La Chiesa anglicana del Sud Africa solidarizza con la Palestina e dichiara Israele Stato di apartheid

Redazione

02 ottobre 2023-The New Arab

La Chiesa anglicana in Sud Africa ha dichiarato Israele uno “Stato di apartheid”, a seguito di una campagna condotta da attivisti palestinesi.

Mercoledì il Comitato permanente provinciale della Chiesa cristiana ha approvato una risoluzione che definisce Israele come uno Stato di apartheid e rivede [le modalità dei] pellegrinaggi in Terra Santa.

Amnesty International, insieme ad altre ONG, definisce le condizioni in cui vivono i palestinesi sotto l’occupazione israeliana come “apartheid”, riferendosi al sistema oppressivo di segregazione razziale in Sud Africa in vigore fino al 1994.

“Come persone di fede che sono angosciate dal dolore dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza – e che desiderano la sicurezza e una pace giusta sia per la Palestina che per Israele – non possiamo più ignorare la realtà sul terreno”, ha affermato sul suo blog il capo della Chiesa anglicana sudafricana, l’arcivescovo Thabo Makgoba.

“Quando i neri sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid visitano Israele i parallelismi con l’apartheid sono impossibili da ignorare. Se restiamo a guardare e restiamo in silenzio saremo complici della continua oppressione dei palestinesi”.

L’arcivescovo ha chiesto la pace per palestinesi e israeliani, ma ha condannato le politiche oppressive dei successivi governi israeliani e ha affermato che stanno “divenendo sempre più estreme”.

In un messaggio audio ha detto: “Per i cristiani, la Terra Santa è il luogo dove Gesù è nato, è stato allevato, cresciuto e crocifisso. I nostri cuori soffrono per i nostri fratelli e sorelle cristiani in Palestina, il cui numero include anglicani ma sta rapidamente diminuendo”.

“Le persone di tutte le fedi in Sud Africa hanno sia una profonda comprensione di cosa significhi vivere sotto l’oppressione, sia l’esperienza di come affrontare e vincere un governo ingiusto con mezzi pacifici”.

La risoluzione della Chiesa sudafricana chiede anche di stabilire rapporti con i cristiani palestinesi, compresi incontri con la comunità laica e il clero durante i pellegrinaggi, e che si attiri l’attenzione sulla persecuzione dei palestinesi.

La risoluzione dichiara: “Le visite ai cristiani di Palestina per ascoltare le loro storie spesso non rientrano nel programma di questi pellegrinaggi e, inoltre, la parola ‘Palestina’ non è mai o quasi mai usata nel materiale pubblicitario o nella preparazione del pellegrinaggio”.

“L’occupazione militare della Palestina non è quasi mai menzionata o discussa in questi pellegrinaggi e le somiglianze con l’apartheid in Sud Africa [sono] raramente discusse.”

Da tempo i leader neri sudafricani e gli attivisti del movimento per i diritti civili del Sudafrica tracciano parallelismi tra le loro esperienze durante l’apartheid e le condizioni dei palestinesi oggi.

Dopo essere diventato presidente del Sudafrica post-apartheid Nelson Mandela disse: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Anche l’ex leader della Chiesa anglicana sudafricana, l’’arcivescovo emerito Desmond Tutu, ha ripetutamente utilizzato la sua piattaforma mediatica per difendere i diritti dei palestinesi prima della sua morte nel 2021.

Ha detto che per molti versi le condizioni dei palestinesi che vivono sotto l’’occupazione israeliana sono peggiori di quelle sopportate dai neri sudafricani durante l’’apartheid.

“Sono stato testimone dell’umiliazione sistematica di uomini, donne e bambini palestinesi da parte di membri delle forze di sicurezza israeliane”, ha detto ai media sudafricani nel 2014.

“La loro umiliazione è familiare a tutti i neri sudafricani che sono stati rinchiusi, molestati, insultati e aggrediti dalle forze di sicurezza del governo dell’apartheid”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Da un apartheid all’altro tra Soweto e Nazareth

Jean Stern, inviato speciale a Nazareth

6 febbraio 2023 – Orient XXI

Gli abitanti di Nazareth non vivono sotto occupazione militare come in Cisgiordania o sotto un blocco come a Gaza. Però, sia a Soweto visitata nel 1989 sia nella città araba del nord di Israele visitata nel 2022, lo spirito degli abitanti e l’organizzazione urbana e sociale riflettono il fulcro dell’apartheid che è la separazione.

Settembre 1989, Soweto. La gigantesca città nera alle porte di Johannesburg contava allora più di 2 milioni e mezzo di abitanti ed io mi ci recai poco prima che Nelson Mandela uscisse dal carcere, l’11 febbraio 1990. L’apartheid, che relegava i neri del Sudafrica in uno stato di cittadinanza di serie B e in zone specifiche, crollò allora ovunque. Sotto l’influenza di Mandela e dei suoi sostenitori le manifestazioni si moltiplicarono nelle strade delle città sudafricane. Vennero violentemente represse a Soweto come in tutto il Paese. Durante quelle proteste vennero uccisi centinaia di neri, così come dopo decenni centinaia di palestinesi durante manifestazioni a Gaza, nei Territori [palestinesi occupati, ndt.], a Gerusalemme est, ma anche a Nazareth. Nell’autunno del 2000 la polizia israeliana uccise molti abitanti di Nazareth, che manifestavano la loro solidarietà con la rivolta di Gerusalemme est.

Stiamo conquistando la nostra libertà”

Soweto nel 1989 era un mondo a parte, un immenso ghetto urbano, ma è meno tagliato fuori dal mondo di quanto non lo siano oggi Gaza e i territori palestinesi occupati. Si poteva entrare ed uscire anche se, a seconda delle circostanze, i poliziotti controllavano più o meno severamente l’accesso alle sue strette strade e alle sue casette di lamiera ondulata.

Percorsi di notte i locali clandestini di Soweto, gli shebeens, incontrai persone ottimiste che preparavano il futuro di un Paese presto liberato da un sistema razzista contestato dal mondo intero. “Stiamo conquistando la nostra libertà”, diceva Souizo, un uomo di una trentina d’anni, che ballava con me per la gioia di vedere crollare l’apartheid. Dopo tanta rabbia e tanti morti, Souizo sapeva che la mobilitazione mondiale aveva fatto uscire dall’ombra la loro lotta. Con i suoi amici era fiero di spazzare via un sofisticato e subdolo sistema di discriminazione.

A Nazareth, grosso centro orientale e polveroso, più di 30 anni dopo incontro invece persone inquiete, depresse, che pensano che il loro futuro sia bloccato. Città di pellegrinaggi per una parte della cristianità, conosciuta a livello mondiale quanto Soweto, la città della Galilea si trova all’interno delle frontiere del 1948, non lontano dal lago di Tiberiade. In linea d’aria Jenin è a una ventina di chilometri. Popolata soprattutto da arabi, musulmani e cristiani, il suo agglomerato urbano conta circa 200.000 abitanti.

I miei interlocutori condividono la visione premonitrice di Nelson Mandela, espressa nel 2001:

L’efficacia della separazione si misura in termini di capacità di Israele di mantenere lo Stato ebraico e di non avere una minoranza palestinese che potrebbe avere la possibilità di diventare maggioritaria nel futuro. Se questo accadesse, ciò costringerebbe Israele a diventare uno Stato democratico o binazionale laico, oppure a trasformarsi in uno Stato di apartheid de facto.”

Sì, siamo guardati con ostilità”

La maggior parte di coloro che incontro, che una volta venivano chiamati arabi israeliani e che oggi in gran parte preferiscono definirsi palestinesi, ne è testimone. Mandela aveva ragione. Cittadini di serie B, solidali con i palestinesi rinchiusi dall’altra parte del muro o bloccati a Gaza, hanno assolutamente l’impressione di vivere quotidianamente un apartheid. “Sì, per noi l’orizzonte è bloccato, a meno di lasciare questo Paese. Sì, siamo guardati con ostilità dalla maggioranza ebrea di questo Paese. Non dicono tutti i giorni ‘morte agli arabi’, come i coloni più estremisti, ma molti lo pensano”, dice Nassira, una giovane architetta.

Nazareth è cambiata dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. All’inizio c’era Nazareth “bassa”, 75.000 abitanti di cui il 35% cristiani. Dopo oltre un secolo la città della presunta Annunciazione è in maggioranza musulmana. “Nazareth è stata segnata nel 1948 dall’espulsione della popolazione e dalla demolizione da parte degli israeliani di due villaggi palestinesi contigui, Saffuriya e Ma’aloul”, mi spiega Reda, un intellettuale palestinese trentenne molto impegnato. Fare partire la popolazione araba era l’obbiettivo della creazione nel 1956 di “Nazareth alta”, ©, 40.000 abitanti, ribattezzata nel 2019 Nof HaGalil [Vista sulla Galilea] per distinguersi dalla sua rivale araba. Nazareth Illit è un progetto urbano concepito per riequilibrare la popolazione della Galilea. In questo Paese la demografia governa la politica, come osservava Mandela. Nel 1973 centinaia di persone appena arrivate dall’URSS si stabilirono a Nazareth Illit. Già allora, dopo un sordido fatto di cronaca scesero per le strade al grido di “morte agli arabi”.

La separazione urbana si vede a occhio nudo, anche se non ci sono posti di blocco né barriere tra la vecchia Nazareth araba e la nuova Nazareth a maggioranza ebrea.

Arrivando si scoprono due centri commerciali, il primo nella conca alle porte della città vecchia e il secondo sulle alture all’entrata di Nof HaGalil.

Quello in basso si chiama Big Fashion e quello in alto Mail One. Sono quasi uno di fronte all’altro, a qualche centinaio di metri. Gli stessi marchi internazionali, in basso H&M, Adidas, Mango, Pizza Hut, McDonald e in alto ancora Adidas e anche Mango, Castro, Diesel. La separazione è fatta, un centro per gli arabi, un altro per gli ebrei. A Nazareth ci si evita. I neri di Soweto non avevano il diritto di aggirarsi nei lussuosi centri commerciali del centro di Johannesburg e si accontentavano dei negozi del ghetto, spesso gestiti da indiani, classificati come “indians” dall’apartheid.

L’apartheid inizia nel mio letto”

Ricchi e poveri, bianchi o neri, ebrei o arabi, la regola della separazione produce società spaccate. Si può tradurre il termine apartheid con ‘mettere da parte’, ed è proprio ciò che accade in Israele. Mata, cittadino israeliano, musicista di una quarantina d’anni, riccioli alla Jim Morrison, lo racconta: “La legge produce discriminazione. Per esempio mia moglie ed io abbiamo due status differenti; l’apartheid quindi è già nel mio letto.” Nassira, sua moglie, è “residente” di Gerusalemme est, dove è nata, e di fatto non ha gli stessi diritti di suo marito.

È semplice,” mi spiega Nassira. “Mata ha il diritto di voto, io no. Può prendere l’aereo per andare dove vuole da un momento all’altro, io no. Ha potuto andare nell’università che ha scelto, io no. Viviamo qui insieme, ma io potrei essere costretta da un momento all’altro a ritornare a Gerusalemme est.” Infatti l’assemblea nazionale israeliana nella primavera del 2022 ha rimesso in vigore una legge che impedisce il ricongiungimento familiare per matrimonio tra palestinesi di Israele, di Gerusalemme est e dei territori [palestinesi occupati].

Quale democrazia prevede per una parte della sua popolazione quattro status differenti, a seconda che abiti, come a Nazareth, entro le frontiere del 1948 [cioè in Israele, ndt.], a Gerusalemme est, in Cisgiordania o a Gaza?

L’identità araba è percepita come una minaccia”

Reda denuncia anche la legge del 2018 sullo Stato-Nazione del popolo ebraico, che consacra Israele come una teocrazia ebraica. “Non capisco come gli amici di Israele possano accettare questo. A me non importa di essere ebreo, cristiano o musulmano. Qui l’identità araba è percepita come una minaccia. I media, la vox populi, ci fanno sapere chiaramente che facciamo parte di coloro che minacciano Israele”, precisa.

La piccola galleria-libreria- sala da concerto nel cuore di un suk in piena rinascita, dove ci ritroviamo una sera per un’avvincente esibizione della cantante elettro-folk Sama Mustafa, è un locale accogliente, come i numerosi caffè nei dintorni, come il Centro Baladna – “la nostra città” in arabo – aperto nel 2021 da un collettivo di giovani palestinesi.

Ritrovo l’atmosfera degli shebeens [bar clandestini sudafricani in cui si servivano alcoolici senza licenza, ndt.]. Come a Soweto, ognuno racconta una storia di oppressione, di umiliazione. “Si sta bene qui ed è il nostro momento di tranquillità”, mi spiega Louisa. “Essere israeliane non significa niente per noi. Il mio bisnonno era turco, mio nonno inglese, mio padre israeliano. Israele non è il mio Paese, e me lo fa sapere.”

Quarantenne gioviale, Siman viene da una famiglia comunista e cristiana di Nazareth. Ha lavorato a lungo nel cinema, a Tel Aviv e in tutto il mondo. “Nell’ottobre 2000 si erano organizzate a Nazareth delle manifestazioni a sostegno dell’Intifada. Sono state brutalmente represse, ci sono stati dei morti. Allora ho capito che Israele era uno Stato di apartheid. Non voglio più essere una marionetta imprigionata.” Siman fa una pausa. “Gli israeliani non vogliono porre rimedio alle discriminazioni, le utilizzano e le gestiscono. È questo il loro apartheid.”

Khaled, un professore di matematica incontrato il giorno seguente, mi dice più o meno la stessa cosa. “L’apartheid? Bisogna intendersi sul senso dei termini. Per esempio, io posso dirvi che sono antisionista, quindi godo di una certa libertà di espressione, ma non posso sposare una ragazza di Ramallah o di Gaza, che non potrà venire a vivere con me. E se per esempio io lavorassi nella filiale di Nazareth di una ditta di informatica di Tel Aviv, sarei pagato il 40% in meno di un ebreo israeliano…”

A Soweto avevo incontrato un commesso di una profumeria, che guadagnava nettamente meno dei suoi colleghi bianchi e non lavorava nemmeno nello stesso posto.

Ho capito che era la mia terra”

Certo a Nazareth c’è una borghesia araba ricca, come a Soweto c’era una borghesia nera. Amat, un aitante giovanotto anch’egli molto gioviale, lavora in una società di gestione e guadagna bene. A 27 anni gira in decappottabile, porta vestiti di marca, si destreggia con due cellulari. Si fa il segno della croce davanti ad ogni chiesa, rendendo la scoperta delle stradine strette e ripide nel suo coupé divertente, ma caotica… “Io dico che sono Amat, non dico mai che sono cristiano, musulmano o ebreo”, mi spiega trascinandomi in una visita approfondita dei confini della città, alcuni visibili, un viale, la fine di un isolato, altri invisibili. “Ci sono molti bambini musulmani nelle scuole cristiane, ma non ci sono cristiani o musulmani nelle scuole ebraiche”, dice ad esempio. Amat sottolinea anche la crescente insicurezza. I numerosi e sanguinosi regolamenti di conti fra trafficanti di droga per lui sono la prova che il governo si cura poco della vita degli arabi. Amat segnala l’impossibilità per la sua famiglia di acquistare un appartamento sulle alture di Haifa o a Tel Aviv. Non è una questione di soldi, ma “nessuno vende a noi.”

Kaid è un ragazzo gracile, appena uscito dall’adolescenza. A 18 anni, nella primavera del 2021 ha subito un arresto arbitrario, un pestaggio e tre notti di prigione. Kaid manifestava la sua solidarietà con i palestinesi di Gerusalemme est, di Gaza, della Cisgiordania. La manifestazione è stata brutalmente dispersa, molti giovani arrestati a Nazareth, ma anche a Haifa e a Lod [altre città israeliane con presenza araba, ndt.]. Kaid ammette senza vergogna di aver avuto paura. “Ho l’età per divertirmi, ma le cose che mi sono successe mi hanno cambiato. Dopo sono andato a Gerusalemme e a Betlemme, per la prima volta nella mia vita. Ho capito che era la mia terra.” Ciò che lo rende orgoglioso è che suo nonno e suo padre si sono battuti senza sosta per farlo liberare e non hanno avuto una parola di rimprovero per aver manifestato.

Per Reda, a cui racconto la storia di Kaid, “parlare di una polizia che ci prende di mira è parlare di apartheid. Dieci o venti anni fa quando parlavamo di apartheid ci si accusava di radicalismo, aggiunge. Un’organizzazione israeliana, B’Tselem, ha posto la questione dell’apartheid, seguita da Amnesty. È bello sapere che almeno il problema dei nostri diritti non è più a geometria variabile.”

Anche se, aggiunge Mata, “le cose non stanno cambiando. È molto deprimente.”

L’accesso all’acqua e all’educazione al primo posto

Due esempi tratti dal rapporto di Amnesty International chiariscono le differenze di livello nelle discriminazioni di cui sono vittima i palestinesi a seconda del luogo in cui risiedono. Per chi vive nei territori [palestinesi occupati, ndt.] l’accesso all’acqua è limitato. Il loro consumo è di circa 70 litri al giorno per persona, contro i 369 litri per un colono israeliano. Secondo le Nazioni Unite il 90% delle famiglie di Gaza deve comprare l’acqua a un prezzo molto alto presso gli impianti di desalinizzazione o di purificazione. I palestinesi che vivono in Israele invece hanno accesso alle stesse quantità di acqua degli altri cittadini. Con la notevole eccezione dei beduini del Negev, soggetti ad una serie di misure restrittive, compreso l’accesso all’acqua corrente…

Quanto all’educazione, gli alunni palestinesi di ambienti sfavoriti in Israele e a Gerusalemme est dispongono di meno risorse rispetto agli alunni ebrei. Secondo uno studio del 2016 il 30% di finanziamenti in meno per ora di apprendimento nella scuola elementare, il 50% in meno alle medie inferiori e il 75% in meno alle superiori.

Molti detrattori della posizione di Amnesty considerano che ciò che può sembrare pertinente per la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est non lo è per l’Israele di prima del 1967. Significa dimenticare che dopo la Nakba gli arabi rimasti in Israele sono stati sottoposti dal 1948 al 1966 ad un regime militare con espulsione dalle case, arresti arbitrari e un sistema drastico di controllo e sorveglianza – antenato di Pegasus [sistema israeliano di spionaggio elettronico, ndt.]. Rimuovere la polvere della Storia è uno dei meriti del rapporto di Amnesty.

Jean Stern

Veterano di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 Les patrons de la presse nationale, tous mauvais [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi] per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Oscenità israeliane, complicità occidentali e arabe

Alain Gresh

16 maggio 2022 – Orient XXI

Osceno. In base a quanto scrive il Dictionnaire étymologique de la langue française [Dizionario etimologico della lingua francese] di Alain Rey, l’aggettivo derivato dal latino obscenus significa “di cattivo augurio, sinistro”, ed è entrato nel linguaggio comune con il senso di “aspetto orrendo che deve essere nascosto”.

Antigone a Gerusalemme

È il primo aggettivo che viene in mente vedendo le immagini dei funerali della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, assassinata mercoledì 11 maggio 2022 dall’esercito israeliano. Alcuni poliziotti assalgono la sua bara che rischia di essere rovesciata, manganellano i manifestanti, lanciano granate assordanti e strappano bandiere palestinesi. Anche al di là di ogni giudizio politico, questa azione mina nel più profondo la dignità umana, viola un principio sacro che risale alla notte dei tempi: il diritto ad essere sepolti con dignità, che riesuma il mito di Antigone, la quale si rivolge al re Creonte che rifiuta di seppellire suo fratello e di cui lei ha violato gli ordini:

Non ritengo che i tuoi proclami siano talmente potenti che le leggi degli dei, non scritte e sempre certe, possano essere superate da un semplice mortale.”

Israele non cerca affatto di nascondere le proprie azioni, perché non le considera oscene. Agisce alla luce del sole, con questa chutzpah, questa arroganza, questo sentimento coloniale di superiorità che caratterizza non solo la maggioranza della classe politica israeliana, ma anche gran parte dei media, allineati con la versione diffusa dai portavoce dell’esercito. Itamar Ben-Gvir ha un bell’essere un deputato fascista – come sono, con sfumature diverse, molti dei membri dell’attuale governo o dell’opposizione. Egli esprime un sentimento condiviso in Israele quando scrive: “Mentre i terroristi sparano sui nostri soldati a Jenin, essi devono rispondere con tutta la forza necessaria, anche quando ‘giornaliste’ di Al-Jazeera sono presenti nella zona in mezzo alla battaglia per ostacolare i nostri soldati.”

La sua frase conferma che l’assassinio di Shireen Abu Akleh non è un incidente, ma il risultato di una politica deliberata, sistematica, ragionata. Altrimenti come spiegare il fatto che mai nessuno dei giornalisti israeliani che informano sugli stessi avvenimenti è stato ucciso, mentre secondo Reporter Senza Frontiere (RSF) dal 2001 sono stati eliminati 35 dei loro colleghi palestinesi, in maggioranza fotografi e cineoperatori – i più “pericolosi” perché raccontano con le immagini quello che succede sul terreno? Questa asimmetria non è che una delle molteplici sfaccettature dell’apartheid all’opera in Israele-Palestina così ben descritto da Amnesty International: a seconda che siate occupante o occupato, per parafrasare La Fontaine, le “sentenze” israeliane vi renderanno bianchi o neri e la maggior parte delle volte la sentenza è la pena di morte per il più debole.

Il colpevole può indagare sul crimine che ha commesso?

L’uccisione di Shireen Abu Akleh ha suscitato per una volta qualche reazione internazionale ufficiale in più del solito. La sua notorietà, il fatto che fosse cittadina americana e di religione cristiana vi ha contribuito. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha persino adottato una risoluzione di condanna del crimine e chiesto un’inchiesta “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”, senza peraltro arrivare ad esigere che sia internazionale, una cosa che Israele rifiuta sempre. Ora, si possono associare alla conduzione delle indagini i responsabili del crimine? Da anni le organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani come B’Tselem, o internazionali come Amnesty International o Human Rights Watch (HRW), hanno documentato il modo in cui le “indagini” dell’esercito israeliano non danno mai risultati.

Queste proteste ufficiali saranno seguite dai fatti? Si può già rispondere di no. Non ci sarà un’inchiesta internazionale, perché né l’Occidente né i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele sono pronti ad andare oltre le denunce verbali che non danno fastidio a nessuno. Né a riconoscere quello che peraltro la storia recente conferma, cioè che ogni concessione fatta ad Israele, invece di provocare la “moderazione” di Tel Aviv, incoraggia la colonizzazione e la repressione. Chi ricorda che gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sostenevano che l’apertura di un’ambasciata di Tel Aviv ad Abu Dhabi avrebbe permesso di influenzare la politica israeliana? E la compiacenza di Washington o dell’Unione Europea (UE) nei confronti del governo israeliano, “il nostro alleato nella guerra contro il terrorismo”, ha forse portato almeno a un rallentamento della colonizzazione dei territori occupati, che peraltro essi fingono di condannare?

La Corte Suprema ratifica l’occupazione

Due fatti recenti hanno da poco confermato l’indifferenza totale del potere israeliano rispetto alle “rimostranze” dei suoi amici. La Corte Suprema israeliana ha approvato il più grande spostamento forzato di popolazione dal 1967: l’espulsione di più di 1.000 palestinesi che vivono in otto villaggi a sud di Hebron scrivendo, senza alcuna vergogna, che le leggi israeliane sono al di sopra del diritto internazionale. Troppo occupati a punire la Russia, gli occidentali non hanno reagito. E lo stesso giorno delle esequie di Shireen Abu Akleh il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 4.400 nuovi alloggi nelle colonie in Cisgiordania. Perché dovrebbe moderarsi, dato che sa di non rischiare alcuna sanzione e che le condanne, quando ci sono, finiscono nella carta straccia del ministero degli Esteri israeliano e sono compensate dal costante richiamo al sostegno per Israele?

Un sostegno rinnovato nel maggio 2022 da Emmanuel Macron, che si è impegnato a rafforzare con questo Paese “la cooperazione in tutti i campi, anche a livello europeo […] La sicurezza di Israele è al centro della nostra collaborazione.” Ha persino lodato gli sforzi di Israele “per evitare un’escalation” a Gerusalemme.

Quello che sta avvenendo in Terra Santa da decenni non è né un episodio di “guerra contro il terrorismo” né un “conflitto” tra due parti uguali, come fanno intendere certi titoli dei media e certi commentatori. I palestinesi non sono attaccati da extraterrestri come potrebbe far pensare la reazione del ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian sul suo account ufficiale di Twitter: “Sono profondamente scioccato e costernato di fronte alle inaccettabili violenze che hanno impedito che il corteo funebre della signora Shireen Abu Akleh avvenisse nella pace e nella dignità.”

Quanto a tutti quelli che danno lezioni ai palestinesi rimproverandoli per l’uso della violenza, comunque molto minore di quella degli israeliani, ricordiamo quello che scrisse Nelson Mandela, diventato un’icona imbalsamata da molti commentatori, mentre era un rivoluzionario che conduceva la lotta armata per porre fine al regime dell’apartheid di cui Israele è rimasto uno degli alleati più fedeli fino all’ultimo:

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta. Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non avrà altra scelta che rispondere con la violenza. Nel nostro caso non è stata altro che una forma di legittima difesa.”

Sicuramente non si saprà mai l’identità del soldato israeliano che ha premuto il grilletto e ucciso la giornalista palestinese. Ma quello che già si sa è che la catena di complicità è lunga. Se ha origine a Tel Aviv, essa arriva fino a Washington, entra di soppiatto ad Abu Dhabi e a Rabat, penetra a Parigi e a Bruxelles. L’uccisione di Shireen Abu Akleh non è un atto isolato, ma un crimine collettivo.

Alain Gresh

Specialista del Medio Oriente, è autore di molte opere, tra cui De quoi la Palestine est-elle le nom ? [Di cos’è il nome la Palestina?] (Les Liens qui libèrent, 2010) e, con Hélène Aldeguer, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, [Un canto d’amore. Israele-Palestina, una storia francese] (La Découverte, 2017). È il direttore di Orient XXI.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I palestinesi rendono omaggio a Desmond Tutu

Ali Abunimah 

27 dicembre 2021 – Electronic Intifada

L’arcivescovo Desmond Tutu è stato un “vero profeta di giustizia e pace,” ha affermato domenica il movimento palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni facendo seguito alla notizia che l’icona della lotta per la libertà del Sudafrica era morto all’età di 90 anni.

Nel corso dei decenni della sua lotta contro l’apartheid e tutte le forme di ingiustizia, Arch, come gli piaceva essere chiamato, ha insegnato a milioni di persone in tutto il mondo, inclusi i palestinesi, il senso di una lotta basata su principi etici, sull’efficacia e su profonde convinzioni per ottenere ‘il menu completo dei diritti.’”

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese che lavora in stretto contatto con le forze di occupazione israeliane, ha lodato Tutu quale “eroe al servizio dell’umanità e delle sue cause.”

L’arcivescovo Atallah Hanna di Gerusalemme ha detto che Tutu “sarà sempre ricordato, anche in Palestina, per il suo ripudio di razzismo e apartheid.”

La Palestina, come il Sudafrica, ha perso un vero patriota, un grande paladino dei diritti umani, un oppositore del razzismo e uno strenuo difensore della causa palestinese,” è il commento del movimento di resistenza Hamas.

A quelli abbastanza vecchi da ricordare la lotta contro l’apartheid in Sudafrica, la faccia e la voce di Tutu sono familiari come quelle di Nelson Mandela, forse persino di più. Ma mentre Mandela e altri leader dell’African National Congress [ANC, Congresso Nazionale Africano, il più importante partito del Paese, fondato nel 1912 e al governo dalla caduta del regime] furono imprigionati dal regime razzista e tenuti lontani dalla vista pubblica, Tutu è stato a tutti gli effetti il portavoce del popolo sudafricano nel mondo.

Con la fine dell’apartheid nel 1994, Tutu ha riservato lo stesso appassionato amore della giustizia alla lotta palestinese.

Durante la mia visita in Terra Santa sono rimasto profondamente turbato perché mi ha ricordato moltissimo quello che è successo a noi neri in Sudafrica,” scrisse nel 2002. “Ho visto le umiliazioni dei palestinesi ai checkpoint e ai blocchi stradali, soffrono come noi quando i giovani poliziotti bianchi ci impedivano di muoverci liberamente nel Paese.”

Ho visitato Israele/Palestina in molte occasioni e ogni volta sono stato colpito dalle somiglianze con il regime sudafricano di apartheid,” scrisse nel 2011. “Le strade e le zone separate per palestinesi, le loro umiliazioni ai checkpoint e ai posti di blocco, gli sfratti e le demolizioni delle case.”

Aggiunse che zone di Gerusalemme Est assomigliano a quello che era il Distretto Sei a Città del Capo”, una comunità multirazziale vecchia di un secolo, distrutta nel 1966 dal regime di apartheid e dichiarata zona riservata solo ai bianchi.

Sostegno al boicottaggio

Avendo capito le somiglianze fra le dinamiche di potere nelle due società colonialiste, Tutu sostenne subito la richiesta palestinese di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Spesso offrì, pubblicamente e in privato, il proprio appoggio direttamente alle campagne BDS nel mondo.

Dopo aver sollecitato le chiese americane a disinvestire dalle compagnie complici dei crimini israeliani contro i palestinesi, come prevedibile attirò le ire della lobby israeliana.

Il suo status di icona non riuscì a proteggerlo dalle calunnie della Anti-Defamation League [Lega Antidiffamazione (ADL), ong USA che combatte “l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio” e che fa parte della lobby filo-israeliana, ndtr] di aver deviato nell’“antisemitismo.”

Quest’attacco proveniva dalla stessa Lega che negli anni ’80 aveva spiato il movimento anti-apartheid e passato informazioni al governo razzista del Sudafrica.

Ma questi attacchi non impedirono mai a Tutu di sostenere il BDS.

Nel 2014 disse al quotidiano israeliano Haaretz che il boicottaggio internazionale del Sudafrica aveva giocato un ruolo cruciale per favorire il dialogo che portò poi alla transizione alla democrazia.

A un certo punto, il punto di svolta, l’allora governo si rese conto che il costo di cercare di preservare l’apartheid superava i benefici,” spiegò Tutu.

Negli anni ’80 lo stop ai commerci con il Sudafrica delle multinazionali con una coscienza fu in sostanza uno degli aspetti essenziali che misero in ginocchio, senza spargimento di sangue, lo Stato di apartheid.”

Chi continua a fare affari con Israele, chi contribuisce a un senso di ‘normalità ’ nella società israeliana, sta danneggiando i popoli di Israele e Palestina,” aggiunse. “sta contribuendo alla perpetuazione di uno status quo profondamente ingiusto.”

Elogi dagli ipocriti

Adesso Tutu è lodato da molte istituzioni e da molti leader che non avevano prestato ascolto agli appelli per il boicottaggio durante la lotta in Sudafrica e ora nel caso della Palestina.

Membri di spicco dell’Unione Europea, specialmente Germania e Regno Unito, si sono a lungo opposti alle sanzioni al Sudafrica.

Oggi la UE continua a premiare Israele, militarmente, economicamente e politicamente, mentre c’è un’escalation dei suoi crimini contro i palestinesi.

Nulla di tutto ciò ha portato i maggiori dirigenti dell’UE a riflettere prima di rendere omaggio a Tutu come se avessero imparato qualcosa da lui.

Anche Liz Truss, ministra degli Esteri britannica, il cui governo ha recentemente firmato un accordo di “partenariato strategico” militare ed economico con Israele, ha elogiato Tutu:

Addolorata nell’apprendere della morte dell’arcivescovo Desmond Tutu. Fu la forza trainante della fine dell’apartheid in Sudafrica e un meritevole vincitore del Premio Nobel per la Pace. Sono vicina al popolo del Sudafrica.”

Per contrasto il governo di Israele è rimasto in silenzio, forse un raro caso di autoconsapevolezza.

Ma Yishai Fleisher, un leader dei coloni ebrei nella Cisgiordania occupata, ha festeggiato la scomparsa di Tutu: “Oggi è morto un antisemita.”

Fleisher probabilmente parla anche per molti politici israeliani che sono rimasti in silenzio, ma che etichettarono Tutu come “un pericoloso nemico di Israele.”

Oggi un antisemita è morto. Tutu è scomparso, ma Israele è ancora qui.

Questo ha spinto gli utenti di molti social media, me incluso, a sbeffeggiare l’ipocrisia di Starmer [segretario del partito Laburista britannico, ndtr.].

Se Tutu fosse stato un membro del partito laburista, Starmer avrebbe certamente cercato di farlo espellere, come i molti altri che sono stati allontanati per posizioni simili a sostegno dei diritti dei palestinesi.

Uno dei leader dei laburisti e predecessore di Starmer, l’ex primo ministro Tony Blair, ha detto di essere “addolorato” per la morte di Tutu.

Nel 2012 Tutu si ritirò da un summit sulla “leadership” con Blair dicendo che non poteva sedere vicino alla persona che, con il presidente USA George W. Bush, aveva ordinato la catastrofica invasione dell’Iraq basata su menzogne.

Tutu sottolineò l’evidente ipocrisia di un sistema mondiale che trascina leader africani e asiatici davanti ai tribunali e lascia liberi quelli come Blair.

Su quali basi decidiamo che Robert Mugabe deve essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale” mentre “Tony Blair entra nel club degli oratori internazionali?” si chiese Tutu.

Desmond Tutu ha vissuto la vita fino alla fine lottando e parlando a favore di giustizia e verità in Sudafrica, Palestina e nel mondo intero.

Sta a noi compiere il resto del viaggio, ma lui ci ha mostrato la via.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Marwan Barghouti presidente di tutti i palestinesi?

Gideon Levy

2 aprile 2021 – Chronique de Palestine

Marwan Barghouti è il solo dirigente che gode di una popolarità che va ben al di là delle divisioni politiche tra i palestinesi. Rappresentante della generazione successiva a quella dei dirigenti storici come Yasser Arafat, ha svolto un ruolo centrale durante la prima (1987) e seconda (2000) Intifada, prima di essere incarcerato dall’occupante israeliano nel 2001 e condannato a cinque ergastoli per le sue azioni di resistenza.

Se fossi palestinese voterei Marwan Barghouti per la carica di presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Se fossi un sionista israeliano che si ostina a credere in una soluzione a due Stati, farei ugualmente tutto il possibile per far vincere Barghouti. E anche come israeliano che non crede più nella soluzione a due Stati, sognerei davvero il momento in cui quest’uomo uscirà finalmente dalla prigione e diventerà il dirigente dei palestinesi.

Lui rappresenta attualmente l’unica possibilità di dare una nuova speranza al popolo palestinese agonizzante, e al cadavere appeso fuori, intendo dire il cadavere del processo di pace, che non è mai stato un processo di pace e non ha mai avuto l’intenzione di esserlo.

Non c’è più nient’altro ora che possa suscitare emozione, immaginazione e speranza, se non immaginare Barghouti liberato dalla prigione di Hadarim, così come un combattente per la libertà ancor più venerato fu liberato dalla prigione Victor Verster in Sudafrica l’11 febbraio 1990, parlo di Nelson Mandela, scarcerato dopo 27 anni.

Anche lui, come Barghouti, era stato condannato all’ergastolo. Come Barghouti, era stato riconosciuto colpevole di “terrorismo”.

Ma la controparte di Mandela era il coraggioso Frederik Willem de Klerk, mentre l’accanimento israeliano contro Barghouti non è nient’altro che istigazione all’odio, stupidità e vigliaccheria.

Non c’è prova più lampante del fatto che Israele non ha mai voluto raggiungere un accordo dell’incarcerazione senza fine e assolutamente stupida di Barghouti. Chiedete a qualunque membro del servizio di sicurezza dello Shin Bet o a qualunque uomo di Stato israeliano che conosca bene la questione, e vi diranno che Barghouti è l’ultima opportunità – l’ultima possibilità di unire i palestinesi e di fare la pace.

Mandela è stato eletto presidente del suo Paese e Barghouti potrebbe concorrere alla presidenza del suo popolo. Mandela lo ha fatto da uomo libero, e Barghouti lo farà da prigioniero che sconta una pena grottesca di cinque ergastoli – più 40 anni supplementari – che potrebbero non avere mai fine.

Barghouti è veramente l’ultima possibilità. E i responsabili israeliani lo sanno molto bene. Invece è proprio perché loro lo sanno meglio di me che non sarà mai liberato.

Tuttavia, immaginarsi questo piccolo uomo iperattivo con al polso un semplice orologio Casio, col suo sorriso ammaliante e il suo ebraico tutto particolare – pronuncia “kibush” (l’occupazione) come “kiyush” e “imma” (la madre) con l’accento sulla seconda sillaba invece che sulla prima – scarcerato e diventato presidente, accende l’immaginazione. A tal punto un piccolo passo potrebbe comportare un così grande cambiamento!

Ventiquattro anni fa, in questa settimana, la Giornata della Terra del 1997, mentre viaggiavamo sulla sua macchina attraverso i pneumatici che bruciavano nelle manifestazioni di Ramallah, mi ha detto: “Ciò che temo di più è che perdiamo la speranza.” Quel momento è arrivato. Solo Barghouti può ancora salvarci.

Chiunque voglia capire che cosa è successo ai palestinesi deve guardare ciò che è successo a Barghouti. Quest’uomo di pace trasformato in un cosiddetto “terrorista” è la dimostrazione che i palestinesi hanno già provato di tutto.

Che cosa non ha tentato? Ha bussato alle porte dei comitati centrali dei partiti sionisti alla fine degli anni ’90, supplicandoli di fare qualcosa prima che tutto esplodesse. Ma Israele non ha fatto niente e tutto è esploso.

Ha portato i suoi bambini allo Zoo Safari Ramat Gan [di Tel Aviv, ndtr.] e, durante un meraviglioso e indimenticabile viaggio parlamentare in Europa, ha fatto amicizia con deputati dei partiti Likud e Shas e anche delle colonie. Faceva il tifo per la squadra di calcio Hapoel di Tel Aviv. Ed era un uomo di pace, forse l’uomo di pace palestinese più determinato di sempre.

Fu solo quando si rese conto che niente avrebbe smosso Israele dalla sua arroganza e dal suo culto della forza, che profetizzò che tutto sarebbe esploso e raggiunse le fila della lotta armata – esattamente come Mandela, anche se il capitolo violento della sua lotta adesso viene rimosso.

Barghouti è ormai in carcere da una ventina d’anni. È stato riconosciuto colpevole di “terrorismo” contro uno Stato la cui occupazione è il peggiore e più crudele terrorismo tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo.

L’ultima volta che l’ho visto indossava l’uniforme marrone del Servizio penitenziario israeliano. Era nell’aula di tribunale di Tel Aviv. Ora intende presentarsi alle elezioni palestinesi, elezioni sotto occupazione.

Se verrà eletto presidente, non saranno solo i palestinesi a trarne vantaggio. Se sarà eletto presidente, l’occupazione subirà un’altra terribile sfida nella sua storia: non solo un combattente per la libertà dietro le sbarre, ma un presidente ammanettato.

Gideon Levy, nato nel 1955, è un giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz. Vive nei territori palestinesi occupati.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La Chiesa di Nelson Mandela ha aderito a un boicottaggio di Israele che dovrebbe essere imitato

Asa Winstanley

26 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Questo mese la Chiesa di Nelson Mandela, la Chiesa metodista dell’Africa meridionale, ha aderito al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Durante un recente convegno a Città del Capo la Chiesa ha denunciato “i continui soprusi e l’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele e lo storico ruolo profetico giocato dalla Chiesa e dalla comunità internazionale nel combattere l’apartheid e ogni forma di discriminazione e ingiustizia.” La chiesa ha comunità anche in Namibia, Botswana, Lesotho, Swaziland e

Dando l’annuncio della clamorosa decisione, il BDS sudafricano ha evidenziato i rapporti storici della Chiesa metodista del Paese con il suo gigante della lotta di liberazione e primo presidente democraticamente eletto: Nelson Mandela.

Mandela fu allevato da una madre cristiana profondamente religiosa e durante la sua gioventù frequentò una serie di scuole metodiste.

Nella sua autobiografia del 1994, “Lungo cammino verso la libertà” [Feltrinelli, 1994], Mandela ha raccontato la natura contraddittoria del fatto di essere cresciuto, come nel suo caso, con un’educazione colonialista rivolta ai “nativi”.

Il nostro modello era l’inglese istruito,” racconta, “aspiravamo a diventare un ‘inglese nero’, come venivamo a volte chiamati con derisione. Ci veniva detto – e lo credevamo – che le migliori idee, il miglior governo e gli uomini migliori erano inglesi.”

Ma, come molte tradizioni legate agli imperi coloniali, l’eredità metodista nell’Africa meridionale conteneva in sé molte tendenze diverse, a volte contraddittorie.

Oltre che segnate da impulsi colonialisti, le chiese sudafricane erano anche luoghi di riunione per la lotta di liberazione.

A questo proposito la figura più famosa è, ovviamente, l’arcivescovo Desmond Tutu. Il più grande veterano della Chiesa anglicana contro l’apartheid è anche un fervente critico dell’apartheid israeliano, che ha descritto come persino peggiore di quello sudafricano, contro gli indigeni palestinesi.

Ma anche la Chiesa metodista ha avuto le sue figure progressiste, e si è a lungo opposta all’apartheid.

Seth Mokitimi, uno degli insegnanti di Mandela, in seguito diventò il primo presidente nero di un’importante congregazione sudafricana – una mossa che nel 1964, al culmine del regime di apartheid, richiese coraggio.

Le convinzioni religiose di Mandela lo accompagnarono oltre la sua l’infanzia. Nelle sue memorie racconta anche di essere stato “indottrinato” (un termine significativamente religioso) al comunismo dal “mio primo amico bianco”, Nat Bregman.

Quando Mandela aveva da poco superato i vent’anni, lui e Bregman lavoravano insieme a Johannesburg in uno studio legale diretto da un ebreo progressista che simpatizzava per l’African National Congress (ANC), (il cui braccio armato ovviamente Mandela contribuì in seguito a fondare).

Com’è noto, per tutta la sua vita, e soprattutto durante la Guerra Fredda, Mandela negò di essere un comunista, anche nel “processo per tradimento” a cui venne sottoposto negli anni ’60.

Ma dopo la sua morte nel 2013 sia l’ANC che il Partito comunista sudafricano confermarono (o rivelarono, a seconda del punto di vista) che effettivamente egli ne era stato membro. Infatti il partito dichiarò: “Mandela non era solo iscritto all’allora clandestino Partito comunista sudafricano, ma era anche membro del Comitato centrale del nostro partito.”

Comunque sia, nel “Lungo cammino per la liberta” Mandela scrisse che l’insistenza di Bregman perché entrasse nel partito all’epoca non lo convinse e che una delle ragioni fu la sua fede cristiana: “Ero anche molto religioso, e l’avversione del partito per la religione mi dissuase.”

L’adesione della Chiesa di Mandela al movimento BDS è quindi estremamente significativa. È il riconoscimento di come il movimento BDS sia esplicitamente modellato sul movimento per il boicottaggio contro l’apartheid sudafricano. Oltre a ciò, dimostra ancora una volta il ruolo guida che gli attivisti sudafricani stanno giocando nel movimento mondiale per la giustizia in Palestina. Quando vedono l’apartheid lo riconoscono.

La politica della Chiesa metodista dell’Africa meridionale sul boicottaggio di Israele è particolarmente positiva. Dà indicazione ai metodisti di boicottare “ogni attività che favorisca l’economia israeliana,” come ha spiegato il BDS sudafricano.

La Chiesa ha anche promosso un “boicottaggio di tutti gli operatori e viaggi turistici israeliani per i pellegrini” e invita i cristiani che visitano la Terra Santa a “cercare invece deliberatamente viaggi turistici che offrano una prospettiva palestinese alternativa.”

Queste sono misure concrete basate sui principi che possono avere un impatto su Israele. Lento ma sicuro, il BDS si sta imponendo.

Ora Israele destina una quantità imprecisata di milioni di dollari per lottare contro il BDS – un segno che questa strategia è efficace.

Dobbiamo imitare le politiche delle Chiese sudafricane a favore del BDS e adoperarci in questo senso in Occidente.

Amandla! Awethu! [Potere! Al popolo!, slogan del movimento sudafricano contro l’apartheid, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)