Come Israele sta usando l’emergenza da coronavirus per annettere la Cisgiordania

Fareed Taamallah

24 aprile 2020 – Middle East Eye

La formazione della coalizione governativa Gantz-Netanyahu non ha nulla a che fare con la pandemia, è una mossa puramente politica

Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, e Benny Gantz, il suo principale rivale, hanno firmato questa settimana un accordo per formare un governo di unità nazionale di “emergenza”. 

Secondo i media israeliani, il Likud, il partito di Netanyahu, e il Blu e Bianco, l’alleanza guidata da Gantz, si sono accordati per l’alternanza del premier. Inizialmente Netanyahu resterà primo ministro e Gantz sarà il suo vice e, dopo 18 mesi, si scambieranno i ruoli.

La prima reazione dall’amministrazione statunitense è arrivata mercoledì dal segretario di stato Mike Pompeo che ha detto che annettere parti della Cisgiordania ” spetta in ultima istanza a Israele”.  Questa brutale dichiarazione riflette la parzialità dell’amministrazione americana verso Israele. 

Da palestinese, nel corso dell’occupazione, ho assistito alla formazione di parecchi governi israeliani nessuno dei quali seriamente interessato a una soluzione pacifica del conflitto o a porre fine agli insediamenti illegali in Cisgiordania. 

Fissare la data per l’annessione

Quest’ultima coalizione non fa eccezione. La differenza è che per la prima volta un governo israeliano ha ufficialmente e sfrontatamente fissato una data precisa per l’annessione. 

Sulla base dell’accordo del secolo dell’amministrazione Trump, il primo luglio la Knesset potrà votare l’annessione di parti della Cisgiordania. Tale accordo era stato respinto preventivamente dai palestinesi perché dà ad Israele il totale controllo militare su di loro, sulla gran parte delle loro terre, sull’intera Gerusalemme e su tutti gli insediamenti israeliani.

L’accordo stabilisce che la votazione debba tenersi “il prima possibile”, senza ritardi in commissione. Sebbene i membri della coalizione possano votare come ritengono opportuno, è probabile che il fronte della Knesset a favore dell’annessione avrà la maggioranza.

Il cosiddetto governo di unità nazionale di “emergenza”, che durerà 36 mesi, è stato legittimato a gestire la pandemia in Israele. Ma perché l’implementazione dell’accordo del secolo deve essere considerata un’emergenza? 

Già prima di formare il nuovo governo. Netanyahu aveva dichiarato molte volte di voler annettere la Valle del Giordano e gli insediamenti della Cisgiordania. Gli americani e gli israeliani hanno già redatto mappe dei territori che hanno pianificato di annettere. 

Alcuni esperti predicono che Israele ingloberà almeno il 30% della Cisgiordania. Inutile dire che l’annessione non avverrà nel quadro di negoziati o di uno scambio concordato di territori, ma sarà piuttosto una decisione unilaterale che mina un futuro Stato palestinese, ponendo fine alla dottrina della “soluzione dei due Stati” per arrivare a un’entità palestinese segregata come bantustan in Sud Africa. 

Mossa propagandistica

Questa annessione avrebbe un impatto disastroso sulle aspirazioni di auto-determinazione del nostro popolo e su di me personalmente, un contadino palestinese che possiede della terra nell’Area C [sotto totale controllo israeliano e che in parte dovrebbe essere annessa, ndtr.].

Se il governo israeliano seguisse la mappa disegnata dai consiglieri di Trump, parte di Qira, il villaggio da dove vengo, situato nella zona cisgiordana di Salfit, e forse persino la mia fattoria verrebbero incorporate dall’insediamento coloniale illegale di Ariel.   

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha diffidato gli USA e i governi israeliani dall’annettere una qualsiasi parte dei territori palestinesi. “Non pensiate che, a causa del coronavirus, ci siamo dimenticati dell’annessione, delle misure di Netanyahu o dell’accordo del secolo,” ha detto questo mese, aggiungendo che i leader palestinesi avrebbero continuato a lavorare contro questi piani.

È chiaro che la formazione del governo di coalizione non ha niente a che fare con l’emergenza da pandemia, ma ha invece delle mire politiche. Netanyahu e ora anche Gantz vogliono approfittarne per implementare l’accordo trumpiano e annettere parti della Cisgiordania, mentre il mondo e i palestinesi sono esausti per la lotta contro il virus. 

Le elezioni presidenziali negli USA sono fissate per novembre e questa sarebbe anche una buona mossa propagandistica per facilitare la rielezione di Trump.

L’establishment politico israeliano si è unito su un programma permanente di colonizzazione e annessione, sfruttando la straordinaria situazione locale e internazionale per imporre lo status quo come realtà nei territori, con il pieno appoggio e sostegno da parte dell’amministrazione statunitense.

La necessità dell’unità palestinese

Secondo Hanan Ashrawi che fa parte del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’accordo di unità “rivela i partiti politici israeliani per quello che sono e prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, la morte in Israele della cosiddetta sinistra”. Sono d’accordo e vorrei aggiungere che il governo di unità evoca più che mai la necessità di porre fine alla divisione fra la Cisgiordania e Gaza per cercare invece la riconciliazione fra tutte le fazioni politiche.

I palestinesi devono adottare una strategia nuova, chiara e più determinata per affrontare l’annessione della propria terra, dato che Israele e gli USA non hanno lasciato loro altra alternativa che resistere. 

È ora che i palestinesi smettano di inseguire la futile illusione dei “due Stati” e inizino a cercare una soluzione realistica di “uno Stato democratico” che offra, a tutti quelli che vivono fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo [cioè nella Palestina storica, che comprende l’attuale Israele, la Cisgiordania e Gaza, ndtr.], gli stessi diritti e obblighi in qualità di cittadini uguali indipendentemente dalla loro religione o razza.

Questa resta l’unica soluzione fattibile del conflitto del secolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Fareed Taamallah

Fareed Taamallah è un agricoltore palestinese e un attivista politico.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE recede da una presa di posizione nei confronti di Israele sull’annessione della Cisgiordania

Ali Abunimah

23 aprile 2020 – Electronic Intifada

A quanto pare l’Unione europea ha receduto dalla sua minaccia di imporre delle misure nei confronti di Israele nel caso metta in atto ulteriori annessioni di territori della Cisgiordania occupata.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz, dopo un anno di stallo politico e tre elezioni generali, hanno raggiunto un accordo per formare una coalizione.

L’accordo di coalizione prevede l’impegno che da luglio il governo e il parlamento israeliani procedano alla votazione per l’annessione vaste aree della Cisgiordania.

Secondo il Times of Israel, tali misure probabilmente verrebbero approvate.

Giovedì, il responsabile della politica estera europea Josep Borrell ha ribadito la posizione del blocco delle 27 Nazioni secondo cui “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

“L’Unione Europea continuerà a monitorare attentamente la situazione e le sue più ampie implicazioni e agirà di conseguenza”, ha aggiunto Borrell.

Naturalmente “agire di conseguenza” potrebbe significare non fare nulla.

Un linguaggio annacquato

Considerando quanto i diplomatici dell’UE siano in sintonia con le sottigliezze linguistiche – e data la loro propensione a fare più o meno un copia-incolla di precedenti dichiarazioni – è degno di nota come Borrell non abbia ribadito una frase molto più incisiva di una dichiarazione fatta solo pochi mesi fa.

All’inizio di febbraio, Borrell ha reagito al piano del presidente Donald Trump, comunemente chiamato Accordo del Secolo, che sostiene l’annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania, con un raro, se non inedito, avvertimento che Israele avrebbe dovuto affrontare delle conseguenze.

“Dei passi verso l’annessione, se attuati, non potrebbero passare incontrastati”, ha affermato Borrell nell’occasione.

Come avevo rilevato allora, ci sono poche possibilità che l’UE cambi effettivamente il suo approccio di lunga data di sostegno incondizionato a Israele, nonostante commetta violazioni su violazioni, crimini su crimini.

Avevo anche evidenziato come Israele avesse già annesso Gerusalemme est occupata nel 1967 e le alture del Golan in Siria nel 1981 – gravi violazioni del diritto internazionale che hanno avuto come unico riscontro decenni di elargizioni profuse dalla UE ad Israele.

Ciò è in netto contrasto con il modo in cui l’UE ha imposto sanzioni alla Russia per l’annessione della Crimea dall’Ucraina nel 2014. A gennaio l’UE ha aggiunto a tali misure punitive le sanzioni ai funzionari russi che hanno contribuito a organizzare le elezioni in Crimea.

Israele tiene regolarmente elezioni in Cisgiordania in cui possono votare solo i coloni israeliani. L’UE abitualmente elogia queste elezioni segregazioniste organizzate negli insediamenti coloniali costruiti illegalmente sui territorio occupato.

Borrell, recedendo dalla sua già debole dichiarazione di febbraio, ha inviato un altro segnale a Israele secondo cui non avrebbe nulla da temere da Bruxelles.

Nella sua ultima dichiarazione, Borrell promette che l’UE è “intenzionata a cooperare strettamente con il nuovo governo nella lotta contro il coronavirus”.

Aggiunge che “la cooperazione tecnica è in corso e sarà rafforzata su tutti gli aspetti della pandemia”.

Una “cooperazione” rafforzata con ogni probabilità significa maggiori elargizioni dell’UE all’industria bellica israeliana.

Semaforo verde di Washington

L’amministrazione Trump ha nel frattempo dato il via libera all’annessione.

Mercoledì il segretario di Stato Mike Pompeo ha confermato che gli Stati Uniti considerano la questione come una “decisione israeliana”.

Ciò rende particolarmente significativi i possibili passi da parte dell’UE per contrastare questo sostegno incondizionato degli Stati Uniti.

Ma l’UE, il principale partner commerciale di Israele, non ha la volontà e la credibilità per agire.

All’inizio di questa settimana è emerso che i funzionari dell’UE avevano avvertito Gantz di non sottoscrivere un accordo per un governo determinato a procedere all’annessione.

Secondo il Times of Israel, “si diceva che i funzionari avessero lanciato l’avvertimento che una tale mossa da parte di un potenziale governo di unità avrebbe danneggiato le relazioni di Israele con l’UE, suscitando una forte risposta”.

Gantz non gli ha dato retta, indubbiamente fiducioso che l’UE continuerà la sua politica di di sporadiche sfuriate riguardo alle azioni di Israele continuando a inondarla di regalini.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il piano di annessione di Netanyahu è una minaccia alla sicurezza nazionale di Israele

 Ami Ayalon, Tamir Pardo, Gadi Shamni

23 aprile 2020– Foreing Policy

L’annessione della Cisgiordania incrinerebbe i trattati di pace di Israele con l’Egitto e la Giordania, susciterebbe la rabbia degli alleati nel Golfo, minerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese e metterebbe in pericolo Israele come democrazia ebraica.

Quattro giorni dopo che la Casa Bianca ha ribadito la decisione di perseguire l'”accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, la lunga instabilità politica di Israele si è conclusa lunedì con un accordo di coalizione che potrebbe mettere tragicamente fine a qualunque prospettiva di israeliani e palestinesi di tornare al tavolo dei negoziati.

L’ accordo tra il partito Likud di Benjamin Netanyahu e il Blu e Bianco di Benny Gantz fissa il 1 ° luglio come data in cui mettere in atto l’annessione unilaterale israeliana di grandi porzioni del territorio della Cisgiordania, importante elemento del piano Trump. Se il governo congiunto procederà conformemente, le altre caratteristiche del piano diverranno irrilevanti. Questo sta accadendo nonostante 220 generali, ammiragli ed ex dirigenti israeliani di Mossad, Shin Bet e polizia, membri di Commanders for Israel’s Security (CIS) [movimento di ex alti funzionari fondato nel 2014, ndtr.], abbiano firmato una lettera aperta a tutta pagina sui giornali israeliani il 3 aprile esortando i loro ex colleghi nel governo – in particolare Gantz e Gabi Ashkenazi, entrambi ex capi di stato maggiore dell’esercito israeliano – a chiedere di bloccare l’annessione unilaterale dei territori della Cisgiordania. Pochi giorni dopo, 149 eminenti leader ebrei americani si sono uniti a Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati, ndtr.] in un appello simile, e subito dopo, 11 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno espresso un altro monito sulle conseguenze negative di una tale mossa.

A prescindere dalle loro – e nostre – serie riserve riguardo a molti elementi del piano Trump, tutti e tre quei gruppi hanno concordato sugli effetti negativi dell’annessione sulla prospettiva di un’eventuale soluzione a due Stati israeliano e palestinese, e sul rischio di minare un altro pilastro fondamentale della strategia degli Stati Uniti nella regione: i trattati di pace di Israele con Egitto e Giordania.

L’Egitto è un importante attore nella regione e funge da principale intermediario tra Israele e Hamas nel prevenire episodi di violenza o nel porvi fine una volta scoppiati. Il Cairo è anche un partner importante di Israele nella lotta contro lo Stato Islamico, gli affiliati di al Qaeda e altri terroristi che operano nella e dalla penisola del Sinai; l’annessione della Cisgiordania potrebbe scatenare proteste di popolo in Egitto che potrebbero costringere l’amministrazione di Abdel Fattah al-Sisi a riconsiderare quelle relazioni.

La situazione è ancora più precaria in Giordania. Il regno si trova appena oltre il fiume Giordano rispetto alla Cisgiordania e ha una consistente popolazione palestinese. Pertanto, è sempre stato molto sensibile a sviluppi sfavorevoli in Cisgiordania. Per decenni il confine di Israele con la Giordania è stato più sicuro di altre frontiere. Inoltre, il vasto territorio del regno ha fornito a Israele uno spazio strategico insostituibile per la deterrenza, il rilevamento e l’intercettazione – per terra e per aria – di forze ostili, principalmente dall’Iran.

A seguito di un’annessione unilaterale potrebbe fallire un altro obiettivo del piano Trump: la speranza di consolidare i primi risultati dell’amministrazione nell’incoraggiare una maggiore cooperazione tra Israele e i partner regionali statunitensi nel Golfo e altrove. Proprio come la pandemia di coronavirus e il crollo dei prezzi del petrolio hanno contribuito alle preoccupazioni sulla stabilità interna delle monarchie del Golfo, questi regimi saranno anche costretti a prevenire la rabbia popolare reagendo pubblicamente all’annessione israeliana nel timore che i loro avversari, principalmente Iran e Turchia, utilizzino la loro inazione per minarne la legittimità popolare.

Non ha senso rischiare tutto ciò per annettere un territorio su cui Israele ha già il pieno controllo riguardo alla sicurezza. Sia Israele che gli Stati Uniti devono riconsiderare la cosa prima che il danno sia fatto.

Questa mossa sconsiderata non avrebbe solo conseguenze negative per la sicurezza di Israele, ma anche ripercussioni sul futuro di Israele come democrazia ebraica.

I leader ebrei statunitensi e i membri del Congresso hanno sottolineato che sarebbe in pericolo il supporto bipartisan dagli Stati Uniti di cui Israele ha a lungo goduto, un altro importante pilastro nell’equilibrio della sua sicurezza nazionale.

Come la maggior parte degli israeliani, molti politici e opinionisti statunitensi non erano consapevoli, come è risultato dalle nostre discussioni, del rapido passaggio dell’annessione unilaterale da capriccio di una trascurabile minoranza messianica di destra a elemento d’azione fondamentale nell’agenda di Netanyahu nel governo di coalizione che è appena riuscito a formare. Ora ogni dubbio è cancellato.

Il drammatico appello pubblico dei 220 alti funzionari della sicurezza israeliani in pensione era stato pensato per rafforzare l’opposizione all’annessione da parte degli aspiranti partner nella coalizione di Netanyahu guidati da Gantz, proprio nel momento in cui Netanyahu era pressato dagli irriducibili sostenitori dell’annessione (o ne orchestrava la pressione) perché non cedesse in merito ad essa.

Prevedendo tale pressione, per oltre due anni il CIS ha condiviso i risultati riguardanti le molteplici conseguenze dell’annessione unilaterale con i membri della Knesset e il gabinetto israeliani, nonché con la popolazione israeliana. Inoltre è stato spesso chiamato a informare funzionari della Casa Bianca, membri del Congresso, diplomatici statunitensi e leader ebrei statunitensi.

In breve, questo passo irreversibile, una volta fatto, probabilmente scatenerà una reazione a catena fuori controllo in Israele. Il punto di svolta potrebbe essere la fine del coordinamento palestinese della sicurezza con Israele. Già accolte come simbolo delle aspirazioni ad uno Stato, le agenzie di sicurezza palestinesi hanno perso il sostegno popolare poiché lo Stato appariva sempre meno probabile. Peggio ancora, sia gli ufficiali giovani che quelli più anziani riferiscono di aver ricevuto accuse di tradimento, di non essere più al servizio delle aspirazioni nazionali palestinesi ma solo dell’occupazione israeliana.

Durante i momenti di tensione, con una crescente pressione popolare, l’assenteismo dal servizio nelle agenzie si avvicinava al 30%. È nostra opinione (così come di centinaia di altri generali in pensione) che un voto della Knesset sull’annessione potrebbe ridurre la residua legittimità del coordinamento per la sicurezza.

Potrebbe essere irrilevante se la stessa Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sopravviverà o meno a questo, o se la sua leadership vorrà ancora che il coordinamento della sicurezza continui. Se quelli che attualmente prestano servizio nelle agenzie di sicurezza si rifiutano di presentarsi al lavoro, si può solo sperare che non partecipino armati alle proteste di massa contro l’annessione.

Se il coordinamento per la sicurezza da parte dei palestinesi cessasse di essere efficace, e con Hamas ben organizzato e pronto a sfruttare il conseguente vuoto nella sicurezza, Israele non avrà altra scelta che rioccupare l’intera Cisgiordania, compresi tutti i centri abitati dalla popolazione palestinese attualmente sotto l’amministrazione dell’ANP. Se questo scenario si materializzasse in Cisgiordania, si può presumere che sia improbabile che Hamas rispetti le sue intese sul cessate il fuoco con Israele a Gaza. Se Hamas dovesse entrare nello scontro, Israele potrebbe non avere altra scelta se non quella di rioccupare anche la Striscia di Gaza.

Di conseguenza, ciò che inizierebbe il 1° luglio con una votazione della Knesset per l’annessione parziale potrebbe presto sfuggire al controllo e portare a una completa acquisizione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, il che significa che l’esercito israeliano sarebbe l’unica entità che controlla milioni di palestinesi – senza una strategia per risolvere il problema.

In una situazione del genere svanirebbe ogni speranza che il team di Trump potrebbe aver avuto che il suo ” accordo del secolo” unisse israeliani e palestinesi. Allo stesso modo, nessun altro sforzo diplomatico potrebbe riesumare la prospettiva di un accordo a due Stati. Salvare Israele dall’impossibile dilemma, tra rinunciare alla sua identità ebraica garantendo ai palestinesi annessi pari diritti o rinunciare alla sua democrazia privandoli di quei diritti, potrebbe rivelarsi una missione impossibile.

La presa di coscienza di molti qui in Israele e di alcuni negli Stati Uniti dell’imminenza di questo pericolo offre qualche speranza che nelle prossime 10 settimane si possano prendere provvedimenti in tempo per prevenire questo terribile risultato.

L’abbandono dell’annessione unilaterale è sia urgente che essenziale. Coloro che hanno a cuore il futuro di Israele come democrazia ebraica sicura, che sostiene i valori sanciti nella sua dichiarazione di indipendenza, devono agire ora.

Ami Ayalon, ammiraglio in pensione, è un ex direttore della Shin Bet, ex comandante in capo della Marina israeliana e autore del libro di prossima uscita Friendly Fire [Fuoco Amirco]. È membro del CIS.

Tamir Pardo è un ex direttore del Mossad. È membro del CIS.

Gadi Shamni, generale maggiore in pensione, è un ex comandante del comando centrale delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.], segretario militare dell’ex primo ministro Ariel Sharon e ex addetto militare [di Israele] negli Stati Uniti. È membro del CIS.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Netanyahu ha formato un “governo di salvezza personale”

Akiva Eldar

23 aprile 2020 – Al Jazeera

Il governo di emergenza nazionale di Israele è stato formato non per sconfiggere il Covid-19, ma per tenere fuori di prigione Netanyahu.

A differenza dell’Olocausto, questa volta abbiamo identificato il pericolo in tempo”, ha detto il 20 aprile il Primo Ministro ad interim (per ora) Benjamin Netanyahu, dandosi da solo una pacca sulla spalla in una dichiarazione registrata in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto.

Abbiamo preso importanti decisioni, come la chiusura dei confini”, ha proseguito Netanyahu, rivolgendosi alla telecamera. “Abbiamo mobilitato tutti i sistemi dello Stato per la guerra contro il coronavirus.”

Il distorto sfruttamento da parte di Netanyahu di questo giorno della memoria dedicato ai sei milioni di ebrei massacrati dai nazisti al fine di ostentare le proprie presunte capacità di “individuazione tempestiva” [del virus], è qualcosa che ricorda la sua “rivelazione”, nel 2015, del fatto che il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, fu colui che ideò il piano per lo sterminio del popolo ebraico.

Ci sono molti dubbi che Netanyahu abbia profeticamente identificato la minaccia del coronavirus, ma è certo che ha identificato la sua potenzialità di essere un vaccino contro la propria personale rovina, quella di traslocare dall’ufficio di Primo Ministro alla cella di un carcere.

Il nome ufficiale di questo vaccino è “governo di emergenza nazionale”. Ma la denominazione più appropriata per questo governo, le cui linee guida e composizione sono state definite e messe nero su bianco il 20 aprile, sarebbe “governo di salvezza personale”.

Poco dopo che è stato trasmesso il suo messaggio alla Nazione sull’Olocausto, Netanyahu ha firmato un accordo di 14 pagine sulla condivisione del potere con il suo principale rivale politico, il leader dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz, che sancisce il governo di Israele più affollato di sempre – con 36 ministri e 16 viceministri.

In base all’accordo, Netanyahu sarà Primo Ministro per i primi 18 mesi del mandato di 3 anni, mentre Gantz ricoprirà la carica appena creata di “Primo Ministro supplente”. Netanyahu consegnerà il potere a Gantz una volta scaduto il termine e per la seconda parte del mandato fungerà lui da Primo Ministro “supplente”.

Ho promesso al popolo di Israele un governo di emergenza che salverà le vite e i mezzi di sussistenza”, ha scritto Netanyahu sulla sua pagina Facebook. “Continuerò a fare qualunque cosa per il vostro bene, cittadini di Israele.”

L’accordo di condivisione del potere è stato firmato dopo settimane di febbrili negoziati. Ma la questione che ha rallentato la firma del documento non riguardava il conflitto israelo-palestinese, né il regime di apartheid in Cisgiordania o il blocco di Gaza.

L’unico accenno nel documento alla malattia cronica nota come occupazione si può trovare nella sezione relativa al piano del presidente USA Donald Trump per la pace israelo-palestinese, che stabilisce che alla data del 1 luglio di quest’anno il primo ministro potrebbe chiedere al governo e alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di approvare l’accordo raggiunto con gli USA in base al piano Trump sull’imposizione della sovranità sulle colonie israeliane in Cisgiordania.

Secondo l’accordo, anche Gantz sarà invitato a partecipare alle consultazioni con il primo ministro su questo paragrafo del patto, che praticamente rende esplicito l’abbandono della soluzione dei due Stati.

La questione che ha rallentato l’accordo tra le due parti non era neanche legata alla ‘raison d’etre’ ufficiale di un governo di emergenza – alleviare la crisi del coronavirus. Di fatto, l’accordo a malapena menziona la questione, ma lascia al suo posto il Ministro della Sanità in carica, Yaakov Litzman, anche se ciò comporta cambiamenti di ruolo o destituzioni per la maggior parte degli altri ministri dell’attuale coalizione.

Questo è l’uomo che all’inizio della crisi non poteva nemmeno pronunciare la parola “coronavirus”, che ha egli stesso contratto la malattia quando ha pregato in un gruppo contravvenendo alle istruzioni del suo stesso Ministero ed ha speso la maggior parte del tempo dall’inizio della pandemia favorendo gli interessi del suo elettorato ultra-ortodosso.

Con Litzman al proprio posto, Netanyahu continuerà a guidare di fatto il ministero, come ha fatto finora. Inoltre sostituirà il capo della commissione speciale della Knesset per la crisi del coronavirus con uno dei suoi fedelissimi, facilitandosi il compito di mascherare i tanti insuccessi del suo governo nella gestione della pandemia, che sono già stati palesati.

Se dovesse essere istituita una commissione per esaminare la gestione della crisi da parte dello Stato, troverebbe pane per i suoi denti nella relazione provvisoria resa pubblica il 7 aprile dal comitato di sorveglianza della Knesset, alla cui guida si trovava all’epoca il deputato di opposizione Ofer Shelach [del partito di centro tuttora all’opposizione Yesh Atid, ndtr.].

La relazione ha rilevato, tra le varie cose, che le ripercussioni sociali e sanitarie della stretta economica imposta dal governo erano ormai diventate una minaccia reale e grave quanto il virus. Il prezzo politico di queste severe ripercussioni economiche e sociali verrà ora diviso equamente tra tutti i componenti del nuovo governo di coalizione.

La firma dell’accordo era stata bloccata a causa di un articolo che riguardava solo l’unico israeliano il cui processo per corruzione è previsto iniziare il 24 maggio e dispone una deroga per lui, un fatto senza precedenti nella storia politica di Israele.

Il contorto linguaggio di questo articolo in sostanza stabilisce che, se delle circostanze, come per esempio una sentenza della Corte Suprema, impedissero a Netanyahu e/o a Gantz di ricoprire la carica di primo ministro e di primo ministro “supplente”, i partiti Likud [di Netanyahu, ndtr,] e Blu e Bianco [di Gantz, ndtr.] non proporrebbero nessun altro per questi incarichi, scioglierebbero invece congiuntamente la Knesset e indirebbero nuove elezioni.

Se Netanyahu non avesse categoricamente rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato per corruzione, Israele non sarebbe stato trascinato in tre consecutive e inconcludenti elezioni nell’arco di un anno e con la minaccia di un’incombente quarta turnata elettorale se non si fosse raggiunto un accordo su un nuovo governo.

Fin dall’inizio la leadership di Blu e Bianco ha espresso la propria preferenza per un governo di unità con il Likud. La sua principale, se non unica, condizione era la sostituzione di Netanyahu con un altro membro del suo partito, il Likud. Se lui avesse davvero voluto “fare qualunque cosa” in suo potere per il bene dei cittadini di Israele, come ha dichiarato questa settimana nel suo discorso per commemorare l’Olocausto, Israele non avrebbe avuto bisogno di un governo di emergenza. Quel che doveva fare era dimettersi, anche temporaneamente, e passare il suo tempo in modo accurato a convincere i tribunali della sua innocenza.

La codardia di altri personaggi di spicco del Likud ha lasciato Gantz e i suoi amici tra l’incudine e il martello. Sono stati costretti a scegliere tra far parte di un governo guidato da Netanyahu, contro il volere della maggioranza dei loro elettori che hanno dato a Gantz e alla sua coalizione una maggioranza in parlamento di 62 seggi, e favorire una quarta tornata elettorale all’ombra di una profonda crisi economica e sociale.

La decisione di Blu e Bianco e dei suoi alleati del partito laburista di ignorare il loro principale impegno elettorale di non entrare in una coalizione di governo con Netanyahu è destinata ad abbreviare la loro carriera politica. Dovranno faticare molto per convincere gli elettori che non avevano altra scelta che allearsi a Netanyahu in un governo di più di 40 tra ministri e vice ministri, solo per affrontare l’epidemia.

La palla è ora alla Corte Suprema, cui sono state sottoposte diverse petizioni che chiedono di annullare l’accordo di coalizione, tra cui un appello di decine di ex funzionari della sicurezza, accademici e uomini d’affari contro la nomina di un primo ministro incriminato.

In una lettera a Netanyahu pubblicata il 20 aprile sul quotidiano israeliano Haaretz, l’ex consulente giuridica della Knesset e avvocatessa Nurit Elstein ha scritto: “Alla luce delle sue incriminazioni per corruzione, che comprendono violazione dell’integrità o, più precisamente, condotta immorale, la Corte potrebbe decidere che lei non è adatto ad essere primo ministro Nessuno statuto giuridico le fornirà una completa protezione o, fino a quando Israele sarà una democrazia, darà legittimità ad una questione che è fondamentalmente disonesta.” Considerato il modo in cui è stato costituito il governo designato e le sue linee guida, l’accento andrebbe posto sulle parole “fino a quando”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Akiva Eldar è un analista israeliano

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La battaglia persa di Israele: il sostegno per la Palestina nelle università

Hatem Baziam

21 Aprile 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Palestine Legal [organizzazione indipendente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi negli Stati Uniti, ndtr.] ha recentemente pubblicato un rapporto in cui rileva che la maggior parte delle azioni repressive nei confronti delle attività di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti è rivolta contro studenti e docenti. Nel dettaglio, tali episodi si sono verificati nei campus universitari per l’89% nel 2014 e per il 74% nel 2019. Mentre queste statistiche mettono in luce l’attuale battaglia che i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno affrontando nelle università, è anche fondamentale delineare lo sviluppo del sostegno per la Palestina nei campus universitari statunitensi. Tracciare quest’arco di 20-30 anni di storia consente una migliore comprensione non solo di come siamo arrivati a questo punto, ma anche dell’attuale crescente fenomeno delle campagne contro studenti e facoltà – e di come contrastarlo.

Questa testimonianza prevede innanzitutto un esame storico sul movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti e su come da esso si sia sviluppato il sostegno nei confronti dei palestinesi nei campus universitari, citando come esempio particolare Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina, ndtr.]. Analizzerà quindi la risposta di Israele e dei suoi sostenitori a questo fenomeno. L’ articolo, in definitiva, offre delle indicazioni su come il contesto universitario, nonostante gli attacchi, possa continuare a costituire e persino amplificare un clima che promuova la ricerca critica e il pensiero sulla Palestina, che a sua volta favorisca la lotta per i diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nascita del movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti

Il movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è cresciuto contemporaneamente ad altre battaglie globali, in particolare quelle contro il regime di apartheid sudafricano, contro l’intervento americano in America Centrale e contro l’attacco americano all’Iraq nella prima guerra del Golfo. Negli anni ’80 furono simultaneamente avviate campagne politiche interne, in particolare contro i tagli dell’amministrazione Reagan all’educazione, alla sanità e all’ambiente, così come contro la sua discutibile guerra alla droga, con il supporto del Comprehensive Crime Control Act del 1984 [la prima revisione complessiva del Codice Penale negli Stati Uniti dai primi anni del xx secolo, ndtr.], che ampliò il complesso industriale carcerario e promosse la criminalizzazione di massa di neri e ispanici. L’attivismo interno ha anche combattuto la riorganizzazione economica che, col pretesto di una riforma del welfare, ha rimosso la rete di protezione sociale e ha gettato nella povertà milioni di persone.

I movimenti progressisti sono nati da queste campagne che hanno collocato la Palestina in un ruolo più centrale rispetto a prima. L’attivismo palestinese e gli attivisti palestinesi hanno affrontato i cambiamenti nelle priorità nazionali e hanno sostenuto la lotta anti-apartheid, la campagna che ha combattuto l’espansionismo americano in America Centrale e il movimento contro la guerra in Iraq.

All’estremo opposto le organizzazioni filo-israeliane si sono collocate dalla parte sbagliata della storia: si sono opposte alle sanzioni contro il Sudafrica e hanno cercato di sostenere le vendite di armi israeliane al regime dell’apartheid. Allo stesso modo, hanno sostenuto Israele nel momento in cui offriva consigli e aiuti agli squadroni della morte centroamericani sponsorizzati dallo Stato. E in occasione dell’intervento americano in Medio Oriente, anche Israele e i suoi alleati hanno sostenuto gli sforzi bellici degli Stati Uniti, ritenendoli utili alla sicurezza di Israele.

Le mobilitazioni politiche progressiste e le lotte interne hanno reso la Palestina un tema centrale su cui organizzarsi. Solo 30 anni fa la sinistra politica degli Stati Uniti, nelle sue mobilitazioni per la pace, la giustizia e l’occupazione, dibatteva regolarmente sul consentire o meno la presenza di una bandiera palestinese, per non parlare di un oratore, su un palco. Oggi non si può tenere una mobilitazione politica su qualsiasi argomento, locale o globale, senza che la Palestina ne faccia parte, se non come principale soggetto, almeno come uno dei temi. Coloro che vorrebbero sostenere o parlare a favore di Israele, al contrario, hanno difficoltà ad ottenere spazio in queste tribune perché si sono completamente schierati dalla parte del complesso industriale militare di destra e dei suoi interventi perniciosi.

L’attacco israeliano del 2012 contro la Striscia di Gaza ha determinato un cambiamento decisivo nelle opinioni su Israele, sia dal basso che tra gli analisti politici. Entrambi i gruppi sono consapevoli che Israele infrange il diritto internazionale e che non dimostra nessun limite nel suo abuso dei diritti umani palestinesi. Inoltre, mentre un punto di vista filo-israeliano dominava inizialmente i media popolari, con il costante ritornello degli opinionisti secondo cui Israele ha “il diritto di difendersi”, gli spazi meno controllati dei social media e di Internet hanno ospitato una diversa narrazione che favorisce un settore più critico dello schieramento politico, tanto che i media popolari hanno effettivamente iniziato a cambiare.

Il sostegno per la Palestina nelle università

Insieme, e in parte grazie, al lavoro instancabile degli attivisti progressisti, gli sviluppi descritti sopra hanno consentito il rafforzamento del sostegno per la Palestina nei campus universitari. In effetti, una visione di solidarietà con la lotta dei palestinesi è diventata, nelle università, la posizione dominante. Un esempio di questo cambiamento è la fondazione e la proliferazione del gruppo Students for Justice in Palestine (SJP).

SJP venne fondata presso l’Università di Berkeley in California nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo. Prima della guerra negli Stati Uniti arrivava un numero considerevole di palestinesi per studiare, ma tale numero si ridusse quando lo scontro militare lasciò il passo agli anni del regime di sanzioni. Dato che Yasser Arafat aveva sostenuto Saddam Hussein durante la guerra, i palestinesi del Kuwait e del resto dei Paesi del Golfo vennero licenziati o costretti ad andarsene, con il risultato che molti di quei palestinesi che erano stati in grado di permettersi un’istruzione americana per i loro figli non ne ebbero più la possibilità. Senza studenti palestinesi nelle università statunitensi, scemarono i tentativi di organizzarsi a favore dei diritti dei palestinesi.

Allo stesso modo, questo fenomeno si verificò subito dopo gli Accordi di Oslo, che ridussero l’attivismo palestinese collegato al più ampio movimento transnazionale palestinese, poiché attraverso Oslo l’OLP accettò di limitare il proprio impegno internazionale contro Israele. Di conseguenza, gli attivisti palestinesi nei campus universitari non avevano più una base di supporto con un fondamento storico. Nel contesto dell’attivismo nelle università, l’OLP ebbe, sin dal suo esordio, un braccio universitario e giovanile forte, che si concretizzò nell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (GUPS), con sezioni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. In seguito alla trasformazione dell’OLP in Autorità Nazionale Palestinese, il ruolo, le capacità istituzionali e l’importanza del GUPS si ridussero.

Un modo alternativo di impegnarsi era quello di organizzarsi a favore della liberazione dei palestinesi come principio, accogliendo tutti gli studenti che desideravano lavorare per la giustizia in Palestina. Questa è stata la genesi di SJP, che ora ha più di 200 sezioni negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Molti di quegli studenti che si sono impegnati nel sostegno delle lotte di liberazione e dell’antirazzismo in Sud Africa, America Centrale e negli Stati Uniti hanno aderito a SJP perché hanno visto le connessioni tra le battaglie.

Allo stesso tempo, il numero di ebrei americani che non considerano più Israele la parte centrale della propria identità e che si identificano come antisionisti è in aumento. Un numero significativo è ora membro di SJP. Questi giovani non possono impegnarsi nella ribellione al complesso industriale carcerario, al militarismo, al razzismo e al discorso anti-immigrazione senza vedere nella Palestina una rappresentazione paradigmatica di ciò che sanno istintivamente che è sbagliato: l’apartheid israeliano.

In gran parte a causa del lavoro di SJP e di altri gruppi nelle università degli Stati Uniti e del mondo, Israele non ha più una causa da difendere dal punto di vista intellettuale e accademico. Questa evoluzione politica venti – trentennale deve essere presa in considerazione quando si ricerca il motivo per cui Israele stia ora agendo in modo disordinato nel cercare di ricostruire un sostegno, quando la diga delle menzogne e dell’opacità è già crollata.

La risposta disperata di Israele 

La perdita della posizione di Israele nel campo dell’istruzione superiore e tra l’intellighenzia americana ha spinto il Ministero degli Affari Strategici israeliano (IMSA) e i sostenitori di Israele a tentare freneticamente di invertire questa situazione. Vi è quindi una percentuale enorme di attacchi ai campus universitari. Tuttavia, l’unico strumento che i sostenitori di Israele e l’IMSA hanno per cercare di recuperare posizioni all’interno delle università è il rozzo potere della diffamazione. Pertanto progetti come Canary Mission [sito web che raccoglie dossier su attivisti, professori e organizzazioni studentesche che considera anti-israeliane e ne minaccia l’invio ai potenziali datori di lavoro, ndtr.] e il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.] si rivolgono a studenti e docenti affermando che il sostegno per la Palestina e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) sono antisemiti.

Queste forze stanno contemporaneamente cercando di mobilitare gli organi legislativi statali e il Congresso perché vengano approvate delle leggi che proteggano Israele dal diritto alla libertà di parola quando si tratti della Palestina. Questo è un errore strategico, perché l’attenzione su un bavaglio preventivo sposta il dibattito su uno dei principali emendamenti [della costituzione USA, ndtr.] e diritti costituzionali, che finora rimane un diritto generalmente ben protetto nel contesto americano.

L’ uso della forza bruta da parte del governo israeliano dimostra la sua paura. In effetti, una dimostrazione di effettivo potere consiste nella possibilità di esercitare moderazione e di astenersi dall’uso della forza grazie alla paura del suo esercizio da parte delle persone. In questo senso Israele tenta disperatamente di ricostituire una barriera contro il calo della sua reputazione anche nella società statunitense nel suo complesso.

La base del Partito Democratico, nonché i suoi militanti, ad esempio, hanno abbandonato Israele come componente centrale del loro programma politico. Si può rintracciare questo fenomeno negli attacchi al presidente Obama da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndtr.] a partire dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e fino agli attacchi contro il suo accordo con l’Iran, incluso il discorso di Netanyahu del marzo 2015 in una sessione congiunta del Congresso, che ha espresso l’esplicita opposizione del leader del governo israeliano al presidente degli Stati Uniti in carica. Questi attacchi hanno portato molti componenti del Partito Democratico a capire il collegamento degli attacchi mirati contro Obama all’ascesa del Tea Party [fazione di estrema destra del partito Repubblicano, ndtr.] e, in definitiva, di Trump, contribuendo a modificare nettamente la linea tradizionale del partito su Israele.

Anche i tentativi di Israele di usare il potere puro e semplice per mettere a tacere le critiche non sono piaciuti a molti democratici. Non sorprende quindi che Bernie Sanders stia cominciando a riconoscere che opporsi a Israele e mettere da parte l’AIPAC – sottolineando anche come l’AIPAC sia una “tribuna per il fanatismo” – non abbia più le stesse conseguenze negative in gran parte dell’elettorato del partito.

Anche se il decreto di Trump del dicembre 2019 per combattere l’antisemitismo nei campus universitari può apparire disastroso – l’ordine consente di de-finanziare le istituzioni sulla base della definizione di antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto [L’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] che include le critiche allo Stato israeliano, facendo sì che il sostegno alla Palestina sia “antisemita” – esso è importante per capire che lo status quo su Israele sia crollato fin dagli Accordi di Oslo. Questo decreto è uno sconsiderato tentativo di arginare quella spirale discendente. Inoltre, quando Trump mette il suo nome su qualcosa, una grande quantità di persone si oppone se non altro perché lo ha fatto lui. 

Naturalmente a breve termine ci saranno degli effetti negativi su studenti e docenti, come tentativi di chiusura degli studi sulla Palestina, molestie online e condanne contro dipartimenti e gruppi di studenti. Recenti attacchi contro il Center for Contemporary Arab Studies [Centro per gli studi Arabi Contemporanei, ndtr.] presso la Georgetown University e il SJP e la Columbia University Apartheid Divest [Columbia University Libera dall’Apartheid, ndtr.] alla Columbia University illustrano queste difficoltà.

Tuttavia, sebbene tali azioni possano avvantaggiare il governo israeliano e Trump nel breve termine, a lungo termine i cambiamenti nella posizione di Israele saranno irreversibili. Non è più possibile ridefinire la posizione di Israele nel contesto universitario e nella società civile in generale come uno Stato non ritenuto un trasgressore dei diritti umani e del diritto internazionale. Chi milita nel campo dell’istruzione superiore può impegnarsi per sostenere questa tendenza attraverso una serie di sforzi.

Promuovere la Palestina all’università

Gli studenti, i docenti e coloro che lavorano nelle istituzioni accademiche devono chiedere che la Palestina sia inclusa e coinvolta alle proprie condizioni. Pertanto, devono insistere su studi che esaminino e contestualizzino la Palestina senza interrogarsi se siano “buoni per Israele” o riguardo la loro relazione con il sionismo.

In questo senso è fondamentale un approccio alla Palestina nel contesto delle lotte internazionaliste per l’emancipazione, rendendola una parte della storia moderna condivisa dell’umanità, piuttosto che un’eccezione. Un corso potrebbe, ad esempio, mettere a confronto i movimenti di liberazione nell’Africa sub-sahariana e in Palestina. Tali studi prenderebbero in considerazione non solo il Sudafrica, ma esaminerebbero anche il collegamento del movimento palestinese con le campagne per l’unità africana e il loro impegno collettivo nei movimenti anti-coloniali e de-coloniali negli anni ’60 e ’70. Un altro corso potrebbe esaminare il rapporto tra Palestina e America Latina, dove esistono solide comunità palestinesi.

Docenti e studenti dovrebbero anche insistere sullo sviluppo delle capacità istituzionali all’interno di diverse università e contesti. Finora, Studi sulla Palestina è disponibile come programma di studio a sé stante solo alla Brown University e alla Columbia University. Gli studenti possono mobilitarsi nelle università per insistere sulla realizzazione di programmi allo stesso modo dei programmi di studi etnici sviluppati istituzionalmente negli anni ’60 e ’70. E’ anche fondamentale la creazione di programmi di studio all’estero in Palestina.

Anche gli accademici che lavorano in Palestina dovrebbero mobilitare risorse finanziarie per sostenere questi programmi. I palestinesi negli Stati Uniti e altrove non hanno prodotto uno sviluppo strategico di importanti finanziatori. Devono mobilitare questi donatori per investire in iniziative che avranno conseguenze positive a lungo termine per la lotta palestinese.

Infine, devono essere rafforzati studi legali che forniscono protezione in ambito accademico. Palestine Legal, fondata nel 2012, offre già un irrinunciabile supporto, ma tale impegno deve essere rafforzato e intensificato.

In breve, gli attacchi agli accademici, agli attivisti del SJP e alla Palestina devono essere compresi in un ambito storico di lunga durata e con una profonda consapevolezza del cammino verso la giustizia in atto nei campus universitari, a livello nazionale e internazionale. Le argomentazioni morali, etiche e intellettuali che si oppongono con successo agli sforzi israeliani ben finanziati e istituzionalmente connessi per la demonizzazione, dovrebbero aiutare a continuare la lotta per la liberazione palestinese e la fine dell’apartheid. Al cospetto di circostanze avverse, il futuro della Palestina si sta realizzando in primo luogo all’interno della Palestina storica, così come nei movimenti di solidarietà e del BDS in tutto il mondo e nei campus universitari. Proprio come l’apartheid in Sudafrica è stato messo nella pattumiera della storia, ci stiamo avvicinando a una libera Palestina.

Hatem Bazian

Consulente politico di Al-Shabaka, Hatem Bazian è professore associato presso i Dipartimenti di Studi Etnici e del Medio Oriente dell’Università di Berkely in California. Ha insegnato alla Boalt Hall School of Law di Berkeley ed è anche professore ospite in Studi Religiosi al Saint Mary’s College of California e tutor presso il Centro di religione, politica e globalizzazione di Berkeley, nonché presidente della Academic Affairs presso lo Zaytuna College of California [università musulmana di Berkeley]. Ha anche fondato il Centro per lo studio e la documentazione sull’islamofobia di Berkeley, un’unità di ricerca dedicata allo studio sistematico dell’ostilità preconcetta contro l’Islam e musulmani. È anche Presidente del Board of American Muslims for Palestine.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Il nuovo governo israeliano è pronto per un’annessione a luglio – e i leader palestinesi giurano di opporvisi

Philip Weiss  

20 Aprile 2020 Mondoweiss

Oggi ci sono grandi novità da Israele. Benny Gantz, l’uomo che per tre elezioni ha cercato di archiviare Netanyahu, si è arreso. Benjamin Netanyahu sarà primo ministro per i prossimi 18 mesi, durante i quali ci sarà il processo per corruzione; dopo di ciò Gantz diventerà primo ministro e l’accordo sulla divisione del potere prevede l’OK a partire da luglio per l’annessione di grandi parti della Cisgiordania occupata.

Barak Ravid dell’israeliana Channel 13 [canale della televisione israeliana, ndtr.] spiega l’accordo sull’annessione. La politica israeliana è semplicemente troppo a destra perché Gantz potesse mantenere la posizione. Questo è il “lascito” di Netanyahu e deve essere implementato mentre Trump è al potere:

L’accordo di coalizione tra Netanyahu e Gantz dice che Netanyahu può portare ‘le intese con l’amministrazione Trump’ sull’annessione di parti della Cisgiordania a una discussione di governo e a un voto o del governo o in parlamento a partire dal 1 luglio … Il desiderio di Netanyahu di annettere la Valle del Giordano e altre parti della Cisgiordania occupata è stato uno dei principali punti critici nei negoziati sul nuovo governo. Gantz ha rinunciato alla sua pretesa di avere potere di veto su qualsiasi decisione di annessione.”

Secondo l’accordo, Netanyahu e Gantz lavoreranno “in pieno accordo con gli Stati Uniti” per quanto riguarda il piano di Trump, incluso il punto di mappare quali parti in Cisgiordania gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere come parte di Israele.

Netanyahu considera l’annessione di parti della Cisgiordania la sua principale eredità. Secondo i suoi collaboratori, vuole realizzarla abbastanza presto nel timore che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti Trump possa perdere e con Joe Biden alla Casa Bianca la mossa sia resa impossibile…

L’accordo ha suscitato grida angosciate da parte dei sionisti liberali, e probabilmente resisterà allopposizione dei principali politici palestinesi della Lista Unita. Aida Touma-Sliman [giornalista e politica arabo-israeliana, ndtr.] scrive:

Il prossimo governo israeliano sarà pericolosamente di destra. Gantz è sceso in campo sperando di sostituire Netanyahu e ha finito per rafforzare la politica razzista e antidemocratica di quest’ultimo. Faremo opposizione a questo governo di annessione – durante la crisi di Covid e dopo.”

I politici palestinesi sono stati i grandi vincitori delle ultime elezioni, e sono rafforzati dalle ultime notizie. Ayman Odeh, responsabile della Lista Unita, scrive su Twitter [in ebraico, traduzione automatica]:

La resa di Gantz è uno schiaffo in faccia ai cittadini recatisi ripetutamente alle urne per estromettere Netanyahu. Gantz non ha avuto abbastanza coraggio per vincere e ha scelto di legalizzare l’annessione, il razzismo e la corruzione.”

Ahmad Tibi, deputato della Lista Unita e medico:

Blu e bianco [il partito di Gantz] ha sventolato la bandiera bianca. Si è arreso a tutti i dettami politici (l’annessione a luglio) e nella sfera civile si è arreso alla legge dello Stato Nazionale, alla legge di Kaminitz [che limita i permessi di costruzione palestinesi] … Vediamo nella lotta contro un governo di 52 ministri e vice ministri una sfida e una missione. Avverto la sconfitta di milioni di cittadini che volevano il cambiamento.”

L’annessione interessa circa il 30 % della Cisgiordania, compresi la valle del Giordano e gli insediamenti ebraici di oltre 620.000 coloni.

Il lobbista israeliano Martin Indyk afferma che Trump si schiererà con l’annessione per soddisfare la destra americana cristiana:

Coronavirus o no … questo è molto chiaro: Trump darà il via libera all’annessione per assicurarsi la base evangelica alle elezioni.”

Indyk esclude la Florida dal gioco di Trump: gli elettori ebrei potrebbero essere cruciali in quello stato altalenante.

L’opinione diffusa è che questo accordo sarà un test per le organizzazioni liberali sioniste negli Stati Uniti, se si opporranno all’annessione ora e coinvolgeranno i politici democratici contro di essa. Si noti che la scorsa settimana tale iniziativa ha portato 11 deputati a scrivere una lettera di opposizione all’annessione. Non esattamente una marea. Ma J Street [gruppo liberale statunitense filoisraeliano per la pace e la democrazia, ndtr.] ha recentemente appoggiato Joe Biden che ha accolto con favore il sostegno; è certo che prenderà posizione contro l’annessione.

Le organizzazioni liberali sioniste dovranno lavorare con i politici palestinesi se mirano a bloccare l’annessione.

Tamara Cofman Wittes, che sostiene Israele, dichiara di sperare che gli eventi in campo non sposteranno nulla verso un governo Biden …

L’approvazione di Trump non mette fine alla questione. Il riconoscimento presidenziale delle rivendicazioni territoriali è una cosa che dipende dalle decisioni dell’esecutivo e può essere immediatamente annullata da una nuova amministrazione.”

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il presidente israeliano chiede al parlamento di scegliere il primo ministro

16 aprile 2020 Al-Jazeera

Netanyahu e Gantz, rispettivamente leader dei partiti Likud e Blu e Bianco, dicono che continueranno i negoziati per formare un governo di unità nazionale di “emergenza”.

Il presidente di Israele ha chiesto alla Knesset di scegliere un nuovo primo ministro e ha concesso al parlamento tre settimane per giungere a un’intesa su un leader o, fatto senza precedenti, costringere il Paese alla quarta elezione consecutiva in poco più di un anno.

Reuven Rivlin ha preso questa decisione dopo che Benny Gantz e Benjamin Netanyahu non sono riusciti a raggiungere un accordo entro la scadenza della mezzanotte. 

Ciò nonostante Netanyahu e Gantz hanno detto che continueranno i loro negoziati per formare un governo unitario d’ “emergenza” e guidare il Paese durante la crisi da coronavirus.

Ora le due parti hanno ufficialmente tre settimane per trovare un accordo, altrimenti la Knesset verrà sciolta e si andrà a ulteriori elezioni.

Concludere un accordo?

Lunedì Reuven Rivlin il presidente che sovrintende ai colloqui, ha detto che gli sviluppi giustificavano la sua decisione di concedere a Gantz altri due giorni per trovare un compromesso.

Ma il mandato di Gantz è scaduto a mezzanotte di mercoledì dopo un tentativo dell’ultima ora compiuto dagli inviati dei due leader. Ciò complicherà i piani per la ripresa economica, quando la pandemia sarà sotto controllo e si allenterà il rigido lockdown imposto al Paese.

Giovedì mattina Netanyahu e Gantz hanno rilasciato una dichiarazione congiunta dicendo che avrebbero continuato i negoziati più tardi in giornata. Tecnicamente i colloqui potrebbero continuare fino allo scioglimento formale del parlamento.

Gantz aveva detto in precedenza che non avrebbe fatto parte di un governo guidato da Netanyahu che, pur respingendo ogni accusa, deve affrontare un’imputazione di corruzione. L’inizio del processo è previsto per il prossimo mese.

Ma l’enormità della crisi da coronavirus ha spinto Gantz a infrangere la promessa fatta durante la sua campagna e a prendere in considerazione un accordo, decisione che ha irritato molti dei suoi sostenitori anti Netanyahu.

Il risultato sembra aver indebolito Gantz e rafforzato Netanyahu, il cui governo provvisorio sta gestendo la risposta alla crisi.

Dato che Gantz non ha più il “mandato” conferitogli dal presidente Netanyahu potrebbe andare in cerca di altre opzioni. 

In totale 59 parlamentari su 120 hanno appoggiato Netanyahu, a cui mancano pochi voti per ottenere la maggioranza. Continuando a dialogare con Gantz potrebbe anche cercare di convincere altri due membri dell’opposizione nella speranza di mettere insieme un governo con una maggioranza risicata.

Lunedì un sondaggio trasmesso dal canale israeliano Channel 12 ha rivelato che se ci fosse un’elezione adesso, il Likud guadagnerebbe 4 seggi e arriverebbe a 40 sui 120 che compongono la Knesset, mentre l’indebolita alleanza Blu e Bianco di Gantz ne otterrebbe solo 19.

Secondo il sondaggio circa il 64% dei cittadini è soddisfatto del modo in cui Netanyahu sta gestendo la pandemia.

Israele ha registrato più di 12.500 casi di COVID-19 e almeno 130 decessi. Le restrizioni hanno confinato la maggioranza degli israeliani nelle loro case, costretto le aziende alla chiusura e fatto salire il tasso di disoccupazione a oltre il 25%.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




Il cinema israeliano prova, senza riuscirci, a fare i conti con il terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

10 aprile 2020 – +972 Magazine

Quattro film recenti esaminano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma, nel dare un’immagine di eccezionalità ai loro personaggi, non riescono ad arrivare alle radici della loro ideologia.

Data l’accelerazione in corso negli ultimi anni in Israele del processo di normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di capire come la politica israeliana abbia acquisito le sue attuali tendenze. Quattro film sull’argomento sono usciti in altrettanti anni: “Incitement” [Istigazione,ndtr.], che intraprende un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin; “The Prophet” [il profeta, ndtr.], che descrive la carriera del rabbino Meir Kahane (rabbino e politico ultranazionalista, ndtr.) mentre reca il suo messaggio di violenza della destra ebraica dalle strade di New York alle aule della Knesset (il parlamento ebraico, ndtr.); “The Settlers” [i coloni, ndtr.], che racconta la storia del movimento dei coloni; e “The Jewish Underground”, sull’omonimo gruppo terroristico.

“Incitement”, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa riproposizione dell’atmosfera dell’era di Oslo. Si concentra soprattutto sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più minacciosamente, a Rabin. La cinepresa si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: graffiti che istigano contro il primo ministro; manifesti stile “ricercato”, con un bersaglio sulla sua testa, che lo qualificano “L’Assassino”; e cartelli che nel corso di feroci manifestazioni lo mostrano con indosso una kefiah o un’uniforme delle SS.

Vediamo anche Amir partecipare al funerale di Baruch Goldstein, che uccise 29 palestinesi nella Moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio 1994. Lì sente un rabbino discutere della liceità di un mandato di morte religioso contro Rabin, sulla base del fatto che il primo ministro, con la negoziazione di un compromesso territoriale, ha messo in pericolo gli ebrei. Amir già nelle prime sequenze del film ha assistito ad altre argomentazioni simili. Da ciò siamo portati ad assumere che il passo perché proprio lui esegua quella condanna a morte possa essere breve.

Ci sono altri momenti premonitori. All’inizio, la madre di Amir racconta a una donna che egli ha invitato a casa e a cui è sentimentalmente interessato che il suo nome, Yigal, significa “Egli redimerà” e che lei è convinta che riscatterà “la sua gente”. Suo figlio, dice, è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la sua possibile fidanzata lo rifiuta. In un’altra scena di famiglia, una delle più intense del film, il padre di Amir, avendo scoperto i piani di suo figlio, gli urla: “Ci vorranno generazioni – generazioni! – per guarire una tale ferita.”

“Incitement” affronta anche il contesto originario di Amir in quanto figlio di immigrati yemeniti in Israele. Una serie di tensioni aggrovigliate tra loro è presente nella sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliani ashkenaziti [i discendenti delle comunità ebraiche di lingua e cultura yiddish stanziatisi nel medioevo nella valle del Reno, ndtr.]; le discussioni tra lei, un’estremista, e suo padre, che è più fiducioso sugli Accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando arriva e assiste allo svolgersi di una riunione di famiglia, allusione all’emarginazione di Amir nella società israeliana in quanto ebreo Mizrahi [ebrei orientali, provenienti dai paesi del mondo arabo, ndtr.].

Eppure il film si occupa ben poco di queste dinamiche all’interno del mondo religioso-sionista. Qui, i rabbini istigatori contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, in seguito all’assassinio, alcuni componenti della classe religioso-sionista cercarono di assolversi dalla responsabilità dell’omicidio indicando la discendenza Mizrahi di Amir come prova del suo status di estraneo.

Il fatto che conosciamo la fine della storia non contribuisce minimamente ad alleviare la tensione nel film. Al contrario, il film prelude all’incombente disastro fin dal primo fotogramma. Il montaggio sulle riprese di un cinegiornale d’archivio nel corso della successione degli eventi accresce il senso di premonizione, anche durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo i fotogrammi sgranati del vero Amir, riconoscibile con la sua maglietta blu, in attesa dell’auto di Rabin, intervallati da immagini in primo piano di lui che parla amichevolmente con la scorta di sicurezza di Rabin. Loro credono che sia uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “Incitement” allude chiaramente al fatto che l’estremismo abbia messo radici ai vertici della politica israeliana, incarnato nella figura di Benjamin Netanyahu e in quella del gruppo di rabbini religioso-sionisti che hanno posto una taglia religiosa sulla testa di Rabin. Zilberman termina con le riprese della presenza di Netanyahu alle rabbiose proteste anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la sua famigerata comparsa su un balcone che si affaccia sulla Piazza Sion di Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedono urlando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma dato che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e considerando il momento politico in cui il suo lavoro viene presentato, esso appare come un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi sui legami più profondi tra le élite religioso sioniste e quelle politiche in Israele. In maniera ancora più lacunosa, il film si ritrae dall’esame del perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito ad istigare all’omicidio di Rabin, sia stato eletto a capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione si coniuga in parte coll’assenza quasi totale di palestinesi nel film. È vero che “Incitement” è una storia sul mondo etnicamente isolato della destra religiosa israeliana e sulla follia inesplorata in cui è piombato in occasione degli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come una immersione profonda nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto può essere efficace un simile intento se non riesce a interagire con l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è davvero il principale bersaglio dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi coetanei credevano che fosse un fantoccio dei palestinesi, e quindi una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questa lacuna, il film ha forse detto più di quanto intendesse sul momento attuale: “Incitement” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dall’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha rivelato il suo “Accordo del Secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha stabilito piani dettagliati per il futuro della Palestina senza consultare nessuno di coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

L’ estrema destra israeliana è ugualmente sotto il microscopio in “The Prophet”, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario del 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha fondato a New York negli anni ’60 la Jewish Defense League [Lega di Difesa Ebraica, ritenuta dal FBI un’organizzazione terrorista per i suoi atti di violenza, ndtr.] e, negli anni ’80, è stato presente nel parlamento israeliano come unico rappresentante del suo partito, Kach. Ripercorre alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dall’attentato dinamitardo del 1970 negli uffici dell’Aeroflot a New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, al fine di tentare di incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il paese.

Nel corso del film Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che ha partecipato lo scorso anno al triplo round delle elezioni israeliane, i cui leader sono tutti ex accoliti di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dalla totalità della biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Qualsiasi altra opzione è frutto di fantasia, afferma Marzel: “O è democratico o è ebraico. Non può essere entrambi.” Un simile concetto, ribadisce l’esperto di diritto Moshe Negbi, viene affermato nella dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo la quale il sionismo è razzismo.

Questa discussione, condotta attraverso interviste dirette, piuttosto che attraverso dialoghi, rappresenta uno dei due difetti del film. Sembra guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra avere uno Stato etnico particolaristico e una democrazia, per poi distogliere nuovamente lo sguardo, respingendola come semplicemente un’idea inconcepibile espressa da estremisti.

Questo è un peccato, perché il film di Fields va oltre “Incitement” nel sottolineare come nella società e nella politica israeliane si trovino il razzismo sistemico e lo sciovinismo. Verso la conclusione del film rievoca una serie di attacchi terroristici ebraici – il massacro di Goldstein [nel 1994, nella Moschea di Ibrahimi a Hebron, ndtr.], l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir [16 enne palestinese sequestrato e ucciso da cittadini israeliani il 2 luglio 2014, ndtr.], il bombardamento della casa dei Dawabshe a Douma [nel Luglio del 2016, in cui morirono 3 membri della famiglia, tra cui un bambino di 18 mesi, ndtr.] – e poi abilmente passa alla Knesset, mostrando i politici del Likud mentre diffamano i palestinesi, prima di terminare con l’approvazione della legge ebraica sullo Stato – Nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa di bandiere e fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit [partito politico israeliano di estrema destra, ndtr.] e si è impegnato a conquistarne gli elettori, l’impostazione di Fields appare realisticamente efficace. Ma il documentario, nel suo sviluppo e nel trascurare la storia pre-Kahane, lascia l’impressione che sia un singolo demagogo a produrre il marciume, piuttosto che esporre e discutere la profonda xenofobia e la paranoia razzista che hanno fatto parte delle caratteristiche dello Stato dal primo giorno.

L’altro grande difetto del documentario è l’incapacità di intervistare neppure una donna o un singolo palestinese. (viene mostrata una donna nella veste di intervistata nel filmato di archivio che Rubin include nel film.) Data la centralità delle questioni della purezza etnica e di genere (e le connessioni tra loro) nell’ideologia kahanista – e nell’ideologia israeliana di estrema destra in generale – questo rappresenta un paio di sorprendenti omissioni. Lascia essenzialmente che la storia sia raccontata solo da quelli che si trovano nel suo pieno centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci di chi si trova ai margini dell’estrema destra e delle sue vittime.

Dei quattro film, “The Jewish Underground” è forse quello che riesce meglio a dimostrare che l’acquiescenza nei confronti dei violenti radicali di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Anche questo, tuttavia, inciampa a proposito della parità di genere dei suoi intervistati: nella prima ora non riesce a includere nessuna donna tra i personaggi. È significativo che l’unica comparsa di una donna in questa parte risulta sullo sfondo di un’intervista con uno dei leader del gruppo; è una figura sfocata, con le spalle rivolte verso gli spettatori, in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce, in qualche modo, a rendere l’eccezionalità dei suoi personaggi. Si concentrano tutti su gruppi o individui che sono in qualche modo ritenuti al di fuori dell’opinione corrente israeliana, e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti della società israeliana. Nonostante, con pregi e difetti, venga riportata la visione violenta e sciovinista del mondo da parte di quegli uomini, questo approccio aderisce al modo in cui questi personaggi vengono rappresentati nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana: come mostri che aspettano dietro le quinte per poi irrompere sulla scena per tentare di rovinare del tutto Israele.

Attraverso la scelta di esempi del calibro di Kahane, Amir e Jewish Underground, senza affrontare

seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica – ponendo l’origine di tutto nel 1967 e non nel 1948 – questi film smettono di essere quella trasparente resa dei conti che si sforzano di rappresentare. In questo senso, riflettono la specifica odierna focalizzazione su Netanyahu come fonte delle tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un collegamento pressoché nullo riguardo ciò che significava la “democrazia” israeliana prima della sua salita al potere.

Va bene osservare Kahane e i suoi seguaci che urlano “fuori gli Arabi;” osservare Miri Regev sul seggio della Knesset dire alla parlamentare Haneen Zoabi del partito Balad : “Torna a Gaza, traditrice;” osservare le proteste dei parlamentari del partito Lista Unita guidata da palestinesi, i quali vengono espulsi dall’aula plenaria della Knesset, mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato Nazione. Ma senza riconoscere che lo Stato sta dicendo, in un modo o nell’altro, “fuori gli Arabi!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “mostri”, né respingeranno il caos che essi provocano.

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia presso l’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Precedentemente ha trascorso diversi anni come scrittrice, editrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” quando richiese asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli israeliani Netanyahu e Gantz “vicini ad un accordo” per porre fine allo stallo politico

14 aprile 2020 – Al Jazeera

I due rivali informano di progressi nei colloqui dopo che il presidente ha esteso di altre 48 ore il termine ultimo di Benny Gantz per formare un governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo principale rivale, Benny Gantz, hanno affermato di aver raggiunto “significativi progressi” nella formazione di un governo d’emergenza per affrontare la crisi del coronavirus e porre fine allo stallo politico senza precedenti del Paese.

Il mandato di 28 giorni a Gantz per mettere insieme una coalizione di governo dopo le inconcludenti elezioni dello scorso mese avrebbe dovuto terminare alla mezzanotte di martedì [14 aprile], ma il presidente Reuven Rivlin, che sta supervisionando i colloqui per la coalizione, li ha estesi di due giorni.

Secondo il suo ufficio, Rivlin lo ha fatto “nella consapevolezza che si è molto vicini a raggiungere un accordo.”

Gantz e Netanyahu si sono incontrati durante la notte in un ultimo disperato tentativo di ricomporre le loro divergenze. Poi hanno fatto una dichiarazione congiunta affermando di aver fatto “significativi progressi”. Entrambi hanno stabilito di incontrarsi di nuovo con le rispettive equipe di negoziatori più tardi martedì mattina.

Dalle elezioni del 2 marzo, le terze di Israele in meno di un anno, sono state ripetutamente fatte dichiarazioni riguardo al progresso nei colloqui per una coalizione, ma un accordo è rimasto irraggiungibile. Il blocco ha prospettato la possibilità di una quarta tornata elettorale, complicando ogni piano di rilancio economico una volta che l’epidemia di coronavirus si riduca di intensità.

Nella corsa verso la fine del mandato, Gantz ha sollecitato Netanyahu a siglare un accordo o a rischiare di trascinare il Paese verso elezioni non augurabili in un momento di crisi nazionale.

“Netanyahu, questo è il momento della verità. O un governo nazionale d’emergenza o, dio non voglia, quarte elezioni costose ed inutili durante una crisi. La storia non perdonerà nessuno di noi se fuggiamo dalle nostre responsabilità,” ha detto in un discorso diffuso a livello nazionale dalla televisione.

Poi Netanyahu ha invitato Gantz nella sua residenza ufficiale per colloqui che sono andati oltre la mezzanotte di ieri. Mentre le elezioni dello scorso mese sono finite senza un chiaro vincitore, Gantz è stato appoggiato da una ridottissima maggioranza di parlamentari, portando Rivlin a dargli l’incarico di formare un governo.

Con la sua maggioranza parlamentare, Gantz ha iniziato a portare avanti una legge che avrebbe escluso Netanyahu, imputato di corruzione, dalla possibilità di essere nominato primo ministro in futuro.

In carica dal 2009, Netanyahu è il capo del governo più a lungo in carica nella storia di Israele e il primo ad essere imputato durante il suo mandato. Nega le imputazioni per corruzione, frode e abuso di potere presentate contro di lui in gennaio.

Durante tre durissime campagne elettorali Gantz ha affermato che non avrebbe mai fatto parte di un governo guidato da Netanyahu finché questi avesse dovuto affrontare accuse di corruzione. Ma Gantz ha affermato che la gravità della crisi di coronavirus lo ha convinto a cambiare la sua posizione – una decisione che ha attirato pesanti critiche da parte dei suoi sostenitori e provocato lo sgretolamento della sua alleanza, “Blu e Bianco”.

Se fallissero i negoziati prolungati, la Knesset, o parlamento israeliano, avrà tre settimane per scegliere un candidato a primo ministro tra le sue file. Se fallisse anche questo, ci dovranno essere le elezioni. Ciò significherebbe una lunga crisi politica in un momento in cui il Paese sta affrontando l’epidemia di coronavirus.

Israele ha registrato più di 11.500 casi e almeno 116 morti dovuti alla malattia, che ha paralizzato l’economia e portato la disoccupazione a un livello record.

Lunedì, per contrastare la diffusione del coronavirus, Netanyahu ha disposto un bando sugli spostamenti tra le città per gli ultimi giorni delle feste pasquali di questa settimana.

Le restrizioni già in vigore hanno confinato la maggior parte degli israeliani nelle loro case per settimane, obbligando molte attività economiche a chiudere e portando il tasso di disoccupazione a oltre il 25%.

Netanyahu ha affermato che il suo governo potrebbe formulare una “strategia d’uscita” entro questo fine settimana, ma ha avvertito che le limitazioni all’economia e all’educazione saranno ridotte gradualmente e che non ci sarà un ritorno totale alla normalità prima che venga scoperto un vaccino contro il coronavirus.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)