Israele sceglie la violenza

Haggai Matar

10 maggio 2021- +972 magazine

Dalla repressione a Sheikh Jarrah al bombardamento di Gaza, il governo israeliano ha scelto di incrementare la sua brutalità nei confronti dei palestinesi.

L’acuirsi della violenza degli ultimi giorni in Israele-Palestina è principalmente il risultato di una serie di scelte fatte dal governo israeliano. Mentre tale violenza è tutt’altro che inedita nella nostra regione ed è intrinseca alle pluridecennali politiche oppressive di Israele, ci sono scelte che in ultima analisi sono utili agli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu, che sta lottando disperatamente per salvare la sua carriera politica ed evitare la possibilità di finire in carcere.

Le scelte pericolose sono di fatto cominciate con l’inizio del mese santo musulmano del Ramadan, quando le autorità israeliane hanno preso l’incomprensibile decisione di collocare nuovi posti di controllo provvisori all’ingresso della Porta di Damasco, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Poi hanno attaccato i palestinesi che si erano riuniti lì per festeggiare la rottura del digiuno quotidiano con amici e famiglie. Ci sono volute due settimane di violenza poliziesca e la risoluta risposta da parte dei manifestanti palestinesi perché la polizia si ritirasse.

Nel contempo la ripresa delle manifestazioni settimanali e delle veglie quotidiane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est per protestare contro l’espulsione forzata di famiglie palestinesi ha visto la polizia fare uso di una forza brutale contro gli abitanti e i dimostranti. Come ha informato Oren Ziv di +972, la polizia è andata accentuando la violenza in un quartiere che è diventato un importante simbolo della spoliazione dei palestinesi.

A Sheikh Jarrah Israele sta cercando di restituire ad ebrei terreni che si sostiene siano stati in precedenza di proprietà di ebrei prima del 1948. Così facendo sta espellendo famiglie palestinesi che prima del 1948 [anno di nascita di Israele, ndtr.] erano proprietarie di terreni in quello che è diventato Israele, senza consentire loro di rivendicare la terra che hanno perso durante la Nakba [la Catastrofe, ossia la pulizia etnica subita dai palestinesi dal 1947 al 1948, ndtr.]. È difficile trovare una forma più palese di discriminazione razzista.

Negli ultimi anni lanci di pietre e scontri attorno alla moschea di Al-Aqsa nel periodo del Ramadan sono diventati frequenti. Spesso finiscono subito dopo essere iniziati, con la polizia che decide di lasciare che le proteste si esauriscano da sole. Questa volta la polizia ha optato per una violenza esagerata, ferendo negli ultimi giorni oltre 300 palestinesi sulla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio. Ciò include un certo numero di giornalisti, tra cui Faiz Abu Rmeleh, membro del collettivo Activestills [gruppo di fotogiornalisti impegnati nella controinformazione su Israele/Palestina, ndtr.] e collega di +972, a cui hanno sparato con proiettili di acciaio ricoperti di gomma e picchiato dalla polizia.

Ma la violenza poliziesca non si è fermata lì: alcuni reparti sono entrati nella moschea di Al-Aqsa ed hanno lanciato granate stordenti contro i palestinesi che vi si trovavano. Il valore simbolico di poliziotti armati che calpestano tappeti da preghiera e aggrediscono fedeli in uno dei luoghi più sacri per l’Islam e durante il suo mese più santo è risultato evidente a tutti e non avrebbe potuto avvenire senza che qualcuno prendesse deliberatamente la decisione di intraprendere un’iniziativa così estrema.

Quando i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato autobus per andare a pregare nella [moschea di] Al-Aqsa e per proteggerla, le autorità hanno risposto chiudendo le strade 1 e 443. Così facendo hanno impedito a migliaia di musulmani che stavano digiunando di andare a Gerusalemme per esercitare la libertà di culto, lanciando granate assordanti contro quelli che hanno iniziato a marciare nonostante gli ordini della polizia. Essa ha spiegato la sua decisione affermando di voler impedire che 20 potenziali “istigatori” raggiungessero la capitale. Persino importanti giornalisti israeliani, che spesso sono lieti di ripetere pedissequamente la narrazione ufficiale del governo, hanno messo in dubbio la validità di queste affermazioni.

Come se non bastasse, lo scorso mese estremisti di estrema destra dell’organizzazione razzista Lehava sono comparsi a Sheikh Jarrah, alla Porta di Damasco e nel centro di Gerusalemme. Sono stati appoggiati dal deputato kahanista [seguace del rabbino razzista Meir Kahane, ndtr.] Ben-Gvir e dal vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King, che la scorsa settimana ha pubblicamente augurato la morte a un importante attivista palestinese a Sheikh Jarrah.

Due settimane dopo gli eventi di Sheikh Jarrah e alla Porta di Damasco, il presidente [palestinese, ndtr.] Mahmoud Abbas ha annunciato la cancellazione delle elezioni palestinesi. La ragione ufficiale è stata la decisione israeliana di impedire ai palestinesi gerosolimitani di parteciparvi, in violazione degli Accordi di Oslo. Però la decisione era chiaramente destinata a favorire gli interessi di Abbas e, come hanno sostenuto molti attivisti politici palestinesi, era ancora possibile e forse persino necessario tenere le elezioni indipendentemente dall’esclusione di Gerusalemme.

Benché questa sia una questione tra palestinesi, Israele avrebbe potuto annunciare di star agendo in base agli obblighi previsti dal contesto di Oslo, rispettare i principi democratici e consentire ai palestinesi di Gerusalemme di votare. Ha scelto di non farlo e prima dell’annuncio di Abbas la polizia ha arrestato in città dei palestinesi che appoggiavano le elezioni e cercavano di organizzarle. Anche questa è stata un’escalation nel modo di agire di Israele.

Lunedì, durante la tristemente nota “Marcia della Bandiera” israeliana del Giorno di Gerusalemme, miliziani di Hamas hanno lanciato razzi verso Gerusalemme. Israele ha scelto di rispondere ai razzi attaccando Gaza, uccidendo a quanto si dice almeno 20 persone, tra cui 9 bambini. Il governo ha annunciato che l’operazione militare durerà “giorni, non ore”. Netanyahu ha aggiunto che farà “pagare un prezzo molto alto” a Gaza. Anche questa è stata una scelta.

Troppo poco, troppo tardi

Ovviamente quello a cui stiamo assistendo non è solo il risultato della condotta unilaterale di Israele. Il lancio di razzi contro civili da parte di Hamas, com’è successo oggi a Gerusalemme, nel Naqab/Negev occidentale e nelle città attorno a Gaza, è un crimine di guerra. Inoltre lo scorso mese video pubblicati su TikTok hanno mostrato palestinesi che maltrattano e aggrediscono ebrei ultraortodossi. Militanti palestinesi hanno anche messo in atto alcuni attacchi con armi da fuoco contro civili e soldati israeliani in Cisgiordania, uccidendo la scorsa settimana il diciannovenne Yehuda Guetta. Negli ultimi giorni palloni incendiari sono stati lanciati in Israele da Gaza, bruciando campi nel sud. Però è chiaro che niente di tutto ciò è comparabile con l’enorme forza e brutalità del più potente esercito della regione, come dimostra ancora una volta il bilancio dei morti.

Quasi allo stesso tempo in Cisgiordania, nei pressi dell’incrocio di Gush Etzion [prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.], i soldati hanno ucciso Fahima al-Hroub, a causa di una cultura criminale che consente ai soldati e alla polizia israeliani di uccidere impunemente palestinesi con problemi mentali [la vittima era una donna sessantenne con gravi problemi di depressione, ndtr.].

Inoltre nei giorni che hanno portato all’attacco contro Gaza, Israele (e in particolare lo Shin Bet [intelligence interna di Israele, ndtr.]) si è sempre più preoccupato di quanto stava avvenendo e ha iniziato a cercare di ridurre il danno. Netanyahu ha chiesto a Ben Gvir di smantellare un “ufficio” provvisorio che aveva costruito a Sheikh Jarrah e di andarsene dal quartiere. L’udienza della Corte Suprema sull’espulsione delle famiglie è stata rinviata su richiesta del procuratore generale. Nel Giorno di Gerusalemme il Monte del Tempio è stato chiuso agli ebrei e all’ultimo minuto il governo ha bloccato il suo piano di consentire alla famigerata Marcia della Bandiera di attraversare la Porta di Damasco e i quartieri arabi. Tutti questi passi sono stati presentati come un modo per allentare la tensione.

Ma è stato troppo poco e troppo tardi. La decisione di lunedì sera del governo di bombardare Gaza ha compromesso totalmente ogni tentativo che sosteneva di aver fatto per porre rapidamente fine alla violenza a Gerusalemme.

Ovviamente questi sono solo gli sviluppi delle ultime settimane. La situazione dell’assedio di Gaza che dura da 14 anni, di un regime militare costruito su sistemi giudiziari separati per ebrei e palestinesi, della spoliazione e dell’ingegneria demografica a Gerusalemme, delle sistematiche discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e di esilio forzato dei rifugiati palestinesi, spiega tutto quello che stiamo vedendo succedere adesso. Il tentativo durato anni da parte di Netanyahu di “gestire il conflitto” può aver cancellato queste ingiustizie dalla coscienza dell’opinione pubblica israeliana, ma esse rimangono la situazione quotidiana per milioni di palestinesi, e alimentano attivamente quello che avviene attualmente.

Una lotta per la vita

La reazione israeliana al lancio di razzi di Hamas è stata immediata. I principali mezzi di comunicazione e i politici israeliani, compresi quelli che sperano di sostituire Netanyahu, hanno ripetuto a pappagallo la ben nota linea di partito. “Israele deve agire in modo risoluto e forte e ristabilire la deterrenza,” ha dichiarato Yair Lapid, che recentemente è stato scelto per cercare di mettere insieme un governo e che è stato appoggiato dal partito Laburista [di centro, ndtr.], dal Meretz [sinistra sionista, ndtr.] e dalla maggioranza della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.]. L’ex dirigente del Likud Gideon Sa’ar [di destra, ndtr.] e Naftali Bennett di Yamina [La Destra, partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], che potrebbe benissimo essere il prossimo primo ministro, si sono entrambi uniti a Lapid nel chiedere attacchi più pesanti contro Gaza, senza alcuna riflessione sulle azioni israeliane che ci hanno portato a questo punto.

D’altra parte il partito islamista Ra’am [arabo-israeliano di destra, ndtr.], che ha affermato di sostenere Lapid e Bennett per la formazione di un governo, in seguito all’escalation da parte di Israele ha sospeso i colloqui per una coalizione. Né Ra’am né la Lista Unita potrebbero appoggiare la formazione di un governo con politici che chiedono attivamente un incremento degli attacchi contro Gaza.

Nel novembre 2019, quando per la prima volta è nata l’idea di formare un’alleanza di centro destra con la Lista Unita, Netanyahu ha utilizzato Gaza come ragione assoluta per l’impossibilità di formare un simile governo. Ora, pochi giorni prima che Lapid e Bennett annuncino la formazione di un nuovo governo per spodestare Netanyahu, gli eventi di Gaza stanno facendo direttamente il gioco del primo ministro in carica.

Netanyahu ha pianificato e orchestrato questa escalation? Non c’è ovviamente nessun modo per dimostrare una cosa simile. Ci sono le sue impronte digitali su questi sviluppi? Dato che il primo ministro è responsabile delle varie iniziative delle autorità sotto il suo comando, la risposta è indubbiamente sì. Tutto quello che è successo in quest’ultimo mese, con livelli di violenza inediti da anni, lo ha aiutato nel tentativo di evitare di essere spodestato? Assolutamente sì.

L’incremento della violenza costituisce un avvertimento che non possiamo abbandonare la lotta contro l’occupazione e l’apartheid e che sostituire Netanyahu con un altro uomo di destra non risolverà le questioni fondamentali che influenzano ogni aspetto delle nostre vite su questa terra. Ci troviamo in una terribile trappola, ma è la trappola della situazione colonialista di Israele. Non c’è altro modo per andare avanti se non una lotta per l’uguaglianza e la libertà per tutti gli abitanti di questa terra. Non è niente meno che una lotta per la vita stessa.

Haggai Matar è un giornalista israeliano pluripremiato e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di “+972 – Promozione del giornalismo dei cittadini”, l’associazione no-profit che pubblica +972 Magazine.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un “figlio” di Gaza che lascia il segno nel mondo  

Israa Mohammed Jamal

 

1 maggio 2021 – We Are Not Numbers

 

Al centro di Gaza City si trova piazza Palestine, luogo di ritrovo per famiglie in giro per compere, coppie a passeggio, operai in pausa pranzo. In mezzo ormai da anni c’è la Fenice, un aggraziato uccello di bronzo con le ali rivolte verso il cielo come fosse in procinto di spiccare il volo.

Qualunque passante incontriate nei pressi vi saprebbe spiegare che cosa significhi quell’uccello mitologico per il popolo palestinese. La leggenda vuole che la fenice sia risorta dalle ceneri nel bel mezzo della distruzione. Ma da chi e quando è stata creata quella statua?

A Gaza ormai poche persone se ne ricordano, ma l’artista è Iyad Ramadan Sabbah, uno dei più affermati figli della Striscia (e mio cugino da parte di madre), che vive in Belgio. Le sue opere sono esposte in tutto il mondo, in particolare in Francia, Italia, Portogallo, Repubblica Ceca, Egitto, Oman, Tunisia, Marocco, Cina, Turchia e Sud Corea. Però le radici di Sabbah, così come la sua ispirazione, restano a Gaza, Palestina, lì dove hanno avuto origine.

 

Nascita di un artista

La famiglia Sabbah è originaria del villaggio di Bareer, cittadina palestinese a nord di Gaza distrutta nel 1948 durante la Nakba (“catastrofe” in arabo, la distruzione di massa in cui gli abitanti diventarono profughi dopo la creazione di Israele). In seguito i suoi genitori si trasferirono per lavoro in Arabia Saudita, dove [Iyad] nacque nel 1973.

 

Dopo che la madre morì in un incendio e il padre di un attacco di cuore, Iyad andò a vivere a Gaza. Era il 1982 ed aveva solo nove anni. Scoprì la sua passione alcuni anni dopo, quando frequentava la prima media in una scuola dell’ONU.

“Il mio insegnante di matematica si chiamava Ibraheem Alssawalhi. Ricordo ancora il suo nome. Insegnava anche arte e ci mostrò tantissimi colori. Tutte quelle tonalità diverse mi fecero venire voglia di provarli,” mi dice Iyad su Messenger. “Un giorno ci chiese di dipingere il mercato rionale, e io lo feci. Quello che avevo disegnato gli piacque e lo mostrò a tutti gli altri studenti ed insegnanti a scuola. Fu quello a motivarmi.”

Nelle lezioni di arte imparò a realizzare semplici sculture di legno. Poi Iyad entrò in un circolo artistico e divenne il presidente del gruppo. In seguito ottenne una laurea in belle arti in Libia, dove all’epoca gli studi universitari erano gratuiti. In base al Protocollo di Casablanca firmato nel 1965 [accordo tra Paesi arabi riguardante lo status dei palestinesi, ndtr.] la Libia fu uno dei primi Paesi a consentire ai palestinesi di entrare e di avere accesso ad occupazione e istruzione alla pari dei suoi cittadini.

Una guida per gli altri

Iyad ritornò nel 1998 per insegnare arte all’Università Al-Aqsa di Gaza. Questo periodo coincise con la firma degli Accordi di Oslo [siglati nel 1993 tra il primo ministro israeliano Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Arafat, ndtr], che portò ad un’ondata di ottimismo e alla creazione di un nuovo governo. l’Autorità Nazionale Palestinese. I primi dirigenti [dell’ANP] si concentrarono sulla creazione di istituzioni quali scuole e ospedali. Fu in questo contesto che nel 2000 l’autorità municipale di Gaza organizzò un concorso pubblico per mutare l’aspetto della città. Fra i ventidue progetti presentati, vinse quello di Sabbah.

“La Fenice è stata la mia prima opera pubblica a Gaza e mi ha fatto conoscere alla gente,” ricorda Iyad. “È stata la prima di questo tipo – fatta di fibra di vetro, invece di uno stampo di cemento come era d’uso a quel tempo.”

Iyad continuò a creare molte altre opere di arte pubblica che fossero motivo di ispirazione ed orgoglio per la futura generazione di palestinesi. Sempre a Gaza City creò il Milite Ignoto, la Fontana della Sirena e una statua equestre che divenne il simbolo dell’Italian Complex [centro commerciale distrutto dall’aviazione israeliana durante l’attacco dell’agosto del 2014, ndtr]. Nella città meridionale di Khan Younis si trovava l’opera su commissione la Statua del Ritorno e nella vicina Rafah la Statua del Martire.

Oggi tutte le sue creazioni, ad eccezione di tre, sono scomparse – distrutte durante tre successive guerre con Israele fra il 2008 e il 2014, o smantellate con l’accusa di “idolatria” blasfema dal governo di Hamas dopo che assunse il potere nel 2006.

Le statue che rimangono sono la Fenice, la Statua del Ritorno ed una scultura per bambini disabili a Gaza City chiamata Lakfee Aldonya Makan, che in arabo significa “Hai un Posto nella Vita.”

“Vedere distruggere le mie creazioni mi ha causato frustrazione e dolore – soprattutto quando ciò è stato opera del mio stesso governo,” si rammarica.

Commemorare il dolore

Ciò nonostante Iyad non ha mai smesso di creare e donare alla sua gente. Quando Israele scatenò la guerra contro Gaza nel 2014, venne ucciso il figlio di un suo caro amico.

“Andai col mio amico in ospedale a cercare suo figlio, che faceva da guida ad alcuni giornalisti nel quartiere di Shuja’iyya. L’ospedale era stracolmo di morti e feriti,” ricorda, descrivendo la giornata di luglio in cui almeno 55 civili vennero uccisi nello spazio di 24 ore. “Trovammo il corpo del figlio del mio amico fra i morti.”

In ricordo di quel giovane Iyad creò Tahalok, che in arabo significa “esausto”. Nell’allestimento sette statue di argilla si trascinano da Shuja’iyya verso la spiaggia – sono uomini e donne, adulti e bambini dall’aspetto spossato, macchiati di rosso. Una delle statue è stata in seguito portata in Cisgiordania ed è esposta a Betlemme nel museo Banksy all’interno del Walled-Off Hotel [costruito lungo la barriera di separazione israeliana, è l’hotel del famoso artista Banksy, che lo pubblicizza come “l’albergo con la vista peggiore del mondo”, ndtr]. Le altre statue sono custodite nella sua casa di Gaza, dove attualmente vivono alcuni parenti. 

“Guerra e sradicamento sono temi perenni nella vita palestinese,” spiega Iyad.

Iyad aveva conseguito la laurea magistrale al Cairo nel 2006 e nel 2015 era andato in Tunisia per concludere un dottorato iniziato online. Quando in autunno venne invitato ad una mostra in Belgio, decise di chiedervi asilo e da allora quello è diventato il suo Paese di residenza.

“Però Gaza, la Palestina e la causa palestinese saranno sempre il fulcro della mia opera artistica,” dice Iyad.

Fa quello che può per sostenere chi è rimasto e lotta sotto l’occupazione. “Gli artisti di Gaza hanno tante idee ed esperienze, e hanno anche l’energia creativa per esprimersi, ma il blocco costituisce una grossa barriera fra loro e le esposizioni internazionali.”

La scarsità delle materie prime a Gaza costituisce un altro ostacolo significativo, specialmente per gli scultori. “È difficile trovare le fonderie, la lega di bronzo e i materiali speciali necessari per gli stampi,” spiega Iyad. Fa del suo meglio per aiutare gli artisti di Gaza a elaborare le loro opere e a condividerle con chi sta all’estero. Iyad ha aperto un canale YouTube per spiegare come crea la sua arte e condivide anche le opere di artisti gazawi sulla propria pagina Facebook.

Iyad è simile ad un uccello che è riuscito a fuggire da una grande gabbia. Nonostante lui sia libero, però, il suo cuore rimane laggiù, con gli altri uccelli in gabbia.

mentore: Pam Bailey

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




“Ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura”: i palestinesi che hanno perso le proprie case a Gerusalemme.

Yuval Abraham 

29 aprile 2021 – +972 magazine

Nel 2020 Israele ha demolito un numero record di case palestinesi a Gerusalemme. Dietro ad ognuna di queste c’è una famiglia che ha perso tutto, e molte non sono in grado di ricostruire la propria vita.

Ci sono aridi dati statistici: secondo i numeri forniti dall’associazione per i diritti umani Ir Amim [Ong israeliana impegnata a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini di Gerusalemme, ndtr.] nel 2020 un record di 140 famiglie palestinesi di Gerusalemme est ha perso la propria casa. Nel 2019 a Gerusalemme 72 famiglie palestinesi hanno assistito alla demolizione della propria abitazione, mentre nel 2018 questo numero era di 59. La maggior parte di queste persone, che hanno visto come i bulldozer sfondavano i muri della loro casa, sono invisibili agli occhi dell’opinione pubblica israeliana. Sono diventati una statistica. Ma ogni casa demolita porta con sé uno sconvolgimento complessivo per la famiglia, con ripercussioni che durano anni, molto al di là della demolizione in sé.

Ho incontrato tre diverse famiglie palestinesi subito dopo che, nel 2020, le loro case erano state demolite. Ho parlato con loro di nuovo alla fine dell’anno scorso per sentire quello che ne è stato delle loro vite da quando le loro abitazioni erano state distrutte. Non sono criminali, sono persone che hanno costruito le proprie case su terreni di proprietà privata che, per loro sventura, si trovavano in zone in cui in base a considerazioni demografiche Israele intende ridurre la presenza palestinese. E quando Israele vuole cacciare degli arabi dalle loro terre trova sempre il modo di farlo.

La famiglia Abadiya

Ismayil Abadiya è nato e cresciuto nel quartiere di Sur Baher, a Gerusalemme est. Quando ha voluto costruire una casa per i figli sulla sua terra ha scoperto che gli era impossibile ottenere una licenza edilizia dalle autorità israeliane. Si è scoperto che il piano regolatore di Sur Baher stilato dal Comune di Gerusalemme e da vari enti regolatori non aveva considerato edificabile il suo terreno.

È così che sono fatti i piani regolatori a Gerusalemme est: la maggioranza di essi non è stata aggiornata per 20 anni ed è molto difficile ottenere una licenza edilizia proprio perché sono stati predisposti per limitare l’ampliamento dei quartieri.

Ismayil non voleva correre rischi e costruire senza permesso, come fanno molti nella sua situazione, e ha deciso di comprare un terreno a Wadi al-Hummus, a soli 10 minuti di macchina dalla sua casa. Wadi al-Hummus si trova fuori dai confini del Comune di Gerusalemme per come sono stati delimitati nel 1967, quando [Israele] ha occupato la parte orientale della città. Vi ha costruito legalmente una casa ed ha ottenuto tutti i permessi necessari dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è responsabile delle licenze edilizie nell’Area B della Cisgiordania, dove si trova il terreno.

Dopo che la casa era stata costruita, Ismayil ha scoperto dell’esistenza di un ordine militare che vieta di costruire nei pressi del muro di separazione, che Israele ha eretto a qualche decina di metri di distanza. Il tentativo di Ismayil di portare il suo caso nei tribunali israeliani non ha dato risultati. Ero con lui la notte in cui la sua casa è stata demolita nel 2019. “I soldati sono entrati ed ho immediatamente alzato le mani. Due dei miei figli erano in casa e non volevo violenze,” ha detto.

“In un primo tempo quando hanno bussato alla porta ci siamo rifiutati di andarcene perché quella era la nostra casa. Ma nel momento in cui hanno fatto irruzione, volevo prendere ogni cosa e uscire. Però sono entrati in modo violento e ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura.”

Lo ricordo seduto sulla strada, con gli occhi gonfi vicino al suo figlio maggiore che tossiva a causa dei lacrimogeni sparati contro di loro solo qualche minuto prima. “Mi spiace, mi spiace,” mormorava Ismayil mentre guardava suo figlio. Ricordo la bicicletta di Hiba, la figlia di quattro anni, tutta rotta e sepolta tra le macerie.

Siamo rimasti in contatto per qualche mese. Mi sono sentito responsabile perché ho scritto di lui e l’ho fotografato per un articolo. Mi sono messo in contatto con ogni sorta di ente benefico, associazione di solidarietà e avvocati per avere un aiuto. Alcuni hanno promesso un aiuto legale, ma non hanno fatto molto. Non c’era veramente niente da fare.

Un mese dopo la distruzione, quando sono andato a trovarlo, Ismayil mi ha ospitato in casa di sua madre dove stavano vivendo lui e i cinque figli. Siamo andati insieme sul luogo in cui si trovava la sua vecchia casa, dove Ismayil va ogni giorno solo per dare un’occhiata. Le proprietà della famiglia erano ancora sepolte lì sotto un cumulo di pietre.

Nel corso del tempo abbiamo iniziato a comunicare sempre meno. Non volevo mollare, ho pensato che forse parlare a più persone di quello che era successo potesse aiutare.

Ho suggerito di iniziare una campagna di finanziamento, ma Ismayil ha categoricamente rifiutato. In un primo tempo ha detto che, poiché il Comune non rilascia licenze edilizie e di conseguenza non c’è per lui un posto in cui costruire legalmente, non sarebbe servito. Un’altra volta mi ha detto: “È qualcosa di fisico nel mio corpo. Non posso chiedere soldi a estranei.” Un po’ alla volta ho smesso di avere notizie da lui. A un certo punto ho anche smesso di chiamarlo.

Lo scorso luglio, proprio un anno dopo che la sua casa era stata demolita, Ismayil mi ha chiamato: “Sono in macchina,” mi ha detto. “Ho viaggiato parecchio. Non riesco più a respirare. Non ho più niente da perdere.”

Mi ha detto che la settimana prima sua figlia aveva festeggiato il suo quinto compleanno. “I suoi amici, dei bambinetti, sono venuti a visitarci. Ci hanno riso in faccia per come eravamo ridotti, dei miserabili, a vivere in una stanza della casa di mia madre. Erano vicino a me e lei gli ha gridato: “Non avvicinatevi a mio padre, è mio. È solo mio. Gli voglio bene.”

“Ha più paura per me di quanto io ne abbia per lei,” ha detto Ismayil. “Di notte si aggrappa a me. Di giorno sta seduta vicino a me in silenzio. Per tutta la mia vita ho cercato di occuparmi di lei, di essere un buon padre, e alla fine è lei che si occupa di me.”

Ho di nuovo offerto di lanciare una raccolta fondi. Ha rifiutato: “Se lo faccio, qual è la differenza tra me è un mendicante?”

“Voglio che tu mi metta in contatto con Ofer Hindi, il funzionario che ha firmato l’ordine di demolizione,” mi ha detto. “Voglio che mi conosca, che sappia chi sono. Gli chiederò di costruire una piccola casa sulla mia terra con una recinzione alta, in modo che non ci siano problemi di sicurezza dovuti alla vicinanza con il muro, qualunque cosa voglia. Mettici solo in contatto.”

La famiglia Ali

Lo scorso giugno le autorità israeliane hanno demolito la casa di of Ihab Hassan Ali nel campo profughi di Shuafat. È stata la terza volta che è stato espulso. “Prima del 1948 vivevamo vicino ad Abu Ghosh (un villaggio arabo nei pressi di Gerusalemme), in un villaggio chiamato Beit Thul. I miei genitori vennero deportati da lì durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica operata dai sionisti, ndtr.], la casa venne demolita e da allora siamo stati una famiglia di rifugiati,” dice. “All’epoca i miei genitori si spostarono nella Città Vecchia (di Gerusalemme). Ma nel 1967 nelle settimane successive all’occupazione [da parte di Israele, ndtr,] vennero cacciati anche da lì. Per questo siamo venuti nel campo di Shuafat.”

Negli ultimi anni molti palestinesi di Gerusalemme sono stati obbligati a vivere nel campo, che si trova dall’altra parte del muro di separazione, dopo che Israele ha negato loro le licenze edilizie all’interno della città o ha demolito le loro case, proprio come nel caso di Ihab.

Il Comune di Gerusalemme non fornisce praticamente alcun servizio allo spaventosamente affollato campo profughi di Shuafat. La costruzione avviene in modo pericoloso, senza supervisione o permessi. Ihab lì ha costruito una casa più di 30 anni fa, quando il campo era scarsamente abitato. Vi abita con i suoi figli e nipoti.

Negli anni ’80, quando Ihab costruì la sua casa, cercò di ottenere una licenza edilizia, ma ricevette la seguente risposta di una sola frase dall’Organismo Municipale e Unità di Monitoraggio di Gerusalemme: “Nessun progetto approvato e nessuna licenza edilizia può essere ottenuta per l’area in questione.” Ihab dice che, come molti palestinesi in città, aveva solo due possibilità: lasciare Gerusalemme o costruire la sua casa senza permesso.

Ihab Hassan Ali sta sulle macerie della sua casa nel campo profughi di Shuafat, Gerusalemme Est. (Rachel Shor)

Più di 30 anni dopo sono arrivati tanti poliziotti ed hanno demolito la sua casa. Era un grande edificio di due piani accanto al supermercato della famiglia. Un rappresentante del Comune ha detto a Ihab che la demolizione era avvenuta allora perché la casa era troppo vicina al muro di separazione.

“Ho costruito questa casa per la mia famiglia molto prima che venisse eretta la barriera,” afferma. “I muratori che l’hanno edificata avrebbero potuto riposarsi nel mio giardino, gli avrei offerto del tè. Se la barriera è vicina alla mia casa è perché Israele l’ha costruita vicino a casa mia.”

Quando l’ho chiamato alla fine dell’anno scorso mi ha detto: “Né io né la mia famiglia ci siamo ripresi dal punto di vista psicologico. Abbiamo cercato di immaginare cosa fare economicamente. Quando ero giovane ho lavorato come muratore, ma ho smesso quando avevo una quarantina d’anni. Ho preso tutti i miei risparmi ed ho aperto un piccolo supermercato. Ora sono tornato a lavorare come manovale senza uno shekel in tasca, ma il mio corpo non è più quello di una volta e alla fine di ogni giornata di lavoro le gambe mi bruciano.”

“Non faccio vedere ai miei figli e nipoti quanto sia difficile, “continua Ihab. “Dico loro di non preoccuparsi, che le cose vanno così, che in futuro compreremo un altro appezzamento di terra, vivremo come gli altri, costruiremo una casa con gli stessi pavimenti e finestre che avevamo prima. Non li lascio andare alle macerie, che sono ancora lì nel campo. Passo per altre strade, ma è difficile perché la loro scuola è lì vicino.”

“Sulla carta sono un cittadino, ma non ho diritti. Le autorità arrivano nel campo ogni giorno. Consegnano solo multe e ordini di demolizione per fare in modo che lasciamo la città. Questo processo non ha fatto che aumentare negli ultimi 20 anni. Prima di Oslo non era così, iniziò a cambiare tutto nel 1994. A Gerusalemme si sono accaniti con imposizioni contro la costruzione da parte dei palestinesi, senza fornire piani regolatori che consentissero di costruire legalmente.”

All’inizio del 2020 il Comune ha inviato a Ihab una convocazione, informandolo di una multa che avrebbe dovuto pagare per la demolizione della sua casa. “Calcolo che la multa sarà attorno al mezzo milione di shekel [circa 127.000 euro], so che c’erano un sacco di soldati e mezzi pesanti. Capisci? Mi verrà a costare come la casa. Compri da loro quello che hanno distrutto.”

La famiglia Abu Diab

Le autorità hanno demolito la casa di Ahmad Abu Diab, nel quartiere di Silwan, lo scorso giugno. Per qualche ragione il piano regolatore della zona ha destinato il suo terreno a “spazio pubblico aperto” in cui è vietato costruire. “Cosa pensano, che questa sia un’area per coltivare aranci, limoni?” chiede. “Questo è un piccolo appezzamento di terra privata di mia proprietà. Non ho nessun altro posto al mondo su cui costruire una casa.”

“Ho chiesto al Comune perché non cambiano la destinazione d’uso,” afferma Ahmad. “Dicono che me ne dovrei occupare io stesso e mi hanno chiesto di pagare un ingegnere, un avvocato, utilizzare un velivolo per fotografare tutte le case del quartiere dall’alto, e poi mappare la terra dei vicini. Questo, dicono, è l’unico modo secondo loro di verificare se sia possibile aggiornare il piano regolatore. Ma questa è responsabilità loro! Dove vado a prendere centinaia di migliaia di shekel per fare una cosa del genere?”

“Se fossimo ebrei potremmo costruire ovunque. E non è solo un problema mio, tutta Silwan è piena di ordini di demolizione per gente che ha costruito sulla propria terra senza permesso perché non se ne può ottenere uno. Quelli che hanno ricevuto un ordine di demolizione e hanno abbastanza soldi possono pagarsi un avvocato e presentare appello. In questo modo rimandano la demolizione più e più volte. Ma alla fine dovranno comunque demolire (la casa). È un modo per prendere tempo. Non ho neppure i soldi per un avvocato, quindi non posso guadagnare tempo.”

“Dopo la demolizione ci siamo spostati nel soggiorno di una casa vicina di parenti,” dice Ahmad. “Abbiamo vissuto lì per un mese, tutti in una stanza.”

“Degli amici mi hanno offerto di andare dall’altra parte del muro di separazione, nel campo profughi di Shuafat, ma non ho voluto. Sono di Silwan, il nonno di mio nonno è sepolto qui. Sono le mie radici, tutta la mia famiglia vive qui vicino, nei giorni di festa mi ci vuole solo un’ora per visitare chiunque. Non me ne voglio andare. Ho cercato un’abitazione in affitto, ma è molto difficile perché non ci sono case. Quando ho trovato qualcosa, i proprietari si sono rifiutati perché ho cinque bambini piccoli e avevano paura che distruggessimo la casa. Alla fine ho trovato un appartamento a Silwan, dove viviamo adesso.”

“La vita di tutta la mia famiglia è cambiata tanto da non riconoscerla più,” continua. “Soprattutto quella della mia figlia maggiore, Manal, che fa la seconda elementare. Gli altri sono troppo piccoli, non parlano della demolizione. Ma lei sì, ricorda la stanza e il bagno che aveva nell’altra casa. Tutte le nostre cose sono state distrutte. Sono rimaste troppo tempo al sole sotto le macerie. Ho ricomprato tutto.”

“Parlando di soldi, ce la caviamo a malapena. Ho dovuto mettere i miei figli in una scuola diversa per ragioni economiche e da allora i loro voti sono nettamente peggiorati. Un mese fa il Comune mi ha mandato una multa di 27.000 shekel [circa 6.800 €] per la demolizione e per pagare quelli che sono venuti a farla.”

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ambasciatrice israeliana boicottata da un gruppo giovanile sionista per le sue opinioni “razziste”

Redazione di MEM

22 aprile 2021 – Middle East Monitor

L’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna Tzipi Hotovely è stata boicottata da un movimento giovanile ebraico a causa delle “opinioni razziste e contrarie al pluralismo” della quarantaduenne. Il Noam, con sede in Gran Bretagna, è affiliato al movimento ebraico Conservatore-Masorti [l’ebraismo conservatore è una corrente religiosa ebraica innovativa rispetto a quelle ortodossa e ultraortodossa, ndtr.] e ha portato al boicottaggio della controversa rappresentante israeliana di estrema destra, con il rifiuto di partecipare ieri a un webinar collettivo.

L’evento era stato organizzato da Masorti, ma il suo ramo giovanile ha annunciato che non vi avrebbe preso parte a causa delle opinioni politiche e religiose di Hotovely. Secondo Times of Israel Noam ha cercato di convincere Masorti a ritirare l’invito a Hotovely a partecipare al webinar.

“Crediamo nell’importanza di impegnarsi per Israele così com’è, con tutte le gioie e le sfide che ne conseguono,” ha spiegato Noam in un comunicato ufficiale. “Ciononostante pensiamo che le dichiarazioni di Hotovely siano inaccettabili.”

Hotovely ha “sistematicamente rifiutato di riconoscere la cultura palestinese,” ha aggiunto il gruppo giovanile. Ha ricordato che una volta lei ha invitato a parlare alla Knesset (il parlamento israeliano) Lehava, un’organizzazione molto discussa che si dedica a lottare contro i matrimoni misti tra ebrei ed arabi. Il comunicato ha anche espresso preoccupazione per le passate affermazioni di Hotovely riguardo all’ebraismo non ortodosso.

Benché un certo numero di organizzazioni progressiste ebraiche abbia criticato la nomina di Hotovely, questa è la prima volta che è stata organizzata una protesta contro la rappresentante del Likud da quando lo scorso agosto ha assunto il suo incarico all’ambasciata di Israele a Londra. Circa 1.500 ebrei britannici avevano firmato una petizione per chiedere al governo di Boris Johnson di non accettare la sua nomina.

Nel suo primo discorso, durante un evento organizzato dal gruppo della lobby filoisraeliana Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici, Hotovely ha descritto la Nakba del 1948 come “una ben radicata e popolare menzogna araba”. Nei fatti più di 750.000 palestinesi furono vittime della pulizia etnica e cacciati dalle proprie case quando venne creato lo Stato sionista di Israele in Palestina.

Due giorni fa, durante la prima apparizione al telegiornale della BBC, Hotovely ha rifiutato di dire se crede alla soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese, nonostante sia stata sollecitata parecchie volte dal presentatore Emily Maitlis.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Giornata della Terra: il progetto israeliano di furto di terre continua indisturbato

Ghada Karmi

30 marzo 2021 – Middle East Eye

Per i palestinesi, la Giornata della Terra continua a essere uno stimolo e un omaggio alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

La centralità della lotta per la terra è sempre stata fondamentale per capire il conflitto israelo-palestinese.

È al cuore di due grandi eventi le cui ricorrenze cadono il 30 marzo. Il primo, la Giornata della Terra, commemora l’inizio della resistenza dei palestinesi all’occupazione della loro terra da parte di Israele nel 1976; e il secondo segna l’inizio della Grande Marcia del Ritorno nel 2018, quando a Gaza migliaia di palestinesi protestarono per il diritto dei rifugiati al ritorno alle loro terre confiscate in Israele.

Fin dall’inizio, il movimento sionista era fondato sull’acquisizione di un territorio deserto su cui stabilire uno Stato esclusivamente per ebrei. Dato che nella Palestina dell’epoca tale terra non era disponibile, doveva essere ottenuta, prima con l’acquisto e poi con la guerra.

Il percorso del furto della terra

Dato che dopo il 1917 gli immigrati ebrei iniziarono ad arrivare nel Paese in numero crescente, organizzazioni sioniste come il Fondo Nazionale Ebraico e l’Associazione per la colonizzazione ebraica della Palestina si approntarono ad acquistare terre palestinesi, a condizione che al momento dell’acquisto non fossero occupate.

Molti proprietari terrieri arabi che non vivevano più in Palestina e una minoranza di agricoltori palestinesi vendettero loro della terra. Queste vendite erano motivate principalmente dalla necessità economica, dato che le organizzazioni sioniste avevano accesso a fondi stranieri di cui gli arabi non disponevano.

Anni di intensi sforzi sionisti produssero tuttavia risultati deludenti. Nel 1947, e nonostante i loro fondi e contatti con potenti sostenitori del sionismo, queste organizzazioni avevano acquisito non più di un misero 6,7% di terreni palestinesi.

Ma questo insuccesso fu rapidamente ribaltato dalla guerra arabo-israeliana del 1948. In questo conflitto Israele conquistò il 78% della Palestina mandataria, impadronendosi di grandi estensioni di terra palestinese, quasi tutta non occupata a causa della fuga della popolazione e delle espulsioni durante la guerra.

Dopo il 1948, il nuovo Stato di Israele passò rapidamente una serie di leggi volte ad acquisire territori palestinesi con mezzi pseudo-legali. Fra queste ci furono la legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 che permetteva allo Stato di occupare terre e beni palestinesi i cui proprietari erano assenti e, subito dopo, la legge di Acquisizione della Terra che introdusse una nuova categoria di “terre statali” e “aree chiuse”, nel 1953.

Tutto ciò ha avuto l’effetto di far sì che lo Stato diventasse il proprietario della maggioranza della terra, permanentemente fuori dalla portata dei suoi precedenti proprietari palestinesi.

Eventi successivi, fino ad includere la guerra arabo-israeliana nel 1967, con cui Israele occupò il resto della Palestina, sono stati tappe dello stesso percorso di furto di terre. Oggi la presenza di colonie israeliane significa che la proprietà palestinese della Cisgiordania e di Gerusalemme Est si è ridotta a meno del 13%. Questa cifra è destinata a diminuire ulteriormente, dato che il processo di colonizzazione continua con ulteriori perdite di territorio.

Ciò ha fatto da sfondo alle drammatiche proteste della Giornata della Terra nel 1976. All’epoca il detonatore era stato il piano del governo israeliano di espropriare migliaia di dunum [10 dunum= 1 ettaro, ndtr.] di terra araba in Galilea per costruire villaggi industriali per ebrei. In linea con il “Piano per lo Sviluppo della Galilea” del governo israeliano nel 1975 per espandere l’insediamento degli ebrei, ciò avrebbe accelerato l’ebreizzazione di quella che era un’area a maggioranza araba. 

La svolta

Il 30 marzo venne indetto uno sciopero generale e scoppiarono numerose proteste in città arabe dalla Galilea al Negev. Migliaia marciarono per protesta mentre si tenevano dimostrazioni di solidarietà nei Territori Occupati e nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

In un momento in cui la popolazione araba era in gran parte passiva, tali eventi giunsero inaspettati per Israele che ne fu allarmato e impiegò migliaia di poliziotti, unità dell’esercito e carri armati per sedare le proteste. Furono uccisi sei arabi, migliaia furono i feriti e centinaia gli arrestati.

La Giornata della Terra fu un punto di svolta. Dal 1948 era la prima volta che, dopo anni di controllo militare israeliano, gli arabi in Israele agivano come una collettività nazionale, rifiutandosi di accettare il furto della loro terra. La Giornata della Terra era un’espressione di orgoglio nazionale e di fiducia in sé. Segnò la rivendicazione di una presenza araba che le politiche israeliane non potevano più ignorare e un punto di partenza per la partecipazione politica degli arabi in Israele. 

Da quel momento in poi, la Giornata della Terra è stata commemorata annualmente dai palestinesi ovunque. Nel 2018 è stata segnata dall’inizio di un’altra grande protesta palestinese per la terra. La Grande Marcia del Ritorno ha visto 30.000 palestinesi dimostrare a Gaza vicino alla recinzione israeliana di separazione di filo spinato elettrificato e dotato di sensori. Era una protesta pacifica che chiedeva il diritto al ritorno alle loro terre per i rifugiati e di porre fine al blocco di Gaza. Previste dal 30 marzo al 15 maggio, la giornata della Nakba o catastrofe, le proteste si sono svolte ogni venerdì.

Un eroismo doppio

Come nel 1976 gli israeliani hanno risposto con violenza assassina. Fra il 30 marzo e il 15 maggio si stima che siano stati uccisi 110 manifestanti, 13.000 i feriti da cecchini e droni. Quando la Marcia del Ritorno è stata interrotta da Hamas nel dicembre 2019, 214 persone erano state uccise e 36.000 ferite. Di queste, 1.200 necessitano di un lungo periodo di riabilitazione in seguito a infezioni alle ossa e lesioni agli arti. Sembra che i soldati israeliani abbiano usato una politica di “spara e ferisci”, mirando intenzionalmente alle gambe dei manifestanti per causare il massimo della disabilità.

Il sistema sanitario di Gaza, danneggiato da anni di blocco, da carenza di personale, attrezzature ed energia elettrica non è riuscito a fronteggiare un tale numero di feriti. Eppure ciò non ha impedito ai giovani palestinesi di affrontare morte e ferite ogni settimana per quasi due anni, creando una nuova leggenda palestinese da commemorare il 30 marzo. 

Israele non ha mai cambiato atteggiamento davanti a quel doppio eroismo palestinese celebrato in occasione della Giornata della Terra. Ha continuato a costruire “città di sviluppo” [denominazione delle nuove città solo per ebrei costruite in particolare nel Negev e in Galilea, ndtr.] per ebrei, 26 dal 1981, con il risultato di alterare la demografia della Galilea a favore degli ebrei.

Allo stesso modo a Gaza continua il blocco, e la scusa dell’autodifesa invocata per giustificare la brutalità di Israele contro la grande Marcia del Ritorno è stata accettata da molti governi occidentali. Il suo progetto di furto della terra palestinese continua indisturbato.  

Ma per i palestinesi il 30 marzo la Giornata della Terra continua a essere un’ispirazione e un tributo alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la propria casa con la famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove è cresciuta e ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Signor Blinken, noi condividiamo storie familiari simili

Mona AlMsaddar

20 gennaio 2021 – We Are Not Numbers

Gaza

Una lettera aperta ad Antony Blinken, che sta per essere designato Segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quando ha accettato la sua nomina, Blinken ha ricordato il suo patrigno Samuel Pisar, che era uno dei 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia, ma l’unico [fra loro] sopravvissuto all’Olocausto dopo quattro anni [trascorsi] nei campi di concentramento. Ha continuato col ricordare la fuga di Pisar da una marcia della morte [si riferisce ai movimenti forzati di decine di migliaia dei prigionieri dai campi di concentramento polacchi che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania, ndtr.] nella Germania controllata dai nazisti, dopo di che il ragazzo fu salvato da un soldato afro-americano. Poco prima di essere trasportato su un carro armato, Pisar “cadde in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che conosceva, che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: “God bless America” [Dio benedica l’America, ndtr.]. (Questa storia rivela perché non sorprende che Blinken, nel corso della sua audizione di conferma, abbia detto ai senatori che non è sua intenzione riportare l’ambasciata degli Stati Uniti da Gerusalemme a Tel Aviv e abbia affermato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.)

Caro signor Blinken,

credo che le persone rinascano mediante le loro sofferenze. Esse apprezzano meglio ciò che è utile per sopravvivere e imparano a trovare la felicità anche nei momenti più banali perché sanno quanto essa valga.

Seguo le notizie e quando lei è stato nominato ho voluto approfondire la mia conoscenza riguardo al suo passato e al perché lei la pensi in questo modo, in quanto, se sarà confermato dal Senato degli Stati Uniti, lei avrà molta influenza sulla mia vita. Lei, più di quasi ogni altro politico americano, guiderà le relazioni del suo Paese sia con Israele, che controlla la mia patria, sia con i palestinesi, che vivono sotto il suo tallone. Sono rimasta commossa e rattristata da quanto è successo al suo patrigno durante la seconda guerra mondiale. Sono profondamente dispiaciuta per il terrore e la perdita che ha vissuto come unico sopravvissuto tra i 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia. E poi fuggire da una delle famigerate “marce della morte” di Hitler! Rabbrividisco al pensiero.

Ogni tragedia è unica. Ma leggere dell’esilio forzato del suo patrigno mi fa venire in mente i miei nonni materni e il loro trasferimento forzato in seguito alla fondazione di Israele nel 1948. Noi la chiamiamo Nakba (catastrofe). Come il suo patrigno i miei nonni sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa della loro razza e religione.

Il padre di mia madre, Ahmad, all’epoca aveva solo 12 anni. Suo fratello, Ibrahim, ne aveva 15 e sua sorella solo 7. La loro famiglia viveva a Faja, un piccolo villaggio vicino a Giaffa, nell’attuale Israele. Oggi non c’è più. È stato inglobato nella città israeliana di Petah Tikva, che non mi è permesso visitare. L’assedio israeliano mi impedisce di lasciare Gaza, tanto più di entrare nella terra che la famiglia dei miei nonni ha chiamato patria per secoli.

Il mio bisnonno, Mohammad, era un uomo molto alto con gli occhi verdi come un limone non ancora maturo. Aveva una parte calva al centro della testa, quindi si pettinava i capelli in maniera tale da coprirla, ma in modo gradevole da vedere. Era l’unico a Faja ad avere una bicicletta. Vi pedalava con la sua amata moglie, Fatima, seduta in braccio. Sono cresciuti in una società tradizionalista, ma lui si è innamorato di lei da distante. Erano cugini e lui l’aspettava quando lei andava a prendere l’acqua, guardandola da lontano. Più tardi, quando si sono fidanzati e poi sposati, hanno lavorato la terra insieme negli aranceti.

Quella serena esistenza cessò nel 1947, quando le bande israeliane aprirono il fuoco contro il caffè del villaggio e le persone sedute all’interno. Erano tutti preoccupati per quello che avrebbe potuto accadere in seguito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero stati costretti a fuggire dal loro amato villaggio e che non vi sarebbero più tornati!

La notte, nei miei sogni, posso ricostruire la loro fuga forzata, sulla base delle storie che mi raccontano i miei nonni. Loro erano solo dei bambini, come il suo patrigno, Signor Blinken. Correvano sotto la minaccia dei bombardamenti e camminavano a fatica per lunghe distanze da un villaggio all’altro, dormendo in tenda, incerti su cosa avrebbero mangiato o bevuto il giorno successivo. I miei bisnonni erano convinti che il loro esilio sarebbe stato solo temporaneo, ma mio nonno e i suoi fratelli ebbero nostalgia di casa sin dal primo giorno. Ancora oggi, quando li guardo negli occhi, riesco quasi a vedere Faja, lì che aspetta con i suoi aranci.

Il mio bisnonno amava giocare a seega (un gioco da tavolo egiziano simile agli scacchi) con i suoi amici sotto l’albero di eucalipto camaldulensis (noto anche come eucalipto rosso). Più tardi, come rifugiato nella città di Rafah, a Gaza, lui e uno dei suoi amici hanno continuato a giocare insieme fino alla morte del suo vecchio compagno di giochi. Quello era il loro modo di ricordare il loro villaggio.

Nel 1977 il mio bisnonno riuscì a visitare Faja, o meglio le sue rovine, con i suoi nipoti, compresa mia madre! La scuola frequentata da suo figlio Ahmad (mio nonno) non c’era più. E così il parco giochi del luogo. L’unica cosa che ritrovarono della Faja che conoscevano fu il solitario albero di eucalipto, che immaginavano sarebbe riuscito a sopravvivere, nell’attesa che i suoi giovani amici tornassero a giocare a seega sotto la sua chioma. Mia madre, Aysha, mi ha detto che quando suo padre vide l’albero si sedette sotto di esso e pianse! Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma non poteva perché il suo permesso di permanenza rilasciato dagli israeliani stava per scadere. Il permesso di tornare nella terra di proprietà della sua famiglia era valido solo per una volta e per poche ore!

Posso chiederle di mettersi nei nostri panni? Chiuda gli occhi e immagini di voler tornare a casa dei suoi nonni. Ma l’ufficiale dell’aeroporto non glielo permetterà. Oppure, nella migliore delle ipotesi, può entrare in città solo per poche ore. Se rimanesse di più, verrebbe punito, probabilmente sbattuto in prigione. Come si sentirebbe, ci pensa? Definirlo crepacuore non è sufficiente a descrivere quello che provo ogni giorno.

Sono una ragazza palestinese di 25 anni per metà rifugiata (la famiglia di mio padre è nata qui), a cui non è mai stato permesso di lasciare il campo di concentramento di Gaza. Potrebbe pensare che sia eccessivo chiamarlo così, ma consideri: non siamo autorizzati a gestire un porto o un aeroporto e possiamo partire solo via terra se ci viene concesso un raro permesso. Tutto quello che so degli aeroplani riguarda i droni e i caccia a reazione. Conosco persino la differenza tra un F16 e un F35. Mentre scrivo questo il suono dei bombardamenti è tanto forte nel mio cuore. Non ci è permesso guadagnarci da vivere con le esportazioni. Abbiamo l’elettricità solo dalle quattro alle otto ore al giorno a causa della scarsità di carburante e la maggior parte della nostra acqua non è potabile perché non possiamo ricostruire i nostri impianti di trattamento delle acque reflue.

La nostra Nakba non è rimasta limitata al 1948. Continua ogni giorno che siamo costretti a vivere in queste condizioni. Quindi, per favore, signor Blinken, quando nei prossimi mesi prenderà decisioni sulla politica riguardante Israele e i palestinesi si ricordi della mia famiglia. Stiamo cercando in ogni modo di vivere e sopravvivere. Venga a trovarci per vedere di persona. Sarà mio ospite. Forse potremmo persino insegnarle il seega.

Fiduciosi saluti,

Mona AlMsaddar

Un’altra sopravvissuta alla guerra

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché Israele ha messo al bando Jenin, Jenin? Perché teme la narrazione palestinese.

Ramzy Baroud

19 gennaio 2021- Middle East Monitor

L’11 gennaio scorso il tribunale distrettuale israeliano di Lod ha deliberato a sfavore del regista palestinese Mahmoud Bakri, ordinandogli di pagare un cospicuo risarcimento ad un soldato israeliano accusato, insieme con l’esercito di Tel Aviv, di avere commesso crimini di guerra nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, nell’aprile 2002.

Da come viene riportato dai media non solo israeliani, il caso sembrerebbe una questione relativamente semplice di diffamazione e quant’altro. Per chi ha invece familiarità con le narrazioni totalmente in conflitto fra di loro derivate dall’evento noto ai palestinesi come il “massacro di Jenin”, il verdetto del tribunale ha non soltanto sfumature politiche, ma anche implicazioni di tipo storico e intellettuale.

 

Bakri è un palestinese nato nel villaggio di Bi’ina, vicino alla città palestinese di Akka, che ora fa parte di Israele. È stato trascinato diverse volte in tribunali israeliani e pesantemente censurato dai principali media locali semplicemente perché ha osato mettere in discussione la versione ufficiale delle violenze avvenute nel campo profughi di Jenin quasi due decenni fa.

 

Il suo documentario Jenin, Jenin da adesso è ufficialmente vietato in Israele. Il film, che venne prodotto a pochi mesi di distanza da quell’evento frutto della violenza di Stato israeliana, di per sé non formula molte accuse. Ha messo però a disposizione dei palestinesi uno spazio prezioso dove potessero liberamente trasmettere con parole proprie ciò che era accaduto al loro campo profughi quando unità dell’esercito israeliano, con la copertura aerea fornita da caccia ed elicotteri d’attacco, rasero al suolo gran parte del campo, uccidendo decine di persone e ferendone centinaia.

Non dimentichiamoci che Israele pretende di essere una democrazia. Vietare un film, al di là di quanto il contenuto possa risultare inaccettabile per il governo, è assolutamente incompatibile con qualsiasi definizione di libertà di parola.

Mettere al bando Jenin, Jenin e incriminarne il regista, per ricompensare invece chi è accusato di avere compiuto crimini di guerra, è oltraggioso.

 

Per capire la decisione israeliana dobbiamo avere ben presenti due contesti: il primo è il sistema israeliano di censura che mira a zittire qualsiasi critica della sua occupazione e apartheid; il secondo è la paura israeliana di una narrazione palestinese veramente indipendente.

La censura israeliana iniziò fin dalla nascita nel 1948 dello Stato di Israele sulle rovine della madrepatria palestinese. I padri fondatori dello Stato di Israele costruirono nei minimi particolari e a loro vantaggio la storia della nascita dello Stato, cancellando quasi interamente la Palestina e i palestinesi dalla loro narrazione.

Il compianto intellettuale palestinese Edward Said dice questo nel suo articolo “Permission to Narrate” [Il Permesso di Raccontare, pubblicato nella London Review of Books nel febbraio 1984, ndtr.]: “La narrazione palestinese non ha mai trovato spazio nella storia ufficiale israeliana, se non nella forma dei “non-ebrei”, la cui presenza passiva in Palestina era una seccatura da ignorare o espungere.”   

Per garantire la cancellazione dei palestinesi dalla retorica ufficiale israeliana, la censura di stato si è evoluta fino a diventare uno dei progetti di questo tipo più attentamente custoditi e più raffinati al mondo. La complessità e la brutalità della censura sono arrivate al punto di processare e incarcerare poeti ed artisti per avere semplicemente messo in discussione l’ideologia fondante di Israele, il sionismo, o per avere composto poesie ritenute offensive della sensibilità israeliana. Se sono stati i palestinesi ad aver subito gli effetti della macchina sempre vigile della censura di Israele, persino qualche ebreo israeliano, incluse delle organizzazioni per i diritti umani, non ne è rimasto indenne.

 

Il caso di Jenin, Jenin, tuttavia, non rientra nella censura ordinaria. Esso costituisce piuttosto una dichiarazione, un messaggio per coloro che osino dar voce ai palestinesi oppressi dandogli così modo di rivolgersi direttamente al mondo. Agli occhi di Israele questi palestinesi rappresentano indubbiamente il pericolo maggiore, in quanto essi smontano la stratificata, elaborata quanto ingannevole retorica ufficiale, che prescinde dalla natura e dalla collocazione locale o temporale di qualunque evento contestato, a cominciare dalla Nakba (“Catastrofe”) del 1948.

Il mio primo libro, Searching Jenin: Eyewitness Accounts of the Israeli Invasion [Ricerca a Jenin: Testimonianze di Prima Mano dell’Invasione Israeliana, ndtr.] uscì quasi in contemporanea con Jenin, Jenin. Come il documentario, il libro cercava di bilanciare la propaganda ufficiale israeliana con i resoconti sinceri e strazianti di chi era sopravvissuto alla violenza scatenata contro il campo profughi. Mentre Israele non aveva l’autorità di proibire il libro, da parte loro i media e il mondo accademico ufficiale israeliani lo ignorarono totalmente oppure lo attaccarono con ferocia.

Certo, la contro-narrazione palestinese nei confronti della versione dominante israeliana, sia sul “massacro di Jenin” sia sulla seconda intifada, che era ancora in corso a quei tempi, fu modesta e in gran parte poggiò sull’impegno di pochi. Eppure, persino questi modesti tentativi di raccontare una versione palestinese furono considerati pericolosi e respinti con forza come irresponsabili, sacrileghi o antisemiti.

 

La vera forza di Israele – ma anche il suo tallone di Achille – sta nella capacità di progettare, costruire e difendere la sua personale versione della storia, anche se quella narrazione non è quasi mai coerente con qualsivoglia definizione ragionevole di verità. Nell’ottica di tale modus operandi persino contro-narrazioni scarne e senza pretese sono viste come minacce, in quanto creano falle in una costruzione intellettuale già di per sé priva di fondamenta.

L’attacco implacabile conclusosi con la messa al bando del film di Bakri su Jenin non è stato un semplice prodotto della censura israeliana, ma si spiega perché egli ha osato macchiare la sequenza storica così diligentemente fabbricata da Israele, che inizia con un “popolo senza terra” perseguitato che si sostiene sia arrivato in una “terra senza popolo”, dove esso “ha fatto fiorire il deserto”. Questi sono due dei più potenti miti fondanti di Israele.

Jenin, Jenin è un microcosmo di narrazione popolare che è riuscito a frantumare la ben foraggiata propaganda di Israele. In quanto tale ha mandato (e manda ancora) ai palestinesi, ovunque si trovino, il messaggio che persino la falsificazione israeliana della storia può venire sfidata e sconfitta.

Nel suo fondamentale Decolonising Methodologies: Research and Indigenous Peoples [La Decolonizzazione delle Metodologie: Ricerca e Popolazioni Indigene, ndtr], Linda Tuhiwai Smith [studiosa neozelandese, ndtr.] prende brillantemente in esame il rapporto fra storia e potere. Ella afferma che “la storia riguarda soprattutto il potere… È la storia dei potenti, di come lo siano diventati, e di come usino poi il proprio potere per mantenersi nelle posizioni che gli permettono di continuare a dominare gli altri.” È precisamente per questo che Jenin, Jenin e altri tentativi palestinesi di reclamare la propria storia devono essere censurati, vietati e puniti: perché Israele vuole mantenere l’attuale struttura di potere.

 

Se Israele prende di mira la narrazione palestinese, non lo fa semplicemente per contestare l’accuratezza dei fatti né per il timore che la “verità” possa richiamarlo all’obbligo di rispondere delle sue responsabilità giuridiche. Allo Stato coloniale non importano per niente i fatti e, grazie al sostegno dell’Occidente, esso rimane immune dai procedimenti penali internazionali. In realtà questo ha a che fare con la cancellazione della storia, di una patria, di un popolo: il popolo della Palestina.

Ciò nondimeno, un popolo palestinese con una narrazione collettiva coerente esisterà sempre, a dispetto della geografia, delle avversità fisiche e delle circostanze politiche. Ed è questo che Israele teme più di ogni altra cosa.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Siamo la più importante associazione israeliana per i diritti umani, e questo lo chiamiamo apartheid

Hagai El-Ad

martedì 12 gennaio 2021 – The Guardian

La sistematica promozione della supremazia di un gruppo di persone su un altro è profondamente immorale e deve finire.

Non si può vivere neppure un giorno in Israele/Palestina senza provare la sensazione che questo luogo sia stato costantemente ideato per privilegiare un popolo e solo esso: il popolo ebraico. Eppure metà di quanti vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo sono palestinesi. Il divario tra queste situazioni vissute aleggia nell’aria, si espande, è ovunque su questa terra.

Non mi riferisco solo a dichiarazioni ufficiali che lo precisano, e ce ne sono tante, come l’affermazione nel 2019 del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini”, o la legge fondamentale dello “Stato-Nazione”, che sancisce che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”. Quello a cui sto cercando di arrivare è una sensazione più profonda di persone come desiderabili o indesiderabili e una consapevolezza del mio Paese a cui sono stato esposto gradatamente dal giorno in cui sono nato ad Haifa. Ora è una presa di coscienza che non può più essere evitata.

Benché ci sia una parità demografica tra i due popoli che vivono qui, la vita è gestita in modo tale per cui solo una metà gode della grande maggioranza del potere politico, delle risorse del territorio, di diritti, libertà e protezione. È proprio una prodezza conservare simile negazione dei diritti. Ancor di più lo è venderla con successo come una democrazia (all’interno della “Linea Verde”, il confine dell’armistizio del 1949), a cui viene associata un’occupazione temporanea. Di fatto, un governo gestisce chiunque e qualunque cosa tra il fiume e il mare che ovunque sotto il suo controllo risponde allo stesso principio organizzativo e opera per far progredire e perpetuare la supremazia di un gruppo di persone, gli ebrei, su un altro, i palestinesi. Questo è apartheid.

Non c’è un solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un palestinese e un ebreo siano uguali. Le uniche persone di prima classe sono i cittadini ebrei come me, e noi godiamo di questo status sia all’interno dei confini del 1967 che al di là, in Cisgiordania. Divisi dal differente status personale assegnato loro e dalle molte varianti di inferiorità a cui Israele li sottomette, i palestinesi che vivono sotto il dominio di Israele sono uniti dal fatto di essere tutti discriminati.

A differenza dell’apartheid sudafricano, l’applicazione della nostra versione, chiamatelo se volete apartheid 2.0, evita alcuni aspetti particolarmente sgradevoli. Non troverete cartelli “solo per bianchi” sulle panchine. Qui “proteggere il carattere ebraico” di una comunità, o dello Stato stesso, è uno degli eufemismi appena velati utilizzato per cercare di nascondere la verità. Però l’essenza è la stessa. Che in Israele le definizioni non dipendano dal colore della pelle non fa una differenza reale: è la situazione di superiorità che è al centro della questione, e che deve essere sconfitta.

Fino all’approvazione della legge sullo Stato-Nazione, la lezione fondamentale che Israele sembra aver appreso riguardo a come è finito l’apartheid sudafricano è stata evitare dichiarazioni e leggi troppo esplicite. Queste possono rischiare di provocare giudizi morali, ed eventualmente, dio ne scampi, conseguenze concrete. Al contrario la paziente, tranquilla e graduale accumulazione di prassi discriminatorie tende a evitare reazioni da parte della comunità internazionale, soprattutto se non si intendono onorare seriamente le sue norme e attese.

È così che la supremazia ebraica da entrambi i lati della Linea Verde è realizzata e applicata. Abbiamo progettato la composizione demografica della popolazione, lavorando per incrementare il numero di ebrei e limitare quello dei palestinesi. Ovunque Israele abbia il controllo abbiamo consentito l’immigrazione ebraica, con la cittadinanza automatica. Per i palestinesi è vero il contrario: ovunque ci sia il controllo di Israele, non possono acquisire lo stato civile, persino se la loro famiglia è di qui.

Abbiamo progettato il potere in modo da attribuire, o negare, diritti politici. Ogni cittadino ebreo ha diritto di voto (e ogni ebreo può diventare cittadino), ma meno di un quarto dei palestinesi sotto il controllo israeliano ha la cittadinanza e quindi vota. Il 23 marzo, quando gli israeliani andranno a votare per la quarta volta in due anni, non sarà una “festa della democrazia”, come spesso vengono definite le elezioni. Sarà invece un ennesimo giorno in cui i palestinesi privati di diritti vedranno come il loro futuro sarà determinato da altri.

Abbiamo progettato il controllo della terra espropriando vaste estensioni di terra palestinese, escludendoli dalla possibilità di beneficiarne o utilizzandole per costruire città, quartieri e colonie ebraici. All’interno della Linea Verde lo abbiamo fatto da quando è stato fondato lo Stato, nel 1948. A Gerusalemme est e in Cisgiordania lo abbiamo fatto da quando le abbiamo occupate, fin dal 1967. Il risultato è che le comunità palestinesi, ovunque tra il fiume e il mare, devono affrontare una situazione di demolizioni, espulsioni, impoverimento e sovraffollamento, mentre le stesse risorse della terra sono destinate a nuove aree di sviluppo urbano per gli ebrei.

E abbiamo progettato, o meglio limitato, gli spostamenti dei palestinesi. La maggior parte di loro, che non sono né cittadini né residenti, dipende da permessi e posti di controllo israeliani per viaggiare all’interno di un’area e tra una zona e l’altra, così come per andare all’estero. Per i due milioni della Striscia di Gaza le restrizioni agli spostamenti sono più severe: non è semplicemente un bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid, venivano destinati alla popolazione nativa, ndtr.], in quanto Israele ne ha fatto una delle prigioni all’aria aperta più grandi sulla Terra.

Haifa, la mia città natale, dal 1948 vive una situazione di parità demografica. Dei circa 70.000 palestinesi che vi vivevano prima della Nakba [la Catastrofe, l’espulsione dei palestinesi nel 1948, ndtr.], ne venne lasciato in seguito meno del 10%. Da allora sono passati ormai 73 anni, e adesso Israele/Palestina è una realtà bi-nazionale con parità demografica. Io sono nato qui. Voglio, cerco di rimanervi. Ma voglio, pretendo di vivere in un futuro molto diverso.

Il passato è fatto di traumi e ingiustizie. Nel presente, sono riprodotte costantemente ancor più ingiustizie. Il futuro deve essere radicalmente diverso, il rifiuto della supremazia, costruito sull’impegno per la giustizia e per la nostra comune umanità. Chiamare le cose con il loro nome, apartheid, non è un momento di disperazione, ma di chiarezza morale, un passo sul lungo cammino ispirato dalla speranza. Vedi la realtà per quello che è, chiamala col suo nome senza infingimenti, e contribuisci a realizzare un futuro giusto.

Hagai El-Ad è un attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




I diritti dei palestinesi e la definizione dell’IHRA di antisemitismo

29 novembre 2020, The Guardian

Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA

Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.

Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Dirottare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.

L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo. L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazione dell’Olocausto. Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.

La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo strutturato, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e l’ininterrotta occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti principi:

1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere applicata nel quadro delle leggi internazionali e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia, compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.

2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e annientati come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così com’é attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.

3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente da movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.

4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere valutato in rapporto ai diritti del popolo palestinese. Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti nella stessa misura tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.

5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro strumento per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei angosce tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.

6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.

La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.

7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori,alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. L’occultamento dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA tradisce un atteggiamento che sostiene il privilegio ebraico, invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.

Samir Abdallah

Regista, Parigi, Francia

Nadia Abu El-Haj

Ann Olin Whitney Docente di Antropologia, Columbia University, USA

Lila Abu-Lughod

Joseph L Buttenwieser Docente di Scienze Sociali, Columbia University, USA

Bashir Abu-Manneh

Docente in Letteratura Postcoloniale, University of Kent, UK

Gilbert Achcar

Docente di Studi sullo Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Nadia Leila Aissaoui

Sociologa e scrittrice su tematiche femministe, Parigi, Francia

Mamdouh Aker

Consiglio di amministrazione, Università di Birzeit, Palestina

Mohamed Alyahyai

Scrittore e romanziere, Oman

Suad Amiry

Scrittrice e architetto, Ramallah, Palestina

Sinan Antoon

Professore Associato, New York University, Iraq-USA

Talal Assad

Professore Emerito di Antropologia, Graduate Center, CUNY, USA

Hanan Ashrawi

Ex docente di Letteratura Comparata, Università di Birzeit, Palestina

Aziz Al-Azmeh

Professore emerito, Università dell’Europa centrale, Vienna, Austria

Abdullah Baabood

Accademico e ricercatore in Studi sul Golfo, Oman

Nadia Al-Bagdadi

Docente di Storia, Università Centrale Europea, Vienna

Sam Bahour

Scrittore, Al-Bireh / Ramallah, Palestina

Zainab Bahrani

Edith Porada Docente di Storia dell’Arte e Archeologia, Columbia University, USA

Rana Barakat

Assistente universitaria di Storia, Università di Birzeit, Palestina

Bashir Bashir

Professore associato di Teoria Politica, Open University of Israel, Raanana, Stato di Israele

Taysir Batniji

Artista-Pittore, Gaza, Palestina e Parigi, Francia

Tahar Ben Jelloun

Scrittore, Parigi, Francia

Mohammed Bennis

Poeta, Mohammedia, Marocco

Mohammed Berrada

Scrittore e critico letterario, Rabat, Marocco

Omar Berrada

Scrittore e curatore, New York, USA

Amahl Bishara

Professore Associato e Presidente, Dipartimento di Antropologia, Tufts University, USA

Anouar Brahem

Musicista e compositore, Tunisia

Salem Brahimi

Regista, Algeria-Francia

Aboubakr Chraïbi

Docente, Dipartimento di Studi Arabi, INALCO, Parigi, Francia

Selma Dabbagh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Izzat Darwazeh

Docente di Ingegneria delle Comunicazioni, University College London, UK

Marwan Darweish

Professore associato, Università di Coventry, Regno Unito

Beshara Doumani

Mahmoud Darwish Docente di Studi Palestinesi e di Storia, Brown University, USA

Haidar Eid

Professore Associato di Letteratura Inglese, Università Al-Aqsa, Gaza, Palestina

Ziad Elmarsafy

Docente di Letteratura Comparata, King’s College di Londra, Regno Unito

Noura Erakat

Professore Associato, Africana Studies and Criminal Justice, Rutgers University, USA

Samera Esmeir

Professore Associato di Retorica, Università della California, Berkeley, USA

Khaled Fahmy

FBA, Docente di Studi Arabi Moderni, Università di Cambridge, Regno Unito

Ali Fakhrou

Accademico e scrittore, Bahrain

Randa Farah

Professore Associato, Dipartimento di Antropologia, Western University, Canada

Leila Farsakh

Professore associato di Scienze Politiche, Università del Massachusetts Boston, USA

Khaled Furani

Professore Associato di Sociologia e Antropologia, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Burhan Ghalioun

Professore Emerito di Sociologia, Sorbonne 3, Parigi, Francia

Asad Ghanem

Professore di Scienze Politiche, Università di Haifa, Stato di Israele

Honaida Ghanim

Direttore generale del Forum Palestinese per gli Studi Israeliani Madar, Ramallah, Palestina

George Giacaman

Docente di Filosofia e Studi Culturali, Università di Birzeit, Palestina

Rita Giacaman

Docente, Istituto di Comunità e Sanità pubblica, Università di Birzeit, Palestina

Amel Grami

Docente di Studi di Genere, Università Tunisina, Tunisi

Subhi Hadidi

Critico letterario, Siria-Francia

Ghassan Hage

Docente di Antropologia e Teoria Sociale, Università di Melbourne, Australia

Samira Haj

Professore Emerito di Storia, CSI / Graduate Center, CUNY, USA

Yassin Al-Haj Saleh

Scrittore, Siria

Dyala Hamzah

Professore Associato di Storia Araba, Université de Montréal, Canada

Rema Hammami

Professore Associato di Antropologia, Università di Birzeit, Palestina

Sari Hanafi

Docente di Sociologia, Università Americana di Beirut, Libano

Adam Hanieh

Docente in Studi dello Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Kadhim Jihad Hassan

Scrittore e traduttore, Docente presso INALCO-Sorbonne, Parigi, Francia

Nadia Hijab

Autrice e Difensore dei Diritti Umani, Londra, Regno Unito

Jamil Hilal

Scrittore, Ramallah, Palestina

Serene Hleihleh

Attivista Culturale, Giordania-Palestina

Bensalim Himmich

Accademico, romanziere e scrittore, Marocco

Khaled Hroub

Professore in Residenza di Studi Medio-Orientali, Northwestern University, Qatar

Mahmoud Hussein

Scrittore, Parigi, Francia

Lakhdar Ibrahimi

Scuola di Affari Internazionali di Parigi, Istituto di Studi Politici, Francia

Annemarie Jacir

Regista, Palestina

Islah Jad

Professore Associato di Scienze Politiche, Università di Birzeit, Palestina

Lamia Joreige

Artista Visuale e Regista, Beirut, Libano

Amal Al-Jubouri

Scrittore, Iraq

Mudar Kassis

Professore Associato di Filosofia, Università Birzeit, Palestina

Nabeel Kassis

Ex Docente di Fisica ed ex Preside, Università di Birzeit, Palestina

Muhammad Ali Khalidi

Docente di Filosofia, CUNY Graduate Center, USA

Rashid Khalidi

Edward Said Docente di Studi Arabi Moderni, Columbia University, USA

Michel Khleifi

Regista, Palestina-Belgio

Elias Khoury

Scrittore, Beirut, Libano

Nadim Khoury

Professore Associato di Studi Internazionali, Lillehammer University College, Norvegia

Rachid Koreichi

Artista-Pittore, Parigi, Francia

Adila Laïdi-Hanieh

Direttore generale, Museo Palestinese, Palestina

Rabah Loucini

Docente di Storia, Università di Orano, Algeria

Rabab El-Mahdi

Professore Associato di Scienze Politiche, The American University, Il Cairo, Egitto

Ziad Majed

Professore Associato di Studi sul Medio Oriente e IR, Università Americana di Parigi, Francia

Jumana Manna

Artista, Berlino, Germania

Farouk Mardam Bey

Editore, Parigi, Francia

Mai Masri

Regista palestinese, Libano

Mazen Masri

Professore a contratto di diritto, City University of London, UK

Dina Matar

Docente in Comunicazione Politica e Media Arabi, SOAS, University of London, UK

Hisham Matar

Scrittore, Docente al Barnard College, Columbia University, USA

Khaled Mattawa

Poeta, William Wilhartz Docente di Letteratura Inglese, Università del Michigan, USA

Karma Nabulsi

Docente di Politica e IR, Università di Oxford, Regno Unito

Hassan Nafaa

Professore Emerito di Scienze Politiche, Università del Cairo, Egitto

Nadine Naber

Docente, Dipartimento di Studi Femminili e di Genere, University of Illinois at Chicago, USA

Issam Nassar

Professore, Illinois State University, USA

Sari Nusseibeh

Professore Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Najwa Al-Qattan

Professore Emerito di Storia, Loyola Marymount University, USA

Omar Al-Qattan

Regista, Presidente del Museo Palestinese e della Fondazione AM Qattan, Regno Unito

Nadim N Rouhana

Docente di Affari internazionali, The Fletcher School, Tufts University, USA

Ahmad Sa’adi

Docente, Haifa, Stato di Israele

Rasha Salti

Curatrice indipendente, scrittrice, ricercatrice d’arte e film, Germania-Libano

Elias Sanbar

Scrittore, Parigi, Francia

Farès Sassine

Docente di filosofia e critico letterario, Beirut, Libano

Sherene Seikaly

Professore Associato di Storia, Università della California, Santa Barbara, USA

Samah Selim

Professore Associato, Lingue e letterature A, ME e SA, Rutgers University, USA

Leila Shahid

Scrittrice, Beirut, Libano

Nadera Shalhoub-Kevorkian

Lawrence D Biele Cattedra in Legge, Hebrew University, Stato di Israele

Anton Shammas

Docente di Letteratura Comparata, Università del Michigan, Ann Arbor, USA

Yara Sharif

Docente senior, Architettura e Città, Università di Westminster, Regno Unito

Hanan Al-Shaykh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Raja Shehadeh

Avvocato e scrittore, Ramallah, Palestina

Gilbert Sinoué

Scrittore, Parigi, Francia

Ahdaf Soueif

Scrittrice, Egitto / Regno Unito

Mayssoun Sukarieh

Docente senior di Studi sullo Sviluppo, King’s College di Londra, Regno Unito

Elia Suleiman

Regista, Palestina-Francia

Nimer Sultany

Docente in Diritto Pubblico, SOAS, University of London, UK

Jad Tabet

Architetto e scrittore, Beirut, Libano

Jihan El-Tahri

Regista, Egitto

Salim Tamari

Professore Emerito di Sociologia, Università di Birzeit, Palestina

Wassyla Tamzali

Scrittrice, produttrice d’arte contemporanea, Algeria

Fawwaz Traboulsi

Scrittore, Beirut Libano

Dominique Vidal

Storico e giornalista, Palestina-Francia

Haytham El-Wardany

Scrittore, Egitto-Germania

Said Zeedani

Professore Associato Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Rafeef Ziadah

Docente in Politiche Comparate del Medio Oriente, SOAS, University of London, UK

Raef Zreik

Minerva Humanities Center, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Elia Zureik

Professore Emerito, Queen’s University, Canada

Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta