Nel primo intervento dall’inizio della guerra contro Gaza Hamas afferma che “ci sono stati errori” negli attacchi del 7 ottobre

Redazione di MEE

22 gennaio 2024 – Middle East Eye

Il movimento palestinese nega di aver aggredito deliberatamente civili nell’attacco a sorpresa e afferma che il conflitto “non è contro il popolo ebraico”

Hamas ha pubblicato un rapporto di 16 pagine sul suo attacco del 7 ottobre contro alcune comunità del sud di Israele, in cui afferma che ci sono stati “errori” ma nega di aver preso deliberatamente di mira civili. “La nostra narrazione: operazione Inondazione Al-Aqsa”, pubblicato domenica, è il primo resoconto pubblico dell’operazione da parte dell’organizzazione palestinese dall’attacco di tre mesi fa.

L’attacco a sorpresa ha ucciso 1.140 persone, circa 700 delle quali civili, e ha visto circa 240 persone prese in ostaggio a Gaza, di cui più o meno la metà rilasciate in un accordo per lo scambio di prigionieri.

Da allora incessanti bombardamenti israeliani contro la Striscia di Gaza assediata hanno ucciso più di 25.000 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Secondo alcuni resoconti, durante l’offensiva israeliana sono morti almeno 25 ostaggi.

Vorremmo chiarire… la verità su quanto è avvenuto il 7 ottobre, le ragioni che l’hanno motivato, il contesto generale relativo alla causa palestinese così come una smentita delle affermazioni israeliane, e porre i fatti nella luce giusta,” inizia il rapporto.

La parte introduttiva espone il contesto storico e attuale della situazione in Palestina, in un capitolo che spiega perché l’organizzazione ha creduto che l’attacco fosse necessario.

Evidenzia l’esproprio di terre e l’espulsione di massa dei palestinesi durante la Nakba, o “catastrofe”, del 1948 e la guerra del 1967 in Medio Oriente, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, così come delle Alture del Golan siriane e del Sinai egiziano.

Continua elencando le azioni più recenti di Israele contro i palestinesi prima del 7 ottobre, tra cui cinque guerre contro Gaza dall’inizio del nuovo secolo e la Seconda Intifada che, sostiene, hanno ucciso più di 11.000 palestinesi

Hamas afferma anche che “attraverso una vasta campagna di costruzione di colonie e l’ebreaizzazione delle terre palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme” Israele ha fatto fallire gli Accordi di Oslo e la possibilità di creare uno Stato palestinese

Il rapporto ricorda: “Solo un mese prima dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’ il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato una mappa del cosiddetto ‘Nuovo Medio Oriente’ che raffigurava ‘Israele’ esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, comprese la Cisgiordania e Gaza.”

Cita anche le incursioni israeliane nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, “aggressioni e umiliazioni” dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e i 17 anni di blocco della Striscia di Gaza.

Che cosa ci si aspettava dal popolo palestinese dopo tutto questo? Che continuasse ad aspettare e a contare sull’impotente ONU? O prendesse l’iniziativa nella difesa del popolo, delle terre, dei diritti e dei luoghi santi palestinesi, sapendo che le azioni difensive sono un diritto insito nelle leggi, norme e convenzioni internazionali?” dice.

Forse ci sono stati errori”

Riguardo agli eventi del 7 ottobre il rapporto sostiene che Hamas ha preso di mira postazioni militari israeliane e intendeva “arrestare i soldati del nemico” nel tentativo di fare pressione sulle autorità israeliane per il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi.

Evitare di arrecare danno ai civili, soprattutto bambini, donne e anziani è un impegno religioso e morale di tutti i combattenti delle Brigate Al-Qassam,” afferma, in riferimento all’ala militare di Hamas.

Insistiamo sul fatto che durante l’operazione la resistenza palestinese è stata molto disciplinata e rispettosa dei valori islamici e che i combattenti palestinesi hanno preso di mira solo i soldati dell’occupazione e quelli che hanno impugnato le armi contro il nostro popolo.”

Il rapporto aggiunge che i combattenti di Hamas hanno cercato di evitare danni ai civili “nonostante il fatto che la resistenza non possiede armi di precisione.”

Secondo i dati ufficiali israeliani durante gli attacchi tra le vittime ci sono stati più di 30 minorenni e 100 anziani, oltre a 60 lavoratori stranieri.

Se ci sono stati casi in cui sono stati presi di mira civili, ciò è avvenuto accidentalmente e nel corso di scontri con le forze dell’occupazione. A causa del rapido crollo del sistema di sicurezza israeliano e del caos provocato lungo le aree di confine con Gaza forse c’è stato qualche errore nella messa in atto dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’”.

Varie associazioni per i diritti umani hanno chiesto che Hamas, un’organizzazione bandita in molti Paesi occidentali, tra cui USA e Gran Bretagna, venga indagata per i fatti del 7 ottobre.

Amnesty International ha descritto “uccisioni deliberate di civili, rapimenti e aggressioni indiscriminate” durante l’operazione.

Amnesty afferma di aver verificato video che mostrano combattenti di Hamas rapire ed uccidere intenzionalmente civili all’interno e nei dintorni di centri abitati israeliani e analizzato video che mostrano gruppi armati che sparano contro civili durante il festival musicale Nova.

Hamas sostiene che Israele ha ucciso i suoi stessi cittadini

Hamas prosegue smentendo varie affermazioni israeliane riguardo al fatto che sono stati presi di mira i civili, comprese quelle secondo cui i miliziani palestinesi avrebbero decapitato 40 bambini, così come accuse che i combattenti palestinesi avrebbero violentato donne israeliane.

Citando articoli dei mezzi di informazione israeliani Haaretz e Yedioth Ahronoth, ipotizza anche che il 7 ottobre alcuni civili israeliani siano stati uccisi da un elicottero.

I due articoli sostengono che i combattenti di Hamas hanno raggiunto la zona della manifestazione musicale senza sapere in precedenza che ci fosse un festival, dove l’elicottero israeliano ha aperto il fuoco sia contro i miliziani di Hamas che contro i partecipanti al concerto,” afferma.

Cita la “Direttiva Hannibal”, una regola d’ingaggio israeliana che stabilirebbe che si debba evitare ad ogni costo che israeliani vengano presi di ostaggio, persino se ciò comportasse la morte della propria gente.

Hamas menziona anche il fatto che Israele abbia rivisto al ribasso i numeri delle persone uccise il 7 ottobre da 1.400 a 1.200 dopo aver scoperto che 200 corpi bruciati erano di combattenti di Hamas.

Ciò significa che chi ha ucciso i miliziani ha ucciso anche gli israeliani, dato che solo l’esercito israeliano possiede aerei da guerra che il 7 ottobre hanno ucciso, bruciato e distrutto zone israeliane,” dice l’organizzazione.

Aggiunge di avere la certezza che un’inchiesta indipendente “dimostrerebbe la verità della nostra narrazione” e proverebbe la portata delle “menzogne e informazioni fuorvianti da parte israeliana”.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei”

Più avanti nel rapporto Hamas sollecita la comunità internazionale, indicando gli USA, la Germania, il Canada e la Gran Bretagna, a sostenere gli sforzi perché tribunali internazionali indaghino le azioni di Israele.

Continua affermando che il conflitto non è con il popolo ebraico, ma con “il progetto sionista”. “Hamas non conduce una lotta contro gli ebrei in quanto tali, ma contro i sionisti che occupano la Palestina,” sostiene. “Però sono i sionisti che continuano a identificare ebraismo ed ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale.”

Aggiunge che i palestinesi si oppongono alle ingiustizie contro i civili, incluse “quelle che gli ebrei hanno subito dalla Germania nazista.

Qui ricordiamo che il problema ebraico è stato essenzialmente un problema europeo, mentre i contesti arabi e islamici sono stati, nel corso della storia, un rifugio sicuro per il popolo ebraico e per popoli di altre fedi ed etnie,” sostiene.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei in Europa per giustificare l’oppressione contro il nostro popolo in Palestina”.

Il rapporto aggiunge che in base alle leggi internazionali la resistenza armata contro l’occupazione è legittima e afferma che le lezioni della storia dimostrano che “la resistenza è l’approccio strategico e il solo modo per la liberazione e la fine dell’occupazione.”

In un altro punto il movimento dice anche di “rifiutare categoricamente” ogni piano internazionale o israeliano per il futuro di Gaza che “serva a prolungare l’occupazione” e che i palestinesi dovrebbero decidere il proprio futuro.

Chiediamo di opporsi ai tentativo di normalizzazione con l’entità israeliana ed essere a favore di un boicottaggio complessivo dell’occupazione israeliana e dei suoi sostenitori,” conclude il rapporto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici della Corte Internazionale di Giustizia?

Muhammad Jamil

16 gennaio 2024, Middle East Monitor

Nessuna sentenza però, per quanto giusta, potrà mai ripristinare lo status quo precedente al 1948.

Nessuna causa legale potrà mai abbracciare tutti i dettagli del genocidio al quale il popolo palestinese è sottoposto da più di cento anni. Tutto ebbe inizio con la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917, seguita dalla tristemente nota era del mandato britannico, fino alla Nakba del 1948 e alla Naksa del 1967 [letteralmente “la ricaduta”, la seconda diaspora palestinese successiva alla guerra del 1967, ndt.]. Continua ancora oggi con gli eventi nella Striscia di Gaza assediata e bombardata, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme. Tuttavia, la comparizione di Israele, figlio coloniale e viziato dell’Occidente, per la prima volta davanti al più alto organo giudiziario internazionale come responsabile di almeno alcuni dei suoi crimini, è una vittoria contro l’impunità con cui gli è permesso di agire.

Le migliaia di palestinesi uccisi da Israele nel corso di molti decenni non torneranno mai più in vita; chi è stato reso disabile dovrà conviverci per il resto dei suoi giorni e la Striscia di Gaza avrà bisogno di molti anni, e di miliardi di dollari, per essere di nuovo abitabile.

La causa intentata dal Sudafrica il 29 dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur rappresentando un’anteprima storica, si è concentrata su quello che viene descritto da molti come il genocidio commesso da Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Il team legale sudafricano ha fornito una sintesi degli atti criminali di Israele punibili ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948.

La CIG ha aperto il dibattito l’11 gennaio per decidere se imporre o meno le misure provvisorie richieste dal Sudafrica prima di decidere sul genocidio vero e proprio. Il Sudafrica ha chiesto nove misure provvisorie, sostanzialmente la sospensione delle operazioni militari e la protezione dei civili dalle continue uccisioni, dagli abusi fisici e psicologici e dalle torture e il rifornimento di forniture mediche, cibo e carburante. Le questioni urgenti non possono essere rinviate fino a quando il caso non sarà concluso poiché potrebbero volerci anni, durante i quali Israele avrà completato la sua missione di espellere ogni palestinese dalla Striscia di Gaza.

L’approccio della CIG non richiede una decisione sulla giurisdizione della Corte in merito al contenuto della richiesta. È sufficiente che il Tribunale si assicuri di avere una giurisdizione apparentemente ragionevole, che i requisiti dell’articolo 9 della Convenzione sul Genocidio [che prevede che le controversie siano sottoposte alla Corte su richiesta di una delle parti, ndt.] siano applicati ad entrambe le parti in causa, e che esista una relazione tra le misure provvisorie e il diritto ad essere protetti.

Il primo requisito è soddisfatto poiché il Sud Africa e Israele hanno sottoscritto la Convenzione sul Genocidio e nessuno dei due ha una riserva valida sull’articolo 9, il quale prevede che la Corte Internazionale di Giustizia sia l’autorità che dirime qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione, applicazione, o attuazione delle sue disposizioni.

Quanto al secondo requisito, l’articolo 9 prevede che affinché possa essere stabilita la giurisdizione deve esserci una chiara controversia tra le due parti in causa riguardo all’interpretazione, applicazione o attuazione dell’accordo. La controversia deve essere risolta entro la data di registrazione della causa presso la cancelleria del tribunale.

Malcolm Shaw, membro della difesa israeliana, ha cercato di dimostrare che non esisterebbe una controversia tra lo Stato del Sud Africa e Israele, sostenendo che il Sud Africa non ha avviato una corrispondenza bilaterale con Israele esprimendo le sue preoccupazioni per gli atti commessi da Israele ottemperando così alle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

L’argomentazione di Shaw è debole e priva di fondamento, poiché lo Stato del Sud Africa ha svolto un ruolo pionieristico in testa a tutti i Paesi rivelando il profondo conflitto tra Sud Africa e Israele. Oltre alla corrispondenza bilaterale sugli atti di genocidio, ha rilasciato dichiarazioni in cui denunciava i crimini di Israele e ha ritirato i suoi diplomatici da Tel Aviv, dichiarando che non può essere consentito un genocidio sotto il naso della comunità internazionale.

Inoltre, il Sudafrica, insieme a molti altri paesi, ha deferito i crimini commessi alla Corte Penale Internazionale e si è unito ai molti tentativi del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fermare i crimini che Israele sta commettendo. Le risultanti risoluzioni delle Nazioni Unite sono state criticate da Israele che ha sostenuto che sarebbero piene di odio e antisemite.

Dunque la controversia tra le due parti in causa è stata stabilita sulla base del riferimento della Corte Internazionale di Giustizia alla sua decisione sulle misure provvisorie nel caso Ucraina-Russia e nel caso Gambia-Myanmar. La Corte non si è basata solo sulla corrispondenza bilaterale, ma anche su dati giornalistici e sull’azione dello Stato a tutti i livelli, individualmente o con altri paesi, che hanno evidenziato la violazione delle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

Nella causa sul genocidio dei Rohingya, intentata dal Gambia contro il Myanmar, l’attenzione della Corte si è concentrata sul valore morale che ha spinto gli Stati a ratificare la Convenzione sul Genocidio e sull’impegno collettivo degli Stati a prevenire il genocidio. Pertanto, non è necessario che lo Stato che intenta la causa sia direttamente interessato dai presunti atti di genocidio. A questo proposito, la Corte ha affermato che le pertinenti disposizioni della Convenzione sul Genocidio sono definite come obblighi erga omnes, nel senso che qualsiasi Stato sottoscrittore della Convenzione sul genocidio, non solo lo Stato particolarmente colpito, può invocare la responsabilità di un altro Stato sottoscrittore allo scopo di verificare la presunta inadempienza dei suoi obblighi nei confronti di tutti e di porre fine a tale inadempienza.

La Corte ha debitamente concluso che il Gambia aveva prima facie la legittimazione a denunciare il conflitto con il Myanmar sulla base di presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio.

Per quanto riguarda l’ultimo requisito, cioè il collegamento tra le nove misure provvisorie richieste dal Sudafrica con i diritti da tutelare, la Corte ha potuto riscontrare che la maggior parte di questi diritti, per la loro natura, sono strettamente legati alle misure provvisorie, in particolare la sospensione delle operazioni di combattimento e il contrasto a qualsiasi atto di genocidio. Logicamente ciò significa che per fermare le uccisioni, la distruzione, gli abusi fisici o psicologici dei membri del gruppo e gli sfollamenti, e consentire il flusso di tutti i tipi di aiuti, è necessario fermare l’azione militare.

Per quanto riguarda l’elemento intenzionale che costituisce il reato di genocidio, quando viene commesso uno qualsiasi degli atti criminalizzati dalla Convenzione sul genocidio “deve esserci una provata intenzione da parte degli autori di distruggere fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” in tutto o in parte – clausola nota come “intento speciale” che è solitamente difficile da dimostrare. Nei reati ordinari il pubblico ministero deve scavare nella mente del criminale e nelle circostanze del reato per indagare su di esso e dimostrare l’intento previsto dall’accusa.

Sebbene l’intento non sia un elemento importante da dimostrare in questa fase, il Sudafrica ha presentato decine di dichiarazioni di personale militare, ministri e primo ministro israeliani dimostrando la loro tenacia e determinazione nel commettere il crimine di genocidio, rafforzato dalla massiccia quantità di omicidi e distruzione.

Shaw ha cercato piuttosto banalmente di dare poca importanza a queste affermazioni e ne ha data una diversa interpretazione. Tuttavia le azioni, le parole che le hanno supportate e le loro conseguenze dimostrano l’intenzione di Israele di commettere il genocidio.

In generale, quando la Corte considera i fatti e le prove supportati da schiaccianti statistiche, immagini, video e resoconti internazionali, si sentirà titolata rispetto all’esistenza di una sua giurisdizione di principio che le consenta di imporre misure preventive, e la Corte ne garantirà l’attuazione attraverso le misure che impone. Ciò include l’obbligo per Israele di presentare un rapporto entro una settimana dalla data della sentenza in cui spieghi quali azioni ha intrapreso per attuare quelle misure, e poi di presentare rapporti periodici entro un periodo specificato (ad esempio ogni tre mesi) per tutta la durata dell’udienza della causa originale.

Gli argomenti presentati dalla difesa israeliana ignorano e negano i fatti sul campo. Si è trattato semplicemente di una ripetizione delle falsità che abbiamo sentito durante gli oltre 100 giorni di offensiva militare israeliana contro i palestinesi a Gaza. I civili palestinesi e le infrastrutture civili sarebbero tutti militarizzati, compresi ospedali, luoghi di culto, scuole dell’UNRWA e giornalisti. Questo incolpare le vittime dell’aggressione israeliana sostanzialmente contraddice il fatto che la maggior parte dei palestinesi uccisi e feriti da Israele sono bambini e donne. Anche solo questo suggerisce con forza l’esistenza di un piano di sterminio in cui i civili vengono presi di mira deliberatamente.

Sarebbe sufficiente che i giudici valutassero i fatti a loro presentati e verificassero la presenza dei tre requisiti necessari per respingere le richieste di Israele di cancellare il caso dagli atti pubblici e per sostenere l’imposizione di tutte o della maggior parte delle misure provvisorie. Ciò accadrebbe solo se le misure dell’intesa fossero in teoria implementate e se i giudici agissero in modo indipendente senza alcuna influenza da parte dei rispettivi governi – che nominano i giudici della Corte Internazionale di Giustizia – qualunque sia la loro posizione. In altre parole, saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici?

Resta anche la questione se Israele attuerà la decisione dei giudici se andasse contro gli interessi percepiti dello Stato sionista. Che Israele sia comparso davanti alla Corte e abbia presentato la sua difesa significa che ha riconosciuto l’autorità della Corte Internazionale di Giustizia ed espresso la propria volontà di attenersi alla sua decisione. Per esperienza, però, sappiamo che Israele è abile nell’eludere e manipolare tali decisioni. Non ha remore a violare il diritto internazionale e a trattarlo con disprezzo.

Sembra che coloro che hanno sostenuto Israele nella sua offensiva genocida continueranno a farlo. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno criticato la denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che nella causa la Germania starà dalla parte di Israele. Non sarebbe sorprendente se gli Stati Uniti e il Regno Unito si unissero alla difesa di Israele. Un simile passo aumenterebbe il numero degli imputati responsabili di aver commesso il genocidio, poiché se il genocidio fosse dimostrato questi paesi sarebbero considerati complici.

Altri paesi potrebbero ora essere spinti ad unirsi al Sudafrica e presentare richieste che obblighino gli alleati di Israele a cessare il loro sostegno al genocidio. La Namibia lo ha già fatto, vittima del primo genocidio del XX secolo commesso dalla Germania nel 1904.

La storia verrebbe riscritta per far luce sull’eredità coloniale degli Stati Uniti e dell’Europa, in cui il genocidio delle popolazioni indigene ha avuto un ruolo di rilievo e le cui prove sono schiaccianti e non possono essere negate.

Vorrei esortare tutti i paesi a capire che hanno il dovere di sostenere la causa del Sudafrica con tutti i mezzi possibili. Gli Stati sottoscrittori della Convenzione sulla Prevenzione del Genocidio che non hanno una riserva sull’articolo 9 devono unirsi alla causa per ampliarne la portata e includere tutti i territori palestinesi occupati, poiché anche i crimini commessi dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme devono essere affrontati in base alla Convenzione sul Genocidio.

La priorità, tuttavia, resta quella di fermare con ogni mezzo la barbara aggressione di Israele. Dopo più di 100 giorni, non è più accettabile che 152 paesi dell’ONU siano incapaci di fare qualcosa per affrontare e fermare Israele e i suoi alleati. I Paesi arabi e islamici possono guidare questi tentativi e esserne referenti per salvare ciò che resta della Striscia di Gaza, ma devono smettere di temerne le conseguenze e abbandonare la propria debolezza. Solo allora ci riusciranno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il governo della “seconda Nakba” coglie l’attimo

Meron Rapaport

2 gennaio 2024, +972Mag

I leader israeliani esprimono esplicitamente l’intenzione di riutilizzare oggi a Gaza i metodi del 1948. Ma ciò che non riuscì a domare i palestinesi allora non ci riuscirà adesso.

All’inizio del dicembre 2022, poco prima che il governo di estrema destra israeliano prestasse giuramento e molto prima degli orrendi eventi del 7 ottobre e del brutale attacco israeliano alla Striscia di Gaza, Ameer Fakhoury e io avevamo pubblicato un articolo su queste pagine intitolato “Perché il governo della ‘seconda Nakba’ vuole rimodellare lo Stato israeliano”.

La nostra preoccupazione che questo governo volesse effettuare un’espulsione sul modello dell’esproprio di massa della Nakba del 1948 era basata sul fatto che a Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir erano stati assegnati ruoli centrali nel governo: Smotrich Ministro delle Finanze e de facto signore della Cisgiordania e Ben Gvir Ministro della Sicurezza Nazionale. Questo duo, avevamo scritto, desidera il caos, credendo che ciò “porterà al momento decisivo in cui i palestinesi si piegheranno o verranno espulsi”.

Un anno dopo i nostri peggiori timori si sono avverati: 1,9 dei 2,2 milioni di abitanti palestinesi della Striscia di Gaza sono attualmente sfollati dalle loro case – che in molti casi sono state completamente distrutte – e alti esponenti del governo israeliano stanno apertamente promuovendo e attivamente lavorando per l’espulsione di massa dall’enclave assediata.

Nei giorni scorsi Smotrich ha esposto in termini chiari la sua visione per la Striscia. “La mia richiesta è che Gaza cessi di essere un focolaio dove 2 milioni di persone crescono nell’odio e aspirano a distruggere lo Stato di Israele”, ha detto in un’intervista alla radio militare la settimana scorsa. “Se a Gaza ci fossero 100.000 o 200.000 arabi e non 2 milioni, tutto il discorso sul giorno dopo [la fine della guerra] sarebbe diverso”.

Il 1° gennaio, in una riunione della sua corrente Otzma Yehudit (Potere ebraico) alla Knesset, Ben Gvir ha proposto di “incoraggiare la migrazione degli abitanti di Gaza” come “soluzione corretta, giusta, morale e umana”, e ha fatto eco all’appello di Smotrich a ristabilire le colonie ebraiche nella Striscia. Ciò avviene dopo che a novembre due parlamentari del partito Likud di Netanyahu hanno pubblicato un articolo sul Wall Street Journal intitolato “L’Occidente dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza”.

E, come +972 e Local Call [edizione in ebraico di +972, ndt.] hanno rivelato integralmente alla fine di ottobre, il Ministero dell’Intelligence israeliano ha raccomandato il trasferimento forzato e permanente dell’intera popolazione palestinese di Gaza nella penisola del Sinai. L’Egitto, da parte sua, continua a sostenere che non consentirà alcun trasferimento di palestinesi nel suo territorio.

Non c’è nulla di nuovo nel fatto che i politici israeliani utilizzino la minaccia della Nakba come strumento politico; Fakhoury e io avevamo infatti pubblicato un altro articolo nel giugno 2022 intitolato “Come le minacce di una seconda Nabka sono diventate normali”, che descriveva dettagliatamente come la destra israeliana sia passata negli ultimi anni dal negare la Nakba al giustificarla e a usarla come rinnovata minaccia contro i palestinesi. Ora, però, questa minaccia si è trasformata da strategia retorica a realtà devastante.

Un’ “arma strategica” – e un fine

L’obiettivo dichiarato dell’esercito israeliano a Gaza è quello di mettere fuori combattimento Hamas e altri gruppi armati palestinesi. Tuttavia le sue azioni negli ultimi tre mesi attestano una campagna molto più ampia che ricorda le politiche della Nakba: espellere i civili in massa e rendere inabitabili le loro case e i loro quartieri.

Pochi giorni dopo la furia distruttiva guidata da Hamas nel sud di Israele, l’esercito israeliano ha ordinato a 1,1 milioni di palestinesi residenti nella metà settentrionale della Striscia di abbandonare le loro case e spostarsi a sud di Wadi Gaza fino a nuovo ordine – continuando a bombardare le aree in cui aveva detto loro di fuggire. Più recentemente, l’esercito ha emanato ulteriori ordini di espulsione ai palestinesi in varie parti del sud di Gaza, spingendone centinaia di migliaia verso la costa e il confine di Gaza con l’Egitto.

Il caporedattore del quotidiano progressista israeliano Haaretz Aluf Benn ha sostenuto che l’espulsione è “la principale mossa strategica di Israele” nella guerra, e che la possibilità per l’esercito di uccidere i civili che tentano di tornare a casa sarà la chiave per la vittoria di Israele. L’analista del quotidiano Middle Eastern Affairs Zvi Bar’el ha descritto in modo analogo la crisi umanitaria che Israele ha provocato a Gaza come “un’arma strategica” progettata “per imprimere nella coscienza palestinese la punizione apocalittica che dovrà affrontare chiunque d’ora in poi osi sfidare Israele”.

Israele non solo considera lo sfollamento forzato uno strumento, sembra anche considerarlo un fine in sé. Testimonianze e documenti che sono trapelati da Gaza durante questo periodo, oltre all’analisi delle immagini satellitari, suggeriscono che l’esercito israeliano stia facendo in modo che molte delle persone sfollate non abbiano una casa in cui tornare.

L’esercito ha raso al suolo interi quartieri, danneggiando o distruggendo oltre il 70% delle case di Gaza. Ha distrutto biblioteche e archivi, edifici comunali, università, scuole, siti archeologici, moschee e chiese. Anche se Israele alla fine non imporrà un’espulsione di massa dei palestinesi fuori dalla Striscia, resterà ben poco della loro vita prima di questa guerra.

Israele non ha alcun interesse che Gaza venga ricostruita”, ha detto a novembre Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, all’emittente nazionale israeliana Kan. “Una situazione di caos continuo a Gaza, simile a quella della Somalia, è qualcosa con cui Israele può convivere? Sì, Israele può conviverci. Chi vuole cambiare la situazione dovrà farlo alle nostre condizioni”.

Al di là della depravazione morale dell’idea stessa di deportare o uccidere 2 milioni di persone, il fiorire del “partito della Nakba” nella politica israeliana testimonia la povertà ideologica della società israeliana. Settantacinque anni dopo la fondazione dello Stato, l’unica cosa che la politica ebraico-israeliana ha da offrire è una seconda Nakba.

Ritornare alla strategia militare e politica fondativa del 1948, a quello stesso metodo di deportazione di massa di un intero popolo, dimostra l’instabilità e la debolezza degli altri metodi ipotizzati da Israele per affrontare la “questione palestinese” nel corso degli anni: annessione, mantenimento dello status quo, disimpegno unilaterale, “riduzione del conflitto” e persino proposte di soluzione a due Stati incentrate principalmente sugli interessi ebraici.

Inoltre, l’importanza data all’“opzione Nakba” nel discorso politico ebraico-israeliano contemporaneo testimonia ulteriormente l’eccezionalità di Israele nel mondo di oggi. Dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante alcuni casi contrari, il consenso internazionale ha ampiamente ritenuto che i trasferimenti forzati di popolazione e le espulsioni di massa non fossero più legittimi, definendoli addirittura gravi crimini internazionali.

Anche più recentemente, quando queste tattiche sono state messe in atto come in Bosnia o in Ruanda, quasi nessuno Stato ha osato dichiararle la politica ufficiale, e la comunità internazionale – anche se a volte agendo in modo atrocemente tardivo – ha generalmente lavorato per porre fine all’uso di quelle tattiche. Ma espellere i palestinesi dalle loro case e impedirne il ritorno è la più antica politica di Israele, e i suoi leader sono pronti a metterla in atto ancora una volta.

Sull’orlo dell’abisso

Il 7 ottobre è stato un momento di crisi diverso da qualsiasi cosa Israele abbia vissuto nell’ultimo mezzo secolo, o forse addirittura dal 1948. La sicurezza nazionale di Israele è collassata, insieme al senso di sicurezza personale di molti dei suoi cittadini. La ferocia degli attacchi guidati da Hamas ha suscitato un profondo desiderio di vendetta; infatti la maggior parte dell’opinione pubblica ebraica ritiene che affidarsi alle armi sia l’opzione più ragionevole.

Ma vale comunque la pena ricordare: la Nakba del 1948 non ha risolto il conflitto tra ebrei e palestinesi. Settantacinque anni dopo, Israele sta combattendo i nipoti e i pronipoti dei rifugiati palestinesi che fuggirono o furono espulsi a Gaza nel 1948 dalle loro terre all’interno di quello che divenne lo Stato di Israele.

Ora Israele sta trasformando in realtà il sogno di mettere in atto una seconda Nakba, inebriato dal proprio potere e dal vantaggio militare su Hamas, e di fatto scagionato dalla legittimità che dopo il 7 ottobre la comunità internazionale gli ha concesso di “rispondere”. Ma Israele potrebbe tornare sobrio prima del previsto.

Una “pulizia” completa dell’intera Striscia di Gaza sembra essere una missione impossibile: Hamas non si arrenderà, i palestinesi non alzeranno bandiera bianca e la crisi umanitaria porterebbe probabilmente all’intervento arabo, americano ed europeo. La questione del destino degli ostaggi israeliani rimasti a Gaza può anche complicare una linea d’azione inequivocabile, mentre la politica interna israeliana è molto meno coesa di quanto le onnipresenti manifestazioni di patriottismo possano suggerire.

Se Israele alla fine dovesse tornare sobrio, come cambierà rotta? Si può sperare che, a differenza dei casi precedenti, forse questa volta la società israeliana non ritorni semplicemente all’idea assurda di “gestire il conflitto”. Si può sperare che, soprattutto dopo aver vissuto un trauma così terribile, la società israeliana cominci a capire che un futuro sicuro in questa terra può essere garantito solo raggiungendo un qualche accordo con i palestinesi – e che la coercizione, la violenza e la supremazia non risolveranno mai il conflitto.

Ebrei e palestinesi sono oggi più vicini all’abisso di quanto lo siano stati negli ultimi 75 anni, e l’adozione da parte di Israele di una soluzione di Nakba totale potrebbe gettarvici tutti dentro. Ma è anche importante ricordare: quando ci si trova sull’orlo dell’abisso è ancora possibile intravedere l’altra sponda.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Trasferimento forzato, ‘imperativo morale’ e disprezzo coloniale

Ramona Wadi

26 dicembre 2023 Middle East Monitor

Due editoriali usciti il giorno di Natale, uno del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pubblicato sul Wall Street Journal e l’altro di Joel Roskin, geologo e geografo all’Università Bar-Ilan, apparso sul Jerusalem Post, puntano entrambi verso la pulizia etnica dei palestinesi di Gaza. Solo che la retorica di Netanyahu, non i suoi ordini, lo fa in modo leggermente meno indelicato, per compiacere l’Occidente della cui approvazione ha bisogno per distruggere completamente Gaza.

Netanyahu elenca tre prerequisiti per la “pace” e non cita gli ostaggi israeliani che restano a Gaza sotto la minaccia di essere uccisi dai bombardamenti dell’IDF. “Hamas deve essere distrutto, Gaza deve essere demilitarizzata e la società palestinese deve essere deradicalizzata.” Naturalmente Netanyahu ha bisogno della complicità internazionale e insiste che la comunità internazionale “dovrebbe incolpare Hamas per le massicce perdite civili della guerra in corso”. No, non deve. Israele sta bombardando Gaza con il pretesto di eliminare Hamas per effettuare una campagna di pulizia etnica totale contro il popolo palestinese.

Tuttavia la comunità internazionale non ha fatto altro che mercanteggiare sulle pause umanitarie e gli aiuti umanitari. Nel frattempo, a porte chiuse, il piano di Netanyahu per i palestinesi di Gaza è la “migrazione volontaria” – l’eufemismo di Israele per il trasferimento forzato, vietato dal diritto internazionale, che la comunità internazionale ha normalizzato a favore di Israele nel corso della Nakba del 1948.

Queste notizie non sorprendono, dato che il ministero israeliana dell’Intelligence ritiene che il trasferimento forzato sia l’opzione preferita, e che lo scorso novembre il parlamentare del Likud Danny Danon ha promosso la violazione del diritto internazionale a “imperativo morale” per i Paesi occidentali. Se l’Occidente probabilmente non solleverà che poche obiezioni o nessuna ai piani israeliani di trasferimento forzato, non esiste alcun imperativo morale nell’assecondare la pulizia etnica. Il problema è che la comunità internazionale non ha l’imperativo morale per fermare permanentemente la violenza coloniale israeliana perché la sua complicità è a mala pena distinguibile dalle attuali azioni di Israele.

L’editoriale di Roskin gronda odio, arroganza e ricatto, e ignora completamente la realtà politica di Gaza, incluso il rifiuto della comunità internazionale di accettare i risultati elettorali del 2006 e di avviare un dialogo con Hamas. L’Egitto, scrive Roskin, sarebbe “accolto dalla comunità internazionale quale salvatore della disperata situazione dei gazawi” se accettasse di essere complice dei piani israeliani di pulizia etnica. Roskin considera la Penisola del Sinai il luogo ideale per il “reinsediamento” dei palestinesi cacciati da Gaza dalla campagna di bombardamenti israeliani. Chiamare i trasferimenti forzati “sinceri programmi di reinserimento”, afferma Roskin, “L’obliterazione di Hamas in corso, che terrorizza i funzionari dell’Autorità Palestinese e molti abitanti di Gaza, potrebbe spianare la strada comparsa della soluzione del Sinai prospettata, se presentata in modo accorto e discreto che sia conforme alla mentalità mediorientale.”

Tutte queste parole ostili non rivelano altro che disprezzo coloniale per la popolazione indigena palestinese. I palestinesi non sarebbero forse abbastanza maturi da formare il proprio percorso politico se avessero la possibilità di farlo, invece di diventare rifugiati perpetui secondo il paradigma umanitario, tutto a beneficio di Israele? Se i palestinesi di Gaza non possono ritornare alle proprie terre e sono trasferiti a forza con la completa benedizione della comunità internazionale, Gaza potrebbe essere persa, ma non si vedrà la fine della lotta anticolonialista palestinese.

Un popolo che ricorda non può perdersi, non se sa che il colonialismo è reversibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Una rottura inevitabile: l’Operazione Al-Aqsa e la fine della partizione

Tareq Baconi 

26 novembre 2023, Al Shakaba 

L’offensiva a sorpresa di Hamas del 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo letale all’esercito e all’opinione pubblica israeliana dalla fondazione dello Stato nel 1948. Per ritorsione, Israele ha lanciato il più vasto attacco militare della storia a Gaza, distruggendo ampie parti del territorio e uccidendo oltre 14.000 palestinesi, più di un terzo dei quali minori. Con il via libera degli Stati Uniti e di gran parte dell’Europa, Israele ha portato avanti quella che studiosi ed esperti hanno definito una campagna di genocidio, cercando di sbarazzarsi dei palestinesi di Gaza con il pretesto di decimare Hamas.

La velocità con cui Israele si è mobilitato e la portata del suo attacco avvalorano la convinzione palestinese che il regime di occupazione coloniale stia attuando piani predisposti da tempo per l’espulsione di massa. Nel frattempo, i funzionari israeliani hanno utilizzato una campagna narrativa di disumanizzazione dei palestinesi per porre le basi per una giustificazione dell’immensa violenza.

In contrasto a questo scenario, questo articolo riconduce l’ultimo attacco israeliano a Gaza al suo contesto più ampio;e analizza la ghettizzazione della terra palestinese da parte di Israele attraverso la partizione in bantustan e individua l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa di Hamas come momento di rottura del sistema di partizione. È importante che si metta in primo piano la questione di ciò che verrà dopo la partizione e si ponga un freno alle crescenti possibilità di pulizia etnica dei palestinesi.

Gaza: il peggior bantustan d’Israele

Israele afferma di essere uno Stato sia ebraico che democratico, rifiutandosi di dichiarare i propri confini ufficiali e controllando totalmente un territorio all’interno dei cui confini vivono più palestinesi che ebrei. Per raggiungere questa realtà è necessaria una sofisticata struttura di ingegneria demografica, basata sulla diversificazione legale dei palestinesi e sullo stretto controllo dei loro movimenti e luoghi di residenza, confinandoli in enclave geografiche. Questo sistema è nato dall’ondata iniziale di espulsione di massa e pulizia etnica dei palestinesi avvenuta nel 1948, in cui più di 530 villaggi palestinesi furono spopolati per fare spazio ai coloni ebrei. Questa pratica coloniale di insediamento non è ancora chiusa nei libri di storia.

Ciò che i palestinesi chiamano Nakba è in corso da allora, con le quotidiane pratiche di colonizzazione di Israele che assumono forme diverse in diverse aree sotto il suo controllo. E costituisce un il pilastro centrale del regime di apartheid di Israele.

Gaza rappresenta storicamente la manifestazione più estrema del sistema israeliano di bantustan per i palestinesi. Con una delle più alte densità di popolazione del mondo, Gaza è composta prevalentemente da rifugiati espulsi dalle terre intorno alla Striscia durante l’istituzione di Israele nel 1948. In effetti, molti dei combattenti che hanno fatto irruzione nelle città israeliane il 7 ottobre sono probabilmente discendenti di rifugiati proprio da quelle terre in cui sono planati o strisciati, entrandovi per la prima volta dall’espulsione delle loro famiglie.

Dal 1948 Israele si è dedicato con impegno a recidere ogni nesso tra l’attuale resistenza anticoloniale e lo storico e corrente sistema di apartheid israeliano. Mentre molti pensano che Gaza sia sotto blocco perché governata da Hamas, Israele in realtà ha sperimentato dal 1948 un’infinità di tattiche per depoliticizzare il territorio e pacificarne la popolazione. Queste tattiche hanno incluso lo strangolamento economico e il blocco, decenni prima che Hamas fosse fondato, e senza alcun risultato.

Con la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, ai leader israeliani si è presentata un’opportunità: utilizzando la retorica del terrorismo, Israele ha posto Gaza sotto un blocco ermetico ignorando il programma politico del movimento sulla cui base era stato democraticamente eletto. Inizialmente il blocco doveva essere una tattica punitiva per forzare la capitolazione di Hamas, ma si è rapidamente trasformato in una struttura volta a contenere Hamas e a separare l’enclave costiera dal resto della Palestina. Con oltre due milioni di palestinesi invisibili dietro i muri e sotto assedio e blocco, il governo israeliano e gran parte dell’opinione pubblica israeliana – per non parlare dei leader occidentali – potevano lavarsi le mani della realtà che avevano creato.

Il blocco imposto dal regime di Israele serve all’obiettivo di contenimento sia dei palestinesi che di Hamas. Nel corso degli ultimi sedici anni, Israele ha fatto affidamento principalmente su Hamas per governare la popolazione di Gaza, pur mantenendo il controllo esterno dell’enclave. Hamas e il regime israeliano sono caduti in un equilibrio instabile, spesso sfociato in episodi di infinita violenza in cui migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Per Israele questa dinamica ha funzionato così bene che non è mai stata necessaria una strategia politica per Gaza. Come altrove in tutta la Palestina, Israele ha fatto affidamento sulla gestione dell’occupazione piuttosto che affrontarne i fattori politici, mantenendosi signore supremo dell’occupazione nelle varie enclave palestinesi governate da entità sotto il suo controllo sovrano.

L’unico obiettivo che Israele ha perseguito negli ultimi quindici anni è stato quello di cercare di garantire una relativa calma agli israeliani, in particolare a quelli che risiedono nelle aree circostanti Gaza. Lo ha fatto utilizzando una forza militare schiacciante, anche se quella calma è raggiunta a costo dell’imprigionamento di una popolazione di milioni di persone e del loro mantenimento in condizioni prossime alla fame. Gaza è stata così completamente cancellata dalla psiche israeliana che i manifestanti che marciavano per proteggere la cosiddetta democrazia israeliana all’inizio del 2023 si illudevano di fatto che democrazia e apartheid fossero verosimili compagni di letto.

Il collasso del sistema di partizioni

Quindi per la maggior parte del pubblico israeliano e dei sostenitori di Israele all’estero l’offensiva di Hamas è arrivata dal nulla. Uscendo dalla prigione, le Brigate Al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno rivelato la povertà strategica del presupposto secondo cui i palestinesi avrebbero consentito indefinitamente alla propria prigionia e sottomissione. Ancora più importante, l’operazione ha devastato la stessa fattibilità dell’approccio partizionista di Israele: la convinzione che i palestinesi possano essere dirottati nei bantustan mentre lo Stato colonizzatore continua a godere di pace e sicurezza – e persino espande le sue relazioni diplomatiche ed economiche nella regione circostante. Distruggendo l’idea che Gaza possa essere cancellata dall’equazione politica generale, Hamas ha fatto a brandelli l’illusione che la divisione etnica in Palestina sia una forma sostenibile o efficace di ingegneria demografica, per non parlare di morale o legalità.

Nel giro di poche ore dall’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, l’infrastruttura che era stata messa in atto per contenere Hamas – e con essa, per cacciare i palestinesi da Gaza – è stata distrutta davanti agli occhi spesso increduli di tutti. Mentre i combattenti di Hamas irrompevano nel territorio controllato da Israele, la collisione tra il mito di Israele come Stato democratico e la sua realtà di portatore di un violento apartheid è stata scioccante, tragica e, in definitiva, irreversibile. Di conseguenza, israeliani e palestinesi sono stati gettati in un paradigma post-partizione, in cui sia la convinzione di Israele della sostenibilità dell’ingegneria demografica sia l’infrastruttura dei bantustan utilizzata si sono rivelate temporanee e inefficaci.

Il crollo del quadro partizionista ha presentato un paradosso: da un lato, i palestinesi e i loro alleati hanno cercato di diffondere la consapevolezza che Israele è uno Stato di apartheid coloniale di insediamento. Questa consapevolezza è servita agli sforzi di alcuni volti a promuovere la decolonizzazione e il perseguimento di un sistema politico radicato nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nell’autodeterminazione. Molti palestinesi credono che il risultato della loro lotta per la liberazione sarà l’architettura politica di un tale spazio decolonizzato, una volta smantellati gli elementi centrali dell’apartheid – pulizia etnica, rifiuto di consentire il ritorno dei rifugiati e partizione.

D’altra parte, in assenza di un progetto politico in grado di sostenere questa lotta decoloniale, il collasso del 7 ottobre del sistema di partizione ha accelerato l’impegno di Israele alla pulizia etnica. Allo stesso modo ha rafforzato la convinzione fascista ed etnico-tribale secondo cui, senza partizione, solo gli ebrei possano esistere in sicurezza nella terra della Palestina colonizzata, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, il collasso delle possibilità partizioniste potrebbe aver gettato le basi per un’altra Nakba piuttosto che per un futuro decolonizzato.

I calcoli politici di Hamas

Questo paradosso spiega, in parte, il risentimento espresso nei confronti dell’offensiva di Hamas da parte anche di alcuni palestinesi che vedono nell’attacco l’inizio di un’altra crisi per la loro lotta collettiva. L’incombente possibilità di una pulizia etnica non deve essere sottovalutata, e lo sbalorditivo bilancio delle vittime che i civili di Gaza stanno sperimentando deve indurre tutti a riflettere sull’enorme costo provocato dall’operazione di Hamas, anche quando la responsabilità primaria di questa violenza ricada direttamente sul regime coloniale israeliano.

Tuttavia tale lettura travisa i calcoli politici di Hamas. Ovviamente c’è qualcosa di vero nell’insinuare che questa violenza sia stata scatenata dall’attacco di Hamas. Eppure la realtà era letale per i palestinesi anche prima dell’offensiva, anche se in misura minore di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre. Era una violenza che si era normalizzata e che, nella sua essenza, aveva lo stesso scopo: uccidere i palestinesi in massa. La violenza a cui abbiamo assistito nel 2023 non è altro che lo scatenarsi della brutalità che ha sempre costituito le basi della lotta di Israele con i palestinesi in generale, e con quelli di Gaza in particolare.

La rottura era quindi inevitabile. Il contenimento di Hamas è stato efficace, ma dato l’impegno del movimento per la liberazione palestinese e il suo fermo rifiuto di concedere il riconoscimento dello Stato di Israele, è probabile che il contenimento sia sempre temporaneo a meno che non vengano compiuti seri sforzi per affrontare i fattori politici al centro della lotta palestinese per la liberazione. Con una popolazione in crescita a Gaza e carenze di governance sempre più acute, l’idea che Hamas non ribaltasse quella realtà – soprattutto con l’estendersi dell’impunità israeliana – era miope.

Ciò di cui Hamas è responsabile, e ciò di cui i palestinesi devono ritenerli responsabili, è la misura di una pianificazione – o la sua mancanza – per il giorno successivo all’attacco. Con la consapevolezza che Hamas e altri hanno acquisito nel corso degli anni, non ci potevano essere dubbi sul fatto che l’attacco di Hamas si sarebbe tradotto in furia scatenata contro i palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Il movimento avrebbe dovuto essere – e forse lo era – preparato alla violenza che si è abbattuta successivamente su Gaza. Stabilire se i calcoli erano giusti, nonostante la tragica perdita di vite umane, è qualcosa con cui i palestinesi dovranno confrontarsi negli anni a venire.

Ipocrisia e colpe dell’Occidente

Invece di tentare di frenare l’attacco israeliano su Gaza, l’amministrazione Biden ha solo gettato benzina sul fuoco. Nel suo primo discorso dopo l’attentato, il presidente americano ha descritto Hamas come “male assoluto”, paragonandone l’offensiva a quelle dell’Isis; ha anche paragonato il 7 ottobre all’11 settembre e ha ripetutamente fatto riferimento a pretese brutalità poi ampiamente smentite per fomentare luoghi comuni orientalisti e islamofobici nel tentativo di giustificare la ferocia della risposta di Israele.

È importante notare che gli sforzi per collegare la resistenza palestinese in tutte le sue forme – pacifica o armata – al terrorismo sono molto anteriori all’attacco di Hamas. Durante la Seconda Intifada, evocare l’11 settembre da parte di Ariel Sharon trovò un pubblico ricettivo nell’amministrazione Bush, che era nelle prime fasi di elaborazione della sua dottrina di Guerra al Terrore. I mesi successivi videro Israele lanciare invasioni militari estremamente distruttive contro i campi profughi in Cisgiordania sotto il cartello della lotta al terrorismo.

Nel frattempo i principali media e gli spazi politici occidentali continuano a mancare di analisi approfondite e fondate sull’evolversi della situazione. Invece è stato proposto un imperante modello di disumanizzazione palestinese in modo così totale che qualsiasi tentativo di utilizzare le piattaforme dei media per smantellare – o semplicemente mettere in discussione – il sistema di dominio israeliano incontra reazioni perplesse e una condanna uniforme. In questa lettura Hamas avrebbe agito in modo irrazionale, i palestinesi di Gaza erano a disposizione del movimento come scudi umani e il sistema coloniale israeliano nel suo insieme era tranquillo e sostenibile prima del 7 ottobre. Queste reazioni, più che altro, segnalano l’ipocrisia occidentale e il razzismo anti-palestinese.

Ciò che è chiaro è che i leader occidentali si rifiutano pervicacemente di riconoscere l’attacco di Hamas per quello che è stato: una dimostrazione senza precedenti di violenza anticoloniale. L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata la risposta inevitabile all’incessante e interminabile provocazione di Israele con il furto di terre, l’occupazione militare, il blocco e l’assedio e la negazione del diritto fondamentale al ritorno in patria da più di 75 anni. Invece di riproporre analogie astoriche e rispolverare vecchie narrazioni, è giunto il momento che la comunità internazionale si confronti con la vera causa principale della violenza a cui stiamo assistendo: l’occupazione dei coloni israeliani e l’apartheid.

Per limitare il sangue che sarà versato quando il sistema di apartheid israeliano sarà messo in discussione, la comunità internazionale e in particolare l’Occidente devono prima fare i conti con il fatto di aver reso possibile un sistema politico etno-nazionalista che ha fatto a pezzi i diritti e le vite dei palestinesi. Il mondo deve affrontare la realtà, che le richieste politiche palestinesi non possono essere cancellate o messe da parte sotto la bandiera onnicomprensiva ma poco convincente della lotta al terrorismo. Invece di imparare la lezione, i politici occidentali sembrano contenti di servire come partner attivi nell’attuale campagna di pulizia etnica del regime israeliano: la nakba della mia generazione.

Tareq Baconi è presidente del consiglio direttivo di Al-Shabaka. È stato borsista di Al-Shabaka per la politica statunitense dal 2016 al 2017. Tareq è ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group con sede a Ramallah, e autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestine Resistance (Contenere Hamas: l’ascesa e la pacificazione della resistenza palestinese, Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi tra gli altri su London Review of Books, New York Review of Books, Washington Post, ed è di frequente cronista nei media regionali e internazionali. È redattore delle recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Una fabbrica di omicidi di massa”: sul bombardamento di Gaza pianificato da Israele

Yuval Abraham

30 novembre 2023 – +972 Magazine

Un’indagine di +972 e Local Call rivela come attacchi aerei senza freni su obiettivi non militari e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale abbiano consentito all’esercito israeliano di portare avanti la guerra più letale contro Gaza

Un’indagine di +972 Magazine e Local Call rivela come l’autorizzazione all’esercito israeliano di effettuare massicci bombardamenti di obiettivi non militari, l’allentamento dei vincoli riguardo alle possibili vittime civili e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale per generare un numero senza precedenti di potenziali obiettivi sembrano aver contribuito alla natura distruttiva delle fasi iniziali dell’attuale guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Questi fattori, come descritti da membri in servizio e in congedo dell’intelligence israeliana, hanno probabilmente avuto un ruolo nel produrre quella che è stata una delle campagne militari più letali contro i palestinesi dai tempi della Nakba del 1948.

L’indagine di +972 e Local Call si basa su conversazioni con sette membri in servizio e in congedo della comunità dell’intelligence israeliana – tra cui personale dell’intelligence militare e dell’aeronautica militare coinvolto nelle operazioni israeliane nella Striscia assediata – oltre a testimonianze, dati e documentazione palestinesi dalla Striscia di Gaza e dichiarazioni ufficiali del portavoce dell’IDF e di altre istituzioni statali israeliane.

Rispetto ai precedenti attacchi israeliani su Gaza, l’attuale guerra – che Israele ha chiamato “Operazione Spade di Ferro” e che è iniziata in seguito all’assalto guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre – ha visto l’esercito estendere in modo significativo i suoi bombardamenti su Gaza contro obiettivi di natura non prettamente militare. Questi includono abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli che secondo le fonti l’esercito definisce “obiettivi di potere” (matarot otzem).

Secondo fonti di intelligence che ne hanno avuto esperienza diretta in passato a Gaza, gli obiettivi del bombardamento di potere mirano principalmente a danneggiare la società civile palestinese: “creare uno shock” che, tra le altre cose, avrà un potente impatto per “indurre i civili a esercitare pressioni su Hamas”, come lo ha descritto una fonte.

Molti degli informatori che hanno parlato con +972 e Local Call a condizione di rimanere anonimi hanno confermato che l’esercito israeliano ha una documentazione sulla stragrande maggioranza dei potenziali obiettivi a Gaza – comprese le case – che stabilisce il numero di civili che potrebbero essere uccisi in un attacco contro un determinato obiettivo. Questa cifra viene calcolata ed è nota in anticipo ai servizi segreti dell’esercito, che sanno anche, poco prima di un attacco, quanti civili verranno sicuramente uccisi.

In un caso di cui hanno parlato le fonti il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un unico importante comandante militare di Hamas. “I numeri sono aumentati da decine di morti civili [autorizzati] in operazioni precedenti a centinaia di morti civili come danno collaterale nell’attacco contro un importante dirigente [di Hamas] “, ha detto una fonte.

“Niente accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema che morisse, che era un prezzo che valeva la pena pagare per colpire [un altro] bersaglio. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi lanciati a casaccio. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

Secondo l’inchiesta, un altro motivo del gran numero di obiettivi e dei gravissimi danni alla vita civile a Gaza è l’uso diffuso di un sistema chiamato “Habsora” (“Il Vangelo”), basato in gran parte sull’intelligenza artificiale, e può “generare” obiettivi quasi automaticamente a una velocità che supera di gran lunga quanto era possibile fare in precedenza. Questo sistema di intelligenza artificiale, come descritto da un ex ufficiale dell’intelligence, consente essenzialmente di avere una “fabbrica di omicidi di massa”.

Secondo le fonti, il crescente utilizzo di sistemi come Habsora basati sull’intelligenza artificiale permette all’esercito di effettuare attacchi su vasta scala contro edifici residenziali in cui vive un solo membro di Hamas, anche quelli in cui ci siano miliziani poco importanti di Hamas. Eppure le testimonianze dei palestinesi a Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre l’esercito ha attaccato anche molte abitazioni private in cui non risiedeva alcun membro noto o presunto di Hamas o di qualsiasi altro gruppo armato. Tali attacchi, hanno confermato fonti a +972 e Local Call, possono uccidere consapevolmente intere famiglie.

Nella maggior parte dei casi, aggiungono le fonti, nessuna attività militare viene condotta dalle case prese di mira. “Ricordo di aver pensato che era come se (i miliziani palestinesi) bombardassero tutte le case private delle nostre famiglie quando (i soldati israeliani) tornano a dormire a casa nel fine settimana,” ha osservato una fonte, critica nei confronti di questa pratica.

Un’altra fonte ha affermato che dopo il 7 ottobre un alto funzionario dell’intelligence ha detto ai suoi ufficiali che l’obiettivo era “uccidere quanti più miliziani di Hamas possibile,” per cui i criteri relativi al danno ai civili palestinesi erano significativamente allentati. Pertanto, ci sono “casi in cui bombardiamo sulla base di una localizzazione cellulare ampia del punto in cui si trova l’obiettivo, uccidendo civili. Questo viene spesso fatto per risparmiare tempo, invece di fare un po’ di lavoro in più per ottenere una localizzazione più accurata”, ha detto la fonte.

Il risultato di queste politiche è l’incredibile perdita di vite umane a Gaza dal 7 ottobre. Oltre 300 famiglie hanno perso dieci o più membri a causa dei bombardamenti israeliani negli ultimi due mesi, un numero 15 volte superiore rispetto alla cifra registrata in precedenza nella guerra più mortale di Israele contro Gaza, nel 2014. Al momento in cui scrivo, circa 15.000 palestinesi sono stati uccisi nella guerra, e continuano ad aumentare.

“Tutto ciò avviene in contrasto con il protocollo utilizzato dall’IDF in passato”, ha spiegato una fonte. “C’è la sensazione che gli alti funzionari dell’esercito siano consapevoli del loro fallimento il 7 ottobre, e siano impegnati nel fornire all’opinione pubblica israeliana un’immagine [di vittoria] che salverà la loro reputazione”.

Una scusa per provocare distruzioni”

Israele ha scatenato il suo attacco contro Gaza subito dopo l’offensiva guidata da Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele. Secondo un rapporto dell’Ong Medici per i Diritti Umani-Israele, durante quell’aggressione, sotto una pioggia di razzi, i miliziani palestinesi hanno massacrato più di 840 civili e ucciso 350 soldati e personale della sicurezza, rapendo circa 240 persone, civili e soldati, verso Gaza, e commesso violenze sessuali generalizzate, tra cui stupri.

In un primo momento dopo l’attacco del 7 ottobre i dirigenti politici israeliani hanno apertamente dichiarato che la risposta sarebbe stata di dimensioni totalmente diverse rispetto alle precedenti operazioni militari a Gaza, con l’esplicita intenzione di sradicare totalmente Hamas. “Il rilievo è dato ai danni e non all’accuratezza,” ha affermato il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari il 9 ottobre. L’esercito ha prontamente messo in pratica queste dichiarazioni.

Secondo le fonti che hanno parlato con +972 e Local Call, i bersagli colpiti dagli aerei israeliani a Gaza possono essere divisi all’incirca in quattro categorie. La prima sono gli “obiettivi tattici,” che includono consueti bersagli militari come cellule di miliziani, depositi di armi, lanciarazzi, lanciamissili anticarro, fosse di lancio, bombe di mortaio, centri di comando militari, posti di osservazione, e via di seguito.

La seconda sono gli “obiettivi sotterranei”, principalmente tunnel che Hamas ha scavato sotto i quartieri di Gaza, anche sotto abitazioni civili. Attacchi aerei contro questi bersagli possono portare al crollo delle case sopra o nei pressi dei tunnel.

La terza sono gli “obiettivi di potere”, che includono edifici alti e torri residenziali nel cuore delle città ed edifici pubblici come università, banche e uffici statali. L’idea che sta dietro al colpire tali bersagli, dicono tre fonti dell’intelligence che in passato sono stati coinvolti nella pianificazione o conduzione di attacchi contro obiettivi di potere, è che un attacco deliberato contro la società palestinese provocherà una “pressione dei civili” su Hamas.

L’ultima categoria consiste in “case private” o “case di miliziani”. L’intenzione dichiarata di questi attacchi è distruggere le abitazioni per assassinare un abitante sospettato di essere un membro operativo di Hamas o del Jihad Islamico. Tuttavia in questa guerra testimoni palestinesi affermano che alcune delle famiglie uccise non includevano alcun miliziano di quelle organizzazioni.

Nelle prime fasi dell’attuale guerra l’esercito israeliano sembra essersi occupato principalmente della terza e quarta categoria di bersagli. Secondo le affermazioni del portavoce dell’esercito l’11 ottobre, durante i primi cinque giorni di combattimenti metà degli obiettivi colpiti – 1.329 su un totale di 2.687 – erano definiti obiettivi di potere.

Ci veniva chiesto di cercare edifici alti con metà di un piano che potesse essere attribuito ad Hamas,” ha affermato una fonte che ha preso parte a precedenti offensive israeliane a Gaza. “A volte è l’ufficio di un portavoce di un gruppo di miliziani o dove si incontrano i membri operativi. Mi sono reso conto che il piano è una scusa per consentire all’esercito di provocare grandi distruzioni a Gaza. E’ quello che ci hanno detto. Se dicessero a tutto il mondo che gli uffici (del Jihad Islamico) al decimo piano non sono un obiettivo importante, ma che la sua esistenza è una giustificazione per radere al suolo l’intero grattacielo per spingere le famiglie di civili che vi vivono a far pressione sulle organizzazioni terroristiche, ciò verrebbe visto in sé come terrorismo. Quindi non lo dicono,” aggiunge la fonte.

Varie fonti che hanno prestato servizio nelle unità di intelligence dell’IDF hanno affermato che almeno fino alla guerra in corso le regole d’ingaggio dell’esercito consentivano di attaccare obiettivi di potere solo quando l’edificio era disabitato al momento dell’attacco. Tuttavia testimonianze e video da Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre alcuni di questi bersagli sono stati attaccati senza informare in precedenza gli abitanti, uccidendo di conseguenza intere famiglie.

L’attacco su vasta scala contro edifici residenziali può essere rintracciato da informazioni pubbliche e ufficiali. Secondo l’ufficio stampa del governo a Gaza – che ha fornito il bilancio dei morti da quando ha smesso di farlo il Ministero della Sanità di Gaza l’11 novembre a causa del crollo dei servizi sanitari nella Striscia – al momento della tregua temporanea iniziata il 23 novembre Israele aveva ucciso 14.800 palestinesi a Gaza. Circa 6.000 di loro erano minorenni e 4.000 donne, che insieme costituiscono più del 67% del totale. I dati forniti dal Ministero della Sanità e dall’ufficio stampa del governo – entrambi sotto l’egida del governo di Hamas – non si differenziano significativamente dalle stime israeliane.

Peraltro il Ministero della Sanità di Gaza non specifica quanti morti facessero parte dell’ala militare di Hamas o del Jihad Islamico. L’esercito israeliano stima di aver ucciso tra i 1.000 e i 3.000 miliziani palestinesi. Secondo articoli dei mezzi di comunicazione israeliani alcuni dei miliziani morti sono rimasti sepolti sotto le macerie o nel sistema di tunnel sotterranei di Hamas, e di conseguenza non sono stati inclusi nei conteggi ufficiali.

Dati dell’ONU per il periodo fino all’11 novembre, secondo cui fino a quel momento Israele aveva ucciso 11.078 palestinesi a Gaza, sostengono che almeno 312 famiglie hanno perso 10 o più membri nell’attuale attacco israeliano; per fare un confronto, durante l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014 a Gaza 20 famiglie avevano perso 10 o più membri. Secondo i dati dell’ONU almeno 189 famiglie hanno perso tra i sei e i nove membri, mentre 549 famiglie hanno perso tra le due e le cinque persone. Nessuna disaggregazione aggiornata è stata ancora fornita per i dati delle vittime resi pubblici dall’11 novembre.

I massicci attacchi contro obiettivi di potere e abitazioni private sono avvenuti nello stesso momento in cui l’esercito israeliano, il 13 ottobre, ha invitato il milione e centomila abitanti del nord della Striscia di Gaza, molti dei quali residenti a Gaza City, di lasciare le proprie case e spostarsi nel sud della Striscia. A quella data un numero record di obiettivi di potere era già stato bombardato e più di 1.000 palestinesi erano già stati uccisi, tra cui centinaia di minorenni.

Secondo l’ONU dal 7 ottobre in totale un milione e settecentomila palestinesi, la grande maggioranza della popolazione della Striscia, è stato sfollato all’interno di Gaza. L’esercito ha sostenuto che la richiesta di evacuazione del nord della Striscia intendeva proteggere le vite dei civili. Tuttavia i palestinesi vedono questo spostamento di massa come parte di una “nuova Nakba”, un tentativo di pulizia etnica di parte o di tutto il territorio.

Hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo”

Secondo l’esercito israeliano durante i primi cinque giorni di combattimenti sono state lanciate 6.000 bombe sulla Striscia, per un peso totale di circa 4.000 tonnellate. I mezzi di informazione hanno riportato che l’esercito ha spazzato via interi quartieri. Secondo il Centro Al Mezan per i Diritti Umani, con sede a Gaza, questi attacchi hanno portato alla “completa distruzione di quartieri residenziali, di infrastrutture e l’uccisione in massa di abitanti.”

Come documentato da Al Mezan e da numerose immagini provenienti da Gaza, Israele ha bombardato l’Università Islamica di Gaza, la Palestinian Bar Association [associazione di avvocati palestinesi, ndt.], un edificio dell’ONU per programmi educativi per studenti d’eccellenza, un edificio dell’impresa di telecomunicazioni palestinese, il Ministero dell’Economia Nazionale, quello della Cultura, strade e decine di grattacieli e case, soprattutto nei quartieri settentrionali di Gaza.

Il quinto giorno del conflitto il portavoce dell’IDF ha distribuito ai reporter di guerra in Israele immagini satellitari “prima e dopo” dei quartieri a nord della Striscia, come Shuja’iyya e Al-Furqan (che prende il nome da una moschea della zona) a Gaza City, che mostrano decine di case ed edifici distrutti. L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito 182 obiettivi di potere a Shuja’iyya e 312 ad Al-Furqan.

Il capo di stato maggiore dell’aviazione israeliana Omer Tishler ha detto ai giornalisti di guerra che tutti questi attacchi sono un bersaglio militare legittimo, ma anche che interi quartieri sono stati attaccati “su larga scala e non in modo chirurgico”. Notando che metà degli obiettivi militari fino all’11 ottobre erano obiettivi di potere, il portavoce dell’IDF ha detto che “quartieri che servono come covi terroristici per Hamas” sono stati attaccati e che sono stati causati danni a “centri di comando operativi”, “strutture operative” e “strutture utilizzate da organizzazioni terroristiche all’interno di edifici residenziali.” Il 12 ottobre l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso tre “importanti membri di Hamas”, due dei quali facevano parte dell’ala politica del gruppo.

Eppure, nonostante gli incontrollati bombardamenti israeliani, i danni per le infrastrutture militari di Hamas nel nord di Gaza durante i primi giorni di guerra sembrano essere stati molto ridotti. Di fatto fonti dell’intelligence hanno detto a +972 e Local Call che i bersagli militari che facevano parte di obiettivi di potere erano stati precedentemente utilizzati molte volte come foglie di fico per colpire la popolazione civile. “Hamas è ovunque a Gaza, non c’è edificio che non abbia al suo interno qualcosa di Hamas, così se vuoi trovare un modo per trasformare un grattacielo in bersaglio riuscirai a farlo,” ha detto un ex-ufficiale dell’intelligence.

Non colpiranno mai semplicemente un grattacielo che non abbia qualcosa che si possa definire obiettivo militare,” ha detto un’altra fonte dell’intelligence, che ha in precedenza effettuato attacchi contro obiettivi di potere. “Ci sarà sempre un piano (associato ad Hamas) in un edificio alto. Ma, quando si tratta di obiettivi di potere, per lo più è chiaro che il bersaglio non ha un valore militare che giustifichi un attacco che demolisce un intero edificio vuoto in mezzo a una città, con l’intervento di sei aerei e bombe che pesano parecchie tonnellate.”

In effetti, secondo fonti che sono state coinvolte nel designare obiettivi di potere in guerre precedenti, benché la documentazione sul bersaglio in genere contenga un qualche tipo di presunto rapporto con Hamas o altre organizzazioni di miliziani, colpire l’obiettivo funziona principalmente come un “mezzo che consente di danneggiare la società civile”. Le fonti si rendono conto, alcune esplicitamente e altre implicitamente, che il vero scopo di questi attacchi è danneggiare i civili.

Nel maggio 2021, per esempio, Israele è stato duramente criticato per aver bombardato la Torre Al-Jalaa, che ospitava importanti mezzi di informazione internazionali come Al Jazeera, AP e AFP [una agenzia di stampa statunitense e l’altra francese, ndt.]. L’esercito ha sostenuto che l’edificio era un obiettivo militare di Hamas; alcune fonti hanno detto a +972 e Local Call che di fatto si trattava di un obiettivo di potere.

La sensazione è che quando vengono demoliti grattacieli ciò colpisce realmente Hamas perché crea una reazione dell’opinione pubblica nella Striscia di Gaza e spaventa la popolazione,” ha affermato un’altra fonte. “Vogliono dare ai cittadini di Gaza la sensazione che Hamas non ha il controllo della situazione. A volte hanno demolito edifici, a volte il servizio postale ed edifici governativi.”

Benché attaccare più di 1.000 obiettivi di potere in cinque giorni non abbia precedenti per l’esercito israeliano, l’idea di provocare una massiccia devastazione di zone civili per obiettivi strategici era stata formulata in precedenti operazioni a Gaza, perfezionata dalla cosiddetta “Dottrina Dahiya” nella seconda guerra del Libano nel 2006. Secondo questa dottrina, sviluppata dall’ex-capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e fa parte dell’attuale gabinetto di guerra, in una guerra contro gruppi di guerriglieri come Hamas o Hezbollah Israele deve fare uso di una forza sproporzionata e schiacciante prendendo di mira infrastrutture civili e statali come deterrente per obbligare la popolazione civile a fare pressione sui gruppi armati perché pongano fine ai loro attacchi. Il concetto di “obiettivi di potere” sembra derivare proprio da questa logica.

La prima volta che l’esercito israeliano ha pubblicamente definito degli obiettivi di potere a Gaza è stato alla fine dell’operazione “Margine protettivo” nel 2014. L’esercito bombardò quattro edifici durante gli ultimi quattro giorni di guerra, tre residenziali a più piani a Gaza City e un grattacielo a Rafah. All’epoca l’apparato di sicurezza spiegò che gli attacchi intendevano comunicare ai palestinesi di Gaza che “niente è più immune,” e mettere pressione su Hamas perché accettasse il cessate il fuoco. “Le prove che abbiamo raccolto mostrano che la distruzione massiccia (degli edifici) venne realizzata deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare,” affermò un rapporto di Amnesty alla fine del 2014.

Durante un’altra escalation di violenza iniziata nel novembre 2018 l’esercito attaccò di nuovo obiettivi di potere. Quella volta Israele bombardò grattacieli, centri commerciali ed edifici della stazione televisiva Al-Aqsa, affiliata ad Hamas. “Attaccare obiettivi di potere produce un effetto veramente notevole sull’avversario,” affermò all’epoca un ufficiale dell’aeronautica. “Lo abbiamo fatto senza uccidere nessuno e ci siamo accertati che l’edificio e i dintorni fossero stati evacuati.”

Precedenti operazioni hanno dimostrato anche come colpire questi bersagli intenda non solo danneggiare il morale dei palestinesi, ma anche alzare il morale in Israele. Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che durante l’operazione “Guardiano delle Mura” del 2021 l’unità portavoce dell’IDF ha condotto un’operazione psicologica sui cittadini israeliani per promuovere la consapevolezza delle operazioni dell’esercito a Gaza e il danno che avevano causato ai palestinesi. Soldati che utilizzavano falsi account sulle reti sociali per occultare l’origine della campagna pubblicarono immagini e brevi video degli attacchi dell’esercito a Gaza su Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per dimostrare all’opinione pubblica israeliana la potenza dell’esercito.

Durante l’attacco del 2021 Israele colpì nove obiettivi definiti di potere, tutti edifici alti. “Lo scopo era di far crollare grattacieli per mettere Hamas sotto pressione anche in modo che l’opinione pubblica (israeliana) vedesse un’immagine di vittoria,” ha detto a +972 e Local Call una fonte della sicurezza.

Tuttavia, ha proseguito, “non ha funzionato. Essendo uno di quelli che ha perseguito Hamas, ho sentito personalmente quanto poco si preoccupino dei civili e degli edifici distrutti. A volte l’esercito ha trovato nei grattacieli qualcosa di relativo ad Hamas, ma sarebbe stato anche possibile colpire quel determinato bersaglio con armi più appropriate. Il risultato finale è che hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo.”

Stavano tutti cercando i propri figli in quei mucchi”

Non solo l’attuale guerra ha visto Israele attaccare un numero senza precedenti di obiettivi di potere, ha anche visto l’esercito abbandonare precedenti politiche tese a evitare di danneggiare i civili. Mentre prima la procedura ufficiale dell’esercito era che si potevano attaccare obiettivi di potere solo dopo che tutti i civili erano scappati, testimonianze di abitanti palestinesi a Gaza indicano che dal 7 ottobre Israele ha attaccato grattacieli con dentro chi ci abitava o senza aver fatto significativi passi per evacuarli, determinando la morte di molti civili.

Molto spesso questi attacchi hanno come risultato l’uccisione di intere famiglie, come successo in precedenti offensive; secondo una ricerca dell’AP [Associated Press, agenzia di stampa USA, ndt.] condotta dopo la guerra del 2014, circa l’89% di quanti vennero uccisi dai bombardamenti aerei di abitazioni civili erano abitanti disarmati e molti di loro minori e donne.

Tishler, il capo di stato maggiore dell’Aviazione, ha confermato un cambiamento della politica, dicendo ai giornalisti che la politica dell’esercito di “bussare sul tetto” – in base alla quale avrebbe sparato un colpo di avvertimento iniziale sul tetto di un edificio per avvertire gli abitanti che stava per essere bombardato – non viene più utilizzata “dove c’è un nemico”. Bussare sul tetto, ha affermato Tishler, è “un termine importante in una serie (di scontri) e non per una guerra.”

Le fonti che hanno lavorato in precedenza sugli obiettivi di potere hanno affermato che questa strategia senza freni dell’attuale guerra potrebbe rappresentare uno sviluppo pericoloso, spiegando che attaccare obiettivi di potere in origine intendeva “scioccare” Gaza, ma non necessariamente uccidere un grande numero di civili. “I bersagli erano concepiti con l’assunto che i grattacieli sarebbero stati evacuati dalle persone, quindi quando ci lavoravamo (sulla compilazione dei bersagli) non c’erano preoccupazioni relative a quanti civili sarebbero stati colpiti; il presupposto era che non ce ne sarebbero stati,” ha detto una fonte esperta in questo tipo di azioni.

Ciò significava che c’era stata un’evacuazione totale (dell’edificio preso di mira), che implica due o tre ore di tempo, durante le quali agli abitanti viene chiesto (per telefono di andarsene), vengono lanciati missili di avvertimento; facevamo anche un controllo incrociato con riprese dai droni che le persone stessero effettivamente lasciando il grattacielo,” ha aggiunto la fonte.

Tuttavia prove da Gaza suggeriscono che alcuni grattacieli, che supponiamo siano stati obiettivi di potere, siano stati colpiti senza avvertimento. +972 e Local Call hanno individuato almeno due casi in cui durante l’attuale guerra interi grattacieli residenziali sono stati bombardati e distrutti senza avvertimento, e un caso in cui, in base a prove, un grattacielo è crollato sui civili che si trovavano all’interno.

Secondo la testimonianza di Bilal Abu Hatzira, che quella notte ha estratto corpi dalle rovine, il 10 ottobre Israele ha bombardato l’edificio Babel di Gaza. Nell’attacco contro l’edificio sono state uccise dieci persone, tra cui tre giornalisti.

Il 25 ottobre è stato raso al suolo senza avvertimento con le bombe l’edificio residenziale di 12 piani Al-Taj, uccidendo le famiglie che vi vivevano. Secondo le testimonianze degli abitanti circa 120 persone sono rimaste sepolte sotto le macerie dei loro appartamenti. Yousef Amar Sharaf, un abitante dell’Al-Taj, ha scritto su X che nell’attacco sono stati uccisi i 37 membri della sua famiglia che vivevano nell’edificio: “I miei cari genitori, la mia amata moglie, i miei figli e la maggioranza dei miei fratelli e delle loro famiglie.”

Gli abitanti affermano che sono state lanciate molte bombe, danneggiando e distruggendo appartamenti anche negli edifici vicini.

Sei giorni dopo, il 31 ottobre, l’edificio residenziale di otto piani Al-Mohandseen è stato bombardato senza preavviso. Il primo giorno sarebbero stati estratti dalle macerie tra i 30 e i 45 corpi. Un bambino è stato ritrovato vivo, senza i genitori. I giornalisti stimano che oltre 150 persone siano state uccise nell’attacco e che molte siano rimaste sepolte sotto le macerie.

Secondo testimonianze l’edificio sorgeva nel campo profughi di Nuseirat, a sud del Wadi Gaza, nella presunta “zona di sicurezza” in cui Israele ha indirizzato i palestinesi che scappavano dalle proprie case nella zona settentrionale e centrale di Gaza, e che pertanto serviva come rifugio temporaneo a persone espulse.

In base a un’indagine di Amnesty International il 9 ottobre Israele ha bombardato almeno tre edifici multipiano e anche un mercato dell’usato all’aperto in un’affollata strada del campo profughi di Jabaliya, uccidendo almeno 69 persone. “I corpi sono stati bruciati… Non volevo guardare, avevo paura di vedere il volto di Imad,” ha detto il padre di un bambino ucciso. “I corpi erano sparsi sul pavimento. Tutti cercavano i figli nei mucchi. Ho riconosciuto mio figlio solo dai suoi pantaloni. Volevo seppellirlo subito, così ho preso mio figlio e l’ho portato via.”

Secondo l’inchiesta di Amnesty l’esercito ha affermato che l’attacco contro la zona del mercato era diretto contro una moschea “in cui c’erano miliziani di Hamas.” Tuttavia in base alla stessa indagine le immagini satellitari non mostrano alcuna moschea nelle vicinanze.

Il portavoce dell’IDF non ha risposto alle domande di +972 e Local Call riguardo ad attacchi specifici, ma ha affermato più genericamente che “l’esercito israeliano avverte prima degli attacchi in vario modo, e quando le circostanze lo consentono invia avvertimenti individuali attraverso telefonate alle persone che si trovano negli obiettivi o nelle vicinanze (ci sono state più di 25.000 conversazioni dal vivo durante la guerra, insieme a milioni di conversazioni registrate, messaggi di testo e volantini lanciati dal cielo con l’intento di avvertire la popolazione). In generale l’IDF lavora per ridurre per quanto possibile i danni ai civili come parte degli attacchi, nonostante la difficoltà di combattere un’organizzazione terroristica che usa gli abitanti di Gaza come scudi umani.”

Il computer produce 100 bersagli in un giorno”

Secondo il portavoce dell’IDF, fino al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. In base a molteplici fonti è un numero molto alto rispetto alle quattro precedenti vaste operazioni nella Striscia. Durante “Guardiano delle Mura” nel 2021 Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 15 giorni. Durante “Margine Protettivo” nel 2014, durata 51 giorni, Israele colpì tra i 5.266 e i 6.231 bersagli. Durante “Pilastro di Difesa” nel 2012 in 8 giorni vennero colpiti circa 1.500 obiettivi. Durante “Piombo Fuso” nel 2008 Israele attaccò 3.4000 obiettivi in 22 giorni.

Fonti dell’intelligence in servizio nelle precedenti operazioni hanno anche detto a +972 e Local Call che per 10 giorni nel 2021 e tre settimane nel 2014 una media tra 100 e 200 obiettivi al giorno hanno portato a una situazione in cui all’aviazione israeliana non rimanevano bersagli di importanza militare. Perché allora dopo quasi due mesi dell’attuale guerra l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi?

La risposta potrebbe trovarsi in una dichiarazione del portavoce militare del 2 novembre, secondo la quale si sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Hasbsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente di utilizzare strumenti automatizzati per produrre obiettivi a ritmo serrato e funziona migliorando del materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle necessità (operative).”

Nel comunicato viene citato un alto ufficiale dell’intelligence secondo cui grazie ad Habsora vengono creati obiettivi per attacchi di precisione “causando gravi danni al nemico e minimi danni ai non combattenti. I miliziani di Hamas non sono immuni, ovunque si nascondano.”

Secondo fonti dell’intelligence, Habsora genera, tra le altre cose, raccomandazioni automatiche di attaccare residenze private in cui vivrebbero persone sospettate di essere miliziani di Hamas o del Jihad Islamico. Israele poi mette in atto operazioni di uccisioni su vasta scala attraverso pesanti bombardamenti contro quelle abitazioni private.

Una delle fonti spiega che Habsora processa un’enorme quantità di dati che “decine di migliaia di militari dell’intelligence non potrebbero elaborare” e consiglia di bombardare siti in tempo reale. Dato che all’inizio di ogni operazione militare molti importanti comandanti di Hamas si dirigono nei tunnel sotterranei, secondo la fonte l’uso di sistemi come Habsora permette di individuare e attaccare le case di miliziani relativamente meno importanti.

Un ex-ufficiale dell’intelligence ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di uccisioni di massa” in cui l’”enfasi è sulla quantità e non sulla qualità. “Un occhio umano “controlla gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di perdere molto tempo su di essi.” Dato che Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza e che sono tutti condannati a morte, il numero di potenziali bersagli è enorme.

Nel 2019 l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro inteso a utilizzare l’Intelligenza Artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che include centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle possibilità dell’IA,” ha affermato l’ex-capo di stato maggiore Aviv Kochavi in un’approfondita intervista con Ynet [sito di notizie israeliano, ndt.] all’inizio dell’anno.

Questo è un computer che, con l’aiuto dell’IA, processa un sacco di dati meglio e più rapidamente di qualunque essere umano e li trasforma in obiettivi da colpire,” ha continuato Kochavi. “Il risultato è che nell’operazione “Guardiano delle Mura” (del 2021) dal momento in cui questo computer è stato attivato ha generato 100 nuovi bersagli al giorno. Vedi, in passato ci sono stati momenti in cui creavamo 50 obiettivi all’anno a Gaza. E qui il computer ha prodotto 100 obiettivi in un giorno.

Prepariamo automaticamente gli obiettivi e lavoriamo in base a una lista di controllo,” ha detto a +972 e Local Call una delle fonti che lavora nella nuova Divisione Amministrativa degli Obiettivi. “E’ proprio come una fabbrica. Lavoriamo rapidamente e non c’è tempo per analizzare in profondità l’obiettivo. La prospettiva è di essere giudicati in base a quanti obiettivi riusciamo a generare.”

All’inizio dell’anno un importante ufficiale dell’esercito incaricato della banca dati degli obiettivi ha detto al Jerusalem Post che grazie al sistema di IA l’esercito per la prima volta può generare nuovi obiettivi più rapidamente di quelli che attacca. Un’altra fonte ha affermato che la spinta a generare automaticamente un gran numero di bersagli è la concretizzazione della Dottrina Dahiya.

Sistemi automatici come Habsora hanno quindi notevolmente facilitato il lavoro del personale dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che possono essere uccisi in attacchi contro abitazioni private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e compare chiaramente nei documenti sull’obiettivo sotto la categoria “danno collaterale”.

Secondo queste fonti ci sono diversi livelli di danni collaterali in base ai quali l’esercito decide se è possibile attaccare l’obiettivo all’interno di abitazioni private. “Quando la direttiva generale diventa ‘danno collaterale 5’ ciò significa che siamo autorizzati a colpire ogni obiettivo che ucciderà cinque civili o meno di cinque – possiamo operare su tutti gli obiettivi che hanno un documento da cinque in giù,” ha detto una delle fonti.

In passato non segnalavamo regolarmente le case di membri di Hamas poco importanti perché venissero bombardate,” ha detto un ufficiale della sicurezza che ha partecipato ad attacchi contro obiettivi durante precedenti operazioni. “Ai miei tempi se la casa su cui stavo lavorando era segnata danno collaterale 5 non veniva sempre approvata (per l’attacco).” Tale approvazione, ha affermato, si sarebbe avuta solo se era noto che nella casa abitava un importante comandante di Hamas.

Che io sappia oggi possono indicare tutte le case (di qualunque miliziano di Hamas indipendentemente dal rango),” ha continuato la fonte. “Ci sono un sacco di case. I membri di Hamas che non hanno alcuna importanza vivono in abitazioni in tutta Gaza. Quindi si indica la casa e la si bombarda e si uccide chiunque.”

Una politica concordata di bombardare case private

Il 22 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed era un mio caro amico e collega: quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Attraverso il muro”, con l’intento di portare voci palestinesi da Gaza all’opinione pubblica israeliana. L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento su tutta la famiglia di Ahmed, uccidendo suo padre, fratelli, sorelle e tutti i loro figli, anche neonati. Solo il nipote di 12 anni, Malak, è sopravvissuto ed è rimasto in condizioni critiche, il corpo è coperto di ustioni. Pochi giorni dopo Malak è morto.

In totale ventuno membri della famiglia di Ahmed sono morti sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un miliziano. Il più giovane aveva 2 anni, il maggiore, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive in Gran Bretagna, ora è l’unico [sopravvissuto] di tutta la famiglia.

Il Gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si chiamava “Meglio insieme”. L’ultimo messaggio che vi compare era stato inviato da lui, poco dopo mezzanotte nella notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che è tutto a posto,” aveva scritto. Nessuno ha risposto. Si è addormentato, ma si è alzano terrorizzato alle 4 del mattino. In un bagno di sudore, ha controllato di nuovo il suo telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.

Il caso di Ahmed a Gaza è comune in questi giorni. In interviste alla stampa i responsabili di ospedali di Gaza hanno ripetuto le stesse descrizioni: in ospedale entrano famiglie come serie di corpi, un bambino seguito dal padre seguito dal nonno. I corpi sono tutti coperti di polvere e sangue.

Secondo ex-ufficiali dell’intelligence israeliana in molti casi in cui un’abitazione privata viene bombardata lo scopo è “l’uccisione di miliziani di Hamas o del Jihad”, e tali obiettivi sono attaccati quando un miliziano entra nella casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se i membri della famiglia o i vicini del miliziano possono morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ogni fonte ha affermato che sono abitazioni private in cui nella maggioranza dei casi non si svolge alcuna attività militare.

+972 e Local Call non hanno dati relativi al numero di miliziani che sono stati uccisi o feriti da attacchi aerei in abitazioni private durante la guerra in corso, ma ci sono svariate prove che, in molti casi, nessuno [dei morti] era un membro militare o politico di Hamas o del Jihad Islamico.

Il 10 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio residenziale nel quartiere di Sheikh Radwan a Gaza, uccidendo 40 persone, in maggioranza donne e bambini. In uno dei filmati scioccanti girati dopo l’attacco si vede gente gridare, portare quella che sembra essere una bambola dalle rovine della casa e passarla di mano in mano. Quando la camera da presa la ingrandisce si può vedere che non si tratta di una bambola ma del corpo di un neonato.

Uno degli abitanti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato nelle macerie solo la spalla del figlio. Amnesty ha indagato sull’attacco ed ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.

Il bombardamento di case private in cui si presume vivano miliziani di Hamas o del Jihad Islamico è diventato una politica condivisa dell’esercito israeliano durante l’operazione “Margine Protettivo” del 2014. All’epoca 606 palestinesi, circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti, erano membri di famiglie la cui casa era stata bombardata. Un rapporto dell’ONU nel 2015 lo definì sia come un possibile crimine di guerra e “una nuova modalità” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie.”

Nel 2014 vennero uccisi in seguito al bombardamento israeliano di case private 93 bambini piccoli, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa a Gaza 286 bambini da un anno in giù erano già stati identificati come vittime secondo una dettagliata lista con il numero di carta d’identità e l’età delle vittime pubblicata dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Il numero da allora è probabilmente raddoppiato o triplicato.

Tuttavia in molti casi, soprattutto durante l’attuale attacco contro Gaza, l’esercito israeliano ha condotto attacchi che hanno colpito abitazioni private persino quando non c’erano obiettivi militari noti o evidenti. Per esempio, secondo la Commissione per la Protezione dei Giornalisti, al 29 novembre Israele aveva ucciso a Gaza 50 giornalisti palestinesi, alcuni dei quali in casa con le loro famiglie.

Roshdi Sarraj, 31 anni, un giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, aveva fondato una testata con il nome di “Ain Media”. Il 22 ottobre una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori mentre stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo che è stata bombardata; dei suoi tre figli Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stato trovato sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Shafar e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai figli nelle loro case.

Analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di sproporzionati attacchi aerei è ridotta. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti contro Gaza (e prima dell’invasione di terra), dopo che nella Striscia di Gaza sono stati contati i corpi di 1.903 minori, circa 1.000 donne e 187 anziani, il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia duro sentirlo dire nel quattordicesimo giorno di combattimenti non pare che l’ala militare di Hamas sia stata significativamente colpita. Il danno più significativo alla dirigenza militare è stato l’assassinio di Aymar Nofal (comandante di Hamas).”

Combattere animali umani”

I miliziani di Hamas operano regolarmente grazie a un’intricata rete di tunnel costruiti sotto vaste aree della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato da ex-ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto case e strade. Di conseguenza i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei probabilmente portano in molti casi all’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra delle ragioni dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.

Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche la base della campagna mediatica che Israele ha condotto riguardo agli attacchi e incursioni contro l’ospedale Al-Shifa e i tunnel che sono stati scoperti sotto di esso.

Israele ha attaccato anche un grande numero di obiettivi militari: miliziani armati di Hamas, luoghi per il lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, centri di comando militari, basi, posti di osservazione, e altri. Dall’inizio dell’invasione di terra i bombardamenti aerei e un pesante fuoco di artiglieria sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Esperti di leggi internazionali affermano che questi obiettivi sono legittimi finché gli attacchi rispettano il principio di proporzionalità.

Rispondendo a una domanda di +972 e Local Call per questo articolo il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato: “L’IDF rispetta le leggi internazionali e agisce in base ad esse, e così facendo attacca obiettivi militari e non civili. L’organizzazione terroristica Hamas schiera i suoi miliziani e infrastrutture militari in mezzo alla popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e combatte da edifici civili, compresi luoghi sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture dell’ONU.

Allo stesso modo fonti dell’intelligence che hanno parlato a +972 e Local Call hanno sostenuto che in molti casi Hamas “danneggia deliberatamente la popolazione civile a Gaza e cerca di impedire con la forza ai civili di andarsene.” Due fonti hanno affermato che i dirigenti di Hamas “ritengono che i danni di Israele contro i civili legittimano la loro lotta.”

Allo stesso tempo, anche se ora è difficile immaginarlo, l’idea che lanciare una bomba di una tonnellata per uccidere un miliziano di Hamas finisca per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale” non è mai stata così facilmente accettata da una larga parte della società israeliana. Nel 2002, per esempio, l’aeronautica israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, sua moglie, Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, compresi 11 minorenni. L’uccisione provocò una protesta pubblica sia in Israele che nel resto del mondo, e Israele venne accusato di commettere crimini di guerra.

Queste critiche portarono alla decisione da parte dell’esercito israeliano nel 2003 di lanciare una bomba più piccola, di 25 quintali, contro un incontro di importanti dirigenti di Hamas, tra cui lo sfuggente capo delle brigate Al-Qassam Mohammed Deif, che si svolgeva in un edificio residenziale a Gaza, nonostante il timore che non fosse sufficientemente potente da ucciderli. Nel suo libro “Per conoscere Hamas” il noto giornalista israeliano Shlomi Eldar scrive che la decisione di utilizzare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli importanti ufficiali dell’ala militare scapparono da quel luogo.

Nel dicembre 2008, durante la prima importante guerra condotta da Israele contro Hamas dopo che prese il potere a Gaza, Yoav Gallant, all’epoca alla guida del comando meridionale dell’esercito israeliano, affermò che per la prima volta Israele aveva “colpito le abitazioni private” di importanti capi di Hamas con l’intenzione di distruggerli, ma non di colpire le loro famiglie. Galland sottolineò che le case erano state attaccate dopo che le famiglie erano state avvertite “bussando sul tetto”, oltre che con una telefonata quando era chiaro che l’attività militare di Hamas si svolgeva all’interno della casa.

Dopo l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, durante la quale Israele iniziò a colpire sistematicamente dal cielo le abitazioni private, associazioni per i diritti umani come B’Tselem raccolsero testimonianze di palestinesi sopravvissuti a quegli attacchi. Essi affermarono che le case crollavano su se stesse, le schegge di vetro tagliavano i corpi di chi vi si trovava, le macerie “puzzavano di sangue” e le persone vennero sepolte vive.

Oggi la politica mortale continua, grazie in parte all’uso di armamenti distruttivi e di una tecnologia sofisticata come Habsora, ma anche a istituzioni politiche e della sicurezza che hanno allentato le redini del meccanismo militare israeliano. Quindi anni dopo aver insistito che l’esercito si preoccupava di minimizzare i danni per i civili, Galland, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato tono. “Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza,” ha detto dopo il 7 ottobre.

Yuval Abraham è giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano e Amedeo Rossi)




La Palestina è il genocidio che noi, popolo ebraico, possiamo fermare

Amanda Gelender

24 novemebre 2023 – Middle East Eye

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo muoia a causa del nostro silenzio collettivo sulla guerra genocida contro i palestinesi a Gaza

Mi siedo per scrivere questa lettera d’amore al mio amato popolo ebraico, mentre un genocidio si svolge sul mio schermo.

Questa lettera sgorga dal mio cuore verso i vostri. È un appello all’azione per risollevarci in solidarietà con la Palestina. Ho tanta profonda tenerezza per noi, la nostra storia e le orgogliose tradizioni che abbiamo mantenuto attraverso secoli di indicibili ingiustizie.

Sono cresciuta come alcuni di voi andando alla sinagoga in una comunità ebraica progressista americana. Celebrare e sostenere Israele era parte di quello che significava essere ebrea dal punto di vista culturale e religioso. Quando sono arrivata per la prima volta a comprendere quanto stava realmente succedendo nei territori palestinesi occupati avevo 18 anni ed ero iscritta al primo anno di college. Una coetanea ebrea mi parlò dei soprusi che Israele commette nel nostro nome.

Non sono orgogliosa di ammettere che il fatto che lei fosse ebrea fu probabilmente la sola ragione per cui le diedi ascolto: mi era stato insegnato dalla mia comunità che solo il popolo ebraico può realmente capire quanto Israele sia importante per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Ripensandoci, vorrei aver creduto prima ai palestinesi.

I palestinesi hanno autorità sulla loro lotta per la libertà. Ma l’indottrinamento e il timore instillatimi in quanto bambina ebrea era troppo forte da superare finché la bolla del sionismo è scoppiata. Quando sono arrivata ad apprendere per la prima volta la dimensione della continua brutalità di Israele contro il popolo palestinese ho stentato a crederci. Gli adulti ebrei della mia famiglia mi parlavano di giustizia, diritti umani e dell’obbligo morale degli ebrei di coltivare il cambiamento sociale e di “migliorare il mondo” (tikkun olam). 

Com’è possibile che il mio popolo possa omettere la verità riguardo all’apartheid e all’occupazione israeliane? Mi è stato insegnato che Israele venne fondato su un pezzo di terra vuoto, non che le bande terroristiche sioniste fecero irruzione nei villaggi uccidendo 15.000 palestinesi e cacciandone altri 750.000 durante la Nakba [la pulizia etnica del 1947-49, ndt.]. Semplicemente non ne sapevano niente, come me?

L’inganno sionista

La posizione secondo cui “chiunque critichi Israele è antisemita” è diventata sempre più debole di fronte alla crescente lista di crimini di guerra commessi da Israele. Se tutto quello che mi era stato detto riguardo a Israele non era vero, cos’altro era falso?

E cosa significa continuare a far parte della comunità ebraica, dato che di fatto tutti i miei coetanei ebrei sono ancora tacitamente o attivamente coinvolti nella menzogna del nazionalismo sionista?

Una volta svanita la negazione, è arrivata la rabbia. Persone di cui ci fidavamo ci avevano mentito; siamo stati ingannati in modo che sostenessimo uno Stato di apartheid che maltratta minorenni e tortura senza pietà nel nostro nome. Giovani ebrei, compresa me, sono stati coinvolti in un continuo genocidio contro il popolo palestinese durato 75 anni.

Ci sono state terribili, inimmaginabili violazioni dei diritti umani commesse con la scusa di proteggere le vite degli ebrei, quando in realtà una tranquilla pace coloniale è possibile solo attraverso la continua repressione dei palestinesi. Non c’è nessuna sicurezza per chi è sotto occupazione.

Ci è stato insegnato che Israele rappresenta una speranza di rifugio ritagliato per gli ebrei dopo l’Olocausto, qualcosa di prezioso che dobbiamo proteggere a ogni costo. Era “l’unica Nazione per il popolo ebraico”, la nostra patria, il nostro retaggio: Israele.

Ci è stato insegnato [che abbiamo] un intrinseco diritto su un pezzo di terra dall’altra parte del mondo. Israele era una seconda, possibile patria per noi, ma la storia guarda caso ometteva il fatto che la Palestina è l’unica patria per i palestinesi, che hanno posseduto la terra per generazioni.

Israele continua a negare ai palestinesi il diritto di visitarla e il diritto inalienabile di tornare inpatria, ma in quanto ebrea nata in California posso visitarla quando voglio e Israele mi pagherà persino per andarci a vivere su terra rubata ai palestinesi.

Non ci è stato insegnato che Israele è totalmente finanziato dagli USA e funge da avamposto strategico dell’Occidente imperialista per l’estrazione di materie prime, la sperimentazione di armi, l’addestramento della polizia statunitense e altro. Nessuno mi ha detto che la nascita di Israele ha richiesto la morte di palestinesi, una pulizia etnica opportunamente nascosta sotto il tappeto in modo che il popolo ebraico possa avere qualcosa di scintillante e pulito; che è una Nazione militarizzata fondata su mucchi di corpi di palestinesi bruciati, una patria ebraica costruita su fosse comuni di nativi.

Lotta per la libertà contro la colonizzazione

La storia di Israele non è nuova. È ben nota ai popoli colonizzati in tutto il mondo. Perpetua lo stesso suprematismo bianco, la menzogna colonialista che i coloni arrivati all’isola della Tortuga (nel Nord America) dissero a se stessi per giustificare il genocidio dei popoli indigeni: in nome del progresso, della modernità e della democrazia il colonizzatore deve demolire, uccidere e distruggere.

In base a questa menzogna il colonizzatore deve saccheggiare la terra come destino manifesto, dall’Atlantico al Pacifico, e uccidendo violentemente quanti più “terroristi nativi selvaggi” possibile per espandere le conquiste territoriali e costruire case sicure per le famiglie di coloni.

La Palestina non è impegnata in una guerra santa, è una lotta per la libertà dal colonialismo. I palestinesi non hanno scelto il popolo ebraico perché colonizzasse la loro terra e hanno il diritto morale e giuridico di resistere all’occupazione indipendentemente da chi sia l’occupante. La sicurezza degli ebrei è destinata al fallimento finché continuerà la violenta occupazione della Palestina. La nostra liberazione è strettamente collegata a ciò.

Siamo in un momento senza precedenti nella storia. Si sta svolgendo un genocidio davanti ai nostri occhi, mentre corpi sono ammassati in fosse comuni fuori dagli ospedali bombardati e dai campi profughi. Un movimento di solidarietà globale con la Palestina ha penetrato il velo di benessere occidentale, un’evasione dalla prigione dell’assedio.

E mentre l’esercito israeliano appoggiato dagli USA continua a far piovere bombe sul popolo di Gaza assediato, molti del mio popolo ebraico stanno seduti a guardare, o lo stanno appoggiando attivamente.

Con il nostro silenzio noi popolo ebraico nel mondo siamo co-firmatari di questo genocidio. Molti hanno considerato che è “troppo complicato”, con la minaccia di essere allontanati da amici, famiglia e colleghi. Non vogliamo rischiare conseguenze concrete.

Deludente asimmetria

Ma famiglie palestinesi vengono uccise nel sonno, brutalizzate con il fosforo bianco incendiario, prese di mira da cecchini nei reparti di maternità degli ospedali, fatti morire di fame e disidratati, senza acqua potabile e obbligati a marce della morte. Stanno estraendo morti, bambini insanguinati dalle polverose rovine di macerie bombardate.

Eppure i miei coetanei ebrei in Occidente dicono che sono loro a temere un genocidio. Questa deludente asimmetria deve finire, in modo che possiamo concentrare risorse e attenzione verso quelli che affrontano una minaccia concreta di eliminazione in questo massacro della dignità umana assolutamente evitabile.

La richiesta dei palestinesi in questo momento è chiara: cessate il fuoco subito. Fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione illegale. Rispetto del diritto al ritorno. I palestinesi ci stanno chiedendo di testimoniare il loro genocidio, fare pressione sui nostri rappresentanti per un immediato cessate il fuoco e boicottare quanti stanno traendo profitto dall’occupazione illegale. Ogni giorno senza cessate il fuoco il numero di morti aumenta e Israele cancella altre famiglie dall’anagrafe.

La Palestina è il genocidio che il popolo ebraico può fermare. Non abbiamo potuto intervenire per bloccare la morte dei nostri predecessori nei campi della morte, ma possiamo e dobbiamo fermare questo genocidio dal continuare un giorno in più. Non sprechiamo il nostro urgente e sacro dovere sfruttando la sofferenza degli ebrei come scudo e clava per la violenza contro i palestinesi.

Se vi considerate persone ebree con una coscienza comprenderete che questo massacro non ha una giustificazione morale o giuridica. Questo è il momento di parlare. I palestinesi non possono aspettare che la storia li risarcisca, perché, mentre scrivo questa lettera di amore e rabbia a voi, miei fratelli ebrei, i bombardamenti aerei continuano a colpirli.

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo perisca con il suono del nostro silenzio collettivo sul genocidio. La nostra voce sia una preghiera per i nostri antenati ebrei e una benedizione per i nostri discendenti dicendo una volta per tutte: mai più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Amanda Gelender è una scrittrice ebrea americana antisionista che vive in Olanda. Fa parte del movimento di solidarietà con i palestinesi dal 2006.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra Israele-Palestina: come Hamas vede l’andamento del conflitto a Gaza e perché pensa di poter vincere

David Hearst 

4 novembre 2023 – Middle East Eye

Una fonte vicina alla leadership politica di Hamas afferma che l’organizzazione crede di poter sconfiggere Israele ma riconosce il pesante prezzo pagato da chi è sul campo.

Lattacco di Hamas del 7 ottobre è stato definito da una delle principali fonti arabe il più grande di tutti gli errori di valutazione nella storia”.

Unoperazione che secondo le persone informate sui dettagli della sua pianificazione doveva essere una missione tattica progettata per catturare al massimo una ventina di ostaggi militari si è trasformata, in seguito al crollo della Divisione israeliana di Gaza, in un assalto caotico.

Mentre i combattenti di Hamas e una serie di altri partecipanti armati provenienti da Gaza facevano irruzione nel sud di Israele attaccando basi militari, comunità di kibbutz e un festival musicale, lassalto ha prodotto le immagini terrificanti del peggior massacro di civili israeliani dalla nascita dello Stato.

Hamas è accusata da organizzazioni per i diritti umani di uccisioni deliberate, rapimenti e attacchi indiscriminati nei confronti di civilinel corso di episodi oggetto di un’indagine in corso da parte della Corte Penale Internazionale.

Sono stati sequestrati fino a 250 ostaggi, alcuni dei quali cittadini stranieri.

In risposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di estirpare Hamas da Gaza.

Una campagna ritorsiva di bombardamenti mirata a spingere oltre un milione di abitanti della parte settentrionale del Paese verso sud e verso il confine egiziano sta per entrare nella quinta settimana con soldati israeliani e miliziani di Hamas impegnati nei combattimenti.

Secondo i dati del ministero della Sanità palestinese i bombardamenti hanno raso al suolo il nord di Gaza e ucciso oltre 9.000 palestinesi. La situazione non mostra segni di cedimento, dal momento che Israele e gli Stati Uniti resistono alla crescente pressione internazionale per un cessate il fuoco.

Middle East Eye ha riferito che lufficio politico di Hamas a Doha è stato tenuto all’oscuro della decisione di Mohammed Deif, comandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, di scatenare il raid.

Ma nel suo ruolo di leadership lala politica di Hamas ha dovuto assumersene la responsabilità e costituisce al momento una parte fondamentale dei negoziati per il rilascio degli ostaggi su mediazione del Qatar.

Questa è la situazione vista dall’esterno del gruppo combattente, ma non è il modo in cui la stessa Hamas vede questi eventi.

Per scoprire cosa pensa Hamas MEE ha parlato con una fonte palestinese di alto livello in contatto con la leadership politica di Hamas.

MEE ha posto tre domande principali. Perché l’attacco è avvenuto in quel momento? Gli obiettivi di guerra di Israele sono realizzabili? Cosa pensa di ottenere Hamas al termine della guerra?

Perché adesso?

A scatenare l’attacco del 7 ottobre è stata la preoccupazione di Hamas che gli ebrei di estrema destra intendessero sacrificare un animale nel sito della moschea di al-Aqsa, ponendo così le basi per la demolizione del santuario della Cupola sulla Roccia e la costruzione del Terzo Tempio, ha affermato.

Hamas ha seguito da vicino i piani israeliani di istituire una presenza ebraica permanente all’interno del complesso di al-Aqsa. Al-Aqsa è considerato il terzo luogo più sacro dell’Islam e un simbolo dell’identità palestinese. È conosciuto in Israele come il Monte del Tempio.

La presenza quotidiana ad al-Aqsa di ebrei di estrema destra era già stata conseguita, con due irruzioni giornaliere al mattino e al pomeriggio in tour protetti da poliziotti armati fino ai denti e della durata da 30 minuti a un’ora.

Secondo alcune sette religiose messianiche come il Temple Institute, prima che il Terzo Tempio possa essere ricostruito deve essere sacrificata una giovenca rossa senza macchia per purificare il terreno.

A questo scopo sono state importate delle mucche Red Angus dagli Stati Uniti. Allinizio di questanno un’organizzazione a favore del Terzo Tempio ha dichiarato che sperava di macellare durante le vacanze di Pasqua del prossimo anno, che cadranno nellaprile 2024, cinque giovenche importate.

La fonte di MEE afferma che era stata già fatta una programmazione dei tempi rilevando che i coloni avevano eseguito nel sito di al-Aqsa sacrifici di vegetali”.

Affermazione che sembra riferirsi a un’irruzione avvenuta un mese fa da parte di decine di coloni che trasportavano fronde di palma per celebrare la festa ebraica del Sukhot [festa israeliana di pellegrinaggio della durata di sette giorni, ndt.].

Resta solo da compiere la macellazione delle giovenche rosse importate dagli Stati Uniti. Se la facessero sarebbe il segnale per la ricostruzione del Terzo Tempio, dice la fonte.

Hamas aveva già avvertito Israele che stava giocando con il fuoco nel tentare di mettere in atto ad al-Aqsa accordi simili a quelli relativi alla Moschea Ibrahimi di Hebron, divisa tra musulmani ed ebrei [dopo il massacro compiuto dal colono Baruch Goldstein nel 1994 che uccise 29 fedeli palestinesi, lesercito israeliano confiscò la maggior parte della moschea e ai musulmani viene inoltre impedito laccesso alla Moschea Ibrahimi durante le festività ebraiche, ndt.].

Anche altre organizzazioni palestinesi, inclusa lAutorità Nazionale Palestinese, hanno messo in guardia Israele dal cambiare lo status quo nella moschea.

Nelle tre settimane precedenti il raid, si sono svolte tre feste ebraiche terminate con il Sukhot. La sensazione di Hamas a Gaza era che al-Aqsa fosse in pericolo imminente, riferisce la fonte a MEE.

Sulla decisione di scatenare lattacco sono intervenute anche delle considerazioni a lungo termine.

Il destino dei 5.200 prigionieri palestinesi in detenzione israeliana è una pesante responsabilità” per la leadership di Hamas, riferisce la fonte, ed Hamas rifletteva ogni giorno su come avrebbero potuto essere rilasciati”.

La terza motivazione alla base dellattacco era costituita da Gaza stessa, sottoposta a 18 anni di assedio dopo il ritiro da parte di Israele dei suoi coloni dalla Striscia.

Gli Stati Uniti e le potenze regionali hanno lasciato Gaza ai limiti della sopravvivenza, relegata in un angolo con appena il supporto vitale, in lotta per cibo, denaro o un generatore. Lo sfondamento del 7 ottobre è stato un forte messaggio che gli abitanti di Gaza possono rompere lassedio, continua la fonte.

E’ possibile estirpare Hamas?

Non è la prima volta che i leader israeliani promettono di spazzare via Hamas, e ogni guerra precedente si è conclusa con il ritiro israeliano, dice.

I leader di Hamas riconoscono che la portata della devastazione è diversa ma credono ancora che il risultato finale sarà un altro ritiro israeliano, aggiunge.

Israele potrebbe distruggere una metà di Gaza ma penso che alla fine il risultato sarà lo stesso. Il problema per [il primo ministro israeliano Benjamin] Netanyahu sarà come concludere la battaglia con una immagine positiva da offrire alla gente.

Ma ha un grosso problema. Anche se riuscisse nel suo obiettivo bellico di eliminare la leadership di Hamas a Gaza, si troverebbe ancora ad affrontare le contestazioni sulla sua responsabilità per lattacco del 7 ottobre”.

La fonte respinge la prospettiva che Israele possa raggiungere il suo obiettivo principale. Dice che è fisicamente impossibile eliminare Hamas a causa delle dimensioni a Gaza dell’organizzazione e dei suoi affiliati.

Hamas è parte del tessuto della società. Ci sono i combattenti e le loro famiglie. Gli enti di beneficenza e le loro famiglie. I dipendenti pubblici e le loro famiglie. Nel loro insieme costituiscono una parte molto consistente della popolazione.

Anche se Hamas non prevedeva una risposta israeliana di questa portata dispone di una vasta rete di tunnel che si estende per molte centinaia di chilometri, ha riferito un’altra fonte a MEE.

L‘ipotesi che Hamas perdendo Gaza City, che le forze israeliane stanno cercando di accerchiare, cesserebbe di operare è dunque meno probabile.

Allo stesso modo Hamas non dipende dallentrata in guerra di Hezbollah, ma molti allinterno del movimento vedono il suo coinvolgimento come inevitabile.

Dicono che se Hezbollah permettesse l’annientamento di Hamas, sarebbe solo questione di tempo prima che Israele attaccasse anche l’organizzazione libanese.

Cosa otterrà Hamas alla fine di questa battaglia?

Hamas non crede che alla fine della guerra si possa riportare l’orologio al 6 ottobre e Gaza possa ricominciare da capo, dice.

Lattacco del 7 ottobre ha trasmesso un messaggio diretto e preciso secondo cui i palestinesi hanno la capacità di sconfiggere Israele e liberarsi delloccupazione. Per Hamas questo è ormai un dato di fatto, continua.

Hamas ritiene che l’attacco abbia infranto un patto che esisteva tra l’esercito israeliano e la popolazione sin dalla dichiarazione dello Stato nel 1948.

Il patto tacito era che il popolo avrebbe inviato all’esercito i propri figli e figlie e lesercito in cambio avrebbe protetto il Paese.

Secondo la fonte Hamas ritiene che l’attuale conflitto abbia spinto il popolo palestinese e la resistenza palestinese verso la vittoria e la liberazione, aggiungendo: Penso che Israele abbia perso molta fiducia nel futuro”.

Afferma che Hamas riconosce il pesante prezzo pagato dalla popolazione di Gaza. Ma credeva che la maggior parte avrebbe scelto di restare piuttosto che fuggire da una seconda Nakba, in riferimento allo sfollamento di 750.000 palestinesi dalla loro terra ancestrale nel 1948. Per la maggior parte delle persone non c’è scelta: il confine di Gaza con lEgitto e la sua frontiera con Israele sono chiusi e non c’è nessun posto sicuro dai bombardamenti.

Ogni palestinese sa che deve restare nella propria terra, anche se ridotta in macerie e pur vivendo nelle tende, dice.

Hamas ritiene che Israele abbia commesso un enorme errore strategico nel respingere le molteplici iniziative di pace arabe che avrebbero portato alla fine del conflitto.

La loro strategia consiste nell’avere tutto. Per questo perderanno tutto. Sottovalutano i palestinesi, prosegue la fonte.

Dice che mentre le capitali occidentali aspettano unera dopo Hamas, la resistenza palestinese aspetta con fiducia unera in cui possano vivere in un proprio Stato.

Riconosce che lesercito israeliano possiede un enorme vantaggio militare. Ma insiste sul fatto che i risultati di una guerra non sempre dipendono dagli equilibri di potere.

Guardate il Vietnam, lAfghanistan, lAlgeria. Guardate come sono finite quelle guerre coloniali, conclude.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele, attenzione: con la guerra gli apocalittici ebrei ultranazionalisti sono al settimo cielo

Uri Misgav

2 novembre 2023, Haaretz

Gli brillano gli occhi. Parlano di una “seconda Nakba”. Credono che questo sia il tempo del Messia. Per i nazionalisti ultra-ortodossi la guerra con Hamas è un doppio sogno: il pieno dominio ebraico sul Grande Israele e uno Stato ebreo fondamentalista sulle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico.

Anche se Israele dovesse vincere la guerra esistenziale che gli è stata imposta, dovrà comunque affrontare una minaccia interna che non va presa alla leggera: il sionismo nazionalista ultra-ortodosso. Chi ha parlato con i seguaci di questo movimento dopo il rovinoso disastro del 7 ottobre si è imbattuto in uno strano fenomeno.

I loro occhi brillano. Sono estasiati. Dal loro punto di vista questi sono i giorni del Messia. La grande opportunità. È parte essenziale delle visioni fondamentaliste in tutte le religioni. La fede in un’apocalisse, Armageddon, Gog e Magog come solo mezzo di redenzione.

Nel caso dei sionisti Haredi [ultra-ortodossi, ndt.] si tratta di una doppia visione: pieno dominio ebraico su tutta l’area dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano insieme alla cancellazione della presenza araba e l’emergere di uno Stato fedele alla Halakha [l’insieme delle leggi religiose ebraiche, ndt.] dalle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico.

Questo spiega i discorsi su una “seconda Nakba” e il reinsediamento di Gush Katif [blocco di 17 colonie israeliane  demolite nel 2005 con il Piano di disimpegno di Ariel Sharon, ndt.] nel sud della Striscia di Gaza, così come la velocità con cui si sono organizzati i gruppi di coloni che hanno messo gli occhi sulle rovine dei kibbutz al confine di Gaza, e gli sforzi nell’assumere il controllo delle iniziative di volontariato per aiutare gli agricoltori della zona.

Ma il punto principale, ovviamente, è l’attuale guerra. Esiste un ampio consenso sulla necessità di colpire Hamas e porre fine al suo dominio sulla Striscia di Gaza. Il dibattito riguarda le sfumature. Ad esempio, la questione dell’invasione di terra, della sua necessità e tempistica. La questione degli ostaggi e la sua priorità. L’atteggiamento verso le vittime civili, le leggi di guerra e gli aiuti umanitari. Per i sionisti Haredi tali dibattiti sono una dannosa perdita di tempo. Gaza è Amalek [nazione descritta nella Bibbia come strenuo nemico degli ebrei, ndt.] che deve essere cancellata dalla faccia della terra.

La cosa vale anche per le Forze di Difesa Israeliane, perché all’interno dell’esercito c’è una corrente sionista Haredi ben radicata. Il comandante della 36a divisione corazzata, Generale di Brigata David Bar Khalifa, questa settimana ha emesso una commovente direttiva di battaglia alle sue truppe scritta a mano su carta intestata che culmina in una citazione dai Salmi ( “Come frecce nella mano di un uomo potente”): “Ciò che è stato non sarà più! Lo affronteremo in guerra, polverizzeremo ogni lembo della terra maledetta da cui proviene, lo distruggeremo insieme al suo ricordo… e non torneremo finché non sarà annientato, e [Dio] volgerà la vendetta contro i suoi avversari, e purificherà la terra del suo popolo… Il Signore darà forza al suo popolo e proteggerà il vostro entrare ed uscire da ora e per sempre. Questa è la nostra guerra, oggi tocca a noi. Eccoci!”

Questo è un estatico testo religioso, adatto a uno studente della Or Etzion Yeshiva [scuola di studi rabbinici, ndt.], dove peraltro ha studiato, non a un comandante di divisione sano e razionale in un esercito moderno.

I comandanti della 36a divisione corazzata nel passato comprendono Zvi Zamir, Uzi Narkiss, Rafael Eitan, Uri Sagi, Amram Mitzna, Avigdor Kahalani, Matan Vilnai, Amiram Levin e Yitzhak Brik. È difficile immaginare che qualcuno di loro avrebbe diffuso qualcosa di simile a questo documento militare.

Molti sionisti Haredi, alcuni dei quali dipendenti pubblici, vedono la terribile crisi come un’opportunità e persino come un piano divino. Yizhak Keshet, sindaco di Harish, ha spiegato lo sviluppo degli eventi in una “conferenza sulla sicurezza” da lui convocata questa settimana (Tali Heruti-Sover, The Marker Hebrew 30 ottobre). “Questa è una mossa divina. È perfettamente chiaro. Non succede così, dal nulla”, ha dichiarato indossando un giubbotto antiproiettile corazzato con piastra in ceramica.

Bisogna guardare ai fatti, che il popolo di Israele, a seguito di questo evento difficile e terribile, è sopravvissuto. C’era un piano molto, molto più grande e più dannoso per distruggere lo Stato di Israele… da quattro diversi fronti, di cui Hamas è il più piccolo. E la misericordia di Dio nei nostri confronti li ha portati a fermare i loro piani. La causa scatenante è stata proprio la festa, era una tale tentazione, 3.000 persone vicino alla recinzione … non hanno saputo resistere alla tentazione e sono entrati. Questa cosa ci ha salvato”.

È evidente che i martiri del festival musicale Nova Trance e le vittime dei massacri nelle comunità di confine sono solo pedine del piano divino per portare a termine la missione – in Cisgiordania.

Questo è il motivo per cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich continua anche adesso a convogliare freneticamente i fondi governativi verso i coloni. Questo è il motivo per cui i coloni e talvolta anche i soldati sionisti Haredi insorgono senza che nessuno li fermi uccidendo, infierendo ed espellendo i palestinesi. La jihad ebraica è destinata a incendiare l’intera Terra Santa. Gli israeliani che vogliono vivere non devono distogliere lo sguardo o voltare le spalle.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)