronic Intifada

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La “crisi politica” di Israele si aggrava in quanto Netanyahu non riesce a formare un governo entro la scadenza

Sheren Khalel, Lubna Masarwa

4 maggio 2021 Middle East Eye

Il primo ministro di lungo corso ha tentato di formare un governo di unità nazionale per mantenere il suo partito al potere

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo entro la scadenza di mezzanotte, il che potrebbe segnare l’inizio della fine del suo record di 12 anni consecutivi al potere.

Netanyahu ha avuto un mese di tempo dal presidente Reuven Rivlin per formare una coalizione di maggioranza in base ai risultati delle elezioni generali del 23 marzo – quarto inconcludente voto in Israele in meno di due anni.

Il Likud, partito di destra del primo ministro, ha ottenuto 30 seggi, più di ogni altro partito. Ma non sono sufficienti per ottenere la maggioranza in un parlamento di 120 seggi.

Dato il fallimento di Netanyahu, Rivlin può ora revocare il mandato a Netanyahu e darlo a un altro parlamentare o chiedere alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di scegliere un candidato per formare un governo.

Rivlin potrebbe anche dare a Netanyahu altre due settimane per cercare di raggiungere un accordo, come ha fatto nell’aprile 2020. Gli analisti affermano però che è improbabile: Netanyahu sembra lontano dal trovare gli appoggi di cui ha bisogno per arrivare ai 61 seggi.

Invece un probabile candidato è Yair Lapid, ex presentatore televisivo, dato che il suo partito di centro Yesh Atid è arrivato secondo alle elezioni di marzo.

Lunedì Lapid ha detto che se Netanyahu non onorerà la scadenza “ci troveremo di fronte a due opzioni: un governo di unità nazionale israeliano, solido, dignitoso e laborioso, o una quinta elezione”.

Naftali Bennett, ex protetto di Netanyahu e leader del partito dei falchi Yamina [La Destra, partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], è un altro possibile nome che Rivlin potrebbe indicare.

L’analista israeliano Meron Rapoport afferma che c’è chi ipotizza che Bennett e Lapid possano formare un governo di coalizione con Bennett in qualità di premier.

Sottolinea tuttavia che questa rimane un’assoluta incognita.

“La crisi politica in Israele continua e non siamo affatto vicini a una soluzione. Questa crisi riflette una crisi molto più profonda nella destra israeliana, che non riesce a mettersi d’accordo su nulla”, ha detto Rapoport a Middle East Eye.

La nomina a primo ministro di uno dei due pretendenti metterebbe il partito Likud di Netanyahu all’opposizione per la prima volta dal 2009. 

Se nessun altro è in grado di formare un governo, Rivlin dovrà chiedere al parlamento di trovare una via d’uscita a questa situazione di stallo. In caso contrario, si potrebbe chiedere agli israeliani di tornare alle urne per la quinta volta.

I tentativi di Netanyahu 

In vista della scadenza di martedì [4 maggio, ndtr.], Netanyahu, 71 anni, ha tentato di riunire alleati improbabili sollecitando l’estrema destra ebraica a cooperare con la Lista Araba Unita [lista islamista della minoranza araba con cittadinanza israeliana, ndtr.].

Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita, si è detto disposto a collaborare con Netanyahu se il primo ministro acconsentisse a migliorare gli standard di vita dei palestinesi che vivono in Israele – circa il 20 % della popolazione.

Il partito israeliano di [estrema] destra Sionismo Religioso, tuttavia, ha rifiutato di aderire a un governo che sia sostenuto dal partito politico palestinese conservatore.

Rapoport ha detto a MEE che il dibattito ha portato maggiore chiarezza sul rifiuto della destra israeliana nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele e della loro leadership.

“È interessante in questa crisi che ora è molto chiaro come il problema sia specificamente se accordarsi o meno con gli arabi “, ha detto Rapoport a MEE. “In passato, usavano la definizione di anti-sionisti per indicare con chi non potevano collaborare. Ma ora la questione è chiaramente se sono disposti a lavorare con gli arabi o no […] Insomma, la destra non può raggiungere un accordo perché vuole uno stato ebraico e uno stato ebraico non può essere sostenuto dagli arabi”, sostiene.

Lunedì Netanyahu ha detto di aver offerto a Bennett la possibilità di essere primo ministro prima di lui, sperando che la destra possa mantenersi al potere.

Bennett, tuttavia, non sembra affatto essersi commosso all’offerta, e ha detto di non averlo mai chiesto a Netanyahu.

“Gli ho chiesto di formare un governo, cosa che, purtroppo, non può fare”, ha detto Bennett.

Quando è diventata evidente l’improbabilità che riuscisse a formare una coalizione, Netanyahu ha anche lanciato l’idea di approvare una legge che avrebbe consentito l’elezione diretta di un primo ministro – una misura improponibile che avrebbe richiesto 61 voti alla Knesset.

La battaglia di Netanyahu per mantenere il potere è una lotta non solo per la sua eredità politica, ma probabilmente anche per la sua libertà. Sta affrontando accuse di corruzione, che lui nega, che potrebbero portarlo in prigione nel caso sia ritenuto colpevole.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




I risultati finali delle elezioni israeliane confermano la situazione di stallo

26 marzo 2021 – Al Jazeera

Il conteggio definitivo mostra il partito Likud del premier Benjamin Netanyahu e i suoi alleati otto seggi sotto la maggioranza per la guida del Paese.

I risultati finali delle elezioni hanno mostrato che Israele si trova ancora una volta in una situazione di stallo politico, dato che il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi oppositori non hanno raggiunto la maggioranza necessaria per governare.

Il voto di martedì, le quarte elezioni parlamentari in due anni in Israele, è stato generalmente visto come un referendum sull’adeguatezza di Netanyahu a governare in concomitanza con il processo per corruzione.

Egli ha posto al centro della sua campagna il grande risultato della campagna di vaccinazioni in Israele, ma è stato criticato per i precedenti passi falsi durante la pandemia e per aver rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato.

Giovedì la commissione elettorale israeliana ha dichiarato che con il 100% dei voti scrutinati il partito di destra Likud di Netanyahu e i suoi alleati naturali hanno conquistato 52 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano. Uno schieramento ideologicamente diversificato di partiti impegnati nel volerlo rimpiazzare ha conquistato 57 seggi.

Un partito di destra [Nuova Destra, ndtr.], guidato dall’ex alleato di Netanyahu Naftali Bennett, ha conquistato sette seggi e un partito arabo islamista [Lista Araba Unita, ndtr.] guidato da Mansour Abbas ne ha ottenuti quattro. Nessuno dei due partiti è legato a una coalizione, ma, date le molte rivalità in parlamento, non è chiaro se uno dei due possa concedere i propri voti per la maggioranza richiesta.

Ma giovedì il dirigente del Partito Sionista Religioso [di estrema destra, alleato di Netanyahu, ndtr.] Bezalel Smotrich ha sostenuto che “non ci sarà un governo di destra con il sostegno di Abbas”, chiudendo di fatto la porta a una possibile alleanza tra il partito islamista israeliano e quelli ebraici religiosi.

Gideon Saar, un transfuga del Likud di Netanyahu che ora è a capo di un partito con sei seggi [Nuova Speranza, ndtr.] impegnato a cacciarlo dal potere, ha dichiarato che “è chiaro che Netanyahu non ha la maggioranza per formare un governo sotto la sua guida. Ora occorre fare in modo che si possa formare un governo per il cambiamento”.

Il Likud, che ha conquistato un numero di seggi maggiore rispetto a tutti gli altri partiti, ha reagito dicendo che un tale veto sarebbe “antidemocratico”. Ha paragonato gli oppositori di Netanyahu alla dirigenza religiosa dell’Iran, acerrimo nemico di Israele, che controlla i candidati alle alte cariche.

Yohanan Plesner, presidente dell’Israel Democracy Institute [centro indipendente di ricerca e impegno dedicato al rafforzamento delle basi della democrazia israeliana, ndtr.], ha descritto la situazione di stallo come la “peggiore crisi politica israeliana degli ultimi decenni”.

“È evidente che il nostro sistema politico trova molto difficile esprimere un risultato definitivo“, ha detto Plesner.

Ha aggiunto che le debolezze intrinseche del sistema elettorale israeliano sono aggravate dal “fattore Netanyahu”: un primo ministro popolare che lotta per rimanere al potere mentre è posto in stato di accusa.

“Su tale questione gli israeliani sono divisi a metà.”

Molti degli oppositori di Netanyahu hanno iniziato a discutere la presentazione di un disegno di legge per impedire che un politico sotto accusa possa essere incaricato di formare un governo, una misura volta a escludere il primo ministro di lunga data dall’incarico. Un disegno di legge simile è stato presentato dopo le elezioni del marzo 2020, ma non è mai stato approvato.

Netanyahu è sotto processo per frode, abuso di fiducia e per tre casi di corruzione. Ha negato qualsiasi addebito e ha respinto le accuse in quanto si tratterebbe di una caccia alle streghe da parte di magistrati e organi d’informazione faziosi.

Nonostante le accuse contro di lui il partito Likud di Netanyahu ha ricevuto circa un quarto dei voti, che ne fa il più grande partito in parlamento.

In tutto 13 partiti, il numero più elevato dalle elezioni del 2003, hanno ottenuto voti sufficienti per entrare alla Knesset e rappresentano una molteplicità di tendenze ultra-ortodosse, arabe, laiche, nazionaliste e progressiste.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Con la legge dello Stato-Nazione la destra religiosa israeliana decide chi è ebreo

Etan Nechin

20 dicembre 2020 – +972

La legge israeliana sullo Stato-Nazione non vede l’ebraismo come una religione differenziata, ma come un’identità che garantisce la supremazia su altre persone, anche su altri ebrei.

Questa settimana la Corte Suprema israeliana dovrebbe tenere la prima udienza riguardo a 15 ricorsi contro la legge sullo Stato-Nazione ebraico. Approvata nel luglio 2018, la Legge Fondamentale, che ufficialmente definisce Israele come patria nazionale esclusivamente del popolo ebraico, è sempre più utilizzata per spogliare i cittadini palestinesi ed escludere la loro lingua e cultura dalla società israeliana.

In quanto autodefinitosi “Stato Ebraico”, fin dall’inizio ampie parti delle leggi israeliane, comprese quelle sulle proprietà degli assenti (1950), sul ritorno (1950) e sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (2003), si sono basate sull’esclusivismo di un determinato popolo. In questo senso la legge non è uno snaturamento, ma la continuazione delle politiche dello Stato nei confronti dei palestinesi negli ultimi settant’anni.

Eppure questa legge rappresenta nondimeno una svolta preoccupante. Mentre le ingiustizie del 1948 e dell’occupazione del 1967 erano verosimilmente dovute a circostanze storiche complesse e altre leggi discriminatorie sono state scritte in modo meno esplicito, la legge dello Stato-Nazione è un documento giuridico che evidenzia l’inequivocabile desiderio di Israele di sancire la supremazia razziale e religiosa.

Tuttavia la legge non solo rafforza la diseguaglianza sistematica, intende anche ridefinire radicalmente cosa significhi essere ebreo. Essa cementa la gerarchia razziale all’interno delle comunità ebraiche in Israele cancellando l’eredità culturale degli ebrei [originari] dei Paesi del Medio Oriente e favorendo la definizione nazionale di ebraismo rispetto ai suoi significati religiosi. Pertanto l’imminente udienza della Corte non solo sarà una lotta per l’anima di Israele come Nazione, ma per ciò che significano ebraismo ed ebraicità.

Da quando nel 1947 il primo capo del governo israeliano David Ben Gurion inviò la sua cosiddetta lettera dello “status quo” ai capi religiosi ebrei ortodossi, in Israele c’è stato un patto di lungo termine tra gruppi laici e religiosi per evitare di modificare la definizione corrente di ebraismo.

Secondo questo accordo, la società secolare avrebbe adottato restrizioni riguardo a trasporti di sabato [i precetti religiosi ortodossi vietano gli spostamenti di sabato, ndtr.], leggi relative al matrimonio e alla morte ed altre. In cambio le comunità religiose avrebbero ignorato certe deviazioni dalle norme religiose imposte dal Gran Rabbinato, la più alta autorità religiosa ebraica di Israele, come l’immigrazione di centinaia di migliaia di ebrei dall’ex-Unione Sovietica che non sono stati riconosciuti come ebrei dal rabbinato.

La definizione giuridica di chi è ebreo attraverso la legge dello Stato-Nazione porrà fine a questa situazione. Approvata dal governo più di destra e nazional-religioso nella storia del Paese, la legge mette in evidenza l’ipocrisia della destra religiosa in Israele: l’unica definizione che può proporre del fatto di essere ebreo è “non arabo”. L’ebraismo non viene definito come una religione dinamica con espressioni in tutto il mondo, ma un’identità statale che garantisce la superiorità su un popolo con fedi diverse sotto il suo potere, così come sugli ebrei che vivono fuori da Israele. In altre parole in Israele ebraismo è sinonimo di potere.

Definizione ristretta di ebraismo

Se la Corte Suprema conferma la Legge Fondamentale, Israele raggiungerà un punto di non ritorno. Non solo sancirà dal punto di vista costituzionale la supremazia razziale e religiosa, ma la legge potrebbe tagliare i legami di Israele con le comunità ebraiche nel resto del mondo, su cui per decenni lo Stato si è basato per far propendere a proprio favore l’opinione pubblica internazionale.

Per la società israeliana la “diaspora” non esiste. È significativo che in Israele l’unico viaggio all’estero approvato dallo Stato per gli studenti ebrei non sia per incontrare altri ebrei di New York o Parigi, ma ad Auschwitz. Israele vede se stesso come l’unico luogo in cui gli ebrei possono esistere e la sua ristretta definizione di ebraismo come l’unica legittima.

Allo stesso modo il rabbinato israeliano ha sempre escluso la maggior parte delle comunità ebraiche degli Stati Uniti e non riconosce l’ebraismo riformato e conservatore. Come se fosse per una coincidenza divina, lo stesso giorno in cui è stata approvata la legge dello Stato-Nazione, la polizia israeliana ha arrestato un rabbino conservatore per aver celebrato un matrimonio non riconosciuto dal rabbinato.

Il disprezzo è ripreso dai principali politici israeliani. In riferimento agli ebrei riformati e conservatori, il ministro degli Interni, l’ultraortodosso Aryeh Deri, ha affermato che “se quello è ebraismo, non ci voglio avere a che fare,” aggiungendo che gli ebrei non-ortodossi stanno portando alla fine dell’ebraismo. Il politico di estrema destra Naftali Bennett ha sostenuto che la vera minaccia che gli ebrei della diaspora devono affrontare non sono il terrorismo interno o l’Iran, ma l’assimilazione. Persino dopo il massacro della Tree of Life [sinagoga attaccata da un estremista di destra a Pittsburgh, negli USA, ndtr.] nel 2018, molti politici, pur porgendo le condoglianze, non hanno definito la Tree of Life una sinagoga.

I politici israeliani si scagliano contro l’Iran per il suo potere teocratico, ma lo stesso Israele è uno dei 22 Paesi più restrittivi al mondo dal punto di vista religioso. Quando la religione viene utilizzata come una clava politica, inevitabilmente ciò riguarda quelli che non condividono la fede; quando diventa un’ideologia di Stato, esclude le persone che non condividono tutti i suoi dogmi.

Di conseguenza, anche se cittadini ebrei e palestinesi di Israele sono in teoria liberi di seguire la propria sorte religiosa e civile, in realtà qualunque scostamento dall’ideologia dello Stato significa correre il rischio di essere privati dei propri diritti.

In Israele e all’estero spetta ad ogni ebreo opporsi a questa legge e a queste misure per fare in modo che l’ebraismo continui ad essere una religione vitale e differenziata. Se i termini “ebreo e democratico” sono sempre stati sul filo del rasoio, allora questa decisione potrebbe fare la differenza che li separerà per sempre.

Etan Nechin, che vive a New York, è uno scrittore e giornalista israeliano della The Bare Life Review, un giornale letterario di immigrati e rifugiati. I suoi testi e commenti sono comparsi su Boston Review, The Independent, Washington Post, The New York Times, Jewish Currents, Haaretz e altri.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cancellando i palestinesi, le reti sociali diffondono un segnale inquietante per il nostro avvenire

Jonathan Cook

sabato 7 novembre 2020 – Middle East Eye

Facebook, Google e Twitter non sono piattaforme neutrali. Controllano lo spazio pubblico informatico per aiutare i potenti e possono cancellare da un giorno all’altro chiunque di noi

Si può percepire un crescente malessere nei confronti dell’impatto nefasto che possono avere sulle nostre vite le decisioni prese dalle imprese che guidano le reti sociali. Benché godano di un monopolio effettivo sullo spazio pubblico virtuale, queste piattaforme sfuggono da molto tempo ad ogni serio controllo e ad ogni responsabilità.

In un nuovo documentario Netflix, The Social Dilemma [Il dilemma del social], ex-dirigenti della Silicon Valley mettono in guardia contro un avvenire distopico. Google, Facebook e Twitter hanno raccolto una grande quantità di dati che ci riguardano per prevedere e manipolare meglio i nostri desideri. I loro prodotti riformulano progressivamente le connessioni dei nostri cervelli per renderci dipendenti dagli schermi e più docili alle pubblicità. Poiché siamo chiusi dentro camere digitali di risonanza ideologica, ne conseguono una polarizzazione e una confusione sociale e politica sempre maggiori.

Come a sottolineare la presa sempre più forte che queste società tecnologiche esercitano sulle nostre vite, il mese scorso Facebook e Twitter hanno deciso di interferire apertamente sulle elezioni presidenziali americane più esplosive a memoria d’uomo censurando un articolo che avrebbe potuto nuocere alle prospettive elettorali di Joe Biden, lo sfidante democratico del presidente uscente Donald Trump.

Dato che quasi la metà degli americani si informa principalmente su Facebook, le conseguenze di una simile decisione sulla nostra vita politica non sono difficili da interpretare. Scartando ogni dibattito sulle presunte pratiche di corruzione e traffico di influenze da parte del figlio di Joe Biden, Hunter, in nome di suo padre, queste reti sociali hanno giocato un ruolo di arbitro autoritario decidendo quello che siamo autorizzati a dire e a sapere.

Il “guardiano di un monopolio” 

Il pubblico occidentale si sveglia molto in ritardo di fronte al potere antidemocratico che le reti sociali esercitano su di lui. Ma se vogliamo capire dove alla fine questo ci porta, non c’è uno studio di caso migliore del trattamento molto differenziato riservato dai giganti tecnologici agli israeliani e ai palestinesi.

Il modo in cui i palestinesi sono in rete serve da avvertimento, perché sarebbe in effetti insensato considerare queste imprese mondiali come piattaforme politicamente neutrali e le loro decisioni come puramente commerciali. Sarebbe come interpretare il loro ruolo in modo doppiamente sbagliato.

Di fatto le compagnie che guidano le reti sociali sono oggi delle reti di comunicazione monopolistiche, alla stregua delle reti elettriche, idriche o telefoniche di una ventina di anni fa. Le loro decisioni non sono quindi più delle questioni private, ma hanno enormi conseguenze sociali, economiche e politiche. È in parte la ragione per la quale il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente avviato un’azione legale contro Google, accusandolo di essere il “guardiano di un monopolio su internet”.

Google, Facebook e Twitter non hanno più diritto di decidere arbitrariamente le persone e i contenuti che ospitano sui loro siti di quanto una volta le imprese di telecomunicazioni avessero il diritto di decidere se un cliente doveva essere autorizzato a disporre di una linea telefonica.

Tuttavia, contrariamente alle compagnie telefoniche, le società alla testa delle reti sociali controllano non solo i mezzi di comunicazione, ma anche il loro contenuto. Come dimostra l’esempio dell’articolo su Hunter Biden, possono decidere se i loro clienti possono partecipare a delle discussioni pubbliche fondamentali su quelli che li governano.

Agendo in questo modo nei confronti di Hunter Biden, è come se un’azienda telefonica di una volta non solo ascoltasse le conversazioni, ma potesse anche interromperle se non le piacesse la posizione politica di un determinato cliente.

In realtà è persino peggio. Le reti sociali informano ormai gran parte della popolazione. La censura di un articolo da parte loro è simile piuttosto all’azione di una compagnia elettrica che tolga la corrente a tutti durante una trasmissione televisiva per essere sicura che nessuno la veda.

Una censura occulta

I giganti della tecnologia sono le imprese più ricche e potenti nella storia dell’umanità, la loro ricchezza si misura in centinaia, ormai migliaia, di miliardi di dollari. Ma l’argomento secondo cui sono apolitiche e hanno come solo scopo massimizzare i profitti non ha mai retto.

Hanno tutto l’interesse a promuovere responsabili politici che si schierino dalla loro parte impegnandosi a non infrangere il loro monopolio né a regolamentare le loro attività, o, meglio ancora, promettendo di indebolire gli strumenti che potrebbero impedire loro di diventare ancora più ricche e potenti.

Al contrario, i giganti della tecnologia hanno anche tutto l’interesse ad utilizzare lo spazio informatico per penalizzare e marginalizzare gli attivisti politici che rivendicano una maggiore regolamentazione delle loro attività o del mercato in generale.

A prescindere dalla spudorata eliminazione dell’articolo su Hunter Biden, che ha suscitato la collera dell’amministrazione Trump, le società alla testa delle reti sociali censurano più spesso in modo occulto. Questo potere è esercitato per mezzo di algoritmi, questi codici segreti che decidono se qualcosa o qualcuno compare nei risultati di una ricerca o sulle reti sociali. Se lo desiderano, questi titani tecnologici possono cancellare chiunque di noi da un giorno all’altro.

Non è solo paranoia politica. L’impatto sproporzionato dei cambiamenti di algoritmo sui siti “di sinistra” sul web, i più critici verso il sistema neoliberale che ha arricchito le imprese che guidano le reti sociali, è stato recentemente sottolineato dal Wall Street Journal [quotidiano USA più venduto e che si occupa principalmente di economia, ndtr.].

Il tipo sbagliato di discorso

I responsabili politici capiscono sempre di più il potere delle reti sociali, ragione per cui possono sfruttarlo al meglio per i propri fini. Dopo lo choc della vittoria elettorale di Trump alla fine del 2016, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i dirigenti di Facebook, Google e Twitter sono stati regolarmente portati davanti a commissioni parlamentari di sorveglianza.

Queste reti sociali si vedono regolarmente rimproverare dai responsabili politici di essere all’origine di una crisi di “notizie false”, una crisi in realtà molto precedente alle reti sociali, come testimonia anche troppo chiaramente la truffa da parte dei responsabili politici americani e britannici che ha messo Saddam Hussein in relazione con l’11 settembre ed affermato che l’Iraq possedeva “armi di distruzione di massa”.

I responsabili politici hanno allo stesso modo cominciato ad accusare le società di internet di “ingerenza straniera” nelle elezioni in Occidente, rimproveri in genere rivolti alla Russia, nonostante la mancanza di prove serie che confermino la maggior parte delle loro affermazioni.

Pressioni politiche vengono esercitate non per rendere le imprese più trasparenti e responsabili, ma per spingerle ad applicare in modo ancora più assiduo restrizioni contro i discorsi sbagliati, che si tratti di razzisti violenti a destra o di detrattori del capitalismo e delle politiche dei governi occidentali a sinistra.

È per questo che diventa sempre più vuota l’immagine originale delle reti sociali come luoghi neutrali di condivisione delle informazioni, come strumenti che permettono di diffondere il dibattito pubblico e incrementare l’impegno civico, o ancora di sviluppare un discorso orizzontale tra ricchi e potenti da una parte e deboli ed emarginati dall’altra.

Diritti informatici differenti

È in Israele che i rapporti tra il settore delle tecnologie e i responsabili statali sono più evidenti. Ciò ha determinato una notevole differenza nel trattamento riservato ai diritti informatici degli israeliani e dei palestinesi. La sorte dei palestinesi in rete lascia presagire un futuro in cui quelli che sono già potenti eserciteranno un controllo sempre maggiore su ciò che dobbiamo sapere e siamo autorizzati a pensare, su chi può continuare ad essere visibile e chi deve essere cancellato dalla vita pubblica.

Israele era già in buona posizione nell’utilizzo delle reti sociali prima che la maggioranza degli altri Stati avesse riconosciuto la loro importanza in materia di manipolazione degli atteggiamenti e delle percezioni della gente. Per decenni Israele ha subappaltato un programma ufficiale di hasbara, o propaganda di Stato, ai propri cittadini e ai propri sostenitori all’estero. Con l’apparizione di nuove piattaforme informatiche, questi sostenitori non vedevano l’ora di espandere il proprio ruolo.

Israele ne poteva trarre un altro beneficio. Dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza nel 1967, ha iniziato ad elaborare un discorso sulla vittimizzazione dello Stato, ridefinendo l’antisemitismo per far intendere che ormai questo male affliggesse in particolare la sinistra, e non la destra. Questo “nuovo antisemitismo” non prendeva di mira gli ebrei ma riguardava piuttosto le critiche nei confronti di Israele e il sostegno a favore dei diritti dei palestinesi.

Questo discorso molto discutibile si è dimostrato facile da sintetizzare in piccole frasi adatte alle reti sociali.

Israele definisce ancora correntemente “terrorismo” qualunque resistenza palestinese alla sua violenta occupazione o alle sue colonie illegali, descrivendo le dimostrazioni di sostegno da parte di altri palestinesi come “incitamento all’odio”. La solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi è definita “delegittimazione” ed equiparata all’antisemitismo.

Inondare internet”

Già nel 2008 si è scoperto che una lobby mediatica filo-israeliana, Camera, architettava iniziative segrete da parte di sostenitori di Israele per infiltrarsi nell’enciclopedia in rete Wikipedia per modificare delle voci e “riscrivere la storia” da un punto di vista favorevole a Israele. Poco dopo l’uomo politico Naftali Bennett [estrema destra dei coloni, ndtr.] ha contribuito a organizzare corsi di “revisione sionista” di Wikipedia.

Nel 2011 l’esercito israeliano ha dichiarato che le reti sociali costituiscono un nuovo “campo di battaglia” e ha incaricato dei “cyber-guerrieri” di condurre la battaglia in rete. Nel 2015 il ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato un centro di comando supplementare per reclutare giovani ex-soldati ed esperti tecnologici all’interno dell’Unità 8200, unità di sorveglianza informatica dell’esercito, per condurre la battaglia in rete. Molti di loro hanno in seguito creato imprese di tecnologia avanzata, per cui informatici dello spionaggio hanno fatto parte integrante del funzionamento delle reti sociali.

Act.IL, un’applicazione lanciata nel 2017, ha permesso di mobilitare i sostenitori di Israele perché si “annidassero” in siti che ospitavano critiche verso Israele o sostegno per i palestinesi. Sostenuta dal ministero degli Affari Strategici di Israele, questa iniziativa era diretta da veterani dei servizi di informazione israeliani.

Secondo Forward, rivista ebrea americana, i servizi di informazione israeliani sono in stretto rapporto con Act.IL e chiedono aiuto per ottenere che le reti sociali ritirino alcuni contenuti, in particolare dei video. “Il suo lavoro offre finora un quadro impressionante del modo in cui potrebbero plasmare delle conversazioni in rete riguardo ad Israele senza mai farsi vedere”, ha osservato Forward poco tempo dopo l’implementazione dell’applicazione. Sima Vaknin-Gil, un’ex- censore dell’esercito israeliano che all’epoca era di stanza al ministero degli Affari Strategici di Israele, ha dichiarato che l’obiettivo era di “creare una comunità di combattenti” la cui missione consisteva nell’ “inondare internet” di propaganda israeliana.

Alleati volenterosi

Grazie a vantaggi in termini di effettivi e di zelo ideologico, di esperienza tecnologica e di propaganda, di influenze nelle alte sfere a Washington e nella Silicon Valley, Israele ha rapidamente potuto trasformare le reti sociali in alleati volonterosi nella sua lotta per emarginare i palestinesi in rete.

Nel 2016 il ministero della Giustizia israeliano si vantava che Facebook, Google e YouTube “si adeguano per il 95% alle richieste israeliane di eliminazione di contenuti,” questi ultimi provenienti quasi tutti da palestinesi. Le società che dirigono le reti sociali non hanno confermato questo dato.

L’Anti-Difamation League, un’associazione della lobby filo-israeliana che è solita calunniare le organizzazioni palestinesi e i gruppi ebraici critici con Israele, nel 2017 ha creato un “centro di comando” nella Silicon Valley per sorvegliare quelli che definisce “discorsi di odio in rete”. Lo stesso anno la lobby è diventata un “Trusted Flagger ” [lett. fidato segnalatore, persona o ente di cui una rete sociale accoglie le indicazioni, ndtr.] per YouTube, cosa che significa che le sue segnalazioni su contenuti da ritirare sono diventate prioritarie.

Durante una conferenza organizzata a Ramallah nel 2018 da 7amleh, un gruppo palestinese di difesa dei diritti in rete, i rappresentanti locali di Google e Facebook non hanno affatto nascosto le rispettive priorità. Per loro era importante evitare di contrariare i governi che hanno il potere di limitare le loro attività commerciali, anche se questi governi si dedicano a sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo. In questa battaglia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha alcun peso. Israele ha messo le mani sulle infrastrutture della comunicazione e internet dei palestinesi, ne controlla l’economia e le principali risorse.

Dal 2016 il ministero della Giustizia israeliano avrebbe eliminato decine di migliaia di post da parte di palestinesi. Attraverso un processo assolutamente oscuro, Israele individua con i propri algoritmi i contenuti che ritiene “estremisti” e poi ne chiede la cancellazione. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati da Israele dopo che avevano pubblicato commenti sulle reti sociali, con la conseguenza di limitare l’attività in rete.

Alla fine dello scorso anno Human Rights Watch [nota Ong britannica che si occupa di diritti umani, ndtr.] ha informato che Israele e Facebook spesso non fanno alcuna differenza tra critiche legittime a Israele e istigazione all’odio. Al contrario, mentre Israele svolta sempre più a destra, il governo Netanyahu e le reti sociali non hanno bloccato l’ondata di messaggi in ebraico che incitano all’odio e alla violenza contro i palestinesi. Come ha rilevato 7anleh, contenuti razzisti o che incitano alla violenza contro i palestinesi sono pubblicati da israeliani quasi ogni minuto.

Account di agenzie di stampa chiusi

Oltre a cancellare decine di migliaia di post di palestinesi, Israele ha convinto Facebook a ritirare gli account delle agenzie di stampa e di giornalisti palestinesi di spicco.

Nel 2018 l’opinione pubblica palestinese si è talmente indignata che, con l’hashtag #FBcensorsPalestine, è stata lanciata una campagna di proteste in rete e di appelli al boicottaggio di Facebook.

Nello stesso modo negli Stati Uniti e in Europa è stato preso di mira l’attivismo solidale con i palestinesi. Le pubblicità di film, come i film stessi, sono stati ritirati ed eliminati dai siti web.

In settembre Zoom, un sito di videoconferenze che ha conosciuto un boom durante la pandemia di COVID-19, si è unito a YouTube e Facebook per censurare un webinar organizzato dall’università statale di San Francisco con la partecipazione di Leila Khaled, icona del movimento della resistenza palestinese, che oggi ha 76 anni.

A fine ottobre Zoom ha bloccato una seconda apparizione prevista di Khaled, questa volta in un webinar dell’università delle Hawaii e dedicato alla censura, come una serie di altri eventi organizzati negli Stati Uniti per protestare contro la sua cancellazione da parte del sito. Con un comunicato pubblicato riguardo alla giornata di lotta, i campus “si sono uniti alla campagna per resistere al soffocamento dei discorsi e delle voci palestinesi nelle imprese e nelle università.”

Questa decisione, che costituisce un attacco flagrante alla libertà accademica, sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate sulle reti sociali dal governo israeliano e da gruppi di pressione antipalestinesi, che hanno giudicato “antisemita” il webinar.

Villaggi cancellati dalla mappa

Il livello in cui la discriminazione dei giganti tecnologici contro i palestinesi è strutturale e radicato è stato messo in evidenza dalla lotta condotta da molti anni dagli attivisti per includere i villaggi palestinesi nelle mappe in rete e sui GPS, ma anche per attribuire ai territori palestinesi il nome di “Palestina”, in base al riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite.

Questa campagna segna notevolmente il passo, anche se più di un milione di persone ha firmato una petizione di protesta. Sia Google che Apple resistono strenuamente a queste richieste: centinaia di villaggi palestinesi non compaiono sulle loro mappe della Cisgiordania occupata, mentre le illegali colonie israeliane sono identificate nel dettaglio e viene loro accordato lo stesso status delle comunità palestinesi che vi si trovano.

I territori palestinesi occupati sono indicati sotto il nome di “Israele”, mentre Gerusalemme est viene presentata come la capitale unificata e indiscussa di Israele, come esso pretende, cosa che rende invisibile l’occupazione della parte palestinese della città.

Queste decisioni sono tutt’altro che neutrali sul piano politico. Da molto tempo i governi israeliani perseguono un’ideologia del “Grande Israele” che esige di cacciare i palestinesi dalle loro terre. Questo programma di spoliazione, inteso ad annettere intere parti della Cisgiordania, quest’anno è stato formalizzato dai progetti sostenuti dall’amministrazione Trump.

Nei fatti Google ed Apple sono conniventi con questa politica, contribuendo a cancellare la presenza visibile dei palestinesi nella loro patria. Come di recente hanno evidenziato George Zeidan ed Haya Haddad, due accademici palestinesi, “quando Google ed Apple cancellano dei villaggi palestinesi dal loro sistema di navigazione identificando in evidenza le colonie, si rendono complici del discorso nazionalista israeliano.”

Rapporti usciti dall’ombra

I rapporti sempre più stretti tra Israele e le imprese delle reti sociali si giocano in gran parte dietro le quinte. Ma questi legami sono usciti dall’ombra in modo decisivo lo scorso maggio, quando Facebook ha annunciato che il suo nuovo organo di vigilanza include Emi Palmor, una degli architetti della politica repressiva in rete condotta da Israele contro i palestinesi.

Questo organo di vigilanza prenderà decisioni che faranno giurisprudenza e contribuiranno a forgiare le politiche di Facebook e di Instagram in tema di censura e di libertà d’espressione. Ma in quanto ex-direttrice generale del ministero della Giustizia [israeliano], Emi Palmor non ha dimostrato alcun impegno in favore della libertà d’espressione in rete.

Al contrario: ha lavorato mano nella mano con i giganti della tecnología per censurare i post dei palestinesi e chiudere i siti d’informazione palestinesi. Ha supervisionato la trasformazione del suo dipartimento in quello che l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo Adalah ha paragonato al “ministero della Verità” orwelliano.

Le imprese tecnologiche sono ormai arbitre non dichiarate della nostra libertà d’espressione, motivate dal profitto. Non si impegnano a favore di un dibattito pubblico aperto e vivace, di una trasparenza in rete o di una maggiore partecipazione civica. Il loro unico impegno consiste nel mantenere un contesto commerciale che permetta loro di evitare che le norme decise dai principali governi danneggino il loro diritto a guadagnare dei soldi.

La nomina di Palmor evidenzia perfettamente il rapporto inficiato dalla corruzione tra il governo e le reti sociali. I palestinesi sanno benissimo come sia facile per l’industria tecnologica attenuare e far sparire le voci dei deboli e degli oppressi amplificando nel contempo quelle dei potenti.

Molti di noi potrebbero presto conoscere in rete la stessa sorte dei palestinesi.

– Jonathan Cook è un giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001. Ha scritto tre opere sul conflitto israelo-palestinese ed ha ottenuto il premio speciale del giornalismo Martha Gellhorn.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il segreto di Naftali Bennett per arrivare al potere: lui non è Netanayhu

Akiva Eldar

5 ottobre 2020 – Al Jazeera

Il declino di Netanyahu potrebbe segnare l’ascesa di un altro leader israeliano, persino più a destra di lui.

All’inizio di aprile, in seguito alle elezioni per la ventitreeesima Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], la pandemia da coronavirus ha salvato il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ha fornito al campo rivale, guidato dal capo dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz e dal leader del partito Laburista Amir Peretz una ragione o – si potrebbe affermare – una scusa per evitare le quarte elezioni in meno di due anni, formando un governo di “unità” guidato da Netanyahu.

Dopo sei mesi, 1.500 morti per la pandemia e più di 800.000 nuovi disoccupati israeliani, la fallimentare gestione della crisi da parte di Netanyahu sta rafforzando l’ascesa stellare del suo arci-nemico, Naftali Bennett, capo dell’alleanza di destra “Yamina” [Verso Destra].

Mentre Israele sta lottando per contenere una risorgente epidemia COVID-19, l’imprenditore di alta tecnologia conservatore che è entrato in politica otto anni fa sta decollando nei sondaggi.

Una recente inchiesta resa pubblica da Channel 12 [televisione privata israeliana, ndtr.] indica che, se le elezioni si dovessero tenere ora, “Yamina” di Bennett guadagnerebbe abbastanza voti da ottenere 21 seggi, un aumento significativo rispetto ai 6 che ha attualmente. Ciò suggerisce che circa mezzo milione di votanti, che equivalgono più o meno a 15 seggi alla Knesset, si sono spostati dal centro politico e dalla destra moderata verso un partito nazional-religioso che chiede l’annessione della Cisgiordania e promuove la colonizzazione, la paralisi del sistema giudiziario e la discriminazione contro le minoranze.

Yamina”, una reincarnazione del partito della Nuova Destra guidato da Bennett e dalla sua collega, la parlamentare Ayelet Shaked, nelle elezioni dell’aprile 2019 ha ottenuto meno di 140.000 voti e non è riuscita ad entrare nella Knesset. Come mai ora sta raccogliendo l’appoggio di più di 700.000 elettori?

Cosa ha portato persino il giornalista Gideon Levy, alfiere di estrema sinistra di Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], ad acclamare Bennett, il patrono delle colonie nei territori occupati, come “la prossima cosa concreta… una persona seria…che corre da un ospedale all’altro… un uomo d’azione… (che) ha delle conoscenze di epidemiologia, come ha già dimostrato nel campo della difesa e dell’educazione [Bennett è stato sia ministro della Difesa che dell’Educazione, ndtr.]”?

Di primo acchito è difficile conciliare la dichiarata preferenza di Bennett per l’annessione della Cisgiordania rispetto agli accordi di pace con gli Stati del Golfo con la sua popolarità tra una maggioranza di israeliani che esprime un ampio sostegno pubblico per tali accordi. In agosto le inchieste hanno indicato che circa l’80% degli israeliani preferisce una normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti all’annessione della Cisgiordania.

La crescente popolarità di Bennett non è dovuta ad uno spostamento ideologico. I sondaggi indicano che “Yamina” non ha preso più di sei-sette seggi dal partito Likud di Netanyahu (sceso da 36 a 29 seggi). Gli altri sono per lo più cittadini ebrei pragmatici che in precedenza hanno votato per l’alleanza Blu e Bianco di Gantz e per il partito Laburista di centro-sinistra.

Ora stanno pensando di dare il proprio voto a Bennett non perché da un momento all’altro siano diventati odiatori di arabi e a favore dell’espansione delle colonie. Di fatto molti di loro si sono uniti alle proteste contro i tentativi del governo di screditare le istituzioni giudiziarie e la polizia.

Piuttosto, il principale punto di forza di Bennett è il fatto di non essere Netanyahu. Nel suo quindicesimo anno al potere la posizione di Netanyahu come leader insostituibile si è chiaramente sgretolata. Persino tradizionali elettori del Likud non accettano più il comportamento edonistico della famiglia Netanyahu.

Solo il mese scorso, mentre gli israeliani stavano soffrendo a causa di un altro blocco totale, il primo ministro ha portato sua moglie e i due figli maggiori a Washington per la firma degli accordi di pace con gli Stati del Golfo. Si dice che si sarebbe persino portato valigie piene di vestiti sporchi per farli lavare e pulire a secco gratis durante il suo soggiorno nella residenza degli ospiti alla Casa Bianca.

Al contrario Bennett ha la reputazione di politico onesto e modesto, che si preoccupa della sicurezza e del benessere del popolo ebraico. E, in mezzo alla più grave crisi sanitaria ed economica che Israele abbia conosciuto, c’è una disperata ricerca di un politico saggio, o almeno competente, con un progetto.

Attualmente, sotto il potere di Netanyahu, c’è un secondo blocco totale in tutto il Paese senza una chiara strategia di uscita. Alcuni reparti di isolamento per il COVID-19 hanno esaurito i letti e/o il personale, mentre il sistema scolastico è allo sfascio.

Nel contempo Netanyahu è impegnato a condurre guerre personali e sta ulteriormente perfezionando le sue capacita di sopravvivenza politica per l’ultima prova – il suo tentativo di evitare un processo per corruzione.

Bennett, in quanto membro dell’opposizione parlamentare, non si deve assumere responsabilità per l’errata politica sanitaria ed economica. Non deve attraversare il campo minato della suscettibilità dei suoi alleati di coalizione, soprattutto quelli dei partiti ultraortodossi, non deve districarsi tra loro e l’interesse generale. Invece ha allestito il suo podio nel ruolo di principale critico del governo ed ha persino pubblicato un libro su come affrontare una pandemia.

Bennett beneficia anche del vuoto creatosi nel centro politico in seguito al passaggio di Blu e Bianco da oppositore ad alleato del governo.

La crescente irrilevanza politica dell’alleanza è stata chiaramente evidenziata dal fatto che Netanyahu ha tenuto i nascenti accordi con gli EAU e il Bahrein nascosti al suo ministro della Difesa e primo ministro in alternanza Gantz e al suo ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi (anche lui un alto dirigente del partito). Come prevedibile, negli attuali sondaggi Blu e Bianco è precipitato dai 35 seggi che ha nella ventunesima Knesset a un sostegno a una sola cifra.

Dopo l’esplicita sfida del deputato Ofer Shelah al leader del partito, Yair Lapid, è a rischio anche il futuro di un altro partito di centro, Yesh Atid.

Altrettanto importante rispetto ai tre fattori che hanno aiutato Bennett a trasformarsi gradualmente da leader di un piccolo partito nazional-religioso nel capo seriamente indicato come candidato a primo ministro è l’elemento che lo ostacolava: l’ideologia. La maggioranza degli ebrei israeliani, dalla destra radicale al centro, è intenzionata a designare un leader che non creda nella pace e che propugni il potere arbitrario della maggioranza e l’oppressione dei deboli.

Questo pragmatismo del centro politico non promette niente di buono per la politica israeliana. L’ascesa di Bennett, un uomo che crede nella superiorità degli ebrei e nella perpetuazione dell’occupazione e dell’oppressione del popolo palestinese, non porterà la pace, la stabilità e la prosperità a Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.


Akiva Eldar

Akiva Eldar è uno scrittore israeliano ed è un ex-editorialista e opinionista di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’opposizione israeliana è disunita quanto la coalizione di governo

Afif Abu Much

19 maggio 2020 – Al Monitor

Il nuovo governo israeliano, il più numeroso di sempre, ha prestato giuramento il 17 maggio. E’ caratterizzato da ogni sorta di ministeri di recente invenzione, come quello per la Valorizzazione e il Progresso della Comunità e quello dell’Istruzione Superiore. Nel frattempo, il partito a favore dei coloni Yamina [alleanza di partiti di destra e di estrema destra, ndtr.], guidato da Naftali Bennett [leader del partito La Casa Ebraica, ndtr.], si è trovato ad occupare i banchi dell’opposizione, un’opposizione straordinariamente diversificata. Questa include tutti, dalla Lista Unita [coalizione di partiti che rappresentano gli arabo-israeliani, ndtr.] e Meretz [partito d’ispirazione laica, sionista e socialdemocratica, ndtr.] a sinistra, Yesh Atid-Telem [partito politico centrista e laico fondato dal giornalista Yair Lapid nel 2012, ndtr.] al centro, fino a Yisrael Beitenu [nazionalista, sionista e laico, marcatamente anticlericale, ndtr.] e Yamina all’estrema destra. Ahmad Tibi, membro della Knesset, ha twittato: “Sto pensando di votare la sfiducia nei confronti dell’opposizione se includesse anche Yamina.”

La situazione solleva nuove domande. Quale sarà il ruolo della Lista Unita nell’opposizione? Ha un peso il numero di seggi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] conquistati nelle ultime elezioni? Vale la pena ricordare che, con 15 seggi, la Lista Unita è giunta molto vicino a svolgere un ruolo decisivo nel determinare chi avrebbe governato il Paese. Sarebbe successo se il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz avesse formato un governo di minoranza, dopo che la Lista Unita lo aveva appoggiato in occasione delle consultazioni del presidente [della repubblica Reuven Rivlin, ndtr.] .

La Lista Unita ha presentato, per la candidatura a presidente della Knesset, Ahmad Tibi [politico israeliano arabo-musulmano, già consigliere politico del defunto presidente palestinese Yasser Arafat, ndtr.], evidenziando la gravità delle differenze all’interno dell’opposizione. La Lista Unita ha annunciato: “Non esiste un’opposizione omogenea. Insieme al nostro elettorato abbiamo posizioni politiche che ci distinguono e ci differenziano dal resto dei partiti di opposizione”.

Nel frattempo, Yesh Atid-Telem ha proposto per la presidenza alla Knesset un’altra candidata, Karin Elharar. L’opposizione si è ovviamente spaccata, con 20 membri che hanno votato per Tibi mentre altri 23 hanno votato per Elharar. Yariv Levin, della coalizione governativa, ha raccolto i frutti e ha ottenuto la nomina.

Il membro della Knesset Jaber Asaqla, della corrente Hadash [acronimo di una formula la cui traduzione italiana è: Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza] della Lista Unita, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Non abbandoneremo i nostri principi. Non lavoreremo fianco a fianco con Yesh Atid-Telem su ogni questione.” Nel discutere gli argomenti all’ordine del giorno della Lista Unita in quanto partito di opposizione, ha affermato: “Il fatto che esista un governo di coalizione con 73 eletti rivela quanto sia pesante il lavoro che ci attende nella prossima Knesset. Il tema caldo che ci sta di fronte è l’ ’accordo del secolo’ del presidente Donald Trump, che include l’annessione di parti della Cisgiordania. Useremo tutti gli strumenti a nostra disposizione per opporci a tale progetto. Ci sono anche questioni interne, come la violenza nella società araba, la brutalità della polizia contro i cittadini arabi, la pianificazione, la realizzazione e l’abrogazione della legge “Kaminitz” [che rende più facile la demolizione di case arabe costruite senza permessi] e la legge sulla nazionalità, anche se, data la composizione dell’attuale Knesset, le possibilità che ciò accada sono scarse. E, naturalmente, non possiamo dimenticare la grave situazione economica, in particolare con la società araba che conta oltre 200.000 cittadini israeliani disoccupati”.

Questa sarà una grande sfida e fonte di notevoli frustrazioni per la Lista Unita. Può aver conquistato un numero record di seggi, ma il suo lavoro quotidiano si concentrerà più sui discorsi e sulle dichiarazioni attraverso i media che sui fatti, in quanto non ha gli strumenti sufficienti per influenzare le decisioni. Tuttavia, i suoi elettori si aspettano che il partito entri a far parte di chi prende le decisioni politiche e riesca a combinare qualcosa.

Tuttavia, non solo l’opposizione è eterogenea; lo è anche la coalizione di governo. E sono le differenze nel governo tra Likud e Blu e Bianco che potrebbero offrire alla Lista Unita alcune opportunità per incidere sul governo, specialmente quando Netanyahu avrà bisogno dei suoi voti su una questione o l’altra. Nel 2019 Netanyahu ha presumibilmente ottenuto dall’ opposizione due voti a favore del suo candidato come Revisore dei Conti dello Stato, Matanyahu Engelman. Il Likud ha affermato che i due candidati della Lista Unita hanno sostenuto tranquillamente Engelman in cambio di finanziamenti a favore di alcune località arabe.

L’opinione pubblica araba potrebbe non opporsi alla cooperazione con il governo in cambio di determinati benefici per la comunità araba. Ad esempio, esiste la risoluzione 922, nota anche come Piano Quinquennale per lo Sviluppo Economico per la Società Araba. Membri della Lista Unita hanno collaborato con i vari ministeri per portare avanti tale piano.

Yoav Stern, giornalista ed ex commentatore sulle questioni arabe per Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], ha detto ad Al-Monitor che in effetti esiste un’opportunità di collaborazione politica con il governo su ogni sorta di questioni. “Ora ci sono richieste nella società araba per una collaborazione nel processo decisionale. Una parte [della Lista Unita], ma non tutta, può finire per cooperare con il governo e con Netanyahu.” Stern ha aggiunto: “Io sostengo che la Lista Unita e i partiti di centrosinistra non abbiano ancora sfruttato appieno la quantità di preferenze all’interno della società araba, soprattutto in base al fatto che l’opinione pubblica araba vuole integrarsi nella società e influire su di essa “.

Tuttavia, è importante ricordare che Yamina si sta unendo all’opposizione, il che potrebbe cambiare i giochi per quanto riguarda la società araba. L’alleanza del 2013 tra il leader di Yesh Atid Yair Lapid e il leader di Yamina Naftali Bennett, che costrinse Netanyahu a includere entrambi nel suo governo, potrebbe essere ora riproposta, come dimostrato dalla reazione di Lapid a un post di Bennett del 13 maggio su Facebook, che annunciava l’uscita di Yamina dalla coalizione. Lapid ha risposto: “Benvenuto fratello! Il sionismo religioso avrebbe mai dovuto essere innanzitutto un giubbotto antiproiettile per chi fosse sospettato di aver commesso un delitto [in riferimento alle imputazioni per corruzione contro Netanyahu, ndtr.]”. La grande domanda è se a lungo termine Lapid preferirà unire le forze con Bennett o cooperare con la Lista Unita.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’apartheid al tempo del coronavirus

Yoav Haifawi

13 aprile 2020 – Mondoweiss

Devo dissentire dal dottor Azmi Bishara. Cercando di difendere l’ultima disastrosa risposta degli Stati capitalisti dell’Occidente alla pandemia, egli sostiene su “Arab 48” [app di notizie in arabo, ndtr.] che i governi non dovrebbero essere giudicati in base alla loro condotta durante le emergenze. Trovo che sia proprio il contrario. In molti casi abbiamo visto che in tempi normali un Paese se la può benissimo cavare senza un governo in carica. Ma una gravissima crisi mette brutalmente in evidenza molte cose sulla natura di ogni regime proprio nel momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di un buon governo che ci protegga, e tutti ne stiamo prendendo atto.

L’“Economist” [noto settimanale di economia pubblicato a Londra, ndtr.] informa che negli Stati Uniti l’EPP (Equipaggiamento Protettivo Personale), salvavita importato dal governo (attraverso la FEMA [ente federale per la gestione delle emergenze]) è affidato a distributori privati perché ci guadagnino a spese della vita delle équipe mediche in prima linea. Abbiamo visto tutti i Paesi ricchi interrompere l’esportazione di prodotti sanitari essenziali e offrire più degli altri per accaparrarsi qualunque cosa sul mercato. Quando l’Italia era nel momento peggiore della crisi, la Germania ha vietato l’esportazione di forniture mediche, ma quando la Cina ha mandato l’equipaggiamento salvavita necessario i dirigenti dell’UE hanno messo in guardia che la Cina lo stava facendo “per fini propagandistici”.

Leggere le notizie locali sul coronavirus in Israele è una storia ancora diversa. Il regime israeliano di apartheid sta dimostrando di essere assurdamente anormale persino nel più abnorme dei momenti. Qui ci sono alcuni esempi strazianti su com’è l’apartheid ai tempi del coronavirus.

Pronti a morire come Sansone

Ci sono molte notizie su come ogni Stato e ogni istituzione sanitaria oggi stia cercando ogni opportunità per comprare EPP. La Turchia è uno dei principali produttori mondiali e uno dei pochi ancora disposti a venderli, nonostante l’epidemia sia in peggioramento sul fronte interno. Bloomberg [rete televisiva di notizie economiche, ndtr.] ha riferito che la Turchia stava fornendo equipaggiamento di protezione personale a Israele, compresi maschere chirurgiche, camici e guanti sterilizzati.

Giovedì 9 aprile tre aerei israeliani dovevano prelevare le forniture mediche da un aeroporto militare turco. Ma poi pare che la Turchia abbia chiesto che in cambio Israele consentisse il passaggio di pari quantità di aiuti turchi contro il coronavirus ai palestinesi.

Sia secondo “Times of Israel” [quotidiano israeliano in rete, ndtr.] che “Arab 48” pare che venerdì 10 aprile Israele abbia rifiutato di arrendersi al “terrorismo” turco e l’equipaggiamento non è stato fornito. Come disse l’eroico “Sansone”: “Che muoia io con i tutti i palestinesi…”

Poi ieri, 12 aprile, “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato in merito a nuovi negoziati tra Israele ed Hamas relativi a uno scambio di prigionieri. Hamas ha affermato di essere pronto ad arrivare a un compromesso rispetto alle sue precedenti condizioni per proteggere prigionieri palestinesi anziani e malati dal pericolo di soccombere al coronavirus in prigione. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che, secondo “Haaretz”, i palestinesi intendono che parte dell’accordo sia che Israele fornisca alla Striscia di Gaza, tuttora assediata, un numero non specificato di ventilatori per curare i pazienti di coronavirus. Ciò che è ancora più significativo è che, secondo lo stesso articolo, fonti israeliane hanno negato (a parte ogni dettaglio riportato riguardo al previsto accordo) che potessero essere consegnati ventilatori a Gaza!

Il Mossad ruba EPP?

Molto tempo fa Yeshayahu Leibowitz [eminente intellettuale e religioso israeliano, ndtr.] ammonì che Israele sarebbe diventato uno “Stato dello Shabak” – in riferimento all’onnipotente “servizio della sicurezza generale” (GSS, Shabak [noto anche come Shin Bet, ndtr.]). Un articolo su Maariv [giornale israeliano di centro destra, ndtr.] del 27 luglio 2019 stimava che lo Shabak e il Mossad (il suo gemello, responsabile delle operazioni fuori dai confini nazionali) impieghino ognuno circa 7.000 persone e abbiano un bilancio che supera il miliardo di dollari. Mentre gli investimenti di Israele per la salute sono bassi rispetto ad altri Paesi dell’OCSE, esistono questi due mostri e si è deciso di utilizzarli per lottare contro la pandemia.

Iniziamo con il Mossad. Gli è stato affidato il compito di acquistare equipaggiamento sanitario. Secondo “the Marker” [quotidiano economico in lingua ebraica legato ad Haaretz, ndtr.] avrebbe chiesto una somma di 7 miliardi di shekel [1,8 miliardi di euro], ma per iniziare gliene sono stati dati 2,5 [640 milioni di euro]. Tuttavia non ha competenze professionali in campo medico, né esperienza particolare o infrastrutture tali da operare acquisti su larga scala e gestire procedure di importazione.

Il Mossas si è subito vantato di aver importato 100.000 test virologici da una fonte non specificata, solo per essere redarguito da un funzionario del ministero della Sanità che ha affermato che quelli non erano i test di cui c’era bisogno. Dopo che la critica è stata resa pubblica il funzionario si è affrettato a chiedere scusa, e il Mossad ha promesso di ricontrollare ciò che serve e di continuare la ricerca.

Il 6 aprile “Haaretz” ha riferito che il ministro della “Difesa” di Israele, Naftali Bennett, non ha negato, e di fatto ha implicitamente riconosciuto, che il Mossad ha rubato equipaggiamento medico da altri Paesi. Quando durante un’intervista alla radio militare gli è stato chiesto se il Mossad avesse rubato equipaggiamento sanitario relativo alla pandemia di coronavirus, Bennett ha risposto: “Non risponderò a questa domanda. Stiamo tutti operando in modo aggressivo e astuto.” (È stato riportato in inglese su Middle East Eye).

Non sorprende che il Mossad, specializzato in assassinii, spionaggio e ogni sorta di attività clandestine, faccia ricorso a metodi illegali nel suo nuovo ruolo. Ma ci si potrebbe aspettare che Bennett, che dovrebbe essere un uomo d’affari rispettabile, sia almeno sufficientemente astuto da negarlo. Tuttavia potrebbe avere una buona ragione per far credere all’opinione pubblica israeliana che il Mossad stia rubando per lei. Sulla stampa israeliana alcuni commentatori hanno affermato che dare miliardi di shekel a organismi segreti come il Mossad significa che non c’è alcun controllo su come i soldi vengano spesi. Ora, quando ci fossero delle domande in merito, Bennett potrebbe sussurrare “Shh…” e ammiccare: “Non vuoi mica svelare segreti di Stato.”

Inoltre Israele è abituato ad essere al di sopra delle leggi internazionali per tutti i suoi crimini di guerra, quindi perché dovrebbe temere di rubare equipaggiamento sanitario in giro per il mondo?

Sul ricevitore dello Shabak

Sul fronte interno, allo Shabak è stato assegnato il compito di identificare i percorsi delle persone infettate dal coronavirus e di informare quelli che sono stati in contatto perché si mettano in auto-isolamento. Per la prima volta è diventato di dominio pubblico che lo Shabak può tracciare (ora lo sta facendo in modo ufficiale) l’ubicazione di ogni persona, almeno finché la gente va in giro con il proprio cellulare.

Per i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndtr.], i continui controlli da parte dello Shabak non sono una novità. Persino ad Haifa, il luogo più pacifico sotto l’apartheid israeliana, qualunque giovane palestinese può essere invitato senza alcuna ragione a “colloqui” indiscreti da parte di ufficiali dello Shabak. Per gli attivisti politici il governatore militare (sì, ci sono governatori militari da entrambi i lati della Linea Verde) può emanare un ordine di detenzione amministrativa in base a “prove” segrete dello Shabak, in modo che al detenuto o al suo avvocato non sia consentito neppure sapere di cosa sia accusato. Funzionari dello Shabak compaiono nei tribunali sotto falso nome e alla difesa non è permesso neppure vederne il volto. Le loro parole in tribunale sono considerate indiscutibili.

Appena lo Shabak ha iniziato a prendere di mira israeliani ebrei, certo senza mandarli in prigione ma solo in auto-isolamento, improvvisamente la stampa si è riempita di articoli sui suoi errori.

Una donna aveva fatto in modo che il marito, tornato dall’estero, stesse in auto-isolamento nella loro casa, mentre lei sarebbe rimasta con i genitori per poter continuare il suo lavoro. Ma dopo essere passata per strada nei pressi della sua casa per salutare il marito che era sul balcone a distanza di sicurezza, è stata messa anche lei in auto-isolamento. Un’altra donna ha preparato una torta per un vicino in isolamento e gliel’ha lasciata vicino alla porta chiusa. Anche lei è caduta nella rete dello Shabak. Altri si sono lamentati di non riuscire a capire perché gli sia stato detto di isolarsi, in quanto non gli è stato detto con chi e quando si sarebbero incontrati.

Persone la cui vita è stata improvvisamente sconvolta senza ragione hanno chiamato il ministero della Sanità e gli è stato risposto che non ne sapevano niente, è competenza dello Shabak. Gli hanno detto che “lo Shabak non sbaglia mai.”

Alcuni hanno tentato di chiamare direttamente lo Shabak ed hanno scoperto che non c’è modo di raggiungere il servizio segreto né di presentare ricorso contro le sue decisioni.

Un caso riportato in dettaglio è quello di un medico che aveva qualche sintomo e gli è stata fatta l’analisi del coronavirus. Il test è risultato negativo (nessun virus), ma a quanto pare è stato inserito un risultato sbagliato nel sistema. Subito tramite un messaggino sul telefono è stato ordinato ai suoi parenti, vicini e colleghi di auto-isolarsi. Persino lui, con rapporti con il sistema sanitario e con il certificato di test negativo in suo possesso, ha avuto molte difficoltà a convincere le autorità a riconsiderare la decisione. Solo dopo che i media hanno messo in evidenza l’assurdità della situazione il ministero della Sanità ha ammesso l’errore.

Ciò farà sì che ogni giudice israeliano ci pensi due volte prima di basarsi sulle “prove” segrete dello Shabak per mandare in galera un palestinese? C’è da dubitarne.

La polizia aggredisce abitanti palestinesi di Giaffa

Per le normali forze di polizia israeliane la dichiarazione del blocco totale del Paese è stata un’ulteriore opportunità per maltrattare i palestinesi. Non posso qui riportare le tante violenze in Cisgiordania, dove aggressioni generalizzate contro i palestinesi da parte di coloni e soldati sono già state riportate qui il 6 aprile. Quello che è meno noto è il grave attacco avvenuto l’1 e il 2 aprile contro i palestinesi di Giaffa, una città araba che è stata annessa a Tel Aviv ed ora è sottoposta a pesanti pressioni per “ebraicizzarla/ gentrizzarla”.

La popolazione araba di Giaffa è per lo più povera e marginalizzata, e i rapporti con la polizia erano tesi anche prima della pandemia. Quando è stato decretato il blocco totale, la polizia di Tel Aviv ha avuto l’opportunità di fare una dimostrazione di forza a Giaffa come non è mai stato fatto in nessun altro quartiere. Ha provocato due giorni di estesi scontri che sono continuati fino a notte inoltrata.

Non ho potuto andare a Giaffa, ma ho parlato per telefono con un attivista del posto ed ho sentito il racconto di prima mano su come tutto è accaduto. Il primo giorno, durante quella che avrebbe dovuto essere la messa in pratica del blocco, la polizia ha iniziato ad arrestare giovani del posto. Per quanto ho sentito, ciò che ha provocato di più gli abitanti è stato il fatto che la stessa polizia non abbia dimostrato alcuna intenzione di seguire le istruzioni contro l’infezione. Si spostavano in gruppi compatti, senza mascherine e colpivano la gente a mani nude. Una donna che ha cercato di proteggere suo figlio è stata gettata a terra, la sua testa ha battuto sull’asfalto ed ha iniziato a sanguinare. Le persone in tutto il quartiere scoppiavano di rabbia, non più disposte a sopportare.

Il secondo pomeriggio alcuni attivisti hanno iniziato una veglia silenziosa contro la violenza della polizia, cercando di mantenere il distanziamento sociale stabilito, rimanendo lontani. Benché l’ordine di chiusura totale consenta specificamente le manifestazioni, la polizia ha chiesto che i dimostranti si disperdessero e subito li ha attaccati. Poi la strada è stata chiusa e gli scontri sono ripresi.

Il terzo giorno è stata la stessa dirigenza locale palestinese che ha fatto di tutto per convincere gli attivisti e la popolazione in generale a rimanere in casa. Il pericolo di infezione era troppo grande, e la violenza della polizia e le proteste contro di essa contineranno probabilmente molto dopo la pandemia.

* * *

L’apartheid ha avvelenato le nostre vite per molti anni. È ancora più pericolosa in questi tempi difficili.

Yoav Haifawi è un attivista antisionista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)