Israele ordina un’ondata di nuove demolizioni di case a Silwan, Gerusalemme

Ibrahim Husseini

31 dicembre 2020 – Al Jazeera

Gli abitanti temono che il Comune di Gerusalemme stia preparandosi a radere al suolo molte case palestinesi nelle prossime settimane

Gerusalemme est – Fakhri Abu Diab, 59 anni, potrebbe dover decidere a breve se contrattare una squadra [di muratori] per demolire la casa della sua famiglia.

Diab è un attivista della sua comunità e uno de molti abitanti palestinesi del quartiere Al-Bustan di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, a cui in dicembre sono stati intimati ordini di demolizione da parte del Comune di Gerusalemme.

Ha costruito senza licenza edilizia il suo edificio, nelle cui tre unità abitative vivono 13 membri della famiglia, in quanto, dalla prima volta in cui ha fatto domanda nel 1987, essa gli è stata negata per quattro volte. Se il Comune metterà in pratica l’ordinanza di demolizione, notificata il 9 dicembre, il costo potrebbe essere di 30.000 dollari.

Diab dice che, se perderà la casa, “al momento non ho alternative se non piazzare una tenda.”

Dice che nel solo mese di dicembre ad Al-Bustan sono stati consegnati 21 ordini di demolizione.

I proprietari di case e gli osservatori temono che il Comune, con l’appoggio del primo ministro Benjamin Netanyahu, stia preparandosi a radere al suolo nelle prossime settimane un numero significativo di case palestinesi in città.

Le nuove elezioni politiche israeliane, fissate in marzo, e gli ultimi giorni alla Casa Bianca del presidente USA uscente Donald Trump potrebbero accelerare questa iniziativa.

Ci sono molte pressioni da parte dell’estrema destra sia all’interno della città che a livello nazionale per approfittare del tempo che resta,” dice ad Al Jazeera Laura Wharton, consigliera municipale a Gerusalemme per il partito di sinistra [sionista, ndtr.] israeliano Meretz.

Wharton ritiene che il numero di ordini di demolizione pendenti a Gerusalemme est sia addirittura di 30.000. Tuttavia non prevede che tutti siano in pericolo immediato.

Nel solo 2020 le Nazioni Unite hanno registrato 170 demolizioni nella sola Gerusalemme est e 644 nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata.

I dati indicano che questo è il secondo numero di demolizioni più alto dal 2016, dopo che nel 2009 l’ONU ha iniziato a registrare le demolizioni nei territori palestinesi occupati.

Per contrastare la diffusione della pandemia da coronavirus, dal primo ottobre è entrato in vigore un congelamento delle demolizioni di case occupate a Gerusalemme est. Ma l’11 novembre l’amministrazione comunale di Gerusalemme ha improvvisamente posto fine al congelamento.

Quando Al Jazeera ha contattato il Comune di Gerusalemme per ottenere risposte sui nuovi ordini di demolizione, esso non ha affrontato il problema ma ha affermato in una dichiarazione: “Gerusalemme è una delle città leader al mondo nel farsi carico delle necessità dei suoi abitanti, di tutti i suoi abitanti, soprattutto durante questo difficile periodo.”

Silwan, che si trova a sud delle mura della Città Vecchia, è stato a lungo un bersaglio dei coloni religiosi ultranazionalisti che spesso influenzano il consiglio municipale di Gerusalemme, afferma Wharton: “È un problema quando ci sono estremisti all’interno del Comune e a livello nazionale un primo ministro che sta cercando di farsi votare,” dice Wharton ad Al Jazeera.

Lotta per Silwan

A Silwan vivono circa 30.000 palestinesi, molti in case scadenti e con scarse infrastrutture. Circa 500 coloni ebrei vivono in insediamenti sparsi nel quartiere.

La Fondazione della Città di David, una Ong israeliana comunemente nota come El-Ad (acronimo in ebraico che sta per “Per la Città di David”) venne fondata nel 1986 principalmente per avanzare rivendicazioni territoriali attraverso l’archeologia e l’insediamento di coloni a Silwan.

A metà degli anni ’90 venne contrattata per gestire il parco [archeologico, ndtr.] della Città di David, che essa intende estendere da Wadi Hilweh fino ai dintorni Al-Bustan.

Il progetto implica la demolizione di circa 90 case palestinesi per far posto a un parco nazionale e a un nuovo sviluppo urbano per i coloni.

In base al presupposto che migliaia di anni fa fosse un giardino dei re israeliti, il Comune di Gerusalemme ha ufficialmente cambiato il nome “Al-Bustan” in “Gan Hamelekh” (il Giardino del Re).

Il Comune ha sistematicamente negato agli abitanti palestinesi di Al-Bustan i permessi edilizi perché, in base ad un programma chiamato “La Valle del Re”, esso è considerato “un’area paesaggistica aperta”.

La mia casa è distrutta”

Sono stato maltrattato in ogni modo, la mia casa è distrutta… mia moglie e i bambini ora stanno vivendo lontano da me,” dice ad Al Jazeera il ventottenne Kazem Abu Shafe’a.

Abu Shafe’a aveva bisogno di una casa per la sua famiglia composta da quattro persone. Ma, in quanto assistente sociale per anziani con uno stipendio modesto, non poteva permettersi di lasciare Silwan.

Così in agosto ha deciso di costruire sopra la casa di sua madre, anch’essa con un ordine di demolizione, un’abitazione per la sua famiglia, senza presentare una richiesta di permesso.

È entrato nell’ appartamento aggiunto all’inizio di novembre, ma il 17 dello stesso mese funzionari comunali hanno consegnato ad Abu Shafe’a un ordine di demolizione.

Ha consultato un avvocato, ma questi gli ha detto che non si poteva far annullare l’ordinanza.

Abu Shafe’a ha iniziato a mettere in salvo i mobili, la moglie ha preso i figli ed è andata a vivere con i suoi genitori finché non troveranno un posto da affittare. Abu Shafe’a è rimasto a casa di sua madre.

Il 22 dicembre è arrivata la squadra per la demolizione, inclusi poliziotti e impiegati comunali.

Era circa mezzogiorno, non c’è stato nessun preavviso,” dice Abu Shafe’a. “Circa 30 poliziotti si sono sparpagliati nel quartiere e hanno operato la demolizione,” dice.

Impedire una capitale palestinese

A Silwan, al-Bustan non è l’unico quartiere che si trova sotto pressione da parte delle autorità israeliane.

Gli abitanti di Baten el-Hawa, nel cuore di Silwan, devono affrontare ordini di demolizione dopo che organizzazioni di coloni sono riuscite a far riconoscere rivendicazioni di proprietà nei tribunali israeliani.

Peace Now, un’associazione di monitoraggio delle colonie israeliane, afferma che le azioni legali dei coloni comporteranno l’espulsione di un’intera comunità a Gerusalemme est, in base all’applicazione della legge del “diritto al ritorno”, che Israele concede solo ai suoi cittadini ebrei.

Attraverso al-Bustan i coloni otterranno la contiguità di tre località: il “Parco della Città di David” ai confini di Wadi Hilweh e Baten el-Hawa ad est.

Il progetto è collegare tutte le colonie nei quartieri palestinesi,” dice ad Al Jazeera Hagit Ofran, ricercatore e portavoce di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.]. “Per circondare la Città Vecchia e impedire che Gerusalemme est sia la capitale dei palestinesi.”

Dal 2004, in netto contrasto con la politica di demolizioni dell’amministrazione comunale di Gerusalemme nei confronti dei palestinesi, a Batn el-Hawa sorge un edificio di sei piani, abitato da coloni ebrei.

La “Casa di Jonathan”, dal nome di Jonathan Pollard, un americano analista dell’intelligence che ha fatto la spia per Israele, è stata costruita 20 anni fa senza permesso, eppure il Comune ha ignorato un ordine del tribunale di svuotare e sigillare l’edificio ed ha lasciato intatto l’edificio.

Invece Zuheir Rajabi, 50 anni, e la sua famiglia di sei persone vivono a Batn el-Hawa a pochi metri dalla “Casa di Jonathan”.

Un tribunale israeliano ha deciso che la famiglia deve lasciare la propria casa dopo che l’associazione a favore dei coloni “Ateret Cohanim”, attraverso il Custode Israeliano delle Proprietà degli Assenti [che si occupa della gestione delle proprietà forzatamente abbandonate dai palestinesi, ndtr.] , si è impossessata della proprietà del terreno in nome di una fiduciaria benefica per ebrei yemeniti poveri immigrati oltre un secolo fa.

Ora a Batn el-Hawa ci sono 87 ordini di espulsione contro abitanti palestinesi in seguito a cause intentate da Ateret Cohanim.

Rajabi dice ad Al Jazeera che, se inizieranno a mettere in pratica le demolizioni, ci sarà una forte reazione da parte degli abitanti: “Se tutte le famiglie rimangono unite contro questa politica, allora possiamo bloccare l’esecuzione degli ordini,” afferma Rajabi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il vaccino per il COVID-19: un’altra brutta faccia dell’apartheid israeliano

Yumna Patel

28 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

La distribuzione del vaccino per il COVID-19 illustra perfettamente il sistema dell’apartheid di Israele.

Quasi 400.000 israeliani sono già stati vaccinati contro il coronavirus e nelle prossime settimane altre decine di migliaia sono in procinto di esserlo.

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo ad iniziare a distribuire il vaccino per il COVID-19 alla sua popolazione e, secondo Our World in Data [Il nostro mondo in cifre, ndtr.], edito dall’Università di Oxford, è attualmente il secondo al mondo per numero di vaccinazioni pro capite.

Secondo i media israeliani il ministero della Sanità di Israele intende vaccinare già nel corso di questa settimana 100.000 israeliani al giorno e il primo ministro Benjamin Netanyahu si è spinto a sostenere che Israele sarà fuori pericolo “entro poche settimane”.

 

Il mese scorso Israele si è assicurato 8 milioni di dosi del vaccino Pfizer, sufficienti a coprire quasi la metà della popolazione di 9 milioni di israeliani, poiché ogni persona necessita di due dosi. Tra coloro che hanno il diritto di ricevere il vaccino dal governo israeliano ci sono i quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

Tuttavia, gli oltre 5 milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, non sono autorizzati a ricevere il vaccino.

Le disparità tra i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e i cittadini israeliani sono costanti, semplicemente un dato di fatto della vita quotidiana in Israele e Palestina – le leggi che favoriscono gli israeliani rispetto ai palestinesi e i sistemi che discriminano fortemente questi ultimi sono all’ordine del giorno e ampiamente documentati.

Il sistema di apartheid in base al quale Israele opera all’interno del territorio occupato, tuttavia, non potrebbe essere meglio dimostrato come nel caso del vaccino per il COVID-19: chi ottiene o no il vaccino è una semplice questione di nazionalità.

Dobbiamo in primo luogo essere molto chiari: con l’occupazione militare in Cisgiordania e con l’effettivo controllo israeliano di Gaza Israele è legalmente obbligato dal diritto internazionale a provvedere alla loro [dei palestinesi] assistenza sanitaria”, ha riferito a Mondoweiss la dott.ssa Yara Hawari, analista capo redattrice di Al -Shabaka: The Palestinian Policy Network [organo di informazione che sostiene il dibattito sui diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi, ndtr.].

Israele è legalmente obbligato a fornire quel vaccino ai palestinesi sotto occupazione. Sappiamo che [Israele] non lo ha fatto”, dice, aggiungendo che Israele attribuisce tale responsabilità all’ANP [Autorità Nazionale Palestinese] quale fornitore dei servizi per i palestinesi.

Ciò costituisce una preoccupazione concreta“, riferisce Hawari a Mondoweiss. “Sappiamo che, se assegnato alla sola ANP, probabilmente sarà un processo molto lento.

Il “de-sviluppo” del sistema sanitario palestinese

A differenza del governo israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non è stata in grado di garantire la quantità di vaccini necessaria per trattare gli oltre 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza.

Mentre i funzionari dell’ANP hanno sostenuto di attendersi l’inizio dell’acquisizione dei vaccini nel corso delle prossime due settimane tramite l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno [anche] affermato che potrebbero passare mesi prima che il vaccino venga distribuito alla popolazione.

Ancora non si conosce il tipo e la quantità di vaccini che i palestinesi riceveranno, poiché per la fornitura essi fanno molto affidamento sulle donazioni internazionali, e il governo palestinese non ha la capacità infrastrutturale per conservare vaccini come quello Pfizer alle basse temperature richieste.

Nel frattempo, i palestinesi continuano a vivere tra periodi interminabili di isolamento, mentre il virus imperversa in tutti i Territori Palestinesi Occupati, con tassi giornalieri di infezione dell’ordine delle migliaia e tassi di mortalità giornaliera a doppia cifra.

Hawari sostiene che l’incapacità dell’Autorità Palestinese di procurarsi e immagazzinare i vaccini, insieme al suo precario sistema sanitario, è una conseguenza dei decenni di danni che l’occupazione israeliana ha arrecato alle infrastrutture palestinesi.

“C’è questo ricorrente luogo comune secondo cui la ragione per cui il sistema sanitario palestinese o altri servizi come l’istruzione sono inefficienti e non stanno facendo il loro lavoro sarebbe legata all’incompetenza da parte del popolo palestinese o della sua cultura – questa opinione secondo cui essi sarebbero stupidi e non in grado di governare “, dice Hawari.

“Ovviamente non è così. Il regime israeliano ha sistematicamente preso di mira il sistema sanitario palestinese e ha contribuito al suo de-sviluppo“, afferma. “I palestinesi sono stati costretti a fare affidamento ad aiuti esterni e gli è stato impedito di essere autosufficienti da parte dell’occupazione [israeliana], con la compiacenza della comunità internazionale.

L’esempio più lampante di ciò, afferma Hawari, è Gaza, dove il sistema sanitario è da anni sull’orlo del collasso e non è stato in grado di resistere ad anni di bombardamenti e offensive israeliane.

Da anni gli ospedali di Gaza non sono in grado di occuparsi di ferimenti e malattie. Non potevano farcela prima del COVID, e ora il COVID ha esasperato la situazione rendendola dieci volte peggiore “.

L’apartheid in funzione

Mentre i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza non riceveranno vaccini dal governo israeliano, le centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono illegalmente in Cisgiordania vengono vaccinati ogni giorno.

Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori hanno lanciato l’allarme per la forte disparità tra chi viene vaccinato e chi no, affermando che questo non è altro che apartheid.

Quando si parla di cose come il vaccino per il COVID-19, “sembra esserci una falsa distinzione tra Israele e Palestina”, dice Hawari. “In realtà si tratta di un’unica entità in cui le persone [che si trovano] all’interno di quello spazio vengono trattate in modo diseguale.”

“Esiste un’enorme quantità di rapporti reciproci tra le popolazioni, ma livelli di potere totalmente squilibrati”, prosegue Hawari, indicando le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che lavorano ogni giorno all’interno di Israele e delle colonie.

“L’economia israeliana fa affidamento su quella [forza lavoro]. Riceveranno anche il vaccino?” domanda. “In caso contrario ciò rappresenterebbe un rischio per Israele. Siamo popolazioni totalmente interconnesse, come avviene nelle popolazioni coloniali “.

È necessario fornire il vaccino a tutti e non dovrebbe esserci un’eccezione per la Palestina. Qualcuno lo ha detto perfettamente: non saremo al sicuro finché tutti non avranno accesso al vaccino. Questo non è un virus che conosce confini”.

Per quanto alcuni funzionari israeliani abbiano ventilato la possibilità di fornire in caso di necessità alcuni vaccini all’Autorità Nazionale Palestinese, Hawari ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle false manifestazioni di generosità di Israele, affermando: “Sappiamo che presenteranno tale mossa come un grande atto di benevolenza e di cooperazione internazionale, ma essi non soddisferanno nemmeno i requisiti minimi previsti dal diritto internazionale”.

Hawari sottolinea il fatto che nel bel mezzo della pandemia i palestinesi hanno “visto molto poco dal regime israeliano in termini di aiuti e sostegno ai palestinesi e alla loro lotta contro il virus. E quando finalmente si sono coordinati per consentire forniture provenienti da donazioni internazionali, ciò è stato elogiato come una meravigliosa forma di cooperazione, quando è il minimo che gli si possa chiedere”.

“Abbiamo visto Israele fare ciò per decenni – Israele viene costantemente elogiato per aver permesso ai malati di cancro di Gaza di recarsi a Tel Aviv per il trattamento, ma fondamentalmente – dice – essi stanno imponendo l’assedio che impedisce a centinaia di abitanti di Gaza di ottenere le cure necessarie”.

“È un girare intorno molto abile su qualcosa che dovrebbero fare, ma che non fanno.”

Oltre alle domande sul destino dei palestinesi dei TPO riguardo l’arrivo del vaccino, attivisti palestinesi e organizzazioni per i diritti hanno espresso preoccupazione per la potenziale emarginazione delle comunità palestinesi in Israele in occasione della pratica della vaccinazione.

All’inizio della pandemia organizzazioni come Adalah [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.] hanno criticato il governo israeliano per aver emarginato le comunità palestinesi in luoghi come Gerusalemme est, dove gli ambulatori per i test sul coronavirus erano scarsi o addirittura inesistenti.

Hawari è certa che “assisteremo di nuovo a quei comportamenti” durante la procedura delle vaccinazioni.

“È ancora presto e il vaccino è appena uscito, ma se osserviamo la programmazione, [Israele] li distribuirà [i vaccini] negli ambulatori. E sappiamo che, naturalmente, nei villaggi e nelle città palestinesi del ’48 [cioè in territorio israeliano, ndtr.] il sistema sanitario è privato, quindi ci sono meno ambulatori e operatori sanitari, per cui – afferma – in quelle aree le procedure saranno più lente”.

“Sarà facile per il governo israeliano ignorarlo e dire ‘ogni cittadino israeliano è trattato allo stesso modo’, ma se guardiamo alla geografia, quelle comunità palestinesi sono state volontariamente ignorate riguardo le strutture sanitarie, gli ambulatori, e altre istituzioni essenziali”.

La Palestina e il sud del mondo

Mentre decine di Paesi in tutto il mondo, come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi dell’UE iniziano a distribuire i loro vaccini alla popolazione, luoghi come la Palestina e altri Paesi del “Sud del mondo” sono rimasti indietro.

Anche prima che i vaccini arrivassero sul mercato, le Nazioni ricche hanno cominciato a fare scorta dei più promettenti vaccini contro il coronavirus. Secondo organizzazioni come Amnesty International e Oxfam si stima che, nonostante ospitino solo il 14% della popolazione mondiale, le Nazioni ricche abbiano già acquistato il 54% delle scorte totali dei vaccini più promettenti al mondo.

Amnesty International ha affermato che entro la fine del 2021 le Nazioni più ricche avranno acquistato dosi di vaccino sufficienti per “vaccinare l’intera popolazione tre volte”, mentre circa 70 Paesi poveri “saranno in grado di vaccinare contro il COVID-19 solo una persona su dieci”.

“Ciò che sta accadendo a livello globale è fortemente esplicativo delle disuguaglianze strutturali che esistono in tutto il mondo”, afferma Hawari. “Luoghi come Gaza, dove è persino difficile mantenere i requisiti sanitari di base e il distanziamento sociale, dovrebbero avere la priorità al fine di prevenire la diffusione. Ma ovviamente non avranno la priorità a causa del predominio delle strutture di oppressione”.

“Il COVID ha messo in evidenza in tutto il mondo sistemi di disuguaglianza“, continua Hawari, e afferma di ritenere “quasi impossibile avere all’interno di questi sistemi giustizia e parità in campo sanitario”.

“Un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto riguarda la Palestina, sarebbe che i palestinesi ricevessero immediatamente il vaccino, perché vivono un’esistenza precaria e costituiscono una comunità vulnerabile”, sostiene Hawari. “Questa priorità non dovrebbe essere esclusiva dei palestinesi, ma anche di altri Paesi del Sud del mondo. L’accesso all’assistenza sanitaria non dovrebbe dipendere dal fatto che sia o meno possibile permetterselo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




“Lunga vita al (defunto) processo di pace”: Abbas dà la priorità ai rapporti con gli USA rispetto all’unità nazionale palestinese

Ramzy Baroud

9 dicembre 2020 – Palestine Chronicle

Nessuno più del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas pare entusiasta dell’elezione di Joe Biden come prossimo presidente degli Stati Uniti. Quando sembrava persa ogni speranza e Abbas si era ritrovato alla disperata ricerca di riconoscimento politico e finanziamenti, Biden è arrivato come un prode cavaliere su un cavallo bianco e ha trascinato in salvo il leader palestinese.

Abbas è stato uno dei primi leader mondiali a congratularsi con il presidente democratico eletto per la sua vittoria. Mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyhua ha ritardato il suo comunicato di congratulazioni nella speranza che alla fine Donald Trump fosse in grado di ribaltare il risultato, Abbas non si è fatto illusioni. Considerando l’umiliazione subita dall’Autorità Nazionale Palestinese per mano dell’amministrazione Trump, Abbas non aveva niente da perdere. Per lui Biden, nonostante il suo lungo innamoramento con Israele, rappresentava ancora un barlume di speranza. Ma si può riportare indietro la ruota della storia? Nonostante il fatto che l’amministrazione Biden abbia messo in chiaro che non annullerà nessuna delle iniziative prese dall’uscente amministrazione Trump a favore di Israele, Abbas rimane fiducioso che almeno il “processo di pace” possa essere ripreso.

Questa potrebbe essere vista come una dicotomia impossibile perché, come può un “processo di pace” dare pace se tutte le componenti di una pace giusta sono già state tolte di mezzo?

È ovvio che non ci può essere alcuna vera pace se il governo USA insiste sul riconoscimento di tutta Gerusalemme come capitale “eterna” di Israele. Non ci può essere pace se gli USA continuano a finanziare illegali colonie ebraiche, foraggiare l’apartheid israeliano, negare i diritti dei rifugiati palestinesi, far finta di non vedere l’annessione di fatto in corso nella Palestina occupata e riconoscere come parte di Israele le Alture del Golan siriane illegalmente occupate, ed è probabile che ognuna di queste iniziative rimanga immutata anche sotto l’amministrazione Biden.

È improbabile che il “processo di pace” possa portare a un qualche tipo di pace giusta e sostenibile in futuro, quando ha già fallito negli ultimi 30 anni.

Eppure, nonostante le numerose lezioni del passato, Abbas ha deciso di nuovo di scommettere sul futuro del suo popolo e di mettere a repentaglio la sua lotta per la libertà e una pace giusta. Abbas non solo sta montando una campagna che coinvolge gli Stati arabi, ossia la Giordania e l’Egitto, per resuscitare gli “accordi di pace”, sta anche rimangiandosi tutte le promesse e decisioni di cancellare gli accordi di Oslo e di porre fine al “coordinamento per la sicurezza” con Israele. Così facendo Abbas ha tradito i colloqui per l’unità nazionale tra il suo partito, Fatah, e Hamas.

I colloqui per l’unità tra i gruppi palestinesi rivali sembravano aver preso una seria svolta lo scorso luglio, quando i principali partiti politici palestinesi hanno emesso un comunicato congiunto in cui dichiaravano la loro intenzione di sconfiggere l’“accordo del secolo” di Trump. Il linguaggio usato in quel comunicato ricordava il discorso rivoluzionario di questi gruppi durante la Prima e la Seconda Intifada (rivolta), di per sé un indicatore che Fatah si era finalmente riorientato riguardo alle priorità nazionali e allontanato dal discorso politico “moderato” forgiato dal “processo di pace” sostenuto dagli USA.

Persino quanti si sono stancati e sono diventati cinici riguardo ai trucchetti di Abbas e dei gruppi palestinesi si chiedevano se questa volta sarebbe stato diverso, se i palestinesi avrebbero finalmente trovato un accordo su una serie di principi con cui avrebbero espresso ed incanalato la loro lotta per la libertà. Paradossalmente i quattro anni di presidenza Trump sono stati la cosa migliore che sia avvenuta per la lotta nazionale palestinese. La sua amministrazione è stata uno stridente e indiscutibile promemoria che gli USA non sono, e non sono mai stati, “un leale mediatore per la pace” e che i palestinesi non possono orientare la propria agenda politica per soddisfare le richieste di USA e Israele e ottenere legittimazione politica e appoggio economico.

Con il taglio dei finanziamenti USA all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito dalla chiusura della missione diplomatica palestinese a Washington, Trump ha liberato i palestinesi dai tormenti di un’impossibile equazione politica. Senza la proverbiale carota americana, la dirigenza palestinese ha avuto la rara opportunità di riorganizzare la casa palestinese a beneficio del popolo palestinese.

Ahimé, questi sforzi hanno avuto vita breve. Dopo molteplici incontri e videoconferenze tra Fatah, Hamas e altre delegazioni che rappresentavano i gruppi palestinesi, il 17 novembre Abbas ha dichiarato la ripresa del “coordinamento per la sicurezza” tra la sua autorità e Israele. Ciò è stato seguito il 2 dicembre dall’annuncio israeliano della consegna di oltre un miliardo di dollari dei fondi palestinesi illegalmente trattenuti da Israele come forma di pressione politica.

Ciò riporta l’unità palestinese al punto di partenza. Ormai Abbas trova totalmente inutili i colloqui per l’unità con i suoi rivali palestinesi. Dato che Fatah domina l’Autorità Nazionale Palestinese, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), dare spazio o condividere il potere con altre fazioni palestinesi sembra autolesionista. Ora che Abbas è rassicurato del fatto che l’amministrazione Biden gli concederà, ancora una volta, il titolo di “partner per la pace”, alleato degli USA e moderato, il leader palestinese non trova più necessario cercare l’approvazione dei palestinesi. Poiché non ci può essere una via di mezzo tra adeguarsi a un piano di USA e Israele e rivendicare un progetto nazionale palestinese, il dirigente palestinese ha optato per il primo e, senza esitazione, ha abbandonato il secondo.

Mentre è vero che Biden non soddisferà mai nessuna delle richieste del popolo palestinese né annullerà nessuno dei passi sbagliati del suo predecessore, Abbas può ancora beneficiare di quello che vede come uno stravolgimento della politica estera USA, non a favore della causa palestinese ma personalmente di Abbas, un dirigente non eletto il cui principale successo è stato appoggiare lo status quo imposto dagli USA e tener tranquillo il popolo palestinese il più a lungo possibile.

Benché in molteplici occasioni il “processo di pace” sia stato dichiarato “morto”, Abbas sta ora cercando disperatamente di risuscitarlo, non perché lui, o qualunque palestinese sensato, creda che la pace sia a portata di mano, ma a causa del rapporto esistenziale tra l’ANP e il suo schema politico sponsorizzato dagli USA. Mentre la maggior parte dei palestinesi non ha niente da guadagnare da ciò, qualche palestinese ha accumulato benessere, potere e prestigio in quantità. Secondo tale cricca questa è l’unica causa per cui vale la pena lottare.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo lavoro è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle prigioni israeliane] (Clarity Press). Baroud è ricercatore non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA) e anche presso il Centro Afro-Mediorientale (AMEC).

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Siete pionieri sionisti” –Una ministra israeliana di centro saluta così i coloni messianici

Jonathan Ofir  

1 dicembre 2020 – MondoWeiss

La pluridecennale impresa coloniale di Israele consiste nella creazione di “fatti sul campo”. I fatti si presentano tipicamente come “avamposti” costruiti da zelanti fedeli senza un’autorizzazione, sia su terreni sequestrati dai militari per lo Stato, sia semplicemente su terreni privati palestinesi. La questione è quindi come legalizzare retroattivamente il furto e come inquadrarlo. Si tende a pensare che questa attività sia principalmente un progetto della destra, ma storicamente è stata praticata sia dalla destra che dalla sinistra, in modo più o meno esplicito.

Questa settimana, una ministra centrista ha intenzionalmente sganciato una bomba. Domenica, la ministra israeliana della Diaspora Omer Yankelevich, del partito Blu e Bianco di Benny Gantz si è rivolta ai coloni durante un “Forum delle colonie”. L’ ha fatto a conferma dell’iniziativa del ministro della Difesa Gantz e del suo collega di partito Michael Biton (ministro degli Affari Strategici) di legalizzare retroattivamente 1.700 unità abitative dei coloni, considerate illegali anche dalle indulgenti leggi di Israele (che sfidano il diritto internazionale).

Yankelevitch ha invocato l'”unità” suprematista ebraica riguardo alle colonie, dicendo che “è tempo di porre fine ai discorsi di divisione e odio nei confronti dei coloni”. Condividendo il video del discorso, il giornalista Neri Zilber ha detto che l’affermazione è un tradimento. “I [parlamentari di] Blu e Bianchi sono stati votati con più di un milione di voti di centrosinistra”.

Ma davvero quei milioni di elettori sono contrari? Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot aveva già denunciato tre settimane fa la possibilità di tale mossa, che i coloni stavano ovviamente aspettando, una mossa che Peace Now [movimento israeliano contrario all’occupazione, ndtr.] ha definito “la realizzazione di una politica da coloni messianici”. E contemporaneamente Oded Ravivi, capo del consiglio regionale dei coloni di Efrat, ha detto che “l’insediamento di ebrei in Giudea e Samaria ha ottenuto il consenso”.

La giornalista Mairav Zonszein ha commentato le dichiarazioni di Yankelevitch, scrivendo su Twitter: “Non un ministro qualsiasi, ma Omer Yankelevich, ministra degli Affari della Diaspora, che sovrintende ai rapporti con gli ebrei americani, i quali in genere si oppongono alle colonie.”

Gli ebrei americani sono una cosa. Gli ebrei israeliani un’altra.

Yankelevich ha detto senza mezzi termini che Gantz sostiene in pieno l’iniziativa di Biton di legalizzare le case illegali dei coloni.

In passato, simili palesi iniziative promozionali della legalizzazione dell’illegale venivano dalla destra di Benjamin Netanyahu, ad esempio dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nel 2017 promosse la “legge di regolarizzazione”, che analogamente forniva copertura giuridica alla legalizzazione retroattiva di circa 4.000 case illegali di coloni.

Con la sua dichiarazione, Yankelevich ha in sostanza detto che un partito di centro, Blu e Bianco, stava superando Netanyahu a destra, e andando persino oltre Shaked, poiché in particolare questa “legalizzazione” verrebbe messa in pratica anche prima che venga approvata una specifica legge in merito a quelle case. Yediot riferisce che l’intenzione è quella di approvare la mozione che viene chiamata “regolarizzazione del mercato”, che “consente all’acquirente di acquisire diritti sulla proprietà se è dimostrato che l’acquisto è stato fatto in buona fede”.

Già, “buona fede” è un termine usato spesso dai promotori di questi atti. I coloni dell’avamposto sono chiamati collettivamente “il giovane insediamento”, come li ha chiamati anche Yankelevich, piuttosto che colonialisti ladri di terre. Le affermazioni di Yankelevich sono diventate un grosso problema per Gantz, che vorrebbe almeno apparire come un centrista. Così lunedì c’è stata una discussione nel partito se questa posizione rappresenti effettivamente la linea del partito. Gantz ha detto di no, e che Yankelevich stava travisando (come riportato da Walla [portale web di una società di telecomunicazioni israeliana, ndtr.]):

Il capo di Blu e Bianco Benny Gantz ha chiarito oggi (lunedì) di non appoggiare la mozione di regolarizzazione degli avamposti, e ha preso le distanze dalle dichiarazioni della ministra della Diaspora Omer Yankelevich che ieri al raduno di protesta ha detto che Gantz li sostiene. Durante la riunione del partito Blu e Bianco Gantz ha detto: Non sosteniamo gli avamposti illegali e non importa chi vi risieda, che quella persona sia un pilota o un medico, non ha il permesso di insediarsi in aree illegali’ ”.

Tuttavia, Gantz ha sottolineato che questo non significa che si opponga alle colonie in generale, né in toto alla “regolarizzazione”. Devono solo essere fatti correttamente, per così dire:Sostengo il fatto che i blocchi [di colonie] della valle del Giordano rimangano, senza tornare ai confini del ’67 … Il Ministero della Difesa [di cui Gantz è il titolare, ndtr.] sta lavorando alla regolarizzazione di tutti gli avamposti che si trovano su aree legali esattamente secondo i regolamenti e le leggi. Qualsiasi deviazione da questa linea non è la politica di Blu e Bianco.

Questo crea un po’ di confusione, poiché gli avamposti che si trovano su aree consentite non hanno bisogno di essere legalizzati. Il punto è che si trovano in zone non ancora chiaramente definite da Israele come legali per le colonie: possono essere terre confiscate e sottoposte a “verifica”, o semplicemente terre private palestinesi.

In ogni caso, la “legalizzazione” retroattiva di tali aree è proprio il processo di “regolarizzazione” a cui si riferisce Gantz. Ma anche per chi è perplesso, il punto qui sottolineato da Gantz rivela che Israele sta operando istituzionalmente su una base espansionistica colonialista attraverso le istituzioni militari. L’unica domanda è quanto velocemente debbano andare le cose, prima che la Cisgiordania inizi a sembrare il Far West.

Durante la riunione il parlamentare di Blu e Bianco Asaf Zamir (ex ministro del Turismo) ha aggredito Yankelevich e ha detto che stava “danneggiando politicamente [il partito] nelle regioni in cui non abbiamo elettori”. Zamir ha accennato alla possibilità di elezioni imminenti: “Siamo alla vigilia di un potenziale scioglimento della Knesset [il parlamento], è meglio che ci ricordiamo chi siamo, perché queste dichiarazioni e queste iniziative non coordinate che hai compiuto allontanano la sala di comando dai nostri elettori.

Ma Yankelevich non ne ha voluto sapere. Ha mantenuto la posizione come una brava giovane colona: “La posizione del partito, come ha detto alla riunione del partito il presidente del partito, è di supporto alla regolarizzazione degli insediamenti costruiti in buona fede su terre demaniali. Questa è la posizione che ho espresso anch’io e ne sono orgogliosa. Stiamo parlando del sale della terra, di persone che vivono in condizioni inaccettabili ed è giunto il momento di fornire loro condizioni di vita onorevoli. Non credete alle false citazioni.

E dunque, Blu e Bianco si sconterà un per un po’ al suo interno e deciderà quale sia veramente la linea del partito. È un furto intenzionale e palese o è piuttosto un furto accettabile?

Due anni fa, chi scrive sostenne che il dibattito sinistra-destra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come porvi fine. Blu e Bianco è il presunto contrappeso di opposizione progressista al Likud di Netanyahu. Ma non è così, e non si riesce nemmeno a capire cosa rappresenti. Gantz dice “colonizzazione leggera”, Yankelevich dice “pionierismo sionista”. E il promemoria per gli ebrei all’estero, in particolare negli Stati Uniti, di cui Yankelevich è presumibilmente la ministra, è che non c’è forza politica in Israele che effettivamente si opponga alle colonie. La “sinistra” sionista? Quale sinistra? Non esiste. Oh, e che dire del gruppo di parlamentari della Lista Unita palestinese? È sistematicamente esclusa dal governo – sì, anche da Gantz.

E se dici che è un comportamento razzista, beh, fai attenzione, la definizione IHRA di antisemitismo potrebbe essere pronta ad acchiapparti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un attacco contro l’Iran come ultimo regalo di Trump a Israele?

Abdel Bari Atwan

29 novembre 2020 – Chronique de Palestine

Forse Trump intende ritirarsi in una fiammata di “gloria militare”

L’assassinio venerdì 28 novembre del fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh – che era a capo dell’Organizzazione per la ricerca e l’innovazione del Ministero della Difesa[iraniano] – da parte dei servizi del Mossad israeliano rafforza i timori di un attacco dell’ultimo momento e di vasta portata contro l’Iran su iniziativa di Trump. Un ultimo “regalo” allo Stato sionista prima dell’uscita dalla Casa Bianca.

Nel momento in cui Donald Trump sembra cominciare ad accettare l’idea di aver perso le elezioni presidenziali, tutti si chiedono che cosa pensi di fare durante i due mesi che gli restano alla Casa Bianca prima della data di uscita prevista il 20 gennaio.

È possibile che cerchi di lasciare le proprie funzioni in un’esplosione di “gloria” militare, da uomo forte e determinato, ordinando attacchi aerei e lanci di missili devastanti contro le installazioni nucleari dell’Iran – dopo aver rapidamente ritirato le truppe americane dal Medio Oriente (in particolare da Afghanistan, Iraq e Siria) per evitare che siano obiettivi di rappresaglie.

L’allarme rispetto a queste prospettive si è accresciuto dopo che la scorsa settimana Trump ha iniziato una mini purga del Pentagono licenziando il Segretario alla Difesa Mark Esper ed altri funzionari, sostituendoli con figure di provata fedeltà.

Il suo rifiuto di consentire al presidente eletto Joe Biden l’accesso ai rapporti dei servizi di intelligence ha ulteriormente alimentato i sospetti. Potrebbe cercare di dissimulare i piani ed i preparativi di un simile attacco mentre il Segretario di Stato Mike Pompeo li mette a punto durante il suo viaggio di questa settimana in Israele, Arabia Saudita, EAU e Qatar.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu – che potrebbe anch’egli trovarsi presto disoccupato – attende disperatamente che Trump, prima di lasciare il suo incarico, prenda iniziative militari sia contro le installazioni nucleari dell’Iran che contro i depositi di missili di Hezbollah. Ciò rende la cosa ancor più probabile. L’esercito israeliano ha appena condotto manovre militari di vasta portata lungo la frontiera libanese.

Israele teme che Biden rinnovi l’impegno degli Stati Uniti nell’accordo nucleare iraniano e torni alla politica dell’era Obama, che mirava a “contenere” l’Iran. Ciò porterebbe all’annullamento o all’ alleggerimento di sanzioni economiche soffocanti, permettendo all’Iran di riprendere i movimenti finanziari internazionali e la vendita di petrolio, come anche gli aiuti ai suoi alleati paramilitari in Libano, Iraq, Yemen e altrove.

Anche l’Arabia Saudita è favorevole ad un attacco militare, come ha dimostrato la scorsa settimana il discorso del re Salman, che ha chiesto alle potenze mondiali di prendere una “posizione risoluta” contro la minaccia nucleare iraniana. È poco probabile che abbia lanciato un simile appello prima di avere avuto l’autorizzazione di Trump e dei suoi complici.

Il presidente uscente può anche scegliere di lasciare il segno a livello interno.

Potrebbe dare semaforo verde ai suoi più fidi seguaci per scendere in strada in massa per dimostrare l’ampiezza della sua popolarità – polarizzando ulteriormente la società americana, spaccando il partito repubblicano e portando alla formazione di un nuovo partito di estrema destra sotto la sua direzione. Ha incoraggiato attraverso i tweet le milizie armate ed i gruppi suprematisti bianchi che si sono radunati in diverse regioni del Paese contro il “furto” del suo secondo mandato.

Oppure Trump potrebbe effettivamente cominciare a fare campagna per la sua rielezione nel 2024, creando un gruppo di media favorevole a lui o lanciando un programma televisivo su uno dei canali esistenti a lui affini. Anche i suoi detrattori ammettono che ha dalla sua parte molti seguaci e un riconosciuto talento per mobilitarli e sostenerli.

Qualunque sia la strada che sceglierà, Trump non lascerà il suo posto in silenzio per affrontare, una volta persa l’immunità presidenziale, una possibile serie di azioni giudiziarie e di inchieste per evasione fiscale, frode e transazioni commerciali sospette. La sua uscita potrebbe essere burrascosa. Non è un buon perdente e non esiterà a fare danni per raggiungere i suoi obbiettivi.

I suoi quattro anni di mandato hanno lasciato gli Stati Uniti divisi sul piano interno e indeboliti e screditati a livello internazionale.

Ha promesso di rendere l’America “di nuovo grande”, ma ha trasformato la maggior parte dei suoi alleati – eccetto Israele, qualche Stato del Golfo e altri – in antagonisti. Si compiace di rendere ancor più difficile per il suo successore il compito di riparare ai disastri che si è lasciato alle spalle.

Se Trump mette in campo il proprio gruppo di media non mancherà di risorse finanziarie provenienti dai suoi amici del Golfo. Può anche darsi che li convinca o li ricatti perché garantiscano i fondi necessari. Trump è a conoscenza di molti segreti devastanti che li riguardano e potrebbe servirsene in questa impresa. Accetterà volentieri il loro denaro in cambio del suo silenzio.

Ma non avrà bisogno di fare appello alla loro competenza in materia di media per diffondere menzogne e inganni. In questo campo è già un esperto rinomato.

*Abdel Bari Atwan è caporedattore della rivista in rete Rai al-Yaoum. È autore di “L’histoire secrète d’al-Qaïda [La storia segreta di al-Qaida], delle sue memorie, A Country of Words” [Un Paese di parole], e di “Al-Qaida : la nouvelle génération [Al-Qaida: la nuova generazione].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele. Jonathan Pollard, la spia che venne dal caldo

Sylvain Cypel

27 novembre 2020 – Orient XXI

Incarcerato nel novembre 1985 per spionaggio a favore di Israele e condannato all’ergastolo negli Stati Uniti nel marzo 1987, Jonathan Pollard ha goduto nel 2015 della libertà condizionata. Le restrizioni alla sua libertà di movimento sono state tolte questo 20 novembre dall’amministrazione Trump e ora può andare a vivere in Israele. Le reali motivazioni della sua incriminazione non sono mai state divulgate dalle autorità americane.

Siamo nell’ottobre 1998. Cinque anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il 13 settembre 1993, il presidente americano Bill Clinton sogna di terminare il suo secondo mandato con un successo: far firmare una pace definitiva a israeliani e palestinesi. Ma in Medio Oriente niente sembra muoversi. O forse sì. Dopo l’arrivo al potere in Israele di un giovane politico ultranazionalista, Benjamin Netanyahu, le cose sembrano regredire. Non si negozia più niente e la colonizzazione dei territori palestinesi si rafforza ogni giorno. Quindi nella località di Wye River, in Maryland, Clinton riunisce Yasser Arafat e quello stesso Netanyahu, con cui ha pessimi rapporti. Era avvenuto lo stesso con il suo predecessore, George Bush padre (presidente dal 1989 al 1993), il cui segretario di Stato James Baker aveva fatto di Netanyahu una persona non grata, non benaccetta negli uffici di Washington.

Arafat va a Wye River sperando di firmare un accordo che estenda il suo potere e di far passare la zona di autogoverno palestinese in Cisgiordania, detta Zona A, almeno dal 13% al 30% del territorio. Ma Netanyahu è inflessibile. Propone di concedere ai palestinesi… l’1% di territorio in più. “È troppo,” avrebbe ironizzato Arafat, “perché non lo 0,1%?” I negoziati vanno male. Alla fine viene firmato un testo che promette di continuare le discussioni senza nessun progresso sostanziale. Ma, dopo aver firmato, Netanyahu torna da Clinton. “Presidente”, gli dice in sostanza, “ho da chiederle una cosa. Ho fatto tali e tante concessioni ad Arafat che mi sento in obbligo di tornare dal mio popolo con un elemento positivo. Mi conceda di portare con me Jonathan Pollard.”

Un “eroe” dell’estrema destra israeliana

Dopo qualche anno Pollard è effettivamente diventato un “eroe” dell’estrema destra israeliana, che presenta la sua incarcerazione come una manifestazione di antisemitismo. Di fatto il suo caso non sembra giustificare un ergastolo. In più, sostiene questa estrema destra, Pollard ha agito con l’unico obiettivo di proteggere Israele, un alleato incondizionato degli Stati Uniti. In breve diventa una sorta di prigioniero di coscienza. Se riuscisse a riportare in Israele Pollard insieme ai suoi bagagli, spiega Netanyahu a Clinton, riuscirà a farsi perdonare dalla tendenza colonialista israeliana più radicale per aver accettato di stringere la mano ad Arafat, questo “capo terrorista”, a Wye River. Ma Clinton rifiuta.

Il capo della CIA e il capo di stato maggiore della marina minacciano di dare le dimissioni se acconsento a questa richiesta,” avrebbe risposto. Le cose rimarranno così. Nessuno ha mai saputo se Clinton avesse veramente consultato quei due responsabili della sicurezza americana o se si fosse nascosto dietro la loro nota posizione per mascherare il suo rifiuto.

Chi è quindi questo Pollard, che marcisce in carcere e che ci deve passare trent’anni?

Analista nei servizi di informazione della marina americana, ha 31 anni quando viene arrestato nel 1985. È processato due anni dopo per “spionaggio a favore di uno Stato straniero” (in questo caso Israele). L’essenza dei motivi dell’accusa non viene specificata, ufficialmente per non divulgare i segreti che Pollard avrebbe reso noti. Gli anni passano, circolano voci: l’uomo, lasceranno filtrare i servizi americani, avrebbe fornito agli israeliani delle foto satellitari americane dei locali dell’OLP a Tunisi, che avrebbero consentito loro di assassinare in seguito alti dirigenti di quest’organizzazione. Un’accusa in verità poco plausibile: in primo luogo, la semplice divulgazione di quelle immagini difficilmente avrebbe potuto giustificare l’ergastolo. Inoltre, se è effettivamente avvenuto un bombardamento israeliano dei locali dell’OLP un mese prima dell’incarcerazione di Pollard, l’azione più grave, l’assassinio a Tunisi di Abu Jihad, il numero 2 dell’OLP, da parte di un commando israeliano è avvenuta…tre anni dopo il suo arresto. Infine i servizi israeliani disponevano verosimilmente di tutte le foto necessarie e non avevano bisogno dei loro alleati americani per agire. In breve la questione dei motivi reali per cui gli Stati Uniti hanno rifiutato per trent’anni di liberare questo “prigioniero di coscienza” un po’ particolare restano da scoprire.

Una volta che Pollard ha riconquistato appieno la sua libertà di movimento, un ex-capo della sede della CIA in Israele, Stephen Slick, ha dichiarato al Washington Post che “l’affaire Pollard è servito per dissuadere efficacemente i nostri alleati che sarebbero tentati di approfittare del loro rapporto bilaterale relativo alla sicurezza con noi.” In altri termini l’amministrazione americana al potere all’epoca del suo processo (in cui si era dichiarato colpevole) e tutte quelle che si sono succedute fino a Trump avrebbero ritenuto che la sua pena, indipendentemente dalle dimensioni e dal valore reale delle informazioni fornite da Pollard agli israeliani, dovesse servire da esempio. Attraverso Pollard, non è stata la sua persona ad essere presa di mira, ma in primo luogo la politica di uno Stato: Israele. Sulla base di questa ipotesi, il messaggio subliminale dell’atteggiamento inflessibile degli americani per trent’anni sarebbe che un alleato non può agire in modo così subdolo, qualunque sia la gravità del reato. Ci crede chi vuole credere che gli alleati non si spiino tra loro…

Un agente profumatamente pagato

Ma ci potrebbe essere di più. In primo luogo l’atteggiamento di Pollard prima della sua incarcerazione non favorisce la tesi del “prigioniero di coscienza”. È stato lautamente remunerato dal Mossad [servizio di intelligence estera di Israele, ndtr.] (si parla di 540.000 dollari dell’epoca, cioè 1.307.000 dollari attuali (1.097,000 euro), in sei o sette anni di “lavoro”). Ma prima di farsi pagare i suoi servigi dagli israeliani – è lui che si è rivolto a loro, non il contrario – aveva anche testato il terreno presso altri attori che immaginava fossero potenzialmente interessati alle sue informazioni: il Sudafrica dell’apartheid, la Cina popolare, il Pakistan, ricorda oggi Gideon Levy su Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.].

Pollard sostiene di non aver agito che per motivazioni sioniste, ma ecco quanto valeva allora la sua coscienza”, ironizza il giornalista israeliano. Nel 1976, sette anni prima di diventare uno spione a pagamento, Pollard, uscito dall’università, aveva tentato di entrare nella CIA. Ammissione negata per non aver superato con successo il test con la macchina della verità. Un chiacchierone (blabbermouth) che parla a vanvera, avevano ritenuto i suoi esaminatori.

In seguito, contrariamente a quello che sostengono da trent’anni i circoli sempre più ampi dell’opinione pubblica israeliana (nel 1995 Pollard si è visto concedere la cittadinanza israeliana), forse è stato tenuto in carcere senza pietà (fino a Trump) non perché ha fornito ai suoi committenti solo delle informazioni di scarsa importanza, ma altre molto più critiche. È la tesi che aveva approfondito nel 1999 sul New Yorker [importante rivista USA, ndtr.] il giornalista d’inchiesta Seymour Hersh in un articolo intitolato “Il traditore”. All’epoca Hersh era una stella del giornalismo. Era stato lui che nel 1969 aveva rivelato il massacro commesso da un battaglione americano contro 300 civili vietnamiti nel villaggio di My Lai. Spesso discusso, questo giornalista d’inchiesta in acque profonde tornerà a ripetersi 34 anni dopo, quando nel maggio 2004 rivelerà, in tre successivi articoli, con testimonianze e foto a supporto, le terribili torture inflitte dai soldati americani a prigionieri irakeni ad Abu Ghraib.

Durante la sua lunghissima carriera Hersh ha coltivato contatti di prim’ordine all’interno dei servizi di sicurezza americani, a cominciare dalla CIA. La tesi che ha sostenuto 22 anni fa non è stata né smentita né confermata da fonti ufficiali americane. Ha tuttavia come principale pregio il fatto di essere suffragata da numerose testimonianze e di fornire una spiegazione molto più plausibile della vendetta americana contro Pollard, ma anche contro l’atteggiamento generale dei dirigenti israeliani. In sintesi, questa tesi è la seguente: Pollard venne reclutato dagli israeliani nel momento in cui il regime sovietico cominciava a vacillare, poco prima dell’arrivo di Mikhail Gorbaciov al potere. È stato in grado di fornire al suo referente dell’Ufficio dei Contatti scientifici israeliani (Lakam in ebraico) Rafi Eitan (che in seguito diventerà capo del Mossad) informazioni di cruciale importanza, in particolare sui sistemi e codici della National Security Agency (NSA), la più grande agenzia americana di spionaggio e di intercettazioni.

Allora gli israeliani iniziarono negoziati per consentire l’uscita di ebrei sovietici verso il loro Paese. Hersh nota che in un primo tempo gli israeliani erano particolarmente interessati agli “scienziati ebrei che lavoravano sulle tecnologie missilistiche e sulle questioni nucleari,” un’informazione che gli era stata passata da “un alto grado che ha fatto una lunga carriera alla CIA come capo della sede in Medio Oriente.” Secondo questo responsabile dello spionaggio americano Israele avrebbe “barattato queste informazioni con l’uscita [dall’URSS] di persone che desiderava far arrivare.”

A favore dell’URSS?

Hersh cita le affermazioni di William Casey, capo della CIA all’epoca e personaggio fino ad allora molto vicino ai dirigenti israeliani. Un mese dopo l’arresto di Pollard, costui dichiarò stupefatto: “Gli israeliani hanno utilizzato Pollard per ottenere tutti i nostri piani di attacco contro l’URSS – le coordinate, le zone di tiro, le sequenze, tutto! E per darle a chi? Indovinate: ai sovietici!” Cita anche un ammiraglio in congedo che gli ha dichiarato: “Non c’è alcun dubbio che i russi siano entrati in possesso di molte delle informazioni che Pollard ha fornito. La sola domanda è: come hanno fatto?”

Secondo Hersh fu la NSA, l’agenzia delle intercettazioni, ad essere stata la più “saccheggiata” da Pollard. Il suo manuale di lavoro, il Rasin (acronimo in inglese di “notazione di radio-segnale”) è stato integralmente fotocopiato da Pollard, che l’ha fornito agli israeliani prima che finisse in un cassetto del KGB. Hersh sostiene che nella sua dichiarazione segreta consegnata ai giudici, il ministro della Difesa americano al momento del processo, Caspar Weinberger, evocò quest’ultimo fatto come l’elemento chiave per la richiesta del massimo della pena contro Pollard.

In fondo Hersh suggerisce non solo che Pollard non abbia agito solo per alti motivi morali, ma che il livello massimo di punizione che gli è toccato non fosse semplicemente dovuto alle sue azioni. Attraverso lui fu Israele ad essere preso di mira per aver rotto le regole usuali tra alleati e amici, come ha detto William Casey, con metodi inqualificabili persino agli occhi di agenti segreti professionali. Hersh racconta che, quando la Casa Bianca, sotto Clinton, chiese ai servizi di intelligence un rapporto sull’affare Pollard, tredici anni dopo il processo, uno degli estensori del rapporto dichiarò, “in modo un po’ scherzoso”: “Io avrei immediatamente tolto di mezzo ogni obiezione alla liberazione di Pollard se il governo israeliano avesse risposto a due richieste: primo, dateci la lista completa di tutto quello che avete ricevuto [da Pollard], poi diteci quello che ne avete fatto.” In altri termini: ammettete che l’avete dato ai sovietici.

E Mordechai Vanunu?

Oggi la destra nazionalista e colonialista israeliana festeggia la fine della libertà condizionata come se si trattasse di un atto di giustizia. Ma si levano alcune voci fuori dal coro. Gideon Levy nota che si fa di Pollard un “eroe di Sion”, quando si tiene in carcere in Israele persino uno che ha lanciato un allarme, Mordechai Vanunu, ex-tecnico della centrale atomica di Dimona, il cui unico reato è stato di aver rivelato la realtà delle ricerche nucleari militari israeliane. Condannato nel 1988 a 18 anni di carcere (ne passerà 11 in isolamento totale), dalla sua liberazione rimane sottoposto a molteplici divieti di esprimersi o di incontrare stranieri, motivo per cui è stato condannato di nuovo a varie riprese. Considerato un prigioniero d’opinione dalle associazioni per la difesa dei diritti umani, è costantemente perseguitato dalle forze di sicurezza israeliane.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs  [Lo Stato di Israele contro gli ebrei ](La Découverte, 2020).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




L’incontro di Netanyahu con MBS segna un nuovo fronte contro il ritorno all’accordo con l’Iran da parte di Biden

Philip Weiss

23 novembre 2020 – Mondoweiss

La grande notizia di questa notte è che pare che Benjamin Netanyahu sia volato nella città dell’Arabia Saudita di NEOM sul Mar Rosso per incontrare il principe saudita Mohammed bin Salman su richiesta del Segretario di Stato USA Mike Pompeo.

Se confermato, questo sarebbe ovviamente un incontro di grande importanza storica – un leader israeliano non ha mai visitato l’Arabia Saudita. Pompeo ha segnalato ciò con un tweet criptico:

Costruttivo incontro oggi con il principe ereditario Mohammed bin Salman a NEOM. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno percorso un lungo cammino da quando il Presidente Franklin Delano Roosevelt e il Re Abdul Aziz Al Saud hanno posto per la prima volta le basi per le nostre relazioni 75 anni fa.”

Pompeo si riferisce ad un famoso incontro in cui il re disse a Roosevelt che non ci doveva essere uno Stato sionista nella vicina Palestina e Roosevelt gli promise che gli USA non avrebbero appoggiato una simile ipotesi. Poi Roosevelt morì e Truman cambiò politica.

E guarda un po’, adesso anche i sauditi stanno cambiando idea sul sionismo, come va strombazzando la stampa israeliana.

Consideriamo la valenza politica di questa visita. È una triplice vittoria per Israele, Arabia Saudita e anche per Pompeo. Ma molti altri perdono!

Sicuramente Israele ne trae il maggior vantaggio. Un altro accordo di normalizzazione con un vicino arabo è in vista. Ancora una volta i palestinesi sono stati sacrificati; ehi, voi palestinesi dovete arrendervi. Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] vi ha detto che siete un popolo sconfitto.

Israele riesce a legare ancor di più le mani a Joe Biden riguardo alla ripresa dell’accordo con l’Iran, che odia. Ieri Netanyahu ha detto a Biden che non può rientrare nell’accordo prima di essere andato in Arabia Saudita. L’avvocato di Israele Dennis Ross ha inviato questo messaggio in un tweet stamattina.

L’incontro Netanyahu-MbS non è una mossa da poco in Medio Oriente. Si può scommettere che la loro discussione si è fortemente incentrata su come rapportarsi all’amministrazione Biden, con un occhio verso il coordinamento dei messaggi sull’Iran.

Il messaggio a Biden, proprio mentre sta costituendo la sua squadra di esperti di Washington sulla politica estera, è questo: dovrai usare tutte le tue capacità politiche per firmare un accordo con l’Iran, perché Israele con l’aiuto della Casa Bianca di Trump ha appena alzato il prezzo. Non ti conviene.

Martin Indyk, un lobbista filoisraeliano democratico di centro, capisce che il messaggio è questo e invita Israele ad essere cortese con Biden.

Se l’incontro tra Netanyahu e MbS è stato inteso come un tentativo di coordinare le posizioni contro ciò che entrambi potrebbero considerare una nuova minaccia comune da parte dell’entrante amministrazione Biden, questo è un grosso errore. Lavorare insieme a Biden piuttosto che contro di lui porterà a risultati molto migliori per tutti.

Bella mossa. Ma ad Israele non importa.

Passiamo al punto di vista della monarchia saudita. Nel 2015 l’Arabia Saudita non si era opposta all’accordo con l’Iran (guadagnando così l’appoggio di Obama nella guerra in Yemen), ma ovviamente condivide alcuni degli interessi di Israele nell’isolare l’Iran. Ora sta svendendo i palestinesi, ma non è un gran prezzo da pagare quando si pensa a cosa ci guadagna. Ora ha a Washington l’ambasciatore più potente di tutti: la lobby israeliana e Netanyahu, che aiuteranno a sostenere il regime corrotto e criminale nel momento in cui un’amministrazione democratica entra alla Casa Bianca parlando di diritti umani.

Organizzazioni ebraiche di centro come la Conferenza dei Presidenti e l’AIPAC stanno per prendere le difese dell’Arabia Saudita e diranno a Joe Biden di lasciar perdere l’assassinio di Jamal Khashoggi – la pace in Medio Oriente è più importante.

Scusate se ripeto uno vecchio discorso, ma l’Arabia Saudita sa che essere cortesi con Israele apre le porte a Washington. Gli uomini più potenti del mondo, come Putin, Modi e Obama, si sono tutti rivolti alla lobby israeliana per cercare di fare affari in Campidoglio. Obama nel 2008 ha concordato con la lobby la nomina del suo segretario di Stato; poi nel 2015 ha dovuto combattere con la lobby di destra per raggiungere l’accordo con l’Iran, ma almeno ha avuto al suo fianco i sionisti progressisti.

Infine c’è Pompeo. Ha fatto tutto quel che poteva per Israele negli ultimi giorni, alla fine dell’amministrazione Trump. Il BDS è “un cancro”, ha detto quando è partito per le colonie illegali in Cisgiordania. Il principale donatore repubblicano, Sheldon Adelson, concorda in pieno. Come ha detto Nick Schifrin [giornalista USA esperto di Medio Oriente, ndtr.] l’altra notte nel programma PBS News Hour [programma televisivo USA di approfondimento della rete radiotelevisiva pubblica, ndtr.] , Pompeo ha delle ottime carte per dimostrare la propria idoneità per una campagna presidenziale nel 2014. Anche Aaron David Miller [analista e negoziatore USA in Medio Oriente, ndtr.] lo ha detto:

Le gite di Pompeo all’azienda vitivinicola in Cisgiordania e nel Golan non hanno nulla a che fare con le ambizioni dell’America, bensì con le sue, in vista del 2024.”

Socializzare con la destra israeliana è ancora una buona politica negli USA. Durante le primarie democratiche Bernie Sanders e Pete Buttigieg hanno definito Netanyahu un razzista che ha perso la testa, ma questa consapevolezza deve ancora farsi strada a Washington.

Vediamola in questo modo: Joe Biden sta cercando un ambasciatore in Israele che vada bene a Netanyahu. I nomi in gioco sono Dan Shapiro, Michael Adler e Robert Wexler, tutti ebrei e sionisti. L’idea che un ambasciatore USA in Israele sia qualcuno che dia speranze ai palestinesi sotto apartheid è fuori questione. E pensate che Netanyahu abbia voluto fare una cortesia a Obama quando ha nominato Michael Oren e Ron Dermer come suoi ambasciatori a Washington? Neanche per un istante. Ha messo una spina nel fianco di Obama. “Se arrivasse un extraterrestre e vedesse i rapporti tra USA ed Israele avrebbe ragione di pensare che gli USA sono uno Stato vassallo di Israele”, dice un esperto.

In sostanza, Netanyahu esercita ancora un grande potere a Washington. E l’Arabia Saudita lo ha al suo fianco. Chiunque altro ha ulteriori motivi per preoccuparsi.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha creato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Per lo Stato ebraico, l’Olocausto è uno strumento da manipolare

Orly Noy

20 novembre 2020 – +972 magazine

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro i palestinesi in nome dell’Olocausto, oggi lo usa come strumento per giustificare persino l’antisemitismo.

Nella stessa settimana in cui una commissione interna del governo israeliano ha approvato la nomina di Effi Eitam, ex-generale delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano dell’Olocausto, è successo qualcosa di significativo. In un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato USA uscente Mike Pompeo ha annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

La contiguità tra i due annunci simbolizza la fase finale della metamorfosi manipolatoria che l’antisemitismo e l’Olocausto hanno subito per mano del sionismo.

Effi Eitam, un falco di destra e un razzista, nel 2006, durante la cerimonia in commemorazione del tenente Amichai Merhavia, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, ha fatto le seguenti dichiarazioni:

“Noi dovremo fare tre cose: espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) da qui. È impossibile con tutti quegli arabi ed è impossibile lasciare il territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo là. Alcuni potrebbero essere in grado di rimanere in base a certe condizioni, ma la maggior parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, e cioè buttar fuori gli arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono lampanti: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo livello, per cui non possiamo continuare a consentire una così vasta presenza ostile nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana, dovremo agire in modo diverso da tutto quanto abbiamo fatto finora. Queste sono tre cose che richiederanno un cambiamento della nostra etica di guerra.”[corsivo ndtr]

L’espulsione dalla propria terra di una popolazione nativa occupata da parte della potenza occupante è un crimine di guerra. Impedire la partecipazione di cittadini al sistema politico in base all’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il futuro presidente dello Yad Vashem non si vergogna di aver espresso opinioni che rappresentano crimini di guerra per portare avanti le sue ambizioni politiche.

Come ha scritto su queste pagine Libby Lenkinski [vice presidentessa per l’impegno pubblico del gruppo contrario all’occupazione New Israel Fund, ndtr.], Trump è l’uomo che ha riportato alla moda negli Stati Uniti l’antisemitismo classico, essendo nel contempo calorosamente accolto dal primo ministro dello Stato ebraico.

La predilezione dello Yad Vashem per i fascisti e i criminali di guerra non è certo un segreto. Da quando nel 1976 lo visitò il primo ministro del Sudafrica dell’apartheid John Worster, membro di un’organizzazione filo-nazista durante la II guerra mondiale, il museo ha ospitato una delegazione della giunta militare del Myanmar responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Ha aperto le sue porte al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e appoggia apertamente lo sterminio fisico delle persone LGBTQ, della popolazione indigena brasiliana e una serie di altre atrocità, compresi lo stupro, la tortura e la dittatura militare. Ha ospitato persino il primo ministro ungherese Viktor Orban, che ha espresso appoggio per Miklós Horthy, il leader ungherese durante la II Guerra Mondiale, e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un importante esponente politico di un governo responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome dell’Olocausto, oggi lo utilizza come strumento per giustificare persino l’antisemitismo in cambio di vantaggi politici. Ancor peggio: consente a un antisemita di definire cosa sia l’antisemitismo. Questa è la peggiore verità che oggi ci troviamo davanti: per lo Stato di Israele ufficiale, i concetti di Olocausto e antisemitismo sono semplicemente mezzi politici, e come tali possono essere manipolati, distorti e travisati, come qualunque altro strumento politico.

Dopo aver spogliato i palestinesi con il pretesto dell’Olocausto, ora i dirigenti israeliani stanno adottando un antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi palestinesi spossessati in nome della lotta contro l’antisemitismo. E non solo loro, ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà con la lotta palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone con una coscienza, che rabbrividiscono di fronte a questo orribile sfruttamento della memoria dell’Olocausto, sarà difficile farlo.

È per questo che Effi Eitam, un razzista e un fautore di crimini di guerra, è stato nominato per custodire la memoria della tragedia ebrea, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre soggetto alla manipolazione politica utilitaristica. È così che Israele onora i morti nel 2020.

Orly Noy è editorialista di Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.], attivista politica e traduttrice di poesie e prose dal farsi [lingua ufficiale in Iran, ndtr.]. Fa parte del comitato esecutivo di B’Tselem ed è un’attivista del partito politico Balad [partito politico israeliano a maggioranza araba, ndtr.]. I suoi scritti riguardano i percorsi che incrociano e definiscono la sua identità come mizrahi [ebrei di origine orientale, ndtr.], donna di sinistra, donna, migrante temporanea, che vive all’interno di una continua immigrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio, avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio. 

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico. 

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane, compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est, vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un periodo critico”.

Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa, di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)